5 minute read
Storie di migranti
di Waimer Perinelli
Legado italiano-eredità italiana
“Lasciarono il porto con cielo sereno e mare placido, la gente si guardava attorno e si gustava l’attesa della nuova patria e del nuovo lavoro. Il cielo cominciò a rabbuiarsi, a gonfiarsi di nubi nere e fu bufera. Si udiva il vento fischiare, il fracasso delle onde che si rompevano sui fianchi, le grida e le urla dei piccoli, delle mamme, dei nonni e dei padri, tutti terrorizzati e inzuppati dalle onde che sormontavano le sponde e si riversavano all’interno di quel barcone fin troppo carico. Finché un’onda più grossa delle altre spezzò la fiancata, il mare entrò dappertutto e il viaggio di Domenico, Filomena, dei loro figli e degli altri (emigranti) finì lì”.
Èquesto un brano del libro “ Vincere o morire” di Renzo Maria Grosselli e quelli che muoiono affogati non sono keniani, etiopi o senegalesi, ma trentini, una piccola parte dell’esercito di 28 mila persone emigrate fra il 1770 ed la fine dell’800, verso i paesi del Sud America. Con loro, su quelle navi e quei barconi, altrettanti veneti, uniti dalla miseria, dalla voglia di riscatto dal desiderio incontenibili di avere una vita dignitosa. Emigrare, lavorare, vivere con dignità. E di questo riscatto parla anche il film “Legado Italiano” eredità italiana, con cui la regista brasiliana Marcia Monteiro, ha vinto il premio speciale della RAI, alla sessantanovesima edizione del Trento Film Festival. Eredità italiana è una storia di donne, uomini, bambini, vecchi costretti a lasciare le belle valli del Bellunese, di Feltre, dell’Agordino, la Valsugana e la Val di Cembra, la cui terra non dava frutti sufficienti e li costringeva alla fame. Fu verso il 1870, quando Roma diventava capitale del Regno d’Italia, che il paese finalmente riunificato era ricco soprattutto di forza lavoro mentre mancava proprio il lavoro. E non stava meglio l’Impero austriaco di Francesco Giuseppe a cui per amministrazione ma non per lingua e cultura, appartenevano i trentini. La fame non conosce i confini di stato né le ideologie. Su quelle navi dirette in Brasile ogni differenza scompariva e una folla, che non parlava italiano o tedesco ma solo dialetti veneti e trentini, sognava di sfuggire alla miseria e trovare una vita migliore. Il sogno era spesso solo un incubo. Grosselli racconta un episodio accaduto in Val di Cembra: “La partenza fu straziante, lo ricordano i documenti dell’epoca: Alle 5 e mezza una folla di gente girovagava per il paese, qualcuno cantava, altri bestemmiavano, altri ancora trascinavano donne e fanciulli piangenti. Due robusti contadini si tiravano dietro, quasi strozzandolo, un povero vecchio il quale piangeva dirottamente e non voleva abbandonare la patria». Al di qua come al di là del confine di Tezze Valsugana, gli emigranti trentini e veneti, già poveri, vendevano a poco prezzo le misere cose di famiglia e con il ricavato pagavano il viaggio in ferrovia verso porti di Genova o Le Havre. Giunti in vista del mare non trovavano centri di ristoro o di soccorso ma speculatori che con la complicità o il colpevole silenzio della pubblica amministrazione, affittavano a caro prezzo locali e pertugi dove gli emigranti aspettavano la chiamata per la partenza e, ci racconta nel film Marcia Montero, questa tardava a lungo, nell’attesa che tutti i denari fossero spesi e quando finalmente la nuova miseria delle persone poteva diventare un pericolo per l’ordine pubblico, la nave veniva fatta salpare. Riprendiamo il racconto di Grosselli: “Alla fine, sfiniti, si arresero al destino e, come bestie al macello, si lasciarono imbarcare con il
Storie di migranti
sacco di pane, il poco formaggio e i due salami che erano riusciti a procurarsi.(..) Chiusi nelle stive a causa del sovraffollamento, ma anche dell’atavica paura dei giri d’aria che impediva loro di andare in coperta a respirare l’aria buona e a prendere il sole purificatore, vivevano sottocoperta in un concentrato di batteri, virus, parassiti, fumi, polveri, caldo-umido, aria malsana. Tanti morivano, specialmente bambini e vecchi. (...)Si mangia da bestie. Il pane non si può mangiare perché troppo duro e non si bagna. Solo un piatto di minestra e patate, quasi tutta acqua conzà con un po’ di lardo senza gusto» (idem). Si stima che in quel viaggio siano morte varie decine di persone (in genere moriva il 5-6% dei migranti, sempre che non scoppiasse un’epidemia perché allora era tragedia). Chi moriva veniva messo in un sacco e gettato a mare, in pasto ai pesci.” Vi ricorda qualcosa? Potremmo trasferire queste immagini a quelle che giungono in questi giorni dal Mediterraneo dove a morire sono altre persone dalla pelle scura. Lasciamo ora queste dolorose note per affrontare con Marcia Monteiro regista sensibile ed entusiasta, la fase della speranza e del successo. Quei migranti che raggiunsero il Brasile nella zona di Serra Gaùcha (Rio Grande do Sul) trovarono solo foreste da disboscare, terre basaltiche con la possibilità di acquistare, grazie al mutuo, appezzamenti di venti ettari di vera proprietà. Non mancavano loro né la forza né la tecnica per dissodare, arare e seminare la terra. Contadini erano partiti e tali si ritrovavano ma in un paese giovane, bisognoso di mano d’opera specializzata e veneti e trentini avevano la sapienza dei vignaioli: dal colle di Tenna in Valsugana vagoni carichi d’uva andavano in Austria; dalle campagne del Piave e di Conegliano le uve raggiungevano le cantine di Venezia. Agricoltori come Pedro Valduga di Terragnolo, Bazanella, Giordani hanno piantato viti di Isabel, un vitigno americano, oggi considerato Brasiliano. Ed è stata la loro fortuna e ricchezza. La coltivazione della vite ha permesso la produzione di un vino che oggi, a distanza di 130 anni, è vanto e orgoglio dei loro discendenti e dell’intero Brasile. I figli e nipoti si esprimono oggi in portoghese ma alcuni anziani usano il grammelot fatto di lingua e dialetti. I giovani, con poche ore di volo, vengono in Italia per ritrovare le antiche radici culturali ma anche di quelle viti che, da loro come da noi, hanno creato benessere e serenità.