Storie di migranti di Waimer Perinelli
Legado italiano-eredità italiana “Lasciarono il porto con cielo sereno e mare placido, la gente si guardava attorno e si gustava l’attesa della nuova patria e del nuovo lavoro. Il cielo cominciò a rabbuiarsi, a gonfiarsi di nubi nere e fu bufera. Si udiva il vento fischiare, il fracasso delle onde che si rompevano sui fianchi, le grida e le urla dei piccoli, delle mamme, dei nonni e dei padri, tutti terrorizzati e inzuppati dalle onde che sormontavano le sponde e si riversavano all’interno di quel barcone fin troppo carico. Finché un’onda più grossa delle altre spezzò la fiancata, il mare entrò dappertutto e il viaggio di Domenico, Filomena, dei loro figli e degli altri (emigranti) finì lì”.
È
questo un brano del libro “ Vincere o morire” di Renzo Maria Grosselli e quelli che muoiono affogati non sono keniani, etiopi o senegalesi, ma trentini, una piccola parte dell’esercito di 28 mila persone emigrate fra il 1770 ed la fine dell’800, verso i paesi del Sud America. Con loro, su quelle navi e quei barconi, altrettanti veneti, uniti dalla miseria, dalla voglia di riscatto dal desiderio incontenibili di avere una vita dignitosa. Emigrare, lavorare, vivere con dignità. E di questo riscatto parla anche il film “Legado Italiano” eredità italiana, con cui la regista brasiliana Marcia Monteiro, ha vinto il premio speciale della RAI, alla sessantanovesima edizione del Trento Film Festival. Eredità italiana è una storia di donne, uomini, bambini, vecchi costretti a lasciare le belle valli del Bellunese, di Feltre, dell’Agordino, la Valsugana e la Val di Cembra, la cui terra non dava frutti sufficienti e li costringeva alla fame. Fu verso il 1870, quando Roma diventava capitale del Regno d’Italia, che il paese finalmente riunificato era ricco soprattutto di forza lavoro mentre mancava proprio il lavoro. E non stava meglio l’Impero austriaco di Francesco Giuseppe a cui per amministrazione ma non per lingua e cultura, appartenevano i trentini. La fame non conosce i confini di stato né le ideologie. Su quelle navi dirette
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in Brasile ogni differenza scompariva e una folla, che non parlava italiano o tedesco ma solo dialetti veneti e trentini, sognava di sfuggire alla miseria e trovare una vita migliore. Il sogno era spesso solo un incubo. Grosselli racconta un episodio accaduto in Val di Cembra: “La partenza fu straziante, lo ricordano i documenti dell’epoca: Alle 5 e mezza una folla di gente girovagava per il paese, qualcuno cantava, altri bestemmiavano, altri ancora trascinavano donne e fanciulli piangenti. Due robusti contadini si tiravano dietro, quasi strozzandolo, un povero vecchio il quale piangeva dirottamente e non voleva abbandonare la patria». Al di qua come al di là del confine di Tezze Valsugana, gli emigranti trentini e veneti, già poveri, vendevano a poco prezzo le misere cose di famiglia e con il ricavato pagavano il viaggio in ferrovia verso porti di Genova o Le Havre. Giunti in vista del mare non trovavano centri di ristoro o di soccorso ma speculatori che con la complicità o il colpevole silenzio della pubblica amministrazione, affittavano
a caro prezzo locali e pertugi dove gli emigranti aspettavano la chiamata per la partenza e, ci racconta nel film Marcia Montero, questa tardava a lungo, nell’attesa che tutti i denari fossero spesi e quando finalmente la nuova miseria delle persone poteva diventare un pericolo per l’ordine pubblico, la nave veniva fatta salpare. Riprendiamo il racconto di Grosselli: “Alla fine, sfiniti, si arresero al destino e, come bestie al macello, si lasciarono imbarcare con il