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La vita in controluce

La vita in controluce di Franco Zadra

«Scrivo e dipingo e amo. E la vita sa di sale»

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L'abbazia di Northanger, è forse il romanzo meno conosciuto e meno di successo di Jane Austen, autrice di Orgoglio e pregiudizio. Scritto nel 1803, riporta, in un dialogo tra donne, un giudizio impietoso, forse ancora attuale e condiviso da più di uno studente, sui libri di storia, con «nulla che non mi stanchi o non mi annoi. Le liti tra papi e re, con guerre e pestilenze in ogni pagina; gli uomini tutti dei buoni a nulla, e praticamente nessuna donna... è molto barbosa...». Insomma, quando le donne sono le protagoniste della storia, tutto diventa più interessante! Così almeno pare pensasse Umberto Veronesi, che nell’ambito della sua attività di oncologo, in particolare si era occupato di carcinoma mammario, prima causa di morte per tumore nella donna, ha voluto evidenziare quella che gli era apparsa una peculiarità femminile. «C’è qualcosa nella donna – scriveva Veronesi nel suo libro “Dell’amore e del dolore delle donne” - che la tiene ancorata saldamente alla vita e non le fa mai perdere il contatto con chi le sta accanto». Un libro che racconta storie di donne nel dolore della malattia, donne che con un sorriso sopra i denti stretti, hanno lottato per se stesse e per ciò in cui credono; storie raccontate da un uomo che ha dedicato tutta la vita all’ascolto del mondo femminile. Le donne hanno risposto a questo ascolto interloquendo con il medico attraverso lettere di un’intensità e bellezza sorprendenti, rivelando quella capacità forse tipica delle donne di affrontare il dolore a viso

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aperto e trasformarlo in uno strumento di crescita personale. Una di queste lettere, riportata in un estratto nel libro di Veronesi, è di una donna operata al seno. Un testo che si può leggere in forma completa nell’antologia “Il prima e il dopo. Quando la mia storia diventa la sua storia”, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007. La tentazione è forte: abbandonarsi su un divano può essere la soluzione. Non uscire, non alzarsi nemmeno per mangiare: fare in modo che il mondo ti giri intorno, ma che non sia necessario fare, frequentare, telefonare… Insomma lasciare che il destino disponga di te. Sì, ci pensi a mollare. A lasciarti andare, dare le dimissioni, dormire un anno di fila, non parlare, a nasconderti: pensieri che ti travolgono i primi tempi, quando il futuro assume contorni sfumati. Ma la vita è strana, sorprendente e più forte di te. Dopo un primo istante di smarrimento, inspiegabilmente reagisci. Mettersi a letto e sparire? Non lo fai. Insicurezza? Paura? Non ci stai e allora invece di far la malata ti viene di fare “la persona sana”, molto sana, più sana di chiunque altro. Abbandonare il lavoro? Non lo fai, perché là riesci a distrarti e non pensi più al maledetto stomaco in subbuglio… E la femminilità? Che farne? Chiuderla in un cassetto e riparlarne – forse – dopo qualche anno? Un altro rifiuto sgorga da dentro come un’eruzione vulcanica: ti trucchi come prima. Non modifichi l’abbigliamento, non ti arrendi alla tuta informe. La scollatura ti mortifica, allora scopri le gambe. Frivola e superficiale? Forse: ma tutto questo occuparmi di aspetti secondari mi ha distolto da pensieri cupi e tristi, convincendomi che c’è ben altro oltre al vomito, alla morte, al dolore. Ha fornito un alibi per vivere. Restano i controlli: so che avrò sempre paura, ma di una cosa sono certa: in ospedale andrò con le forcine nei capelli, mascara a profusione, e tacchi a spillo. «Stessa forza d’animo – annota Veronesi – che dimostra un’altra paziente colpita dalla malattia a trentanove anni. Nonostante le operazioni, il dolore, la paura, l’esposizione del proprio corpo a nuove visite, a ferite, cure, cicatrici, dice: “scrivo e dipingo e amo. E la vita sa di sale”».

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