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Dati, fatti e informazioni
Viviamo in un’epoca in cui, come mai prima, ci viene dato accesso ad un numero enorme di dati e di informazioni, cosa che dovrebbe favorire una visione più chiara di ciò che ci circonda, di come il mondo si muove e di quali siano le scelte che più di altre possono migliorare la nostra vita. Non possiamo tuttavia affermare che le cose stiano esattamente come sopra auspicato. Su molte questioni, dagli aspetti legati alla pandemia, alla situazione economica, passando per i temi ambientali, tutti sostenuti da un numero elevato di dati e di statistiche, le interpretazioni che ci vengono proposte si contraddicono spesso l’una con l’altra. Ciò è conseguenza di come i dati vengano spesso piegati, anche inconsapevolmente, per sostenere una posizione per-costruita, più che per garantire oggettività all’interpretazione. Per mettere ordine dove spesso regna la confusione partiamo quindi da una citazione: “La scienza è fatta di dati, come una casa di pietre. Ma un ammasso di dati non è scienza più di quanto un mucchio di pietre sia una casa”. Così scriveva Jules-Henri Poincaré (1854-1912) nel suo “La scienza e l’ipotesi”. Dare un ordine ai dati diviene quindi il modo con cui perseguire una loro corretta e coerente lettura. Un percorso che è bene tragga avvio dalla chiarezza su quelli che sono i termini usati: fatto, dato, informazione, relazione. Per quanto possano essere diverse le opinioni tra due parti ci sono degli elementi su cui le stesse dovrebbero poter sempre convergere, ciò che chiamiamo dati. Un’unità elementare oggettiva, frutto di una misura diretta o comunque quantificata con un metodo riconosciuto di osservazione, a garanzia della sua affidabilità. La mia statura, come la vostra, è un dato, così come lo sono le temperature misurate sul pianeta in vari periodi dell’anno, la concentrazione di determinati composti chimici nell’aria delle nostre città o la dimensione della spesa effettuata dai diversi settori dell’Amministrazione Pubblica. Elementi che trattati singolarmente non dicono se io sia alto o basso, se il pianeta si stia surriscaldando o meno, se la Pubblica Amministrazione spenda troppo o troppo poco. Altri punti di convergenza dovrebbero essere quelli che chiamiamo fatti. Situazioni chiaramente riconoscibili e per molti versi anch’esse inconfutabili, nate da una prima analisi di dati elementari quale, ad esempio, la variazione di un valore nel tempo. Così riconosciamo come un fatto il tendenziale surriscaldamento medio del pianeta o l’incremento di mortalità registrato in taluni dei mesi trascorsi, specialmente in certe aree del paese. Questo, tuttavia, ancora non ci offre un quadro completo e utile a trarre conclusione sul singolo tema. Per giungere a ciò dobbiamo trasformare i dati e i fatti in informazioni, frutto di una lettura incrociata e più ampia che spesso si presenta come l’anello debole del processo, in quanto più esposto alle distorsioni, volontarie o meno. Il passaggio cruciale nella costruzione dell’informazione sta nell’identificare se vi siano e quali siano le relazioni tra i dati o i fatti. Tra queste la definizione del rapporto causa-effetto riveste un ruolo chiave, su cui spesso si giocano le strumentalizzazioni di parte.
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Tra sintesi, analisi e verifiche
L’esistenza di serie di dati che mostrano andamenti simili è sufficiente per dichiarare che esiste una relazione tra esse? Che una è la causa e l’altra è l’effetto che ne deriva? La consapevolezza sul significato degli elementi qui descritti, su ciò che dovremmo riuscire a riconoscere alla base di ogni confronto e l’attuazione di un approccio più “scientifico”, sono gli strumenti per dare ordine alla confusione comunicativa nella lettura di quanto ci propongono social network e media in genere. Un’occasione per sfruttare, in modo sempre più consapevole e produttivo, le conoscenze che ci sono rese disponibili, filtrandole da potenziali distorsioni e da fake news.
Correlazione tra dati o sua distorsione?
Un semplice esempio di passaggio dal dato all’informazione è un’esperienza comune a tutti e parte da una qualsiasi immagine digitale prodotta dalla fotocamera dei nostri smartphone, formata da unità elementari, dette pixel, a ciascuna delle quali è associato un solo dato: il colore. Ciò che osserviamo guardando l’intera foto comprende però paesaggi o volti, oggetti o situazioni, nulla che sia in effetti registrato nei singoli pixel della foto digitale, milioni di punti semplicemente colorati. La nostra mente realizza così, in modo automatico, l’oneroso lavoro di lettura dei singoli dati e di costruzione delle relazioni che li legano, riconoscendo le uniformità e le sfumature e da qui, richiamando alla memoria situazioni già apprese, la presenza di volti, alberi o case, situazioni di gioia o tristezza, se l’immagine sia artistica o meno. Il tutto con un rischio: qualora ci venisse offerta una sola visione parziale, le nostre conclusioni potrebbero essere diverse da quelle ottenute con la disponibilità dell’immagine complessiva. Così, tra le provocazioni nate nel web una, scherzosa e un po’ irriverente, risulta particolarmente efficace rispetto al tema delle correlazioni, invitando a indagare il contenuto dell’olio degli infermi, dato l’elevato numero di decessi che si realizzano a seguito della sua somministrazione. Una voluta inversione dei fattori tra ciò che si presenta come effetto (il decesso) e ciò che si propone come causa (somministrazione dell’olio), introduce così un’immagine plausibile, ma totalmente falsata.
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