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ANNO 7 - NR. 5 - giugno 2021
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Punto a Capo di Waimer Perinelli
Draghi non è Robin Hood “Un pare no’l dise vuto? el dise ciapa”; così in una battuta di una celebre commedia di Carlo Goldoni che tradotta significa, “un padre non dice vuoi? ma dice prendi”. Quest’idea del 1747 è la testimonianza di quello che dovrebbe essere la generosità fra padri e figli e che Mario Draghi che, come si dice, amministra come un buon padre di famiglia, sintetizza in: è tempo di dare non di prendere.
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nrico Letta, segretario del Partito Democratico, il più grande della sinistra e parte integrante della maggioranza di governo non la pensa allo stesso modo e riprendendo un antico disegno ha proposto un prelievo forzato dai ricchi per donare un contributo ai diciottenni per avviarli all’impresa. L’idea è quella di tassare i capitali delle successioni e donazioni superiori ai 5 milioni di euro con un’aliquota progressiva che dall’attuale 4% arrivi fino al 20% esentando dalla quota un milione. Il pensiero appare coerente con una vecchia ideologia che riteneva la proprietà (ricchezza) un furto (quella degli altri s’intende) e che perciò vada restituita e redistribuita. In tempi di pandemia, dai quali sul piano economico non siamo mai stati vaccinati sufficientemente, il concetto non è del tutto malvagio ma presenta alcuni problemi nell’applicazione. In primo luogo dobbiamo stabilire chi ha cinque milioni di euro da lasciare agli eredi. Ho conosciuto persone che ogni anno compivano un viaggetto in Il Presidente del Consiglio Mario Draghi
Austria o Svizzera imbottendosi valigia e abiti di soldi da depositare in banche sicure dal fisco. A casa loro non erano giudicati pezzenti ma il grosso del capitale era all’estero. Non accade solo ai comuni mortali. Lo stesso leghista Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, si è trovato erede della madre per sei milioni di euro depositati in Svizzera. Nulla d’illegale se i soldi sono espatriati liberamente, da banca a banca, e sui quali in Italia si sono pagate le tasse. Così accade per esempio anche per la grandi società i cui patrimoni sono ben custoditi nei paradisi fiscali e dunque una volta lasciato il bel paese diventano uccel di banca. L’ex ministro delle Finanze, dal 2001 al 2002, Ottaviano del Turco, stimava che, a quei tempi, all’estero giacessero circa 300 miliardi di euro. In realtà anche oggi nessuno conosce l’entità dei capitali depositati fuori dai confini perché a quelli legalmente denunciati, bisogna aggiungere una quota portata dagli spalloni attraverso canali clandestini. Silvio Berlusconi, che di capitali se ne intende, Presidente del Consiglio nel 2001, cercò di farne rientrare legalmente una parte di quelli non dichiarati, concedendo sconti e benefici. La cosa fece infuriare Antonio Di Pietro che parlò di una norma “salva ladri” vero e proprio riciclaggio di denaro sporco, cioè frutto di reati, da parte dello Stato. Tanto rumore per nulla se vent’anni dopo siamo punto e a capo. L’idea di Letta, pur lodevole sul piano filosofico e sociologico, cioè del diritto di ognuno di arricchirsi e lasciare il
Enrico Letta
frutto agli eredi, ha tanti difetti pratici e uno di quelli è di incentivare il flusso clandestino di capitali verso i paradisi dei capitali. Né più grande successo avrebbe la scelta di Matteo Salvini di tassare del 15% i siti Web, visto che i bilanci possono essere “adattati”. Ma il problema va affrontato e risolto visto che la società ha bisogno di equità e, per vivere decorosamente, chiede a tutti di aiutare i meno fortunati per nascita o per opportunità. Tutto questo sarà all’attenzione della commissione finanze di camera e senato le quali entro il 30 giugno dovranno presentare il documento di indirizzo sulla legge delega che farà da cornice alla riforma del fisco. Mario Draghi ha già dichiarato irricevibili le proposte dei due leader dei maggiori partiti della coalizione di maggioranza, e le polemiche come fuochi si sono attenuate; resta il timore che possano diventare fuochi fatui per il governo.
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SOMMARIO ANNO 7 - GIUGNO 2021 DIRETTORE RESPONSABILE Armando Munaò - 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com VICEDIRETTORE Chiara Paoli - Elisa Corni COORDINAMENTO EDITORIALE Enrico Coser COLLABORATORI Waimer Perinelli - Erica Zanghellini - Katia Cont Alessandro Caldera - Massimo Dalledonne Francesca Gottardi - Maurizio Cristini Laura Mansini - Alice Rovati Erica Vicentini - Laura Fratini - Patrizia Rapposelli Zeno Perinelli - Adelina Valcanover - Veronica Gianello Nicola Maschio - Giampaolo Rizzonelli - Mario Pacher CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA Dott. Francesco D'Onghia - Dott. Alfonso Piazza Dott. Giovanni D'Onghia - Dott. Marco Rigo EDITORE - GRAFICA - STAMPA Grafiche Futura srl Via della Cooperazione, 33 - Mattarello (TN)
PER LA TUA PUBBLICITÀ cell. 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com info@valsugananews.com Registrazione del Tribunale di Trento: nr. 4 del 16/04/2015 - Tiratura n° 7.000 copie Distribuzione: tutti i Comuni della Alta e Bassa Valsugana, Tesino, Pinetano e Vigolana compresi COPYRIGHT - Tutti i diritti di stampa riservati Tutti i testi, articoli, interviste, fotografie, disegni e pubblicità, pubblicati nella pagine di VALSUGANA NEWS e sugli Speciali di VALSUGANA NEWS sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore, del Direttore Responsabile o dell’Editore è vietata la riproduzione o la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni, per altri giornali o altre pubblicazioni, possono farlo richiedendo l’autorizzazione scritta all’Editore, Direttore Responsabile o Direttore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che, utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio e quindi fatta pervenire, a GRAFICHE FUTURA srl, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
Punto & a capo Sommario Società e lavoro Cinema in controluce: Ettore Scola Il personaggio: Alessandro Selmi I grandi personaggi della politica : Enrico Berlinguer Avis, solidarietà e altruismo Avis, la vera solidarietà Avis, donare è un gesto magnifico Avis, donare è importante Storie di migranti Qui cinema: il David di Donatello A tempo di musica: I Maneskin Giovani e impresa al tempo del Covid Storie di bimbi e di Guerra: i dormienti Donare i propri capelli: un atto di bene Qui America: fare un dottorato negli USA Tra musica e società: tempi moderni Cronache italiane: il femminicidio A parere mio: politically correct Trionfa Colle San Biagio Società e figli bisognosi: i minori sfortunati Il personaggio: Ermanno Pasqualini Archelogia televisiva: Indiana Jones Il decreto finestre Il Gruppo “ W La Fuga” Storie di casa nostra: la guerra in Valsugana Accadde ieri: il Grande Torino La via da Borgo alla Val di Sella Il cinema in controluce: Ruggero Cirasa Attualità e notizie valsuganotte: RiApiamo Diario del Viaggiatore: lo Yemen L’avvocato risponde: l’affidamento dei figli Novità in libreria: “un’anima in viaggio” L’ Ospedale San Lorenzo: una vita di guerra con i tumori Uomo, ambiente, ecologia: Yuri e la sua foresta Salute & Benessere: le montature e lenti per bambini Medicina & Salute: liberi tutti, ma non esageriamo Il Farmacista del Centro Tempo d’estate: sole, mare e abbronzatura Medicina & Salute: il Grooming, pericolo per i minori Tempo libero : il Negroni Conosciamo la pizza La storia (mai raccontata) di Xiaorong Li Novaledo in cronaca: la Torresela Caldonazzo e le due città scomparse Che tempo che fa: aprile 2021, un mese freddo Vaia Cube: la bellezza dell’imperfezione Tezze in cronaca: 1918, pericolo scampato
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Il personaggio Alessandro Selmi Pagina 10
Cronache italiane Il femminicidio Pagina 34
Sport & Società Il Gruppo W La Fuga Pagina 42
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Società e lavoro di Cesare Scotoni
LAVORO: GOVERNI ALLO SBANDO LE RIFORME INUTILI E DANNOSE Il “Lavoro” è stato assunto come base della Costituzione del nostro Paese solo 75 anni fa ed è stato un motore di un cambiamento che, non solo per la Ricchezza che ha creato, ma dallo Statuto dei Lavoratori alla Concertazione, ha influenzato profondamente l’evoluzione Politica e Sociale della Repubblica Italiana.
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l fatto che il Lavoro, ovvero tutte quelle attività che creano Valore e Ricchezza, muti con l’evolvere delle Tecnologie è incontestabile ed incontestato così come il fatto che la sua organizzazione sia determinante per massimizzarne i risultati e ridurre la Fatica di chi lo svolge. A partire dal 1963 con il primo governo Moro (Centrosinistra) il PSI di Nenni condizionò l’introduzione di una serie di importanti vincoli e strumenti per rafforzare e tutelare i lavoratori mostrando lungimiranza e concretezza nel momento apicale dell’Industrializzazione del Paese. La Concertazione del 1993 invece, da azione tattica finalizzata allo sforzo dell’ingresso in Europa nel momento del collasso “giudiziario” della Prima Repubblica, divenne un metodo ordinario di governo che segnò in modo indiscutibile la perdita di Competitività del nostro Paese sganciando definitivamente il fondamentale Concetto di Lavoro come Processo per la Creazione di Valore e Ricchezza dalle Retribuzioni, dalla Tassazione e dai risultati in termini di Produttività. Le stesse interminabili correzioni al sistema pensionistico, figlie degli errori degli anni Ottanta e non delle scelte del 1965, entrarono nel “calderone” della Concertazione, mescolando il tema del Lavoro, con quelli, certo distinti del Welfare e della Previdenza. Confusione concettuale in cui le diverse lobbies han sempre potuto
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“sguazzare”. Tralasciamo le vicende più recenti e tragiche dove il Sussidio è stato inteso come Salario ed in cui, con il pretesto del Covid19 la Costituzione è stata messa da parte e quel Lavoro su cui si fonda la Repubblica ha visto insorgere la distinzione tra lavori Indispensabili e Superflui ed il Lavoro è stato ridotto al Salario o al Ristoro anziché ricondotto alla Catena del Valore. Da gente che evidentemente non sapeva connettere dei Concetti
del tutto alieni alle rispettive esperienze di vita e di politica. Veniamo invece alla necessità, ravvisata da molti, di un momento di riflessione sul Lavoro, il suo Evolvere ed il cambiare dei Sistemi Organizzativi in cui si svolge ed al fatto che alcuni immaginino ancora, dopo l’epopea dei virologi televisivi degli ultimi 15 mesi, che un bel confronto tra esperti con un bel documento conclusivo che metta ecumenicamente assieme l’acqua e l’olio, possa essere una via
Società e lavoro
per superare 25 anni di errori strategici e ripartire. Esattamente un anno fa, a Palazzo Doria Pamphili, il Governo Conte II dava il via agli “Stati Generali” a porte chiuse, i cui risultati eclatan-
ti sono oggi sotto gli occhi e sulle spalle di tutti. Seppellendo definitivamente una Metodologia. Possiamo quindi immaginare che un Confronto Aperto abbia a prendere
il via solo da un Progetto, costruito sulle contraddizioni in campo, sui dati di tendenza statistica e su elementi previsionali supportati da un metodo, che preveda Impegni e Risorse e su cui, persone che magari abbiano avuto confidenza con la creazione di Valore e di Ricchezza, si cimentino in un approfondimento critico al fine di offrire elementi diversi e nuovi a quella Visione. Trasformare invece l’Oggetto in Soggetto, come solo un anno fa quel Governo di improvvisati provò a fare, sperando che da un Dibattito tra chi difende scelte ormai bocciate dalla Storia e chi spera fiducioso che il dato statistico si trasformi in visione, rinunciando a Discutere e Confrontare Progetti. Attenzione! Credere che un Progetto nasca da un confronto tra relazioni significa, ancora una volta, sperare che il Cambiamento lo facciano altri.
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Cinema in controluce di Katia Cont
ETTORE SCOLA “C’eravamo Tanto Amati”, “Brutti, Sporchi E Cattivi”, “Una Giornata Particolare”, “I Nuovi Mostri”, “Ballando Ballando”, “La Famiglia”. A 90 anni dalla nascita del cineasta che nella sua carriera ha lavorato con i grandi attori del cinema italiano, da Marcello Mastroianni a Vittorio Gassman, passando per Sophia Loren e Stefania Sandrelli.
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on è certo un personaggio che può essere ricordato attraverso banali e retoriche biografie. Quello che si cela dietro alla sua storia personale e cinematografica è più di un racconto telecronistico e fine a sé stesso. Quello che Ettore Scola ha fatto e ha lasciato alla cultura italiana e internazionale, non è solo un mondo costellato da capolavori cinematografici, ma la modifica di una coscienza collettiva, un imprinting che ancora oggi ritroviamo per certi tratti nella cinematografia e nella storia del nostro Paese. Certo, ci vuole anche rispetto ed infinita cultura anche solo per permettersi di pensare di analizzare la sua carriera. Per ovviare a questo, le sue figlie Paola e Silvia hanno scritto un libro profondo e personale su quest’uomo sempre lontano dalle luci della ribalta, ricco delle sue fulminanti battute ironiche e disincantate,
ma anche uomo discreto e geloso di una vita privata per lui preziosissima, vissuta tra amici famosi, le amatissime figlie e la conoscenza. Si intitola “Chiamiamo il babbo. Ettore Scola, una storia di famiglia”, è pubblicato da Rizzoli ed è introdotto da un bellissimo testo scritto da Daniel Pennac. Ne emerge un imperativo assoluto che ha accompagnato Scola in tutta la sua vita e carriera: “Far ridere”. E’ riuscito a farlo anche mentre raccontava il calvario degli operai emigrati dal sud verso Torino nel film “Trevico-Torino - Viaggio nel Fiat-nam” o in “Brutti, sporchi e cattivi” con il protagonista Giacinto Mazzatella (Nino Manfredi) e la sua famiglia che vivevano in una baraccopoli romana, raccontando che la miseria finiva per spegnere qualsiasi sogno. “Chiamiamo il babbo” è un lungo viaggio nei “mondi complessi” della
Ettore Scola (da PeopleForPlanet)
sua visione registica. La figlia Paola, che è stata segretaria di edizione, assistente di studio, aiuto regista e sceneggiatrice, e Silvia, autrice radiofonica e teatrale, che ha scritto con il padre film come “Che ora è”, “La cena”, “Concorrenza sleale”, raccontano di una splendente Sophia Loren che solo il padre riuscì a convincere ad interpretare la parte di Antonietta in “Una giornata particolare”, film che il 19 maggio 1977 veniva presentano al festival di Cannes. Il capolavoro di Scola con Sophia Loren, vincitrice del Nastro d’Argento e Marcello Mastroianni, compie 40 anni. Lunghissimo primo piano sequenza, tra i più lunghi della storia del cinema italiano, fu un capolavoro innovativo per come aveva raccontato l’omosessualità e la femminilità. Un film che ha segnato la storia del cinema, che ha vinto tanti premi tra cui il Golden Globe come miglior film straniero, due candidature agli Oscar e che pochi anni fa è stato restaurato e restituito al suo, bellissimo, colore. Ettore Scola è stato uno dei più grandi registi della storia del cinema ed è riuscito in oltre venti film a raccontare la storia del suo paese e del suo popolo. Non voleva fare il regista, ma solo lo sceneggiatore. Fu convinto da Vittorio Gassman a provare a stare dietro la macchina da presa, un gesto per il quale tutto il mondo dell’arte sarà sempre grato. Un gesto che ha regalato al cinema, e a tutti noi, un maestro assoluto.
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Il personaggio contemporaneo di Laura Mansini
ALESSANDRO SELMI Medico del cuore
“Che cos’era Caldonazzo per me quando ero giovanissimo? Il mio sogno, quando non c’ero, la mia beatitudine, quando c’ero”. Così si racconta nel nostro incontro il medico-cardiologo Alessandro Selmi, uno dei personaggi più interessanti, generosi ed ermetici da me conosciuti
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enso che a Caldonazzo tutti conoscano il dottor Selmi ed il fratello gemello Alberto. Sono venuti in vacanza all’età di 3 anni e da allora sono sempre rimasti. Nato per caso a Treviso, ma veneziano doc, Alessandro ed il fratello sono nati il 7 settembre del 1950 a Treviso, perché la mamma, Elsa Boscolo, ha voluto andare a partorire nella casa dei genitori. Una famiglia molto interessante quella di Alessandro, la mamma infatti si è laureata in lettere all’Università di Vienna, ed era un’ottima pianista, mentre il padre Celso, era violinista nell’Orchestra della Fenice. “Essere veneziani è uno stato d’animo, io mi sento profondamente veneziano, sono vissuto a Venezia, ho studiato in questa bellissima e difficile città. Ho frequentato il liceo Classico Marco Foscarini ed avevo fra i compagni di classe Renato Brunetta, un ragazzo di spiccata intelligenza, pensa che abbiamo preparato assieme l’esame di Maturità proprio qui a Caldonazzo.”. Il liceo Foscarini è il più antico e prestigioso di Venezia; uno dei più antichi d’Italia essendo stato fondato nel 1807 con decreto di Eugenio di Beauhamais, vicerè d’Italia. “Amo Venezia, ma Caldonazzo è la mia seconda patria - afferma - siamo venuti in vacanza in questa cittadina quando avevo 3 anni. Caldonazzo era il mio sogno di quando non c’ero,
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la mia beatitudine quando c’ero. A Caldonazzo godevamo della più assoluta libertà, potevamo andare
in bicicletta, andare a nuotare, o arrampicarci in montagna. Io e mio fratello abbiamo fatto amicizia con
Il personaggio contemporaneo tutti i nostri coetanei del paese. Un paese ancora dal sapore ottocentesco: si andava nei campi o nel bosco con gli amici, ricordo i carri tirati dai cavalli, l’odore delle stalle, dove i contadini tenevano le loro mucche, ricordo anche i falò di copertoni e vario materiale, che facevamo nel torrente Centa che in pratica era il deposito d’immondizia all’aria aperta del Paese. Ora, giustamente, non si può più fare, anche perché i rifiuti hanno il loro sito. Come sport vero si giocava a calcio. Pensa che con mio fratello abbiamo fatto parte della prima squadra dell’Audace; io ero portiere.” Vivace, sportivo, ama sciare, andare in montagna, ha fatto anche il subacqueo, adora i cani, ama l’archeologia, ma è soprattutto un grande MedicoCardiologo. Ha iniziato l’Università a Trieste, ma poi ha proseguito a Padova. All’inizio voleva fare l’Anestesista, ma dopo aver lavorato per un anno come interno in Anestesia all’Ospedale Santa Chiara di Trento ha scelto di dedicarsi alla Medicina ed in particolare alla Cardiologia dove sono più frequenti e positivi i contatti con le persone.“Amo la Medicina,
dice, ed il contatto con i pazienti, in tutta la mia storia professionale non ho mai rifiutato aiuto anche agli sconosciuti”. Nel 1979 si è sposato con Tiziana Angelico, anche lei venuta da piccola con i genitori in vacanza a Caldonazzo. Alessandro e Tiziana sono davvero una bella coppia, aperta e disponibile, innamorati di questo bel paese posto sull’omonimo lago. Fra le diverse esperienze professionali, per tre anni stato anche direttore Sanitario delle Terme di Levico, che ha lasciato perché aveva nostalgia della Medicina sul campo. Ha collaborato per molti anni a Villa Bianca, col dottor Carlo Stefenelli, che definisce medico di grande apertura e generosità, disponibile a condividere con i colleghi il suo lavoro; poi anche col prof. Francesco Furlanello, uno dei maggiori cardiologi in campo internazionale, acquisendo una grande esperienza in particolare sull’ Aritmologia. Ha collaborato inoltre con lo stesso Furlanello, il dott. Gianni Cioffi ed il dottor Stefenelli nella pubblicazione di molti studi clinici . Io poi ho avuto modo di apprezzarlo
non solo come medico ma anche come amministratore, quando, nel 2005 ha accettato di candidarsi col nostro gruppo per le elezioni Comunali ed abbiamo vinto. A lui abbiamo affidato la delega alla salute pubblica, ruolo che ha svolto con la consueta professionalità. Storici i suoi interventi sull’inquinamento atmosferico dato dalle stufe a legna, soprattutto se veniva bruciato il legno dei meli , oppure dalla necessità del distanziamento dalle case dei contadini quando spruzzano i pesticidi. Abbiamo lottato contro l’inquinamento elettromagnetico atmosferico causato dalle onde delle antenne messe dalle varie ditte di telefonia mobile, che abbiamo indotto a desistere aumentando molto il costo dell’affitto del terreno. Sono stati 5 anni intensi e di vero entusiasmo ed attenzione alla salute del paese e dei suoi abitanti. Attualmente lavora come libero professionista sempre a Villa Bianca. Gli abbiamo chiesto di parlarci del cuore ed in particolare delle aritmie scompensi cardiaci da non sottovalutare e trascurare da tutti ma in particolare da chi pratica sport.
Cos’è l’aritmia
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er aritmia s’intende un’alterazione del ritmo cardiaco. Ci sono aritmie fisiologiche e aritmie patologiche. Come esempio di aritmia fisiologica c’è la tachicardia sinusale che non è altro che l’aumento del battito cardiaco conseguente ad uno sforzo (alle volte è presente anche senza sforzo in persone ansiose) o l’aritmia dei bambini, detta anche aritmia sinusale. Le aritmie patologiche si distinguono in ipercinetiche ed ipocinetiche. Uno degli esempi più frequenti di aritmia ipercinetica è la cosiddetta extrasistoleo battito ectopico atriale o ventricolare, spesso fastidiosa, ma non pericolosa. Molto frequenti sono la fibrillazione atriale, patologia tipica dell’invecchiamento, caratterizzata da un ritmo spesso veloce e caotico ed il flutter atriale. Fra le aritmie più pericolose vi sono la tachicardia ventricolare e la fibrillazione ventricolare; quest’ultima se non è trattata immediatamente può portare alla morte. Per aritmie ipocinetiche si intende invece quando è presente una frequenza cardiaca al disotto dei limiti della norma. La più frequente ma perlopiù fisiologica, è la bradicardia sinusale che si osserva soprattutto durante le ore notturne negli atleti ed in quelle persone che assumono farmaci che rallentano il battito cardiaco come effetto collaterale. Le aritmie ipocinetiche pericolose sono quelle caratterizzate dai blocchi atrioventricolari che vanno dal primo al terzo grado e che possono rendere necessario l’impianto di un pacemaker.”
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Grandi personaggi della politica di Waimer Perinelli
ENRICO BERLINGUER L’ultimo comunista Sono passati 37 anni dalla morte di Enrico Berlinguer. Berlinguer? chi era costui? Non è stato fatto recentemente né credo si farà a breve un sondaggio sul ricordo e conoscenza di uno degli uomini politici più importanti del dopoguerra. Se si facesse ora è probabile che della generazione attuale qualcuno ricordi che è il padre di Bianca Berlinguer giornalista e conduttrice di una rubrica del Tg3 Rai di cui è stato a lungo ospite Mauro Corona, l’uomo di Erto, il promotore del pino mugo.
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bbene, Enrico padre è stato una quercia della politica italiana e internazionale, una brava persona come recita un verso degli anni 70 di Giorgio Gaber. Essere bravi e onesti non era facile in un mondo percosso da tristi eventi, frastornato e conteso fra i blocchi dell’est comunista e dell’occidente filo americano, dove la politica si combatteva all’arma bianca fra complotti più o meno veri e stragi orribili, criminali come quella piazza Fontana nel 1969 a Milano, e poi piazza della Loggia a Brescia nel 1974, una scia di sangue e dolore che porta a Bologna, alla stazione ferroviaria, dove 85 persone sono state uccise da un bomba. Quest’ultimo attentato va particolarmente ricordato perché si collega a quella che fu chiamata strategia della tensione, nella quale apparati dello Stato trattarono e agirono in combutta con la Mafia, la Massoneria, nostalgici del Fascismo e ci riconduce alla morte di un altro statista, Aldo Moro, ucciso dalla brigate rosse, un uomo con cui proprio Berlinguer aveva iniziato nel 1976 l’avvicinamento fra il Partito comunista italiano di cui era segretario e la Democrazia Cristiana. La loro azione chiamata Compromesso storico, mirava alla fondazione di un partito democratico unico; il loro era un confronto per un governo
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Enrico Berlinguer
autorevole del paese che le brigate presunte rosse e criminali neri, non riuscirono a fermare ma certamente a rallentare. Enrico Berlinguer segretario generale del Partito Comunista Italiano dal 1972 fino al 1984 aveva accennato la sua idea poco prima di morire ad Achille Occhetto, suo successore nel 1988. Nato il 25 maggio del 1922 a Sassari nella splendida Sardegna da famiglia agiata, Enrico si diploma nel 1940 al liceo classico e l’anno dopo si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza con l’intento di laurearsi con una tesi
di filosofia. Ma la guerra mondiale decide diversamente ed egli a 21 anni si iscrive al partito comunista e partecipa alla lotta partigiana. Alla fine della guerra inizia il percorso politico che lo porterà alla guida del più grande partito comunista del mondo occidentale ed a confrontarsi con il PCUS, partito comunista dell’Unione Sovietica, un blocco rosso, granitico, intollerante, al cui fianco si stava muovendo il partito italiano guidato da Palmiro Togliatti. E’ un percorso difficile in un partito che affronta crisi ideologiche con, nel 1956, la repres-
Grandi personaggi della politica
Berlinguer con Benigni a una manifestazione per la pace. (Archivio Rodrigo Pais - Università di Bologna - da Pintarest)
sione in Ungheria, e conflitti interni, con troppi leader impegnati a giocare allo sgambetto, come accade in generale nella politica ma che è nel pci e nella sinistra italiana in generale, uno sport, molto praticato: un vero campionato. Enrico Berlinguer deve superare diversi esami, a Roma come a Mosca, ma nel 1968 candida ed è eletto deputato in Lazio con oltre 150mila preferenze. Nel 1972 al congresso di Milano prospettò la necessità di trovare, per il bene dell’Italia, una linea comune con la balena bianca, la Democrazia Cristiana, spiaggiata in altra parte della politica ma ancora molto forte. Fu eletto segretario generale del partito e avviò la lunga marcia per portare lo stesso al governo.
La sua corsa si chiude nel 1984 a Padova mentre parla dal palco; colpito da malore, ha la forza di finire il discorso poi crolla. Morto. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini, che si trovava già a Padova per ragioni di Stato, volle la salma sull’aereo presidenziale, dicendo: «Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta». Enrico Berlinguer fu l’ultimo leader comunista. Valter Veltroni nel 2004 dira’:” Il Pci finisce con la morte di Berlinguer, questa è la verità.” e aggiugerà :” Se la sinistra è arrivata al governo lo si deve al fatto che Berlinguer ha costruito quel partito lì, non l’amministrazione di un declino, ma l’apertura di un cammi-
Enrico_Berlinguer e Aldo Moro (Roma, 1977) - Il Compromesso storico
no». Come accade sempre non tutti sono d’accordo. Massimo D’Alema, un emergente nel partito, disse lo stesso anno «Corriamo il rischio di trasformare Berlinguer in una figura profetica, disinteressato alla politica come compromesso, manovra, aggiramento dell’avversario. Invece morì mentre stava trattando con la Dc per far cadere Craxi.” Proprio D’alema negli anni Duemila sarà “rottamato” da Matteo Renzi, giovanissimo leader del Partito democratico, che non è mai stato iscritto al PCI. La storia del partito comunista italiano come quella di ogni associazione è costruita su nobiltà e miseria, ricchezza e povertà d’idee, sulla meschinità e la gloria delle persone, senza conoscere questo percorso, le sue donne, come Nilde Iotti, e uomini come Enrico Berlinguer, non possiamo comprendere il caos costruttivo che ci circonda. Chiudo questo sintetico, necessariamente incompleto viaggio ricordando quando nel 1983, con un simpatico e scanzonato ma non innocente gesto, il comico Roberto Benigni prese in braccio un Berlinguer più che mai intimidito e però sorridente. Fu un grande gesto mediatico tentato più volte da altri politici: una gara a farsi prendere in braccio, o almeno a farsi baciare dall’attore toscano, che finiva per ottenere l’effetto opposto, stucchevole.
Enrico Berlinguer, grande anima del Partito comunista italiano (da Il Gazzettino di Sicilia)
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ABBIGLIAMENTO E INTIMO DA 0 A 99 ANNI
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La donazione del sangue di Nicola Maschio
Più di mezzo millennio di storia
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n gesto spontaneo, di aiuto reciproco. La donazione del sangue è divenuta, nel tempo, una prassi comune a tanti. Ma chi si è mai chiesto quale sia realmente la storia di questo processo? Chi è stato il primo donatore, quando e soprattutto in che modo? La Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia ha ripercorso le tappe più importanti della donazione del sangue. In principio, precisamente nel 1492 (coincidenze, lo stesso anno della scoperta dell’America, altra tappa storica di fondamentale importanza nella storia dell’umanità), nel tentativo di salvare la vita di Papa Innocenzo VII si tentò una prima trasfusione di sangue. Questo primo approccio, tuttavia, non ebbe successo. E nemmeno quanto avvenne nei successivi 400 anni, con diverse sperimentazioni e pochissimi benefici per le persone interessate dal processo. Ma tutto ciò permise di progredire in modo importante rispetto alle scoperte scientifiche che, al giorno d’oggi, caratterizzano la nostra società: dalle diversità rispetto al tipo si sangue (venoso oppure arterioso) alla possibilità o meno di compiere trasfusioni da animali ad essere umani, fino alla quantità di sangue e alle diverse modalità d’infusione. Tuttavia, verso la metà del diciannovesimo secolo i dati non erano ancora confortanti: tra il 1840 ed il 1875 si registrarono 317 trasfusioni, la metà delle quali si conclusero con il decesso dei pazienti. Le motivazioni furono diverse, dagli emboli per sangue coagulato fino all’inquinamento dovuto a batteri, germi e tossine di vario tipo. La vera svolta avvenne nel 1900, quando il medico e biologo Karl Landstenier fece una scoperta sensazionale, ovvero quella dei gruppi
sanguigni. Un passo decisivo nell’ottica della scienza moderna, tanto da consentirgli di vincere il premio Nobel. Il “Sistema AB0”, appunto la classificazione delle diverse tipologie di sangue presenti negli organismi, chiuse definitivamente il capitolo inerente la fase sperimentale delle trasfusioni. Il ventesimo secolo ha segnato, sotto tanti punti di vista, una vera e propria svolta nelle trasfusioni e donazioni del sangue. Sfortunatamente, gran parte di questa evoluzione è da attribuirsi ai conflitti mondiali della prima metà del ‘900. In primo luogo, tra il 1914 ed il 1918 (primo conflitto mondiale) il citrato di sodio venne utilizzato come anticoagulante consentendo le prime pratiche di conservazione e trasporto del sangue: divenne un processo di importanza assoluta durante la guerra, in particolar modo rispetto a coloro che venivano gravemente feriti in battaglia. Successivamente, negli anni ‘20 e ‘30, cominciarono a formarsi le prime Associazioni di donatori volontari in tutta Europa: nel 1927 ad esempio, in Italia prese vita l’AVIS, l’Associazione Volontari Italiani del Sangue, che successivamente divenne parte del FIODS (Federazione Internazionale delle Organizzazioni dei Donatori di Sangue), fondata a Lussemburgo nel 1955. Ancora, la Guerra Civile Spagnola (1936) ed il secondo conflitto mondiale richiesero una elevatissima quantità di sangue, fatto che diede una grande spinta alla ricerca scientifica rispetto al tema di donazioni e trasfusioni. Da quel momento in avanti, le necessità di sangue divenne
una questione internazionale, tanto da portare alla fondazione delle prime Banche del Sangue. A Torino, precisamente nel 1948, venne inaugurato il primo Centro Trasfusionale italiano. La prima legge europea relativa alla trasfusione si ebbe il 21 luglio 1952, mentre nel nostro Paese occorrerà aspettare il 1967 per un ordinamento specifico. Fu negli anni ‘80 però che si riscontrarono alcuni problemi, soprattutto legati all’AIDS. Questa particolare patologia rimise in discussione tutte le modalità di donazione definite negli anni precedenti, e da quel momento si dovettero stabilire nuovi metodologie per la selezione dei donatori e delle procedure di controllo. Si arrivò così al 2003, quando si riscontrano le raccomandazioni finali sul tema, a firma del Parlamento Europeo (linee guida che vennero adottate da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea): quest’ultimo di fatto ha stabilito tutte le normative inerenti la qualità e la sicurezza nelle operazioni di donazione, conservazione e distribuzione del sangue umano. Nel 2019 sono stati più di un milione e mezzo i donatori in Italia, sostanzialmente stabili rispetto agli anni passati, con un calo del 2,3% però in merito ai nuovo donatori (362mila), con la fascia di età 18-25 anni che conta ben 213.422 soggetti che hanno deciso di donare il sangue.
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La donazione del sangue di Giacomo Pasquazzo
Avis, la vera solidarietà
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a nascita dell’Associazione Volontari Italiani del Sangue va attribuita a sedici persone che risposero, nella città di Milano, ad un appello di un medico d’origine fiorentina, il dottor Vittorio Formentano. E’ quindi dall’intuizione di un medico e dalla ferrea volontà di sedici cittadini che trae origine una realtà che può contare al giorno d’oggi oltre 1 milione e 250 mila soci donatori in tutta Italia (arrivando a coinvolgere anche la Svizzera!). Sono oltre 2 milioni le unità di sangue e di emocomponenti che i donatori di Avis ogni anno offrono al Servizio Sanitario Nazionale: basti pensare che nel 2020 sono state raccolte, secondo il Centro Nazionale Sangue, complessivamente 2.400.000 unità di sangue a livello nazionale. Avis è quindi la più importante realtà italiana legata al dono libero, gratuito e anonimo di sangue e di emocomponenti: circa l‘83% delle sacche di sangue proviene da avisini e avisine. La struttura AVIS è articolata e suddivisa su più livelli: sedi comunali (più di 3200!); sedi provinciali (oltre 120!); realtà regionali (ben 22!); una sede nazionale. L’Avis è quindi una realtà capillare, ben ancorata al territorio di competenza. Avis è un’associazione privata, senza scopo di lucro, che persegue un fine di interesse pubblico: garantire un’adeguata disponibilità di sangue e di emocomponenti a tutti i pazienti che ne hanno necessità. Mission associative sono la promozione del dono, la chiamata dei donatori e in alcuni casi anche la raccolta diretta di sangue, d’intesa con le strutture ospedaliere pubbliche. E’ evidente inoltre che il
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fine solidaristico permette a questa Associazione di essere conosciuta ben oltre la cerchia dei suoi stessi associati, perché ciascuno di noi riesce a cogliere l’importanza del dono, in particolare del sangue, elemento fondamentale per la vita. Possono far parte dell’Associazione tutti coloro che intendono donare in forma volontaria, anonima, periodica e gratuita il proprio sangue, ma anche coloro che, non potendo compiere questo gesto perché non idonei, desiderano collaborare gratuitamente a tutte le attività di promozione e organizzazione della stessa donazione. A livello nazionale, la pandemia ha impattato anche sulle donazioni di sangue, rallentando sia la raccolta di unità di sangue sia, allo stesso tempo, il suo fabbisogno, secondo quanto riportano i dati del CNS pubblicati online nel dicembre del 2020. L’Avis in Trentino Il Covid 19 ha rallentato anche l’attività di raccolta di unità di sangue e di emocomponenti anche in Trentino nel corso del 2020. Va però segnalato che il Trentino è una delle rare realtà, nel panorama nazionale, che “raccoglie” più unità rispetto a quelle che “consuma”: a fronte di un utilizzo di 18 mila unità ne sono state prodotte nel corso del 2020 ben più di 24 mila. Le sacche “in più” vengono così assegnate alle Regioni che non riescono a garantire un’autosufficienza al proprio sistema sanitario, garantendo così una solidarietà fra realtà locali che permette di puntare all’autosufficienza nazionale. In Trentino quindi l’Avis è un’Associazione molto importante,
che permette alla Provincia Autonoma di poter rispondere appieno al fabbisogno locale e di essere parte, allo stesso tempo, di una rete redistributiva a livello nazionale. Il numero dei donatori supera quota “20 mila” e sono ben 47 le sedi di Avis presenti in tutto il territorio provinciale. Queste 47 Avis comunali afferiscono ad 8 punti di raccolta del sangue. Negli ultimi anni, l’Avis del Trentino, a fronte delle croniche difficoltà della sanità a fornire personale medico e infermieristico per le attività di raccolta di sangue ed emocomponenti, ha deciso di co-gestire, in accordo con l’Azienda sanitaria, anche gli aspetti gestionali della raccolta. Nel 2021 sono ben 6 i punti di raccolta nei quali operano medici e infermieri che sono collaboratori di Avis. Tutto ciò dà la misura del grande apporto che Avis del Trentino fornisce per far sì che i pazienti che necessitano di sangue e di emocomponenti possano ricevere adeguata attenzione e le dovute cure basate sul dono.
AVIS, altruismo e solidarietà di Giacomo Pasquazzo
DONARE è un gesto magnifico Nostro colloquio con Franco Valcanover, Presidente di Avis del Trentino Valcanover, quale messaggio vuole trasmettere a tutti i lettori? “DONARE è un gesto magnifico e… donare il sangue è una scelta che può fare la differenza” è questo il primo messaggio che, come Presidente, mi sento di trasmettere. Quali i risultati positivi raggiunti dall’Associazione negli ultimi anni? La partecipazione alla gestione delle unità di raccolta, in convenzione con l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari, si è rafforzata: i nostri medici ed i nostri infermieri hanno permesso, anche nel periodo di maggiore crisi, il funzionamento dei punti di raccolta periferici. Al momento, siamo presenti in ben 6 centri su 8! Un risultato notevole per un’Associazione. I contatti con l’Assessorato alla salute della PAT e con i responsabili dell’APSS sono stati continui: la raccolta ha sempre rispettato la programmazione modulata sulle richieste dei vari Ospedali ed è stata effettuata nel rispetto delle normative emanate nei vari DPCM, senza dimenticare le indicazioni dell’ I.S.S. e del C.N.S., oltre a quelle di Avis Nazionale. Il 2020 è stato un “annus horribilis” per la sanità: quale impatto ha avuto la pandemia su Avis del Trentino? Durante il 2020 abbiamo assistito a numerosissime difficoltà generate dalla pandemia. Tuttavia posso affermare, con orgoglio, che Avis del Trentino non si è mai fermata, anzi ha proseguito ed incrementato la propria attività di promozione del dono, cambiando
Franco Valcanover (da Trentino)
senza dubbio le modalità di incontro e confronto. E’ particolare e significativo un dato: il numero dei soci di Avis è aumentato proprio in piena pandemia. In che modo la pandemia ha impattato sui donatori? Abbiamo cercato di evitare qualsiasi tipo di potenziale problematica per i donatori. Al primo posto abbiamo sempre messo la salute del donatore, anche durante le fasi più critiche della pandemia. La chiamata dei donatori è stata rivista e riorganizzata a fasce di orari programmati, in modo da eliminare possibili assembramenti. La sicurezza dei punti di raccolta, nel momento del lockdown, è stata rinforzata con l’acquisto e la distribuzione di 6000 mascherine. Avete promosso anche iniziative originali e molto particolari per sostenere l’Azienda Sanitaria, ce le vuole raccontare? Abbiamo ideato e promosso una raccolta fondi, come Avis del Trentino, che ha permesso di conferire 100.000,00 euro ad APSS per l‘acquisto di materiale da utilizzare, in prima battuta, nei reparti di terapia intensiva. Avis del
Trentino si è anche proposta come sponsor etico e finanziario per uno studio di notevole rilevanza sanitaria grazie all’apporto dell’Università di Trento e dei suoi centri di ricerca. Quanto è importante la formazione dei “dirigenti” avisini? Fondamentale, direi. Siamo convinti che i nostri soci (e soprattutto i nostri dirigenti!) debbano essere formati. Per questo, in collaborazione con la scuola di formazione Avis del Triveneto e con Avis Nazionale, abbiamo proposto vari momenti di formazione e di aggiornamento per gli amministratori, oltre a molti corsi e/o webinar sui vari argomenti legati al sistema trasfusionale. Abbiamo inoltre intrapreso a tutti il percorso di adeguamento alla riforma del Terzo settore. Quali sono le sfide future alle quali Avis non potrà sottrarsi? Le nuove esigenze mediche, la riforma del Terzo Settore già menzionata, i grandi cambiamenti in corso a livello sociale ed economico ci pongono di fronte ad una riflessione dell’intero mondo avisino, del suo ruolo, della sua identità. Un esempio: come identificare e conciliare la figura del donatore di sangue e la figura del socio Avis? quali sono le motivazioni che spingono una persona a diventare donatore non riconoscendosi nel valore culturale, sociale ed etico dell’Associazione? L’augurio è che Avis possa continuare ad essere un laboratorio sociale capace di essere attivo sul territorio e capace di essere promotore di solidarietà e aggregatore di Comunità.
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AVIS, altruismo e solidarietà di Chiara Paoli
AVIS: donare è importante
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l 14 giugno è la Giornata mondiale dedicata ai donatori di sangue, persone importanti, che io stessa ringrazio ogni anno, quando viene ora di scegliere a quale associazione dare il 5 per 1000. L’AVIS, associazione volontari del sangue, ente privato, ma con scopo di pubblica utilità, nasce nel 1927, grazie all’appello di Vittorio Formentano sulla stampa milanese. I primi 17 volontari che rispondono, il 16 febbraio di quell’anno danno vita all’AVIS, che vuole dare soddisfazione alla sempre maggiore richiesta di sangue, necessario per salvare vite umane, grazie al contributo di donatori preparati e tenuti sotto controllo, anche nell’intento di debellare la vendita di sangue. Due anni dopo l’associazione elaborò un proprio Statuto, il cui motto era “Charitas usque ad sanguinem”, cioè “carità fino al sangue”. L’iniziativa ha successo e viene ricalcata in molte altre città, nel 1933 si contano già 34 sezioni. Il ventennio fascista ha riservato all’associazione duri colpi, con il tentativo di nazionalizzazione. L’associazione Nazionale viene istituita nel 1946 e l’anno seguente viene pubblicato il primo numero della rivista. Sempre nel 1947 la Croce Rossa Italiana
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dichiara di voler assorbire l’AVIS, gli associati si ribellano a questo disegno di legge e sospendono le trasfusioni, ad eccezione di quelle urgenti. La contestazione ottiene risultati e si procede con l’abrogazione di tale provvedimento e con la legge 59 del 20 febbraio 1950, l’AVIS viene riconosciuta giuridicamente dallo stato italiano; il provvedimento porta la firma di De Gasperi. La legge 592 del 1967 ha provveduto a garantire una prima legislazione relativa ai servizi trasfusionali, individuando AVIS come realtà di fondamentale importanza. Il 12 ottobre 1968 viene promossa la prima Giornata Nazionale del donatore di sangue, mentre dal 1970 il nuovo statuto permette di costituire gruppi associativi regionali. Avis oggi si distingue per i grandi numeri: 1.300.000 soci ripartiti in 3418 sezioni, che garantiscono la raccolta di più di 2.000.000 di unità di sangue e derivati, soddisfacendo l’80% della richiesta nazionale di sangue. L’AVIS provinciale in Trentino nasce 85 anni or sono, il 10 febbraio 1936, gli inizi non sono semplici e dopo varie vicissitudini, la sezione comunale cittadina riuscirà a costituirsi legalmente e ad avere una propria sede soltanto
nel 1967. La prima convenzione con l’Ospedale S. Chiara ha decorso a partire dal 1° gennaio 1970 e prevede che la raccolta di sangue venga effettuata presso il Centro Trasfusionale della struttura ospedaliera. Anche questa fase risulta purtroppo problematica, viste le difficoltà economiche della clinica che non riesce a garantire i dovuti rimborsi. Fino al 1972 anche il servizio di segreteria è su base volontaria; fino agli anni ’90 le visite vengono effettuate in orario serale da dottori “amici di AVIS” che mettono a disposizione gratuitamente il loro tempo e le loro capacità. Il Centro raccolta di Pergine Valsugana prese avvio nel dicembre del 1988, grazie al sostegno della Lega Pasi Battisti e all’interessamento del presidente dell’epoca Ezio Andreaus; nello stesso anno venne aperta anche l’attuale sede della Banca del Sangue, sita in via Malta a Trento. I nuovi statuti del 2005 prevedono la possibilità di azione unicamente nel comune di appartenenza; l’AVIS sovracomunale di Trento, che era ripartita in molteplici realtà dislocate sul territorio, si trasforma, dando vita a sezioni separate come quelle di Civezzano e Pergine. Anche in tempi di Covid i donatori del sangue non si sono tirati indietro e hanno continuato a offrire una parte di sé per salvare vite. A loro va il nostro più sentito grazie e al lettore ricordiamo che “un tuo gesto può salvare una vita, vieni a donare”.
Violenza domestica e maltrattamenti
Signal for Help...
Il segnale per la richiesta di aiuto Il nuovo modo silenzioso di denunciare la violenza domestica promosso da associazioni sensibili sul tema. Il Signal for Help permette di denunciare senza essere visti dall'aguzzino.
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er aiutare le vittime di violenza domestica a denunciare i maltrattamenti subiti in epoca Covid, le associazioni Canadian Women’s Foundation e Women’s Funding Network hanno istituito il Signal for Help. Un gesto che, nella sua semplicità, è capace di salvare parecchie vite. Con lo scoppiare dell’emergenza epidemiologica e il conseguente lockdown, sono drasticamente aumentati gli episodi di violenza domestica e femminicidio. Donne, bambini e di frequente pure uomini si sono ritrovati reclusi nella loro abitazione con i propri aguzzini, isolati dall’ambiente esterno. Secondo quanto indicano le statistiche, nella fase di quarantena Covid si è avuto un incremento del 119 per cento delle chiamate al numero verde 1522* per lo stalking e la violenza domestica. Tuttavia, spesso chi è vittima di violenza non ha la possibilità di effettua-
re chiamate, con le quali dovrebbero esplicitare a voce i motivi, rischiando di farsi udire dall’aguzzino e, dunque, di subire ripercussioni. Alla luce di ciò l’associazione Women’s Funding Network (WFN), in compartecipazione con la Canadian Women’s Foundation, ha creato il cosiddetto Signal for Help. La campagna Signal for Help, che sta ottenendo sempre maggiore considerazione sul web grazie al passaparola dei social media e a video esplicativi, ha ideato un segnale gestuale in grado di salvare parecchie vite. Si tratta di una maniera silenziosa di chiedere aiuto: ad esempio lo si può fare in videochiamata, senza suscitare sospetti nel responsabile dei maltrattamenti. Le fasi gestuali del Si-
gnal for Help sono due. La prima consiste nel mostrare il palmo della mano con quattro dita alzate, mentre sul palmo è appoggiato il pollice. La seconda prevede di abbassare le quattro dita, in modo da ‘intrappolare’ il pollice. Il Signal for Help è diventato un simbolo internazionale per denunciare, senza dare nell’occhio, la violenza domestica. È importante continuare a promuoverlo e a farlo conoscere.
*Il 1522 è un servizio pubblico promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Al numero rispondono operatrici specializzate che accolgono le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking.
Tratto da : https://notiziariodelweb.com
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Storie di migranti di Waimer Perinelli
Legado italiano-eredità italiana “Lasciarono il porto con cielo sereno e mare placido, la gente si guardava attorno e si gustava l’attesa della nuova patria e del nuovo lavoro. Il cielo cominciò a rabbuiarsi, a gonfiarsi di nubi nere e fu bufera. Si udiva il vento fischiare, il fracasso delle onde che si rompevano sui fianchi, le grida e le urla dei piccoli, delle mamme, dei nonni e dei padri, tutti terrorizzati e inzuppati dalle onde che sormontavano le sponde e si riversavano all’interno di quel barcone fin troppo carico. Finché un’onda più grossa delle altre spezzò la fiancata, il mare entrò dappertutto e il viaggio di Domenico, Filomena, dei loro figli e degli altri (emigranti) finì lì”.
È
questo un brano del libro “ Vincere o morire” di Renzo Maria Grosselli e quelli che muoiono affogati non sono keniani, etiopi o senegalesi, ma trentini, una piccola parte dell’esercito di 28 mila persone emigrate fra il 1770 ed la fine dell’800, verso i paesi del Sud America. Con loro, su quelle navi e quei barconi, altrettanti veneti, uniti dalla miseria, dalla voglia di riscatto dal desiderio incontenibili di avere una vita dignitosa. Emigrare, lavorare, vivere con dignità. E di questo riscatto parla anche il film “Legado Italiano” eredità italiana, con cui la regista brasiliana Marcia Monteiro, ha vinto il premio speciale della RAI, alla sessantanovesima edizione del Trento Film Festival. Eredità italiana è una storia di donne, uomini, bambini, vecchi costretti a lasciare le belle valli del Bellunese, di Feltre, dell’Agordino, la Valsugana e la Val di Cembra, la cui terra non dava frutti sufficienti e li costringeva alla fame. Fu verso il 1870, quando Roma diventava capitale del Regno d’Italia, che il paese finalmente riunificato era ricco soprattutto di forza lavoro mentre mancava proprio il lavoro. E non stava meglio l’Impero austriaco di Francesco Giuseppe a cui per amministrazione ma non per lingua e cultura, appartenevano i trentini. La fame non conosce i confini di stato né le ideologie. Su quelle navi dirette
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in Brasile ogni differenza scompariva e una folla, che non parlava italiano o tedesco ma solo dialetti veneti e trentini, sognava di sfuggire alla miseria e trovare una vita migliore. Il sogno era spesso solo un incubo. Grosselli racconta un episodio accaduto in Val di Cembra: “La partenza fu straziante, lo ricordano i documenti dell’epoca: Alle 5 e mezza una folla di gente girovagava per il paese, qualcuno cantava, altri bestemmiavano, altri ancora trascinavano donne e fanciulli piangenti. Due robusti contadini si tiravano dietro, quasi strozzandolo, un povero vecchio il quale piangeva dirottamente e non voleva abbandonare la patria». Al di qua come al di là del confine di Tezze Valsugana, gli emigranti trentini e veneti, già poveri, vendevano a poco prezzo le misere cose di famiglia e con il ricavato pagavano il viaggio in ferrovia verso porti di Genova o Le Havre. Giunti in vista del mare non trovavano centri di ristoro o di soccorso ma speculatori che con la complicità o il colpevole silenzio della pubblica amministrazione, affittavano
a caro prezzo locali e pertugi dove gli emigranti aspettavano la chiamata per la partenza e, ci racconta nel film Marcia Montero, questa tardava a lungo, nell’attesa che tutti i denari fossero spesi e quando finalmente la nuova miseria delle persone poteva diventare un pericolo per l’ordine pubblico, la nave veniva fatta salpare. Riprendiamo il racconto di Grosselli: “Alla fine, sfiniti, si arresero al destino e, come bestie al macello, si lasciarono imbarcare con il
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sacco di pane, il poco formaggio e i due salami che erano riusciti a procurarsi.(..) Chiusi nelle stive a causa del sovraffollamento, ma anche dell’atavica paura dei giri d’aria che impediva loro di andare in coperta a respirare l’aria buona e a prendere il sole purificatore, vivevano sottocoperta in un concentrato di batteri, virus, parassiti, fumi, polveri, caldo-umido, aria malsana. Tanti morivano, specialmente bambini e vecchi. (...)Si mangia da bestie. Il pane non si può
mangiare perché troppo duro e non si bagna. Solo un piatto di minestra e patate, quasi tutta acqua conzà con un po’ di lardo senza gusto» (idem). Si stima che in quel viaggio siano morte varie decine di persone (in genere moriva il 5-6% dei migranti, sempre che non scoppiasse un’epidemia perché allora era tragedia). Chi moriva veniva messo in un sacco e gettato a mare, in pasto ai pesci.” Vi ricorda qualcosa? Potremmo trasferire queste immagini a quelle che giungono in questi giorni dal Mediterraneo dove a morire sono altre persone dalla pelle scura. Lasciamo ora queste dolorose note per affrontare con Marcia Monteiro regista sensibile ed entusiasta, la fase della speranza e del successo. Quei migranti che raggiunsero il Brasile nella zona di Serra Gaùcha (Rio Grande do Sul) trovarono solo foreste da disboscare, terre basaltiche con la possibilità di acquistare, grazie al mutuo, appezzamenti di venti ettari di vera proprietà. Non mancavano loro né la forza né la tecnica per dissodare,
arare e seminare la terra. Contadini erano partiti e tali si ritrovavano ma in un paese giovane, bisognoso di mano d’opera specializzata e veneti e trentini avevano la sapienza dei vignaioli: dal colle di Tenna in Valsugana vagoni carichi d’uva andavano in Austria; dalle campagne del Piave e di Conegliano le uve raggiungevano le cantine di Venezia. Agricoltori come Pedro Valduga di Terragnolo, Bazanella, Giordani hanno piantato viti di Isabel, un vitigno americano, oggi considerato Brasiliano. Ed è stata la loro fortuna e ricchezza. La coltivazione della vite ha permesso la produzione di un vino che oggi, a distanza di 130 anni, è vanto e orgoglio dei loro discendenti e dell’intero Brasile. I figli e nipoti si esprimono oggi in portoghese ma alcuni anziani usano il grammelot fatto di lingua e dialetti. I giovani, con poche ore di volo, vengono in Italia per ritrovare le antiche radici culturali ma anche di quelle viti che, da loro come da noi, hanno creato benessere e serenità.
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Qui cinema di Katia Cont
Il David di Donatello
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a serata trasmessa dal Teatro dell’Opera è iniziata con Laura Pausini che ha cantato «Io Sì», brano con cui ha vinto un Golden Globle e che l’ha vista candidata sia ai David di Donatello che agli Oscar in quel di Los Angeles. Una serata incalzante, con una regia dinamica, senza troppe interruzioni e perdite di tempo. Si è parlato di cinema con le persone che realmente il cinema lo fanno e lo vivono. Molti sono stati i momenti toccanti che non dimenticheremo di questa edizione a partire da un’emozionatissima Sophia Loren, miglior attrice protagonista per “La vita davanti a sé”, film diretto dal figlio Edoardo Conti che lei ha ringraziato a cuore aperto. «L’emozione è la stessa della prima volta, la gioia è la stessa. Voglio continuare a fare film: senza il cinema, non posso vivere». «È difficile credere che la prima volta che ho ricevuto un David sia stato più di 60 anni fa. Sono molto grata a mio figlio, un uomo meraviglioso che ha fatto un film molto bello», ha detto la Loren, commossa nel suo discorso di ringraziamento. A trionfare è stato il film “Volevo nascondermi”, la pellicola di Giorgio Diritti che racconta in maniera folgorante la vita del pittore Antonio Ligabue. Il film ha vinto ben 7 David su 15 nomination, tra cui i prestigiosi: miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista ad Elio Germano. Immenso e toccante il discorso della protagonista più giovane della serata, una standing ovation per le parole di Emma Torre, la figlia di Mattia Torre, che accompagnata dalla mamma Francesca ha ritirato il premio vinto dal padre per la sceneggiatura del film “Figli”. «Complimenti a mio padre
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che ha vinto il premio anche se non c’è più, dedico il premio al mio fratellino Nico che mi fa ammazzare dalle risate e a mia mamma che non si arrende mai» ha detto Emma ricordando il padre sceneggiatore, autore televisivo e regista, tra gli autori della serie “Boris”, prematuramente scomparso. I momenti istituzionali non sono mancati, da ricordare quello introduttivo con il Ministro Dario Franceschini, che ha prospettato un grande futuro per il cinema. «E’ stato un deserto molto lungo da attraversare ancora con macchine al 50% della capienza ma il cinema non si è fermato», ha detto il ministro, aprendo la serata su Rai1 per il gala dei David di Donatello. «Sono convinto che ci aspetti una grande stagione. E ci stiamo impegnando: dopo la legge sul tax credit diventata tra le più competitive in Europa, stiamo facendo una grande operazione su Cinecittà: un investimento di 300 milioni di euro del Recovery per il Centro sperimentale di cinematografia e Cinecittà. Per il cinema italiano vedo un grande presente e un grande futuro, ha concluso”.
Sophia Loren - David di Donatello 2021 (da Napoli - La Repubblica)
Elio Germano (da Biografieonline)
Giorgio Diritti
Mattia Torre (da Il Riformista)
A Tempo di Musica di Gabriele Biancardi
MÅNESKIN QUANDO IL ROCK È VITA
I Måneskin vincono Sanremo e l’Eurovision. L’articolo potrebbe finire qui. Invece no, perché stormi di critici escono allo scoperto. “Dire che sono rock e’ sacrilegio!” Tuonano snocciolando quello che secondo loro è l’impero del rock. Led Zeppelin, Rolling Stone, Jimi Hendrix e mi fermo qui perché non c’è abbastanza carta in tutto il Trentino per fare elenchi. Ma cos’è esattamente il rock?
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i sono decine di sottoscala che si dipanano nei meandri delle sette note. Glam, indie, punk, garage, hard, giusto per citare i primi e mi fermo sempre per la salvaguardia boschiva. Ma un conto è suonare rock, un conto è vivere rock! Questi quattro ragazzi, pochi anni fa, erano dei buskers, cioè, suonatori di strada. Cappello girato, due chitarre, qualcosa su cui fare percussione e la voce cruda senza filtri. Ora sono lì, con la sacrosanta arroganza di chi ha vent’anni e si trova in vetta quando prima era fantastico portare a casa 100 euro. Ma il rock, non è soltanto la cassa che spinge e il basso che pompa forte. Non è urlare al microfono o fare assoli acidi. Il rock è uno stile di vita. In questo momento l’artista italiana più rock è senz’altro, Orietta Berti. Si, Oriettona nazionale. Chi se non una rocker, spacca una camera d’albergo e si fa inseguire dalla polizia? A Sanremo la Berti ha fatto tutto questo. Certo, avesse poi cantato qualcosa di Alvin Lee sarebbe stato il top, ma non possiamo nemmeno pretendere troppo. Giornali di tutto il mondo hanno parlato dei Måneskin, fin gli americani che sono molto più nazionalisti di noi. Eppure, niente, non riusciamo a godere di questo successo, che tra l’altro riporterà in Italia l’anno pros-
I Måneskin vincono l'Eurovision Song Contest 2021 (foto Afp)
simo, quell’ Eurofestival che manca dopo la Cotugnana vittoria. Era il 1990 e Cotugno con conquistava il palcoscenico europeo “Insieme 1992” ventisei anni dopo Gigliola Cinquetti. Si può criticare eh, i gusti sono sacri e la musica è democrazia. Ma i confronti non reggono, altri tempi, altre storie, altri modi di scrivere. Ma per gli amanti del rock, non abbiate paura, provate ad ascoltare qualche pezzo, poi magari vi faranno schifo lo stesso, magari avrete qualche elemento in più per criticare. In fondo anche gli Stones hanno
fatto l’occhiolino al reggae e pure alla discomusic. Godiamoci questo primo posto, sui francesi per di più, perché nasce dai voti del popolo. Non dagli intellettuali di ogni Stato che ci hanno parecchio castigato, a proposito, San Marino 0 punti a noi... dai. La gente di ogni parte, ha premiato l’energia, in molti il testo non l’hanno capito. Hanno invece apprezzato la scelta della lingua italiana e non si sono facilitati la vita con l’inglese. Dai, che il rock, non è oltraggiato da loro, loro non fanno rock. Lo vivono.
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Società oggi di Marco Nicolò Perinelli
Lavorare nel mondo senza ufficio
GIOVANI E IMPRESA AL TEMPO DEL COVID Davide Pedrolli, 30 anni, nel marzo del 2020, quando è esplosa la pandemia di Covid, si trovava in Norvegia. Non in visita turistica bensì d’affari, tra molte difficoltà perché la gente, sapendo che era italiano, aveva paura ad avvicinarsi. L’Italia era percepita come il covo del Covid.
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n’esperienza singolare con cui Pedrolli ha arricchito la ricerca di un nuovo modo d’affrontare il mercato internazionale. “Rientrato – racconta - ho dovuto adeguarmi a un nuovo modo di lavorare, dice, ma avevo già intuito prima della pandemia che per poter lavorare in maniera dinamica non fosse necessario avere un ufficio e che si possono tagliare tante cose “fisiche” per investire sulla parte informatica della vendita, sull’innovazione tecnologica, per far viaggiare sempre di più le idee, senza necessariamente seguirle fisicamente.” La scelta richiede tuttavia conoscenze e scelte di mercato. Davide Padrolli, residente a Tenna, sul lago di Caldonazzo, si è laureato nel 2016 in giurisprudenza a indirizzo transnazionale ed europeo, con l’ambizione di entrare in diplomazia. Nel corso degli studi ha effettuato due esperienze internazionali: un anno a Treviri in Germania e cinque mesi a San Sebastian nei Paesi Baschi spagnoli. Due soggiorni all’estero che ti hanno cambiato la vita? “Decisamente e se vogliamo quasi banalmente. Durante queste esperienze mi sono avvicinato al mondo della eno-gastronomia, avendo dapprima potuto vedere a Treviri come il territorio fosse stato ben preservato
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e i terreni ben coltivati a vigne. Io pensavo che in Germania si parlasse solo di birra e invece sono capitato nella regione più vocata per le vigne; la terra di Riesling. Sono rimasto colpito dal fatto che in Germania il vino fosse così curato e considerato, mentre a Tenna, il mio paese, che ha come simbolo un grappolo d’uva e sulle sponde del colle del quale è nata una realtà come il primo spumante Trentino DOC, si assistesse a uno stato di abbandono della campagna in generale e delle vigne in particolare. Poi a San Sebastian, capitale spagnola della Gastronomia, una città bellissima, gemellata con Trento in cui ho potuto apprezzare la valorizzazione del territorio in tutti i suoi aspetti, dall’oceano alle montagne, passando per la natura e una cultura gastronomica. Nel mezzo una toccata e fuga a Shanghai dove ho potuto percepire come l’organizzazione e il fare sistema del modello tedesco sia decisivo per imporsi nei mercati anche più lontani.” Finita la laurea che strada hai intrapreso? “Una volta capito che alla diplomazia preferivo la scoperta eno gastronomica mi sono trasferito a Parma a fare un tirocinio in una azienda che faceva import export di prodotti alimentari
Società oggi italiani e vinicoli. Da un tirocinio è nata una opportunità di lavoro e sono rimasto a Parma, una città assolutamente di riferimento per il mio settore per 2 anni. Era molto bello essere protagonisti nell’aiutare le aziende italiane all’estero ma sentivo il bisogno di una nuova sfida.” Da Parma alla Norvegia non è una passeggiata. “No e la strada è passata per la Svezia ed a Stoccolma mi sono specializzato sul mercato scandinavo, molto interessante e ancora poco presidiato. Un mercato di tendenza, molto curioso, esigente dal punto di vista dei prodotti ma anche di alcuni aspetti che noi solo da poco iniziamo a considerare come la sostenibilità. Nella mia attività lavorativa, che è finalizzata certamente alla vendita, mi piace inserire anche gli aspetti comunicativi che derivano dal fatto
di essere giornalista pubblicista. Sono molto stimolato a vendere prodotti alimentari e vinicoli italiani (e le relative connessioni col mondo del turismo). Ho registrato per questo un marchio europeo sulle DOLOMITI, chiamato DOLOM-ITA con cui voglio promuovere i prodotti della nostra area.” E poi è arrivato il Corona, il virus che non ha confini di spazio e tempo ma che ha creato grandi barriere commerciali fra i diversi paesi. “Si, mi ha colto proprio mentre stavo organizzandomi per affrontare il mercato internazionale. L’idea già prima che arrivasse il COVID era quella di essere una persona di riferimento per le aziende italiane del settore alimentare nei mercati esteri ed in particolare quello scandinavo. Non è stato certamente un momento
facile. Durante questo anno e mezzo sospeso ho potuto sviluppare tante cose che in un periodo normale mai avrei potuto. Ho sviluppato progetti con professionisti di settori diversi dal mio ma con i quali abbiamo integrato le nostre professionalità. Stiamo formando una vera equipe di giovani tutti interessati al mondo enogastronomico trentino nell’ottica di far conoscere la nostra Provincia nel mondo; ho capito l’importanza di mettere insieme professionalità, entusiasmo con un obiettivo comune. Sono migliorato dal punto di vista professionale. Siamo riusciti, con chi collabora con me, addirittura a attivare un corso di formazione di gelato in Argentina e uno di italiano e gelato in Danimarca: attività che erano inimmaginabili prima. Questa crisi poteva annientarci e invece siamo riusciti a trasformarla in una opportunità”.
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ei trascorsi decenni era molto diffusa l’attività di muratore. Per questo nei paesi venivano organizzati dei corsi per addestrare le perone che nella vita sceglievano questa attività lavorativa e per questo erano sempre tanto partecipati da giovani da tutta la Valle. In questa foto vediamo i partecipanti al corso nell’anno scolastico 1950-51 con tanti allievi provenienti da tutta la Valsugana.
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Storie di bimbi e di guerra di Walter Laurana
I DORMIENTI La scena è costellata di edifici in rovina crivellati dai proiettili, di voragini scolpite dalle bombe nelle strade e nelle piazze sulle quali incuranti, innocenti e festosi corrono bambini. Sono scene frequenti nel cinema neorealista italiano dove si rivivono momenti drammatici della seconda guerra mondiale, ma anche di reportage televisivi girati in paesi oppressi da conflitti. Scene di campi profughi dove si riuniscono gli sfuggiti alle guerre e lì, fra il disordine, il caos della provvisorietà, altri bimbi che giocano si rincorrono e sembrano ignorare la tensione, il dramma. La fortuna dei bambini è la grande capacità di adattamento ma non sempre è facile e serena. Anzi spesso la reazione alle difficoltà è drammatica.
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i chiama Sindrome della Rassegnazione ed è stata individuata in Svezia lo stato di apatia che colpisce i bambini figli di fuggiaschi, rifugiati. Per illustrarla bisogna partire dal principale sintomo ovvero la passività. Il direttore dell’unità psichiatrica dell’ospedale universitario di Stoccolma ne ha descritto i sintomi: “I bambini diventati totalmente passivi, immobili, fiacchi, schivi, taciturni, incapaci di mangiare e bere, incontinenti e privi di reazioni dinanzi a stimoli fisici o al dolore. Questi piccoli pazienti vengono chiamati bambini apatici‘”. Nei casi più gravi i bambini cadono in coma, anche per molti mesi. Il fenomeno riguarda soprattutto i giovanissimi, ma tra le vittime ci sono anche degli adolescenti. Bambini che crescono in famiglie appese al filo del rinnovo del permesso di soggiorno, arrivati piccoli, o molto piccoli, in Svezia, cresciuti imparando una lingua e una cultura molto differenti da quelle dei genitori, e inseriti in una trafila burocratica che rischia di rimandarli nel paese di origine. Le prime avvisaglie di questa patologia, inizialmente classificata anche come malattia della “bella addormentata”, ”stato catonico” o “apatia” sono
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state colte dal fotografo svedese Magnus Wennmann in uno scatto con cui ha vinto il World Press Photo, raffigurante Djeneta e Ibadeta, due sorelle rom in sonno profondo. Le due bambine emigrate dal Kosovo in Svezia assieme alle famiglie vivono il disagio della precarietà e reagiscono immergendosi nell’apatia e nel sonno per sfuggire la realtà. Djeneta, la più giovane delle due, era bloccata a letto da due anni e mezzo, da quando aveva 12 anni. La sorella Ibadeta, di 15 anni, ha perso la capacità di camminare. Le sorelle riposano su due lettini gemelli, nell’alloggio per migranti messo a disposizione dallo stato svedese, incapaci di alzarsi, nutrirsi, andare in bagno o rispondere ad alcuno stimolo. Il primo picco della sindrome si registra negli anni duemila. Nel 2005 erano stati registrati oltre 400 casi. Nella rivista Acta Pediatrica il paziente tipico viene descritto “ completamente passivo, immobile, senza tono, ritirato, muto, incapace di mangiare e bere, incontinente e non reattivo ad alcuno stimolo fisico o ad alcun dolore”. Il primo maggio scorso la rivista The Daily Mail ha segnalato 169 casi di piccoli che si sono improvvisamen-
Suzanne O'Sullivan (da Neurobioblog)
te addormentati, finendo in coma profondo. Vivono tutti in una piccola area geografica e nel corso degli ultimi dieci anni hanno chiuso gli occhi senza più risvegliarsi, per un periodo che, nei casi più gravi dura anche per molti mesi. La cosa misteriosa è che i minorenni colpiti dalla Sindrome da Rassegnazione sono tutti figli di rifugiati siriani in Svezia, a cui lo Stato ha revocato o sta per revocare il permesso di soggiorno. Per questo si è avanzata l’ipotesi di simulazioni anche perché i medici, dopo averli visitati, non hanno trovato disfunzioni in grado di causare il sonno. La scrittrice scientifica e neurologa Suzanne O’Sullivan, che su questa e altre storie ha scritto un libro dal titolo The Sleeping Beauties. si tratterebbe di una probabile forma di psicogenesi culturale. Un’alterazione delle funzioni psichiche dalle conseguenze profonde, che si presenta seguendo un effetto domino: più casi si presentano e vengono curati, più è facile che se ne sviluppino altri. I piccoli colpiti da Sindrome da Rassegnazione sono quindi bambini che crollano sotto il peso di una fatica psicologica eccessiva lunga anni e che sembra non avere mai fine. E di una vita che non trova mai pace e casa.
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Altruismo e solidarietà di Francesca Gottardi
Donare i propri capelli:
UN ATTO DI BENE C i sono molti modi per donare e fare del bene. Uno di questi è quello di donare i propri capelli per farne delle parrucche. Tante sono le ragioni per le quali una persona può avere bisogno di una donazione di questo tipo. Per esempio, può aver perso i capelli a causa di una condizione medica come l’alopecia, oppure la perdita di capelli può essere dovuta a seguito di terapie oncologiche.
Il problema Le parrucche di qualità prodotte con capelli umani hanno dei costi elevati, che si aggirano in media attorno ai 600 euro, ma che possono facilmente superare i 1000 euro. Per questo, in molti sono costretti a rinunciarvi. Questo difficile accesso ad una parrucca rappresenta un problema. Anche se i capelli possono essere considerati da alcuni un fattore puramente estetico, per molti influiscono in modo significativo sulla percezione di sé e sono una componente fondamentale di come ci vediamo e riconosciamo allo specchio e nelle relazioni interpersonali. La perdita di capelli può inoltre avere un impatto sulla propria autostima e sul normale svolgimento di una vita sociale, a maggior ragione per un individuo già sottoposto ad una dura prova fisica e psicologica. Perché donare Ci sono mille ragioni per le quali donare i propri capelli, avendone la possibilità, può essere un’ottima opportunità per fare del bene. I capelli possono aiutare una persona che sta
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Prima
attraversando un momento difficile a causa di una malattia a continuare a riconoscersi nella sua identità, a mantenere una normale socialità e ad evitare di dover offrire domande o spiegazioni in un momento in cui è già vulnerabile. Aspetti legali Donare i propri capelli è completamente legale. Non rientra infatti tra gli atti di disposizione del proprio corpo vietati dall’articolo 5 del Codice civile, che proibisce atti di disposizione del corpo in grado di causare una definitiva diminuzione della propria integrità fisica. Questo gesto non è inoltre contrario ad ordine pubblico o buon costume. Come donare Come si possono donare i capelli? In primo luogo, è necessario scegliere un’organizzazione di fiducia alla quale donare, in quanto le linee guida
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per la donazione possono variare. In genere, i capelli devono essere donati puliti, in buone condizioni, possibilmente non trattati artificialmente. La lunghezza richiesta varia da associazione ad associazione, ma si aggira attorno ad una media di 25-30. Vi sono molte organizzazioni che se si occupano di questo tipo di donazione, ma non tutte offrono parrucche gratuite a chi le riceve. Per questo, è importante assicurarsi che la propria chioma venga donata all’associazione giusta, evitando di fomentare il “business delle parrucche.” In Italia, le organizzazioni più note sono “Un Angelo per Capello” e il “Progetto Smile”, sostenuto da Tricostarc e dalla Fondazione Prometeus Onlus. Si evidenzia inoltre l’iniziativa trentina “Diamoci un Taglio,” una campagna di raccolta capelli in collaborazione con Lega Italiana per la Lotta ai Tumori (LILT).
Qui America di Francesca Gottardi
Fare un dottorato negli USA
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l dottorato negli USA è da alcuni ritenuto il non-plus-ultra della ricerca universitaria. Un dottorato è un percorso accademico post-laurea che permette di conseguire il titolo accademico più alto in un certo campo del sapere. Perseguire gli studi superiori negli Stati Uniti presenta degli elementi di unicità rispetto al percorso europeo standard a noi conosciuto. Ecco alcune similarità e differenze tra fare un dottorato in Italia e negli Stati Uniti. La prima grande distinzione è che negli USA vi sono due tipi di dottorati: accademici e professionali. Dottorati accademici Il dottorato accademico è il cosiddetto PhD. Il termine PhD deriva dal latino Philosophia Doctor e descrive tutti i dottorati accademici, non solo quello in filosofia. La durata media di un dottorato accademico in Italia è di 3-4 anni, mentre Negli Stati Uniti di almeno 5-6. Questo perché i dottorandi USA devono frequentare un paio d’anni di lezioni ed esami prima di poter essere definiti ufficialmente “candidati PhD” ed iniziare a scrivere la tesi finale di dottorato. Al termine dei primi due anni propedeutici, lo studente di PhD deve sostenere degli esami pluridisciplinari molto difficili su tutto il materiale studiato negli anni precedenti. L’esame è strutturato in modo variabile a seconda del programma. Per esempio, quello del dipartimento di scienze politiche consiste in due esami scritti da 30 ore ciascuno ed una prova orale di due ore. Se lo studente non supera questo grosso esame, detto Comprehensive Examinations, non viene promosso a candidato PhD e può persino essere invitato a dare le dimissioni dal programma o a rinunciare alla borsa di studio. Questo aggiunge un notevole
peso psicologico alla prova, vista l’alta posta in gioco. Dottorati professionali Un dottorato professionale, che esiste negli USA ed in alcuni altri Paesi, ha la specificità di preparare il candidato all’esercizio di una particolare professione. Si tratta di un dottorato chiamato “professionale” perché consiste nel superamento di un numero prestabilito di esami nel corso di tre o quattro anni (dipende dal dottorato), ma non prevede la discussione di una tesi finale. In Europa, tale titolo si avvicina al concetto di laurea magistrale a ciclo unico (come è il caso per medicina e giurisprudenza). La differenza, è che negli Stati Uniti per accedere a questo percorso di studio occorre almeno una laurea triennale (l’equivalente di un Bachelor), mentre in Italia vi si accede direttamente a seguito del completamento delle scuole superiori. I dottorati professionali più
noti negli USA sono lo Juris Doctor (JD, dottore in legge) e il Medicinae Doctor (MD, dottore in medicina). I fondi Negli Stati Uniti andare all’università costa caro. I dottorati negli USA sono spesso accompagnati da una borsa di studio che copre la maggior parte delle elevatissime tasse universitarie (tuition). Ci sono però molte altre spese, come le tasse per i servizi universitari o per l’assicurazione sanitaria, che non sono coperte, e che costano caro. Possono infatti facilmente aggirarsi attorno ai 5000 dollari l’anno. In Italia, questo problema non si pone, in quanto l’educazione e la sanità sono pubbliche. Il rovescio della medaglia è che gli elevati costi dell’istruzione in America fanno si che vi siano notevoli fondi e laboratori all’avanguardia a disposizione del dottorando, mediamente superiori di quelli a disposizione di un dottorando italiano.
Congratulazioni alla nostra Francesca Gottardi perchè negli Stati Uniti, dove vive e si è sposata, tiene alto l'onore della nostra Italia ottenendo risultati di assoluto rilievo con un “Palmeres” accademico degno di vera nota e menzione. Dopo aver conseguito, nel 2016, la laurea in Giurisprudenza in Italia, si è trasferita negli USA per continuare e completare, al meglio, la sua preparazione professionale. All'Inizio del 2020 ha sostenuto e superato, con pieno merito, il difficile esame per diventare avvocato e dopo un ulteriore anno di studi approfonditi, nel dicembre 2020, ha prestato giuramento, presso il foro di New York, diventando ufficialmente avvocato. Nell’ aprile del 2021 supera gli esami multidisciplinari del dottorato in Scienze politiche. E nel maggio 2021 consegue il titolo di Juris Doctor, che, in USA, è l’attestato piu' alto in campo di diritto. In questi giorni, è destinataria di un ulteriore riconoscimento che la gratifica enormemente: la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cincinnati le ha conferito il prestigiosissimo premio di “Alunna dell’anno”.
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Tra musica e società di Gabriele Biancardi
TEMPI MODERNI Quante volte avremo detto: “ai miei tempi...” almeno un migliaio, ma siamo davvero sicuri che i “nostri tempi”, specialmente quelli infantili e adolescenziali, siano stati migliori di oggi? Oppure è soltanto il variopinto modo di rimpiangere il passato?
B
eh, partiamo dalle scelte, che sono il vero snodo di una vita. Noi, bimbi, ne avevamo poche a dire il vero. Nello sport c’era il calcio giocato per strada, poi il calcio giocato nei campetti. I più sofisticati avevano accesso a qualche palestra e quindi potevi distinguerti praticando pallavolo. Tennis, sci, basket erano per noi un pochino lontani, soprattutto perché costicchiavano un filino. Oggi, un ragazzo può capire molto presto quale sport prediligere, trova corsi accessibili a tutti in qualunque posto e momento. Sarà facile avere più campioni in questo modo, forse se avessi capito prima che a calcio ero una pippa, magari avrei avuto soddisfazione in altre discipline. Altro attacco generazionale riguarda la tecnologia. Siamo qui tutti a dire che quando non c’erano cellulari la vita era più bella, ovviamente lo facciamo sapere attraverso i social, digitando sull’ultimo modello di cui capiamo un terzo delle funzioni. Eh
no, da ragazzino ascoltavo la hit parade del grande Lelio Luttazzi il sabato, su una radio in cucina con l’orecchio appoggiato. Oggi la musica la puoi raggiungere in tutto il mondo. Apprezzarla con cuffie che ti isolano dal mondo. Con una banale app, ti colleghi con radio di ogni paese ed emisfero. In questo modo puoi selezionare davvero un universo di suoni che per noi erano relegati nel negozio di dischi. Come sempre però, dipende dall’uso di questa tecnologia a fare la differenza. Se il portatile lo usiamo solo per andare su youporn, per carità, tutto
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lecito ma onestamente banale. Oggi, noi che siamo uomini di mezza età, come si diceva, chiediamo ad Alexa di svegliarci, al cellulare di darci le ultime notizie nel frattempo il bagno si scalda con la stufetta programmata. Tutto questo senza ancora appoggiare un piede fuori dal letto. Coloro che hanno passato una vita da sani, non
Tra musica e società se ne rendono conto, ma la medicina nel frattempo ha fatto passi ciclopici. Operazioni che ti aprivano come un capretto, oggi lasciano una cicatrice appena visibile. Quando in auto ti trovavi fuori strada, scattava il: “scusa capo!..dove andare per andare...” oggi il navigatore ti porta ad un metro dalla destinazione. Ma vorrei tornare alla musica. Oggi non solo è più facile trovare perle da tutto il mondo, ma anche comporla! Un programma pc nemmeno troppo sofisticato, una conoscenza nemmeno da conservatorio e nella tua cameretta puoi tranquillamente “creare”. Quanti di noi hanno invidiato lo “splendido” con quella sua bastarda di chitarra che si attorniava di tutte le ragazze della classe. Oggi lo possono fare tutti o perlomeno coloro che magari scoprono di avere qualcosa da dire. Non tutti saranno dei nuovi Mo-
gol, ma nella “trap”, ci ho trovato tante cose interessanti. Fermarsi vuole dire morire, artisticamente senza dubbio. Ovviamente c’è sempre l’altra faccia della medaglia. Io mi trovo ogni settimana decine e decine di canzoni fatte in casa, che onestamente fanno perdere molto tempo. Trent’anni fa, esisteva una certa selezione alla base, chi arrivava a fare un disco, doveva passare un certo iter, oppure era un parente importante. Nonostante la facilità di raggiungere chi vogliamo in qualunque parte del mondo, la solitudine adolescenziale è un problema non da poco. Abbiamo tutto e ne usiamo un quarto. Le famose vie di mezzo non sono mai state di moda, purtroppo. Ma noi, oggi, che abbiamo cinquanta anni, di cosa ci lamentiamo? Quando avevamo quindici anni, un uomo di mezza età, era praticamente un quasi
morto. Non parliamo delle donne che non esistevano. Oggi, grazie alla conoscenze nutrizionali, alla moda, avere cinquanta e più anni, è un valore! Un vanto. Avessimo avuto questa età negli anni settanta, ci avreste trovato ancora al lavoro, ma tagliati fuori da una fetta della società. Non ho ricette di nessun tipo, non ho consigli da dare, ne avrei bisogno invece. Una cosa l’abbiamo persa di sicuro. La capacità di ascoltare, siamo sempre troppo presi dal dover dire o scrivere qualcosa che faccia effetto, che lasci il segno. Nella ricerca spasmodica del colpo ad effetto, ci dimentichiamo di capire quello che qualcuno ha da dirci. Il mondo virtuale ha allargato i confini, ma ha ristretto quelli vicino a noi. Siamo capaci di lunghe discussioni in rete con Paco che sta in Honduras. Ma Rudi che abita nella tua città, non lo senti da anni.
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Cronache italiane di Patrizia Rapposelli
FEMMINICIDIO Numeri inaccettabili
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ensavo e mi ero illusa che a distanza di settantaquattro anni dall’approvazione della Costituzione in cui veniva sancito, in via definitiva, l’eguaglianza e la parità tra le persone, senza distinzioni, i casi di femminicidio non dovessero reclamare giustizia. Forse la legge non basta. Un principio deve essere affermato, difeso, promosso e concretamente attuato. Il bollettino drammatico della cronaca denuncia una narrazione ricorrente di uomini che uccidono le donne. Nel 2021 in Italia un femminicidio ogni 5 giorni: strage senza fine? I numeri raccontano, i numeri lanciano campanelli di allarme e dall’inizio dell’anno i femminicidi sono 38, due a settimana. Quando nell’uomo il possesso, la bramosia e il dominio, lo chiamerei disprezzo, si arroga il potere di non consentire la scelta, l’autonomia e la parità nei confronti dell’altro sesso, il risultato è drammatico e inaccettabile. Quella dei femminicidi è una strage che non si ferma e racchiude una grande questione culturale e educativa; infatti, la violenza di genere è un crimine che trova il suo fondo nella discriminazione e nel rifiuto del rispetto; una problematica di civiltà che richiede una crescita culturale. Il rispetto, senza cadere nei cliché, è alla base della democrazia e della civiltà del diritto, dovrebbe essere imparato e appreso fin da piccoli, sicuramente una dicitura priva di originalità, ma la cronaca abituale non rende questa affermazione banale. I dati del 10 maggio diffusi dal Viminale sulla violenza di genere dal report elaborato dal servizio Analisi
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criminale della direzione centrale della Polizia criminale del dipartimento della Pubblica Sicurezza mostra come dal primo gennaio 2021 siano stati commessi 91 omicidi, con 38 vittime di sesso femminile. Di queste 34 sono state assassinate in ambito familiare o affettivo, in 25 casi dal partner o ex congiunto. Dal report emerge, rispetto al periodo 1° gennaio- 9 maggio 2020, un leggero aumento (2 per cento) nell’andamento generale degli omicidi volontari (da 89 a 91), a cui si contrappone un decremento delle vittime di genere femminile, che passano da 43 a 38 (-12 per cento). Un incremento maggiore si registra per gli omicidi volontari commessi in ambito familiare- affettivo, che vanno da 48 a 55 (+15 per cento), mentre le vittime di genere femminile scendono da 37 a 34 (- 8 per cento). Le donne vittime del partner o ex fanno registrare un aumento rispetto all’analogo periodo dell’anno 2020, passando da 24 a 25 (+ 4 per cento). La cronaca periodica mette in evidenza come nella maggior parte delle occasioni il fenomeno ha inizio in casa, dove si nasconde una sofferenza silenziosa. L’omicidio è solo la punta dell’iceberg di un percorso di dolore e soprusi che risponde al nome di violenza domestica. Infatti, numerose aggressioni avvengono tra le pareti del luogo familiare e spesso anche i figli delle relazioni violente subiscono direttamente la prepotenza. I bambini vedono, ascoltano,
sentono. Nei casi peggiori l’assassino uccide il figlio insieme alla madre. La violenza alle donne è una “pandemia globale” che attraversa il mondo femminile. Troppe volte le donne, coraggiose, vengono rimandate a casa dopo aver segnalato situazioni di difficoltà, troppe volte alcune denunce vengono sottovalutate esponendo al rischio. Femminicidio è questione culturale, rende necessario il cambiare una cultura patriarcale, forse il vero deterrente per affrontare in profondità il problema è una maggiore sensibilizzazione e una decostruzione degli stereotipi. I forse sono troppi e i numeri del 2021 si pongono in un’angosciosa linea di continuità con le statistiche degli anni passati. È una strage che deve essere fermata.
A parere mio di Patrizia Rapposelli
POLITICALLY CORRECT E CANCEL CULTURE Un fenomeno sfuggito di mano?
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l fenomeno del politically correct (politicamente corretto) sembra essere sfuggito di mano a molti negli ultimi tempi. C’è chi parla di “cancel culture” (cultura della cancellazione). Soprattutto tra i sostenitori più radicali che tendono a concentrarsi maggiormente sulla forma piuttosto che sulla sostanza delle questioni. Più sulle parole e i simboli anziché su problemi concreti, pur partendo da motivazioni condivisibili e necessarie. Lo sa bene la Disney che ha passato in rassegna i grandi classici per controllare eventuali messaggi offensivi. E Lo dimostra la bufera politica - mediatica scatenata da Pio e Amedeo nelle puntate di Felicissima sera, in onda su canale 5. I due comici hanno sdoganato l’uso di termini scomodi come provocazione al fanatismo del politically correct. Sketch politicamente scorretto al fine di lanciare una sfida precisa: peggio le parole o le intenzioni. Piovono le critiche, le proteste sui social non si contano, si scatenano pensieri di cattivo esempio. Apprezzabili o meno, condivisibili o meno, criticabili o meno è satira. La satira è una critica mordace, risalta con
modi ironici, dallo scherno all’invettiva sferzante, atteggiamenti comuni alla generalità degli uomini o tipici di una categoria. Esiste da sempre ed è spesso un tipo di umorismo discriminatorio capace di mettere al centro riflessioni importanti. Politicamente corretto non è un freno alla libertà di espressione, ma semplicemente un meccanismo che serve a limitare la violenza verbale, purtroppo l’onda esasperata che si sta abbattendo su di esso va oltre gli isterismi censori che di solito si imputano al politically correct. È un movimento di idee nato nei campus americani per combattere le discriminazioni contro le minoranze. Condannare preconcetti, azioni e modi che in qualche modo ledono precise categorie minoritarie è giusto, ma cosa succede quando si cade nella “cancel culture”? Il politicamente corretto non è nato per abbattere le statue, cancellare Shakespeare nelle università ed Egon Schiele nei musei. La “cancel culture” vuole invece eliminare i western nelle sale cinetiche, Peter Pan e Dumbo. Fanatismo che abbatte ciò che non si conforma senza distinzioni? Oggi
la cultura dell’annullamento è all’ordine del giorno e in molti la guardano come forma moderna di ostracismo con cui una persona, così come un marchio o un gruppo commerciale vengono messi al bando, un’estromissione totale dalle cerchie sociali, social e professionali. Guasta in qualche modo i diritti della libertà di espressione ed estremizza il vecchio politically correct. Sono molti gli episodi di “cancel culture” dopo la morte di George Floyd, l’afroamericano ucciso il 25 maggio 2020 a Minneapolis, e le conseguenti proteste del movimento attivista internazionale Black Lives Matter, sfociate nella violenza e nel vandalismo dei fanatici. Le società Occidentali, come anche l’Italia, sono percorse da un dibattito che sta ridefinendo le basi, una tensione tra grandi fenomeni socioculturali degli ultimi decenni, dal femminismo al multiculturalismo e ai diritti Lgbt, e la parte di popolazione che vi resiste. Polemiche e accuse, un futuro in continuo divenire, servono strumenti utili a non votare il linguaggio come mezzo di sofferenza, ma è altrettanto utile saperli usare senza abusarne.
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Premio “Fare Paesaggio” di Francesco Zadra
Trionfa Colle San Biagio
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n una soleggiata mattina d’inizio maggio si è svolta, nella splendida cornice del colle San Biagio a Levico Terme, la cerimonia di premiazione di “Fare Paesaggio”. Contest triennale dedicato alla memoria del suo ideatore, il compianto ing. Giulio Andreolli, che si propone di premiare opere territoriali che abbiano raggiunto “obiettivi di elevata qualità paesaggistica e sostenibilità ambientale”. Il concorso si divide in tre categorie: “Programmazione, pianificazione e iniziative gestionali”, “Segni del paesaggio” e “Cultura, educazione e partecipazione”. La prima di queste ha visto trionfare una dinamica ed originale società valsuganotta. Sono 42 i soggetti privati che hanno acquistato, autofinanziandosi, gli 8 ettari che compongono la collina per dare vita all’azienda agricola “Colle San Biagio”. I loro sforzi non sono stati vani e il progetto ha conquistato i favori del comitato esaminatore, superando perfino iniziative provenienti da fuori regione. “L’approccio culturale, i temi dell’inclusione, della promozione di un turismo sostenibile e della gestione agricola ispirata alla coltivazione biologica” sono le motivazioni che hanno gui-
Mattia Torre (da Il Riformista)
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Il Trofeo Giulio Andreolli
dato la scelta della giuria, composta da docenti universitari, architetti e paesaggisti di fama internazionale. Presenti, oltre a una decina di soci, il neo-presidente Andrea Dellai, il suo braccio destro Adriano Prati e, last but not least, l’architetto Licia Pirazzi, vera e propria “colonna portante del progetto” come la definisce il presidente Dellai. D’origine piemontese ma operante a Levico da anni con il suo “studio ARCATOP”, l’arch. Pirazzi ha seguito, con grinta e passione, lo sviluppo del progetto fin dagli esordi. E’ grazie alle sue doti di paesaggista che il colle sta lentamente uscendo dalle condizioni di degrado e incuria nelle quali versava da mezzo secolo. “Un luogo di rara bellezza - sottolinea Licia - dove archeologia, natura e spiritualità sembrano darsi appuntamento.” Come darle torto? Oltre a godere di una vista mozzafiato sul lago sottostante, il colle ospita degli altèri ruderi
medievali posti “a guardia” dei preziosi affreschi trecenteschi racchiusi nella chiesetta. A consegnare il trofeo, sul sagrato dedicato al martire armeno, l’assessore Paolo Andreatta, in rappresentanza del comune di Levico, che si dichiara felice e orgoglioso del riconoscimento assegnato all’azienda levicense. Azienda che non sembra avere intenzione di adagiarsi sugli allori: apicoltura, recupero di piante antiche e “dimenticate”, pecorelle-tagliaerba, inclusione sociale e laboratori per bambini sono solo alcune delle (molte) iniziative che bollono in pentola. Ci auguriamo che questo primo importante traguardo sia il trampolino di lancio per un progetto che merita di essere sostenuto e apprezzato da residenti e turisti. A tal proposito la società ha predisposto la creazione di un’omonima associazione per dare l’opportunità a ciascuno di portare il proprio contributo nella realizzazione del loro piccolo/grande Sogno.
Società e figli bisognosi di Paolo Cavagnoli *
MINORI SFORTUNATI TROVANO FAMIGLIA Siamo ormai troppo grandi per credere alla leggenda della lupa che fa da balia a Romolo e Remo abbandonati nella cesta dalla vestale Rea Silvia, ma abbiamo la certezza che ogni essere umano possa trovare affetto e cibo grazie alla generosità di altre persone. La prova per il Trentino è l’APPM (Associazione Provinciale Per i Minori), come scrive Paolo Cavagnoli, cofondatore e giornalista, da nove lustri trova famiglia a bimbi sfortunati.
L’
associazione opera in Valsugana da molti anni nei vari centri della vallata. L’iniziativa ha preso il via quarantacinque anni fa, quando assieme agli amici fra cui il geometra Umberto Fumai, decidemmo di creare delle alternative agli istituti educativi assistenziali che stavano chiudendo per carenza di vocazioni. Abbiamo a Pergine, ad esempio, un centro diurno che per i non addetti ai lavori può sembrare un oratorio, e un centro residenziale ove sono ospitati i minori, oggi molti stranieri, che non hanno la possibilità di rimanere in famiglia. Siamo inoltre presenti come centro diurno a Levico in via del Crocifisso e a Borgo, ove la struttura è gestita in collaborazione con la comunità di valle. L’ APPM coordina inoltre in tutta la provincia oltre una quarantina di centri residenziali specialistici e diurni che coinvolgono nel giro di un anno oltre 1000 minori. I vari centri sono gestiti in collaborazione con le comunità di valle e sono dislocati ad esempio da Malè a Canal San Bovo, per circa una quarantina di strutture. Il personale, di circa 180 dipendenti, è composto prevalentemente da educatori qualificati. L’associazione, che è una Onlus, è diretta da un presidente e da un consiglio d’amministrazione eletti dai soci. Il responsabile generale della struttura
è il dottor Paolo Romito, che opera con una serie di collaboratori esperti dei vari settori, da quello amministrativo a quello pedagogico e lavorativo. In questi lunghi anni l’ evoluzione della tipologia degli ospiti è mutata, essendo i primi tempi l’accoglienza motivata da cause economiche, mentre oggi il disagio giovanile è più complesso. La quasi totalità dei minori sono rientrati in comunità, sistemandosi sia dal punto di vista professionale che di famiglia. Per rimanere nella zona dell’alta Valsugana recentemente l’associazione ha preso in carico anche il centro di Vigolo Vattaro sito in via Filzi che aveva qualche difficoltà organizzativa. Quanto prima la Provincia dovrebbe
assegnare all’associazione la nuova sede costruita ad hoc in via Manzoni e quindi servire anche come punto di riferimento per le attività giovanili del quartiere di San Martino e della città. Tutto questo lavoro è sempre stato fatto, salvo il personale dipendente, in forma di volontariato dai molti soci che da anni seguono l’attività dell’associazione. Il punto di forza della stessa è sempre stato e dovrà essere quello della qualificazione del personale, perché lavorare oggi con gli adolescenti e i giovani è sempre più complesso. I risultati tuttavia sono buoni e il lavoro è riconosciuto anche a livello istituzionale con le richieste di collaborazione da parte di enti locali e provinciali.
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Il personaggio di Massimo Dalledonne
ERMANNO PASQUALINI
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ella vita fu banchiere, imprenditore, giornalista, podestà di Castello Tesino dal 1926 al 1931, filantropo, internato del campo di concentramento di Bolzano e scrittore. La figura di Ermanno Pasqualini è ancora oggi spesso ricordata nella conca. Come scrisse l’Adige nel 1974, a firma di Florio Angeli “Ermanno Pasqualini è stato indubbiamente il simbolo di un’epoca, non solo per l’oculata amministrazione a Castello in qualità di podestà, ma soprattutto per l’apporto insostituibile allo sviluppo economico ed artistico del Tesino e della Valsugana. […] Nel breve periodo della sua carica trasformò Castello da paese a ristretta economia agricolo-alpina in centro turistico di prim’ordine. Nell’ambito di questa trasformazione, pur sapendo di suscitare inevitabili incomprensioni, giustificate dalla mentalità dei
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tempi, rese obbligatorio l’abbellimento di tutte le case. […] Per la prima volta, grazie alle sue iniziative, il paese vide una stagione turistica estiva e l’embrione della stagione invernale sciistica”. Classe 1894, nei suoi sei anni di podestà mise in campo diverse iniziative per il rilancio del paese e del Tesino. Un lungo elenco che va dall’intonacatura delle case all’apposizione delle grondaie, dall’allontanamento dei letamai dalle strade fino alla creazione di un parco pubblico (i Giardinetti). Promosse anche la ricostituzione del corpo bandistico con 80 membri, la pavimentazione delle strade con selciato, la pulizia periodica delle strade, l’installazione di panchine per villeggianti fino alla fondazione dell’agenzia turistica Concorso forestieri. L’elenco continua con l’incremento del rimborso dei danni di guerra al patrimonio comunale, la costruzione della strada di San Polo che dall’ultima casa della contrà porta fino al cimitero, al posto dell’erto sentiero di prima, il rifacimento del cimitero con l’introduzione di viali, aiuole e l’istallazione di una fontanella all’esterno del camposanto, la rimessa in luce degli antichi dipinti della Chiesa di San Polo da secoli nascosti sotto uno strato di calce, la trasformazione della zona delle “case nuove” in un signorile viale (Via Dante) e la costruzione della strada che collega Via Terrasanta con Via Dante (Via nuova). Ermanno Pasqualini promosse l’edificazione del Littorio (l’attuale municipio) contenente uffici comunali, docce e bagni pubblici con inserviente stipendiato dal comune, un moderno caffè panoramico con giardino, sala da ballo,
bigliardo e camerieri in giacca bianca, locali per palestra ed un teatro di 400 posti con loggia, cabina e macchina per proiezioni cinematografiche, palco per conferenze e spettacoli, camerini per gli attori (il teatro nel dopoguerra verrà trasformato prima in balera e poi in discoteca). Arrivarono gli affreschi interni ed esterni della chiesa di San Giorgio, il campo da tennis con terra battuta rossa che funzionò per 35 anni, la ricostruzione della guglia in piombo della Torricella, la costruzione della rete fognaria e la bonifica delle Parti, l’ammodernamento delle scuole e la creazione del primo gruppo folcloristico che riportò in auge il vecchio costume locale. In questi sei anni venne istituito un fondo per la sovvenzione dei lavori di abbellimento delle case e un corso popolare gratuito di botanica tenuto da un docente universitario di Genova, iniziò la promozione turistica della grotta appena scoperta e delle prime gare di scii con concorrenti delle Tre Venezie. Spazio, infine, alla progettazione dell’acquedotto di Regana da parte di una squadra di tecnici (realizzato 40 anni dopo). Un personaggio, Ermanno Pasqualini, che, come ancora viene ricordato oggi, maturò così scarsa riconoscenza da parte dei paesani. Infatti, nel 1931, un anno prima della scadenza del suo mandato, Ermanno Pasqualini diede le sue dimissioni e si trasferì con la famiglia a Milano. Per il resto della sua vita non si interessò più né di politica, né di amministrazione pubblica, ma negli ultimi anni si dedicò alla redazione del più bel libro di memorie e storia castelazza “Racconti di Casteltesino”, pubblicato postumo. Ermanno Pasqualini morì nel 1973, all’età di 79 anni.
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Alle origini dell’archeologia televisiva di Chiara Paoli
INDIANA JONES
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uarant’anni fa nasceva un mito del cinema, ma soprattutto l’archeologia entrava nelle case di chiunque come qualcosa di spettacolare e avventuroso con il film “I predatori dell’arca perduta”. In questo primo episodio il maggiore Eaton presenta così il protagonista: “Dottor Jones, abbiamo sentito parlare molto di lei: professore di archeologia, esperto di occultismo, e, come dite voialtri? Ricercatore di antichità rare.” Quanti di noi dopo aver visto in TV Indiana Jones, hanno sognato di diventare un giorno a loro volta ricercatori di tesori perduti? I quattro film di questa Saga hanno visto Steven Spielberg quale regista, ma sono dovuti al grande genio di George Lucas, ideatore anche della famosa epopea di Guerre Stellari, il celebre protagonista è invece Harrison Ford, selezionato a meno di un mese dal primo ciack, ma già noto per la sua apparizione nelle vesti di Ian Solo. In realtà per il ruolo del dottor Jones era stato scelto Tom Selleck, che all’ultimo diede forfait, a causa dell’esclusiva che lo vincola alla CBS, per la serie TV Magnum, P.I. Il personaggio immaginario, che sembra possa aver preso spunto dalla figura del celebre archeologo veneto Giovanni Battista Belzoni, che nel XIX secolo ha esplorato le antichità egizie, anche se quest’ultimo non è mai stato un professore. Il “gigante del Nilo”, che aveva un’altezza di circa due metri, si esibiva nei teatri inglesi nelle vesti di “Sansone Patagonico» oltre a mettere in pratica le conoscenze di idraulica apprese a Roma. D’altronde lo studio è solo una parte del lavoro dell’archeologo, come viene ribadito nel quarto film del-
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Giovanni Battista Belzoni (da Informagiovani Italia)
la serie “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo”, perché ci vuole anche la pratica: “Se vuoi diventare un bravo archeologo, devi uscire da questa biblioteca!” Farà sorridere alcuni pensare che lo sceneggiatore abbia ammesso di aver preso ispirazione dagli avventurosi fumetti di Paperon de’ Paperoni, scritti da Carl Barks di cui George Lucas era un appassionato lettore. Il primo film della saga, riprese infatti le vicende disegnate nelle storie “Zio Paperone e le sette città di Cibola” e “Zio Paperone e l’oro di Pizarro”. Doppia personalità elegante e irreprensibile professore, ma
anche atletico avventuriero, abilissimo nella lotta corpo a corpo, ma con qualche piccolo difetto, la fobia per i serpenti, che lo rende più umano. Henry Walton Jones Junior, d’altra parte è pur sempre uno studioso di una certa levatura e ciò traspare dalla sua grande capacità di parlare e scrivere molteplici lingue, sia antiche che odierne. Caratteristica che si contrappone alla sua abilità fisica nell’uso della frusta, che usa come una liana per riuscire ad attraversare gole profonde, per immobilizzare il nemico e disarmarlo. Tra i cattivi che Indiana Jones deve affrontare ritroviamo più
Alle origini dell’archeologia televisiva volte i nazisti, ma anche i thug, una setta religiosa, che adora la dea Kālī e infine, in periodo di guerra fredda, lotta contro i Sovietici. Possiamo ritrovare lo stesso protagonista anche nella serie televisiva “Le avventure del giovane Indiana Jones”, ma anche nelle pagine di romanzi e fumetti, oltre che nel mondo virtuale di videogiochi e giochi di varia natura. La sua figura campeggia inoltre nel museo delle cere di Madame Tussaud. La fama di Indiana Jones, “un uomo dai molti talenti”, gli ha permesso nel 2003 di essere considerato dall’American Film Institute il 2° eroe più famoso del cinema. Lo scorso anno la rivista Empire lo ha eletto” il più grande personaggio cinematografico” e la sua figura, si ritrova nelle posizioni più alte, in molte altre classifiche. E proprio da questo personaggio ne sono scaturiti molti altri di archeologi-avventurieri negli anni a seguire, tra cui il più noto è forse Richard
“Rick” O’Connell, nei tre film intitolati “La mummia”. Anche tra i film di animazione per bambini, troviamo “Le avventure di Taddeo l’esploratore”, palese richiamo anche per l’uso del nome Taddeo Jones, trasposizione cinematografica dell’omonimo fumetto datato 2008. Il 29 giugno a Los Angeles avrà luogo l’asta “Entertainment Memorabilia”, che vedrà numerosi oggetti del cinema in vendita, tra cui la fedora, cioè il mitico cappello che Harrison Ford portava in testa nel film “Indiana Jones e il tempio maledetto”. Questo cimelio è stato valutato ben 250 mila dollari e d’altronde questo accessorio è a pieno titolo tra i più significativi dell’iconico abbigliamento di questo personaggio, insieme a frusta e giacca di pelle. Nel mese di luglio per la regia di James Mangold, Spielberg produttore, in Sicilia avranno inizio le riprese del quinto episodio, che vedranno la partecipazione del celebre
attore americano. Il film sarà nelle sale a luglio del prossimo anno e sarà sicuramente un nuovo emozionante capitolo del cinema dedicato all’archeologia.
Locandina di uno dei film (da Gli Archivi di Uruk - Wordpress. comItalia)
Attualità e Covid
DECRETO FINESTRE
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i inizia a intravedere un ritorno alla normalità, se “accettiamo” il fatto che la vita prima del Covid fosse considerata tale. C’è chi spera di tornarci, chi invece intravede nella “lezione” pandemica delle opportunità. Si comincia dalle modalità di fruizione culturale alle quali ci eravamo ormai abituati. Dal teatro al cinema, tutto ci è arrivato tramite i canali web e informatici. Abbiamo visto conIl Ministro Dario Franceschini segnare Oscar, David di Donatello tramite tanti piccoli monitor uno attaccato all’altro. Il film natalizio lo abbiamo goduto dal divano di casa con tutta la famiglia, e questo naturalmente grazie alle piattaforme streaming che sicuramente hanno beneficiato in termini d’incassi da abbonamenti. Ma ora cambia tutto. Il Ministro della cultura, Dario Franceschini, ha firmato il nuovo “decreto finestre” che reintroduce l’obbligo di uscita in sala per i film che ricevono contributi dallo Stato. Con le nuove disposizioni i film potranno approdare sulle piattaforme streaming e in televisione dopo trenta giorni dalla prima proiezione al cinema. Fino al 31 dicembre 2021 i film potranno essere distribuiti sulle piattaforme dopo 30 giorni dall’uscita in sala. “In questa fase di ripartenza delle attività - ha detto Franceschini - è fondamentale sostenere le sale cinematografiche e allo stesso tempo riequilibrare le regole per evitare che il cinema italiano sia penalizzato rispetto a quello internazionale”. Sicuramente una boccata di ossigeno ai cinema che tanto hanno subito in questo anno e mezzo. (Katia Cont)
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Società, sport e vita in comune di Armando Munao’
Il Gruppo “W La Fuga!”
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l Gruppo nasce ufficialmente il 23 Maggio 2006, in occasione del passaggio del Giro d’Italia a Trento, con arrivo sul Monte Bondone. A quell’evento erano presenti Cialdo (Alessandro Facchini, che sarebbe diventato il Presidente del Gruppo), Bicio (Fabrizio Schimera), Zizu (Giulio Zucal) e Samuel (Samuel Manzardo), uniti tutti dalla passione per lo sport ed in particolare per il ciclismo. Fu in quella circostanza che venne creato lo slogan “W LA FUGA” quando uno del gruppo urlo’….guarda..guarda l’e’ in fuga..e tutti all’unisono …e allora…evviva la fuga. Slogan che in seguito e per la sua originalità ha dato il nome al gruppo stesso. Da quel momento la sua presenza ai passaggi del Giro d’Italia, del Giro del Trentino e del Giro Rosa nelle nostre terre o in zone limitrofe è stata sempre costante. Un’attività, quella del gruppo, che non cessa nel periodo invernale perché, in tantissimi momenti goliardici e di vita in comune, si concretizza anche con la pratica delle sci alpino. E nel tempo e con il tempo il numero
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dei componenti del gruppo è aumentato di anno in anno; ai quattro precursori si sono aggiunti Luca Vicentini, Ale Pacher, Matteo Bareggia, i fratelli Ivan e Maurizio Zucal. Essendo la maggior parte dei componenti “Valsuganotti” è stata scelta obbligata quella di nominare come sede simbolica del Gruppo Canezza di Pergine, luogo in cui è presente il Museo
del Paracarro, dedicato proprio ai grandi ciclisti della storia. Ed è proprio in questo luogo carico di significato per chi ama il ciclismo, che il 29 Aprile 2011 il Gruppo “ W La Fuga” è stato presentato ufficialmente con la partecipazione di grandi nomi del ciclismo come Gilberto Simoni, Daniel Oss, Dario Pegoretti e Simone Temperato, veri amici del Gruppo e primi fans.. “Il nostro, come ci evidenzia il presidente Alessandro Facchini, non è assolutamente un gruppo di solo tifo e tifosi sfegatati! Nostro precipuo intento è anche quello di riunire persone e famiglie, unite dalla passione per il ciclismo, sia esso da strada, mtb o turistico e trascorrere insieme momenti di vita in comune. Per noi l’importante è pedalare, meglio se in compagnia per un sano divertimento creando nuovi amici per una continua e quanto mai socializzazione. A tal proposito sottolinea Facchini, mi preme evidenziare che abbiamo creato una “particolare collaborazione” e comuni intenti sia con il Gruppo “Salite in bici” di Pergine coordinato da Lisa Dalmaso e sia con
Società, sport e vita in comune
quello della Val di Non “ Le forcelle Rosa”, gruppo questo formato da sole donne con a capo Alessandra Petta. Per la cronaca il gruppo di Pergine ha oltre 11mila seguaci in Facebook. Ai componenti fisici del gruppo, s’aggiungono gli oltre 650 membri della nostra pagina su Facebook!!! L’impegno è andato crescendo nel tempo, anche come immagine: abbiamo creato delle magliette personalizzate, realizzate in collaborazione con Fabio Vettori; a vessillo del gruppo abbiamo realizzato uno striscione che ci accompagna nelle nostre uscite. Dal 2010, alla collezione si è aggiunto anche un bellissimo completo da bici, ideato graficamente dai componenti del gruppo e realizzato grazie al sostegno del Campione del mondo Maurizio Fondriest, del Consorzio della Valle dei Mocheni, Apt Valsugana e altri amici Sponsor. In conclusione, ci chiede Facchini, mi permetta di ricordare Claudio Gadler (detto il nonno) che purtroppo non è più con noi (una valanga assassina lo ha portato via) ma che, avendo una nipote autistica, ci ha lasciato un particolare impegno sociale e di solidarietà: quello di raccogliere fondi e donazioni per la Casa Sebastiano di Coredo che ospita, appunto, bambini autistici, Si ringrazia il fotografo Fabrizio Schimera per la gentile concessione delle foto
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Storie di casa nostra di Andrea Casna
La guerra in Valsugana Da Scurelle a Ventotene 1916-1917 La Memoria di Fannj Trentinaglia
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a Prima Guerra Mondiale è stata una guerra totale. Non solo mobilitazione di massa con milioni di uomini costretti a combattere nel fango delle trincee. Ma è stato anche un evento che ha visto milioni di civili costretti ad abbandonare i propri paesi e villaggi. Il Trentino ha conosciuto il dramma della guerra nel 1914 con i primi uomini arruolati e mandati a combattere in Galizia o in Serbia. La situazione è cambiata radicalmente con la dichiarazione di guerra dell’Italia a l’Austria: dal maggio del 1915 il Trentino si trasforma in zona di guerra; migliaia di civili, donne, anziani e bambini, devo abbandonare le proprie abitazioni per trovare riparo in regioni e zone lontane dal fronte. Le cifre sono impressionanti: 75mila civili trentini profughi nelle provincie interne dell’Impero e 35mila civili profughi in Italia. L’esercito italiano, infatti, nei primi mesi di guerra, avanza arrivando, in Vallagarina, alle porte di Rovereto e in Valsugana a Borgo. Gli abitati di queste zone si ritroveranno, infatti, a vivere sotto l’autorità del Regio Esercito Italiano. Ma già nella primavera del 1916, con l’offensiva austriaca – strafexpedition – l’esercito di Vittorio Emanuele III dove provvedere allontanamento dei civili. Tutti gli abitanti della Bassa Valsugana, quindi, sono costretti a salire sui treni per essere trasferiti in Italia. Interessate, su tale argomento, è un una sala all’interno del Museo Storico Italiano di Rovereto che proprio racconta, con immagini, documenti, reperti e
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infografiche, l’epopea dei profughi trentini durante la Grande Guerra. Un’epopea che si trova in molti diari di chi, in quegli anni difficili, ha vissuto sulla propria pelle un dramma senza precedenti. A raccontare un spaccato di quei momenti è Fannj Trentinaglia nata l’11 novembre 1899, di Scurelle. Nelle sue memorie, in parte pubblicare nel libro Il popolo scomparso, 1914-1920 (del Laboratorio di Storia di Rovereto, pubblicato nel 2003), ci racconta dell’ordine di sgombero, il viaggio in treno e l’arrivo a Messina e poi l’internamento a Ventotene. Il racconto, come si legge sul portale cultura.trentino.it e Novecentotrentino.museostorico.it, viene steso a Ventotene. La famiglia Trentinaglia (il padre Raimondo, la madre Maria Luigia
Valandro, i figli Erina, Maria, Fannj, Angelo e Paolina) fu inviata a Francavilla, prima in Sicilia e poi a Novara in un collegio governativo. Qui, a seguito di un diverbio fra il padre Raimondo e il direttore del collegio, per un avvelenamento collettivo a causa del cibo cucinato in modo poco igienico, la famiglia viene internata sull’isola di Ventotene perché accusata di comportamenti “austriacanti”. Vi rimarranno fino alla primavera del 1919. Alcuni estratti del diario di Fannj Trentinaglia. Scurelle 19 maggio 1916. «Suonarono le dieci all’orologio della nostra vecchia chiesa, mentre una compagnia di carabinieri entravano con baionetta innestata nel nostro paese ansiosamente, e con tono deciso e imperioso, ci imposero di lasciare il paese entro due ore. Lasciare il pae-
Museo della Guerra di Rovereto, Sala dedicata ai profughi della prima guerra mondiale, foto di Graziano Galvagni
Storie di casa nostra
Museo della Guerra di Rovereto, Sala dedicata ai profughi della prima guerra mondiale, foto di Graziano Galvagni
se? E per sempre? Tutti rimasero muti come elettrizzati; poi fu tutto un grido, un’esclamazione che esprimeva il dolore grande e la disperazione. “mai, mai partiremo da qui! Morire sì, ma partire giammai”. Ma la forza vale la forza, e tutti dovettero piegare sconfortati il capo e partire. Era una confusione impossibile ad immaginarsi: un chiamarsi, un cercarsi a vicenda […]. Alle otto il treno era pronto e si doveva partire. Ci fecero montare tutti in treno ed in pochi minuti ci si mise in moto portandoci lontani verso un nuovo destino! Oh! Come avrei gridato a quel treno di fermarsi, di voltar in su invece che in giù, ma quel mostro d’acciaio era muto al mio dolore e con corsa sfrenata si perdeva nello spazio. […] ora non c’era che pianura, sempre pianura. Poi sempre il terreno correva, correva per delle giornate intere e sempre passammo della città a noi nuove, ma però tutta la loro bellezza non ci scendeva la cuore, ci lasciava freddi ed insensibili. Passammo le più belle e rinomate città. A Firenze, Roma, Napoli, Caserta, Messina, sempre ci smontarono facendocele girare. Si era a Messina, alla tanto rinomata Messina per il suo terremoto; e quelle case abbattute e
rovinate ci fecero l’impressione di essere arrivati su nel nostro paese tutto certamente un disastro […] Fummo di nuovo messi in ferrovia; poi montammo in carrozza e come ubriachi arrivammo qui in paese cioè Francavilla. Ci sdraiammo per terra facendo finalmente un lungo sonno sopra le pietre fredde. Era il 30 maggio». Ventotene, 1917 «Forse qualcuno invidioso della nostra fortuna ci aveva traditi, spionando delle cose non vere o delle cose dubbie. Ci rivolsero nel partire alcune parole mordaci, dure e offensive. Eccole: “Noi, ci dissero, abbiamo fatto quello che stava in noi per accon-
tentarvi, voi vi siete lamentati e non avete corrisposto ai nostri sentimenti. Perciò partirete, giacché non vi vogliamo più”. […] Partimmo in 75 da Novara scortati da due guardie di pubblica sicurezza come fossimo malfattori […]. Alle insistenti domande fatte alla guardia, questa finalmente ci disse che ci conduceva a Ventotene che era un’isola poco distante da Napoli». «Ventotene 8 dicembre [1917]. Ho fatto il primo giro nella nuova dimora. È tanto piccola che con lo sguardo dell’occhio si può abbracciare tutta. Una piccola piazza, che con otto passi se la gira in lungo e in largo, nominata “del castello”, perché proprio nel mezzo sorge il castello dove rinchiudevano i cosiddetti coatti (gente condannata dalla legge, obbligata a scontare i suoi anni di castigo qui in quell’isola) e dove ora stanno gli internati per spionaggio o per sospetti. […]» «1 marzo. Hanno fatto il cambio alcune guardie di P. S. Non riesco ancora a capire perché mantengono qui così tante guardie, appuntati, guardie di finanza, carabinieri, colonnello, capitano, tenente ed un buon numero di soldati, forse che siamo gente così barbara per essere in questa guisa sorvegliati? D’altra parte scappare non si potrebbe, non avendo davanti agli occhi che cielo e mare».
Museo della Guerra di Rovereto, Sala dedicata ai profughi della prima guerra mondiale, foto di Graziano Galvagni
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Accadde ieri di Alessandro Caldera
Il Grande Torino e quella trasferta infinita
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gnuno di noi nasce con un modello di riferimento. Chi nega questo, mente. Talvolta questa nostra fonte di ispirazione si dimostra così meritevole di encomi che inevitabilmente bisogna scomodare un concetto, la cui accezione non lascia spazio a travisamenti: eroi. In riferimento al protagonista di questa storia, si tratta è vero di una squadra, ma la coesione del gruppo era tale da consentirci di parlare di unicum. Il racconto di oggi coinvolge un mondo che non conosciamo più, una realtà nella quale i calciatori erano persone come noi, non superstar con ingaggi faraonici. Il destino, con la sua imprevedibilità e tirannia, ha deciso però, di privarci anzitempo di questa sempli-
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cità e genuinità, “portandosi via” un gruppo incredibilmente talentuoso e vincente, la cui corsa è terminata tragicamente il 4 maggio 1949 contro il bastione della basilica di Superga. Su quel colle, una delle più belle pagine sportive del nostro calcio si è spenta prematuramente: il “Grande Torino”. Questa favola a tinte granata non è qualcosa di estemporaneo e frutto del caso, bensì il prodotto di programmazione e lungimiranza da parte di un ricco industriale di nome Ferruccio Novo. Il presidente, dopo aver acquisito il club nel 1939, decise di intraprendere una filosofia societaria ispirata a quella degli acerrimi rivali, gli Agnelli, con la Juventus dei primi anni trenta. In questo frangente egli si affidò ini-
zialmente a due geni di questo sport, stiamo parlando di Erbstein e di Vittorio Pozzo. Il primo era un talentuoso allenatore magiaro, costretto alla fuga a causa della propria discendenza ebrea che mal digeriva quelle maledette leggi razziali promulgate da Mussolini nel 1937. Il secondo, invece, è l’allenatore più vincente a livello di nazionale, colui che ci portò sul “tetto del mondo” per due mondiali consecutivi nel ’34 e nel ’38. Tutto questo va poi addizionato ad acquisti di una certa caratura, il primo della gestione Novo fu un certo Franco Ossola prelevato dalla sua Varese, che oggi lo ricorda avendogli intitolato lo stadio, quando era da poco maggiorenne. Gli altri sono Ezio Loik, detto “l’elefante” per il suo incedere lento e
Accadde ieri possente, Guglielmo Gabetto detto il “Barone”, prelevato dalla Juventus che lo considerava oramai sul viale del tramonto, e poi lui. Già, lui, il motore di quella macchina perfetta: Valentino Mazzola, la punta di diamante di quel “dream team”, il protagonista di quel quarto d’ora granata, ovvero quella frazione di partita nella quale il Torino annichiliva l’avversario, spazzandolo via dal terreno di gioco. Suo figlio Sandrino, al Prater di Vienna, diventò anch’egli leggenda quando con una doppietta, nella finale di Coppa dei Campioni del ’64, contribuì al successo di un altro straordinario club, denominato poi guarda caso, la “Grande Inter”. Qualche anno dopo, un uomo proveniente da Piracicaba in Brasile, noto per essere il quarto miglior marcatore di sempre in serie A con 216 reti, verrà soprannominato per la sua somiglianza fisica “il Mazzola”: Josè Altafini. Il
Torino, come detto, andava al di là dei singoli. Certo, la forza di alcuni era sbalorditiva, ma la chiave era la coesione, un’unione di intenti nella quale anche il fatto che lo stesso Valentino prendesse premi doppi, come testimoniato dalla famosa agenda di Novo, era un qualcosa di ininfluente per i compagni. Questo affiatamento e questa supremazia calcistica portarono la formazione granata a stabilire primati che resistono ancora oggi come 125 gol realizzati in una stagione, oppure le 88 partite casalinghe consecutive senza sconfitta. Ora però bisogna tornare a quel maledetto maggio e a quel giorno funesto per la storia del calcio italiano. In verità prima di tutto, è bene rispondere alla seguente domanda: “Perché il Torino stava facendo ritorno da Lisbona?”. La risposta va ricercata in una promessa, fatta da Valentino al capitano del Benfica, squadra all’epoca
composta da dilettanti, con la quale il talento azzurro si era impegnato, con i suoi compagni, a disputare una partita contro i portoghesi al fine di aiutare, con gli introiti dell’incontro, il lusitano che versava in cattive acque. Ecco, quella fu l’ultima apparizione di quella magica squadra. Poco meno di ventiquattro ore dopo, a causa di condizioni meteo avverse e di un altimetro impazzito, il Fiat G.212 si schiantò contro la Basilica di Superga. Un disastro aereo nel quale perirono 31 persone, tra giocatori staff e giornalisti. Da quella maledizione, il Torino uscì solamente nel ’76 quando tornò a vincere il campionato che poteva essere festeggiato solamente lì perché, come disse Indro Montanelli, «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”».
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Girovagando in Valsugana di Massimo Dalledonne
LA VIA DA BORGO ALLA VAL DI SELLA Ma chi lo dice che tutte le strade portano a Roma? Per chi abita a Borgo, infatti, sembrerebbe più logico rispondere così: tutte le strade portano in Sella, la valle beata, tanto cara ad Alcide Degasperi.
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na valle, quella di Sella, che nei secoli scorsi era raggiungibile da Borgo salendo da Piagaro e località San Giorgio. Una strada oggi chiusa al transito, sconnessa e poco sicura, ma che in passato permetteva, al termine di una ripidissima salita nel tratto della Val della Croce, di arrivare fino all’Hotel Legno ed allo stabilimento. Come si legge nel terzo volume di Ausugum, a cura di don Armando Costa, “Questa strada non offre una comunicazione con altri comuni, ma ella è una strada di sommo vantaggio della popolazione, in quanto ella serve per condurre alle ubertose selve di Sella, l’abbondante legna per gli usi domestici, tanto da fuoco quanto da fabbrica, e dei foraggi per gli animali”. È un documento datato 1832. “Sella d’altronde serve di villeggiature nell’estate. Questa strada può essere divisa in cinque tronchi, cioè il primo dal Borgo
Massimo Segnana
La strada di sella al capitello di San Lorenzo negli anni 1900 (collezione Strobele dal libro La Valle di Sella di Aldo Masina)
fino in Piagaro, della lunghezza di pertiche 1000; il secondo da Piagaro a San Giorgio della lunghezza di pertiche 500; il terzo da quivi fino al Capitello di San Lorenzo della lunghezza di pertiche 800; il quarto sino alla valle della Croce sopra la lunghezza di pertiche 500. Da quest’ultimo punto sino alla cosiddetta Locanda nella lunghezza di pertiche 700”. In Sella vi si poteva arrivare anche con una seconda carrareccia. Così la definisce, nel suo libro dedicata alla valle di Sella, Aldo Masina. “Una strada molto ripida – si legge – che partiva da Olle e località Prae e che poi, attraverso il Dosso, si univa con quella principale vicino all’Hotel Legno”. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale tutto cambia. Nella piccola valle ci sono le truppe militari italiane e, per sfuggire alle cannonate au-
striache dalla Panarotta e dal colle di Sant’Osvaldo, viene deciso di mettere mano alla viabilità per trasportare, in massima sicurezza, materiali ed attrezzature dal fondovalle in quota. Così, come ricorda ancora il Masina, tra il 1915 ed il 1918 si costruirono ex-novo il tratto tra la frazione di Olle, la Trattoria alla Croce e località San Lorenzo. È la cosiddetta “starnova”, la strada principale che oggi tutti noi conosciamo. La strada provinciale che porta comodamente in Sella. Si tratta del primo tratto di strada. Dalla metà dell’800 esisteva già una via di collegamento tra Olle e la valle di Sella che però non rispecchiava l’attuale tracciato, una strada che si inerpicava sulla montagna ben prima del primo tornante oggi presente in località Caraco. Una volta finita la guerra
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Girovagando in Valsugana La vecchia strada per Sella (raccolta Costa-Giacomoni)
l’arteria viene ulteriormente allargata e si provvede anche alla rettifica ed alla sistemazione della vecchia carrareccia del Dosso, mettendo mano al tratto compreso tra l’albergo Cipriani e l’Hotel Legno. “Alla conservazione di queste strade – scrive ancora Aldo Masina – si provvedeva con prestazione di manodopera gratuita, i pioveghi, con il concorso del comune che finanziava un operaio fisso (Meneghini “Morte” e Mario “Masaor”) addetti all’ordinaria manutenzione, a quel tempo molto impegnativa vista la pendenza del fondo sterrato e la sua consistenza ghiaiosa”. Cantieri in cui lavoravano diversi operai della Valsugana. È il 22 dicembre del 1932 quando, come riporta nel volume III della sua opera “Ausugum” don Armando Costa, alcuni di loro restano feriti. “Lavoravamo per l’impresa Luigi Zetti ed erano intenti al brillamento delle mine sulla strada di Sella. Per uno scoppio anticipato alcuni di loro rimanevano investiti dal pietrisco ed in quattro furono trasportati d’urgenza all’ospedale San Lorenzo di Borgo Valsugana”. I feriti furono Antonio Armelao di Felice, 33 anni di Borgo (guarito in 40 giorni), Decimo
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Sordo fu Domenico, 45 anni di Borgo (guarito in 20 giorni), Alessandro Tiso di Villa Agnedo (guarito in 40 giorni) e Giovanni Armelao fu Luigi, 18 anni di Borgo (guarito in 10 giorni). È il 19 luglio del 1933 quando si chiude il cantiere per la sistemazione della strada ex militare che dal Borgo porta in Sella. Come ricorda l’Ufficio Strade ex militari di Trento “ora il tratto di strada di otto chilometri è praticabile da ogni sorta di veicoli. Le pendenze che raggiungevano il 23% ora sono state ridotte all’11%. La spesa sostenuta è stata pari a 330 mila lire”. Ancora Aldo Masina. “Dopo la Seconda Guerra, su interessamento del comune di Borgo, venne costruito il tratto nuovo dei Crossi e sistemato quello fino a San Lorenzo, nonché il tronco dall’Hotel Legno e l’Hotel Paradiso”. Così scrive nel suo libro. Siamo verso la fine del mese di ottobre del 1948. Come riporta don Armando
Costa “in quel periodo iniziarono i lavori di riattazione della strada di Sella, lavori che rientrano nel piano delle opere governative da compiersi a sollievo della disoccupazione e che prevedono una spesa di 25 milioni di lire da devolversi interamente in manodopera. È previsto l’allargamento – si legge nel terzo volume di Ausugum – della carreggiata, la sistemazione dei ponti e dei canali di raccolta e scarico delle acque piovane e la ricostruzione, ex novo, di un tratto di strada di circa 2 chilometri, per la maggior parte scavato nella roccia che porterà alla eliminazione della salita della Val della Croce”. Su quel tratto di strada esiste, appesa in parete, una piccola lapide. Ricorda un giovane di Borgo, Massimo Segnana. Nato nel 1925, dopo aver lavorato come postino per la Polizia Trentina a Borgo, alla fine della Seconda Guerra Mondiale era tornato a casa ed aveva trovato lavoro per l’impresa Battisti. Era l’8 giugno del 1949. Assieme ad altri compagni di lavoro era impegnato nelle operazioni di scoppio lungo la parete
La strada di Sella - La lapide ricordo di Massimo Segnana
Girovagando in Valsugana rocciosa. Dovevano far esplodere diverse mine. Quando tutto sembrava finito, Massimo Segnana è risalito per controllare che tutte le operazioni fossero concluse. Improvvisamente vi fu una nuova esplosione e l’imbragatura che teneva in sicurezza il giovane operaio si spezzò, Massimo Segnana cadde rovinosamente sulla strada sottostante. Immediatamente soccorso e trasportato all’ospedale di Borgo, morì qualche giorno dopo all’età di 24 anni. I lavori per la riattazione della Strada di Sella si protrassero per alcuni anni. È il 26 aprile del 1952 quando, finalmente, arriva il collaudo definitivo della strada della Val di Sella. Come scrive ancora don Costa “L’ispettore del Genio Civile ingegnere Sacchi, accompagnato dall’ingegnere Anesi e dal viceprovveditore alle opere pubbliche della Regione dottore Donato Turrini hanno compiuto una minuzio-
sa visita all’opera, complimentandosi con l’impresa Guido Battisti di Borgo Valsugana per l’accurata esecuzione dei lavori”. La sistemazione del tratto di strada tra l’Hotel Paradiso ed il Carlon sarà completato negli anni successivi, impiegando il Cantiere Scuola. “In occasione del ripristino dei territori danneggiati dall’alluvione del 1966 – si legge ancora nel volume di Aldo Masina – il comune di Borgo costruì la nuova strada del Dosso, partendo dalle Pare fino al Cipriani. La strada principale sulla sinistra Moggio passò successivamente da comunale a provinciale: venne completamente asfaltata, rettificata e, durante il periodo invernale, tenuta anche sgombra dalla neve. Negli anni ’70 si realizzò l’asfaltatura anche di tutte le altre strade laterali, con fondi Feoga, e con la definitiva sistemazione anche del primo tronco tra il Bar alla Croce ed
il primo tornante, si ultimo il problema viario della strada principale della valle di Sella”. la strada di sella ai Pianari di San Lorenzo negli anni 1900 (collezione Strobele dal libro La Valle di Sella di Aldo Masina)
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Il cinema in controluce di Francesco Zadra
«Te lo vinco io il Mondiale contro il Brasile. Papà!» Il piccolo Ruggero Cirasa, tre anni, interpreta Roberto Baggio nel film “Il divin codino”
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scito a fine mese scorso sulla piattaforma Netflix il film che racconta la vita di Roberto Baggio “Il Divin Codino”, il campione che 17 anni fa diede l’addio definitivo al mondo del pallone. Diretto da Letizia Lamartire, già regista di alcuni episodi di “Baby”, il film racconta la vita privata del calciatore, il rapporto con la famiglia, ma anche la conversione al buddismo, e la sua carriera, dagli esordi nella Lanerossi Vicenza agli ultimi anni di attività con la maglia del Brescia, passando per i primi successi tra Fiorentina e Juventus e la famosa finale dei Mondiali del 1994 negli Stati Uniti. Un film che piacerà molto agli appassionati di calcio, ma che in Valsugana avrà degli spettatori più interessati ancora, uno fra tutti il nonno del piccolo Ruggero, Maurizio Cirasa, uno degli interpreti di Baggio selezionati da Filmcommision per girare alcu-
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ne scene iniziali della biografia del campione, tra le quali una scena di famiglia, quella che lo stesso Baggio ha più volte raccontato di quando il 21 giugno 1970 guardava alla Tv assieme al papà, Italia-Brasile con gli azzurri sconfitti per 4 a 1. Allo sconforto paterno il piccolo Baggio, e così anche il suo alias Ruggero, se ne uscì con «Te lo vinco io il Mondiale contro il Brasile. Papà!». Una battuta profetica per la straordinaria carriera calcistica di Roberto Baggio, anche se non nel merito della promessa in sé poiché 24 anni dopo proprio lui sbagliò il rigore decisivo alla finale dei Mondiali, capace di ricordare a tutti l’importanza di piccoli momenti anche banali che nel corso della nostra esistenza possono ritornare molto significativi. Così è per tutti, perchè ogni vita merita un romanzo (un film in questo caso), e ha ragione nonno Maurizio nell’essere
orgoglioso per il nipotino di tre anni per la sua partecipazione al cast su la storia del campione. «La partecipazione di Ruggero – dice nonno Maurizio - al cast del divin codino è stata grazie alla zia Valentina, mia figlia fotografa ed esperta in fotogenia, che ha inviato delle foto di Ruggero all’insaputa del papà Francesco, anche lui legato a doppio filo alla Valsugana, perchè vi è nato e perchè lavora con Trentino Trasporti come istruttore dei CapoTreno. Orgoglioso nelle piccole cose che fanno i nostri nipotini tanto da esaltarci e colmarci di gioia, sono felice di divulgare questo fatto che ogni nonno si augura». Un nipotino per il quale in famiglia nessuno si sarebbe immaginato una fama legata al mondo del calcio, anche perché piuttosto affascinato dagli elicotteri che vede decollare dall’aereoporto di Mattarello, ma mai dire mai... e chissà che un giorno non si dirà, «galeotto fu quel film!».
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Attualità e notizie valsuganotte
di Franco Zadra
RiApiAmo! Una interessante iniziativa di Apt Valsugana per valorizzare l’apicoltura del territorio e inserirla a pieno titolo nelle dinamiche di sviluppo sociale e promozione turistica a 360° che l’Amministrazione comunale appoggia convintamente.
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on si conosce la data di nascita di Anton Janša, avvenuta a Carniola in Slovenia nel 1734, ma il 20 maggio di quell’anno, secondo i registri parrocchiali, fu certamente battezzato. Pittore di talento si appassionò presto all’apicoltura. Suo padre aveva più di cento alveari a casa e gli agricoltori vicini si riunivano spesso per discutere di agricoltura e apicoltura. Nel 1769 Janša iniziò a lavorare a tempo pieno come apicoltore e un anno dopo divenne il primo insegnante di apicoltura dell’impero austroungarico. Ha allevato le api nei giardini imperiali (Augarten) e ha viaggiato per l’Austria presentando le sue osservazioni sullo spostamento degli alveari su vari
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Denis Pasqualin (da Green Week 2021)
Walter Arnoldo, presidente Asat
pascoli. Per questo, dal 2017, ogni 20 maggio si celebra la Giornata Mondiale delle Api. In questa stessa data, l’Apt Valsugana, accogliendo la proposta di Walter Arnoldo, presidente Asat, ha voluto in
conferenza stampa, presenti oltre ad Arnoldo, Monica Moschen, assessore al turismo del Comune di Levico Terme, con l’assessore Paolo Andreatta, e Roberto Crivellaro, vicepresidente di Apt Valsugana, assieme al presidente
Attualità e notizie valsuganotte Denis Pasqualin, partecipare a tutta la popolazione il fatto sorprendente che le api, “amiche” del Comune grazie a una recente delibera promossa dalla maggioranza, spostandosi da un fiore all’altro, raggiungono e impollinano più di 170 mila specie vegetali, garantendo così la biodiversità nell’ecosistema. Senza di loro, la produzione dei frutti della natura sarebbe molto più lenta. Scopriamo così che dall’attività delle api e di altri impollinatori dipendono l’88% delle piante da fiori selvatiche e l’80% delle 1.400 piante che nel mondo producono cibo e prodotti dell’industria. «Per questo – ha detto il presidente Pasqualin – questo progetto vede coinvolti tutti gli operatori del territorio, dal turismo all’agricoltura, dagli albergatori agli artigiane e industriali e con la visione illuminata di un’ amministrazione che mostra di crederci concretamente». Il valore delle api è inestimabile se si considerano, per esempio, che le sole api selvatiche si compongono di oltre 20.000 specie di animali, da cui dipende il 35% della produzione agricola mondiale, con un valore economico stimato ogni anno di oltre 153 miliardi di euro a livello globale e 22 miliardi di euro in Europa. Apt Valsugana si allinea a quelli nel mondo che prendono sul serio il grido d’allarme che da anni denuncia lo
stato di pericolo in cui versano le api, con tassi di estinzione aumentati da 100 a 1000 rispetto a quelli naturali, a causa dell’impatto delle attività umane, in primis, agricoltura intensiva, monocolture, pesticidi, inquinamento, e cambiamenti climatici che anticipano le fioriture. Prioritario è il sostenere lo sviluppo delle attività apistiche in maniera diffusa sul territorio, come opportunità di reddito e inclusione sociale, come anche includere e incrementare nella pianificazione del verde pubblico la coltivazione di specie vegetali gradite alle api; porre grande attenzione ai trattamenti sulle alberate cittadine, da evitare in fioritura e in presenza di melata; ridurre progressivamente, fino a eliminarlo, l’uso di erbicidi nella manutenzione dei cigli stradali e negli spazi verdi pubblici; promuovere una riflessione sull’utilizzo degli agro farmaci in agricoltura e sul loro impatto sull’ambiente e sulla salute, e su possibili strategie di valorizzazione e salvaguardia del territorio che passino attraverso il recupero e l’adozione di buone pratiche agricole incentrate sulla sostenibilità; far rispettare le leggi che già vietano di trattare con insetticidi (fatta eccezione per i vari ceppi di bacillus thuringiensis), acaricidi ed erbicidi le colture arboree, arbustive, erbacee, ornamentali e spontanee durante il periodo di fioritura della specie trattata, dall’apertura dei primi fiori
fino alla completa caduta dei petali e vieta a chiunque consigliare o prescrivere tecniche fitoiatriche in contrasto con quanto prescritto dalla vigente normativa; intraprendere un’azione di lotta alle zanzare concentrandosi sulla prevenzione e privilegiando interventi larvicidi basati sull’uso di prodotti biologici (a base di Bacillus thuringiensis israelensis); promuovere e sostenere iniziative a sostegno dell’apicoltura eventi, mostre, convegni, premi, etc., quali per esempio la realizzazione di un “Giardino delle api” (con piante nettarifere o aromatiche, e eventuali arnie dimostrative), l’ideazione di percorsi didattico-informativi, l’utilizzo delle api come tema artistico decorativo nei progetti di riqualificazione urbana e di decoro della città, e promuovere iniziative d’informazione e sensibilizzazione sul valore di Bene Comune dell’Apicoltura, coinvolgendo in particolare le scuole di ogni ordine e grado del proprio territorio. «Pensiamo che – conclude Walter Arnoldo – cominciare con le api possa far accelerare quel processo di coscientizzazione della cittadinanza per un rispetto dell’ambiente che possa agevolare soluzioni rapide a problemi che purtroppo ancora insistono sul territorio, come per esempio l’attesa e promessa delocalizzazione dell’azienda Edil pavimentazioni, la bonifica dei siti con coperture in asbesto cemento, o l’uso di pesticidi in agricoltura».
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Diario del Viaggiatore di Fiorenzo Malpaga
Yemen... Fra mistero e fascino Nel 2007 ho avuto l’opportunità di fare un viaggio nel misterioso, affascinate ed anche pericoloso, nello Yemen, stato posto nella parte meridionale della penisola arabica, circondato dal mar Rosso e in parte dall’oceano Indiano.
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toricamente lo Yemen è uno dei più antichi centri di civilizzazione del mondo, con insediamenti umani fin dal secondo millennio a.C., con molte alture e corsi d’acqua, (cosiddetti Wadi), un suolo fertile, alternato ad aree desertiche. I primi popoli che si insediarono furono i Sabei, e diversi regni si susseguirono (Sabà, Awsan ecc.). Gli antichi romani lo denominarono “Arabia felix”, per i redditizi traffici commerciali dei porti affacciati sull’oceano, snodo di collegamento marittimo dall’occidente verso l’India e l’estremo oriente. Subì prima l’influenza egiziana, e poi ottomana; negli anni recenti lo Yemen è stato coinvolti in guerre ed attentati, fra il nord ed il sud dello stato, con interventi militari molto forti da parte dell’Arabia Saudita , e di altri stati arabi, uniti a bombardamenti verso obiettivi civili ed ospedali. La religione prevalente è l’islam sunnita, la lingua nazionale è l’arabo. Uno dei paesi più poveri del mondo, con la situazione sanitaria gravissima, acuita dalla pandemia covid 19. Paese arabo avvolto nei misteri, dove l’islam appare nella versione più autentica; percorrendo i villaggi e le zone desertiche si ha la sensazione di essere tornati al medioevo, con le donne che indossano il Burqa la tunica nera e il velo che ne ricopre il capo, lasciando scoperti soltanto gli occhi; fotografarle è una offesa e le poche foto che ho potuto scattare le ho fatte di nascosto.
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Paese arabo avvolto nei misteri, dove l’islam appare nella versione più autentica; percorrendo i villaggi e le zone desertiche si ha la sensazione di essere tornati al medioevo, con le donne che indossano la tunica nera e il velo che ne ricopre il capo, lasciando scoperti soltanto gli occhi; fotografarle è una offesa e le poche foto che ho potuto scattare le ho fatte di nascosto. Ciò che risalta è soprattutto lo splendore della capitale Sana’a, l’armonia dei villaggi, delle forme, dei colori, delle costruzioni, delle finestre, con i loro riquadri tutti eguali e nel contempo diversi; non vi è edificio che si discosti dai colori e dalle forme tradizionali, il tutto armonizzato con le tonalità ocra della sabbia del deserto che le circonda, come usciti dalla novelle delle Mille e una notte. Le foto che unisco a questo scritto credo che esprimano le sensazioni e le impressioni che si offrono al viaggiatore. Pier Paolo Pasolini, nel suo saggio “Corpi e Luoghi”, afferma che “Lo Yemen architettonicamente è il paese più bello del mondo”. Il poeta e regista scelse lo Yemen quale scenografia per l’ambientazione del suo film del 1974 intitolato ”Il fiore delle mille e una notte” nel quale si racconta la fiaba fantasiosa e fantastica della lotta fra la vita e la morte. Una delle più belle e originali storie del Medio Oriente. Pasolini era un viaggiatore e si era innamorato dello Yemen. Purtroppo i viaggi in questo paese sono ancor oggi sono molto perico-
Anziano mendicante in Yemen
losi, sia per la guerra civile in atto, che per il rischio di sequestri a scopo di estorsione, da parte di bande criminali locali nei confronti dei pochi turisti che lo frequentano. Durante tutto il tour ci è stata assegnata una scorta armata, che ci ha accompagnati nelle varie escursioni. Pochi giorni dopo la nostra visita al famoso sito archeologico di Mareb, il mitico regno della regina di Saba, un gruppo di turisti spagnoli sono stati uccisi in un agguato condotto da fondamentalisti musulmani. La visita comunque di questo splendido paese, nonostante qualche rischio corso, ne è valsa la pena, per conoscere un luogo con cultura e tradizioni secolari, e per poter ammirare gli splendidi paesaggi e soprattutto le meravigliose costruzioni piene di fascino e di mistero.
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L’Avvocato risponde di Erica Vicentini *
L’affidamento dei figli:
un piccolo vademecum anche per le coppie non sposate
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no degli argomenti più delicati che i genitori si trovano ad affrontare quando la relazione matrimoniale finisce sono le questioni relative all’affidamento dei figli. Non solo le coppie sposate devono affrontare la questione: anche le c.d. coppie di fatto hanno il dovere di individuare una regolamentazione per la gestione dei figli nati in costanza dell’unione. Tutte le ultime riforme del diritto di famiglia sono state finalizzate alla piena equiparazione normativa dei figli, rendendoli tutti espressamente titolari di diritti e non solo “oggetto” di doveri da parte dei genitori. Oggi i figli vanno considerati eguali dinanzi alla legge, non vi è alcuna differenza sostanziale tra figli nati in costanza di matrimonio e figli naturali; in quest’ultimo caso, la legge richiede che il figlio venga riconosciuto, in tal modo creandosi il rapporto (giuridico) di filiazione. Il senso di considerare tutti i figli indistintamente titolari di diritti si comprende in norme come l’art. 337 ter c.c., che prevede per loro il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi, nonché di conservare rapporti significativi con i nonni e tutti i parenti. Il citato articolo è emblema del principio di bigenitorialità: se un rapporto di coppia può nel tempo terminare, genitori si rimane per sempre e i
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figli sono titolari di diritti specifici (esercitabili peraltro in Tribunale, a mezzo, se necessario, della nomina di un curatore speciale che si occupi dei loro interessi) sia nei confronti dei genitori sia nei confronti dei parenti tutti, anche verso i nonni. Ciascun genitore, a prescindere dal collocamento dei minori presso di sé o presso l’altro, ha l’obbligo di mantenere con i figli minori un legame continuo, prendendosi cura dei propri figli e partecipando attivamente alla loro educazione, istruzione e assistenza materiale e morale. Il dovere di mantenimento si traduce anche (ma non solo) in un contributo economico proporzionale alle capacità patrimoniali e reddituali del genitore non collocatario; riguarda i figli minorenni e si estende ai figli maggiorenni non economicamente autosufficienti (entro determinati
limiti) e i maggiorenni affetti da grave disabilità. Esiste peraltro una tutela rafforzata del dovere di mantenimento: è prevista una fattispecie di reato (art. 570 c.p. e art. 570 bis c.p.) per la condotta del genitore che omette di mantenere, in particolare dal punto di vista economico, i propri figli. Di regola, proprio per garantire a pieno il principio di bigenitorialità, l’affidamento dei figli è previsto in forma condivisa, derogabile solo nei casi in cui è provato che il comportamento del genitore sia contrario agli interessi degli stessi minori. In tal caso, i figli trovano collocazione prevalente presso un genitore, cui è attribuito il godimento della casa familiare proprio per permettere ai figli una certa continuità di vita e abitudini. Non serve che ciascun genitore trascorra con i propri figli la stessa quantità di
L’Avvocato risponde
tempo ma deve essere garantita, fra i genitori, la massima collaborazione proprio nell’interesse del benessere dei figli. Quando si verifica una situazione di pregiudizio per i figli derivante dalla conservazione, in pari grado, dei rapporti con i genitori, può essere disposto l’affido esclusivo: esso segue all’accertamento di situazioni gravi di perdurante conflitto fra i genitori o di oggettiva incapacità dell’uno alla cura, educazione, crescita dei figli. Ciò non implica però l’esclusione dell’altro genitore dalla vita del figlio: permane il pieno diritto ad avere un rapporto con lo stesso, in certi casi mediato dal Tribunale che monitora (a mezzo del servizio sociale territoriale) gli incontri genitore-figlio; permane poi l’obbligo al mantenimento economico, fino all’indipendenza economica. Ovviamente ciò vale tanto per le coppie sposate e separate quanto per quelle di ex conviventi. Esistono poi forme particolari di affidamento come quello alternato, nell’ambito del quale i genitori, di comune accordo, stabiliscono un piano di convivenza alternata con i propri figli: si tratta di una forma di affido
peculiare, di regola rinvenibile solo in accordi privati e non disposta da un Giudice, sia perché particolarmente complessa, essendo necessario che i genitori vivano situazioni personali e lavorative compatibili (anche da un punto di vista economico, stante la sostanziale equità di permanenza dei figli presso ciascun genitore che rende non necessario il contributo al mantenimento) sia perché necessita per la sua buona riuscita di una grande dose di collaborazione da parte della ex coppia. I provvedimenti relativi alla gestione e al mantenimento dei figli possono essere adottati sia in via bonaria attraverso un accordo scritto sia innanzi ad un Giudice. L’accordo dei genitori in forma privata è però percepito dalle parti, di regola, in modo meno vincolante dell’esito di un ricorso in Tribunale, anche consensuale; può presentare anche qualche difficoltà operativa in più in
caso di inadempimento da parte di uno dei genitori. Se la coppia era sposata, il ricorso per la separazione (consensuale o giudiziale) andrà a prevedere anche le condizioni di affido e mantenimento dei figli, che saranno decise dal Giudice o meramente da lui omologate se già definite dalle parti. Esiste naturalmente anche la possibilità di ricorso in Tribunale per i genitori solo conviventi che intendono interrompere la convivenza e non riescono ad accordarsi in via amichevole. Nella proposta di accordo, le parti devono indicare dettagliatamente le condizioni regolative dei rapporti genitoriali e dell’esercizio della responsabilità genitoriale, l’affidamento della prole, casa familiare e mantenimento. *Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, Studio legale in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca n. 84
Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
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Novità in libreria di Armando Munao’
“Un’anima in viaggio”
...racconto di cose ordinarie e straordinarie
I
l libro, “ un’anima in viaggio”, edito da Europa Edizioni, presente in tutte le librerie, e’ il racconto di un’esperienza di vita unica e intensa, in cui si intrecciano fatti che appartengono all’ordinario con eventi che invece rimandano a una dimensione spirituale straordinaria. A seguito di una serie di viaggi in Perù e in Brasile, nei quali ha modo di partecipare a potenti cerimonie sciamaniche, l’autore sperimenta il risveglio di una forza sconosciuta che in un percorso sempre più coinvolgente lo porta a raggiungere uno stato di consapevolezza profonda. Una volta superata la paura dell’ignoto e liberatosi dai condizionamenti imposti dalla società si apre a un crescendo di bellezza e di meraviglia, ed entra in contatto con la forma più pura di energia, quella che contiene tutte le cose e le persone in ogni angolo della Terra. Il testo
nuovo modo di percepire se stessi e il mondo che li circonda. Per saperne di più abbiamo intervistato il dott. Salvatore Ragusa che del libro è l’autore. Dott. Ragusa, perché si è firmato come “Salvalago”? Ho scelto uno pseudonimo, formato da parte del mio nome e dal lago che è il mio ambiente quotidiano, per privilegiare la storia che racconto rispetto all’ego del mio personaggio. Penso che la storia di ciascuno degli uomini vissuti su questa terra abbia un senso e sia degna di essere raccontata, io ho voluto parlare della mia e spero che le mie parole siano accolte dal cuore di qualcuno. è una specie di “confessione” narrata dall’autore alla sua amata nipote, ed è dedicato a chiunque abbia la curiosità di andare oltre la materialità dell’esistenza, per avvicinarsi a un
Un gruppo di Yanomami nel loro ambiente naturale
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Come e perché nasce questo suo libro Il libro nasce dall’incitamento di persone a me vicine, principalmente
Novità in libreria da una nipote particolarmente cara, a raccontare le mie esperienze di viaggio nel mondo fisico e soprattutto in quello comunemente invisibile alla ordinaria percezione a cui ho voluto aggiungere le vicende della mia vita personale che non sono state avulse ma bensì intrecciate in un unico percorso. L’intenzione iniziale era che questo mio racconto fosse riservato a pochi intimi, poi il giudizio positivo e caloroso dei miei primi lettori mi ha convinto a renderlo pubblico. Quando iniziano i suoi viaggi che hanno determinato anche la stesura del libro? Ho iniziato a viaggiare fuori dall’Europa come vero “viaggiatore” e non più da turista dopo i 35 anni e faccio questa distinzione perché ritengo quest’ultimo un “consumatore” di viaggi mentre il primo è chi sa immergersi totalmente in una realtà diversa senza pregiudizi cogliendo l’essenza dei luoghi e delle
genti che li abitano. La mia memoria è colma di tanti ricordi di luoghi, di gente, di situazioni che compongono un grande e unico mosaico in cui ogni tessera ha un senso nella sua unicità e nella totalità della trama. Se dovessi isolare un’immagine particolare sarebbe quella di un grande cortile in India dove alcuni uomini preparano il cadavere di un vecchio rivestendolo di un telo e ornandolo di fiori per deporlo sulla pira di cremazione mentre non lontano un gruppo di bambini è intento a giocare e delle donne a cucinare, tutto immerso in un’atmosfera di serenità. Un’immagine dell’accettazione dell’essenza dell’esistenza. Cosa le è rimasto “dentro” dopo ogni suo viaggio e cosa l’ha colpita in maniera significativa? Di ogni luogo che ho visitato mi ha colpito la sua specifica energia, quel quid che una sensibilità esercitata e acuta può avvertire muovendosi in tanti am-
CHI È L’AUTORE Il dott. Salvatore Ragusa abita sul lago di Garda dove ha trascorso la maggior parte della propria vita personale e professionale come medico chirurgo. Nato nel Vicentino, nella prima infanzia si è trasferito con la famiglia a Milano, dove è cresciuto, ha completato gli studi universitari e ha iniziato a esercitare fino al definitivo spostamento. Accanto all’attività ospedaliera si è, fin dall’inizio, interessato ad altri settori della medicina meno istituzionali praticando tra l’altro l’agopuntura e la chiropratica. Appassionato viaggiatore, mosso da un interesse soprattutto rivolto alle culture più primitive e meno contaminate dalla globalizzazione, ha visitato vari paesi dall’Africa, all’Asia e all’America Latina osservando con particolare attenzione le diverse pratiche religiose fondate su una visione prevalentemente animista e pre-monoteista tuttora sopravvissute. A questi viaggi “di fuori” si sono accompagnati ancor più numerosi viaggi “di dentro”, formando un unico percorso di vita di cui questo libro è una testimonianza.
Uno sciamano durante una cerimonia
bienti diversi tra loro e che può essere percepita sia negativa che positiva. Nel primo caso potrei prendere ad esempio il quartiere di Belem a Iquitos in Perù dove misere baracche, costruite su palafitte per protezione dalle piene del fiume vicino, si alzavano su un terreno invaso da immondizie sotto lo sguardo di file di avvoltoi posati sui tetti, abitate da gente nei cui sguardi non si leggeva altro che ostilità. Nell’altro caso ricordo la profonda atmosfera di sacralità e pace che emanava nel luogo, in India, dove avvenne la prima predicazione del Budda, con lo sfondo delle grandi montagne e l’agitarsi delle multicolori bandiere di preghiera mosse dal vento. Il viaggiare ha affinato questa mia sensibilità che tale è rimasta qui nella quotidianità. Nei miei viaggi, conclude Ragusa, ho conosciuto la modernità del nostro mondo occidentale ma il mio interesse ha privilegiato i paesi e popolazioni lontane dalla nostra cultura dove spesso ho trovato una maggiore autenticità e vicinanza ai valori essenziali dell’esistenza che in parte noi stiamo perdendo di vista, affascinati dai nuovi idoli tecnologici.
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Una vita di guerra con i tumori di Stefano Chelodi
L’ospedale S. Lorenzo per 20 anni guida in questa lotta per l’intera europa
L
a nostra storia inizia quando un giovanissimo Claudio Valdagni, dopo il conseguimento della laurea di guerra ed un breve periodo presso l’Ospedale S. Chiara, iscritto alla specializzazione di radiologia a Padova, ritorna a lavorare presso l’Ospedale S. Lorenzo di Borgo Valsugana, dove era stato attrezzato un piccolo ambulatorio per le visite oncologiche. E qui, vedendo tante persone affette da queste terribili patologie, costrette a viaggi terribili stante la situazione delle strade, fino a Padova, comincia a costruire una prima struttura per l’utilizzo di Radium che riesce ad ottenere grazie
all’amicizia con Donna Francesca Degasperi. Il Radium che veniva gestito centralmente dallo Stato giungeva ai più importanti nosocomi in quantità minime e in quegli anni il S. Lorenzo riuscì ad avere più dotazione di radium di importanti ospedali. Nello scorrere del tempo Claudio Valdagni a Padova, all’interno del Dipartimento dove svolge la specializzazione, viene a conoscere una vicenda che lo colpisce. L’Università di Padova aveva scelto una nuova macchina che offriva possibilità straordinarie per la cura del tumore, basata sulla tecnologia del Cobalto 60 (cugina della tecnologia che diede vita alla bomba atomica), ma che a causa delle economie disastrate dalla guerra, non aveva possibilità di perfezionare l’acquisto della macchina. Valdagni decise di giocare una carta importantissima e che sarà decisiva per il
suo futuro e offrì l’opzione di acquisto al presidente dell’Ente Comunale di Assistenza di Borgo Valsugana da cui dipendeva l’Ospedale S. Lorenzo. Il presidente, Cappelletti già comandante partigiano, portò all’attenzione del sindaco Serafino Segnana la proposta. Il Sindaco anziché spaventarsi visto l’impegno, iniziò l’iter di valutazione per un così cospicuo acquisto. Superate varie difficoltà rimaneva una parte non secondaria dell’investimento, ovvero la preparazione della sede della macchina di telecobalto terapia nell’ospedale, lavori che ammontavano a circa 400.000 euro di valuta odierna e per i quali non c’era copertura finanziaria. Il sindaco Segnana però non si perdette d’animo e coinvolgendo 20 cittadini (tra cui lo stesso Valdagni) maggiormente benestanti, firmando una cambiale che venne utilizzata quale garanzia per aprire un fido in C/C, superò anche questo ostacolo. Avvolgendo il nastro della storia per
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Una vita di guerra con i tumori e contribuì a sostenere l’economia di Borgo Valsugana. In quegli anni e in quelli successivi l’Ospedale S. Lorenzo e Valdagni furono protagonisti in tutti i convegni e congressi mondiali a fianco dei più importanti ospedali e centri di ricerca mondiali costituendo davvero un miracolo. Nell’ospedale S. Lorenzo arrivò anche una seconda unità e in seguito anche altre apparecchiature di primo piano per la lotta ai tumori, anche sperimentali (acceleratori lineari). Valdagni entrò a far parte di organismi nazionali responsabili per il tumore al seno, così come un giovane Umberto Veronesi fu responsabile per il tumore alla prostata.
fare un po’ di riassunto, la Eldorado giunge al fine a Borgo Valsugana dal porto di Genova e scortata dalla polizia, ancorchè fosse priva di sorgente radioattiva e venne installata nel bunker che le sarà casa per gli anni successivi. Incredibile pensare che un piccolo ospedale, di una piccola borgata, di una piccola valle, di una piccola provincia d’Italia potesse adottare una macchina che era la seconda al mondo e dare così l’avvio all’ Era del contrasto alle neoplasie tumorali. Il Cobalto 60 generava un
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fascio di raggi sottilissimo che consentiva al chirurgo di colpire SOLO le cellule malate risparmiando i tessuti sani, cosa che fino a quel momento non era stato possibile e si bruciavano dunque tessuti sani e malati nello stesso modo convinti che più si bruciava più si sanava. Nonostante ciò la vita iniziale della Eldorado (bomba della salute nel libro della prof.ssa Ropele) non fu facile e neppure quella di Valdagni. La medicina ufficiale, i grandi “baroni” dell’epoca non volendo dare ragione e valore alla visione di un giovane medico di provincia, lo combatterono. Borgo Valsugana visse una vera epopea da quel 31 ottobre 1953, il reparto diretto da Valdagni (ma in cui operavano altri valsuganotti tra cui il dottor Caumo, il tecnico Voltolini figura chiave in tutta la storia ed altri) accolse una quantità di pazienti. Migliaia di persone arrivarono a Borgo Valsugana da tutta l’Europa con veri “viaggi della speranza” e il team di Valdagni lavorò h 24 per dare sollievo a tutte le richieste. Una vera economia basata sulla attività dell’ospedale fiorì
La particolare attività ed il successo dell’Ospedale S. Lorenzo e di Claudio Valdagni non passarono inosservati e crearono anche invidie professionali e strutturali. Nei primi anni ’70 cominciarono i contrasti con Trento che iniziò a rivendicare la necessità di avere sul suo territorio il Centro Tumori in sinergia con i moderni reparti presenti nel nuovo ospedale. La tensione crebbe e toccò punti alti contrapponendo le due comunità Trento a Borgo Valsugana, alla fine però prevalse anche con l’intervento della Provincia, la città di Trento e man mano macchinari e pazienti
Una vita di guerra con i tumori vennero trasferiti e nei primissimi anni ’80, all’interno del moderno ospedale S. Chiara, nel modernissimo reparto di oncologia di cui venne confermato primario Valdagni, si avviò l’attività della nuova struttura intitolata ad Angelo Giacomo Mott – il politico trentino che “inventò” il Ministero della Salute. L’inaugurazione del nuovo centro oncologico che aveva “copiato” procedura e struttura dai più moderni centri oncologici mondiali vide la presenza di personalità del mondo scientifico e politico e relatore nel convegno di inaugurazione, fu tra gli altri il prof. Umberto Veronesi. Avviata questa moderna attività, la “vecchia Eldorado” venne indirizzata alla rottamazione e solo l’intervento di un illuminato medico la fermò sulla strada di questa indegna fine e a seguire venne collocata nel parco di una villa nobiliare sulle colline di Trento, sede di una Istituzione Scientifica, e qui si innesta la storia più recente. Conoscendo questa epopea che segnò il volto di Borgo Valsugana e volendo tornare a valorizzare questa eccezionale pagina di storia trentina, nazionale ed europea, un gruppo di persone, tra cui alcuni autori di libri
sul fatto storico e scientifico, capitanati da Edoardo Rosso diedero vita ad una associazione – Borgo Valsugana F.O.R. (ovvero Future of Oncology and Radiotherapy) che aveva nel proprio oggetto sociale il recupero della macchina, ma anche la predisposizione di strumenti di conoscenza di quanto avvenuto. Nel frattempo, il Presidente della Repubblica, appresa la vicenda del prof. Valdagni attraver-
so il Libro “Caccia al Killer – Claudio Valdagni e il Trentino nella guerra ai tumori scritto e curato dal sottoscritto”, nominò “Motu Proprio” lo stesso Valdagni Commendatore al merito della Repubblica per benemerenze scientifiche e la onorificenza venne consegnata nel corso di un convegno organizzato dalla FOR con la presenza quali relatori del figlio Riccardo Valdagni e del figlio di Umberto Veronesi, Paolo. Sempre in quel tempo si venne a sapere che Claudio Valdagni era stato inserito in un museo in Germania, tra i “pionieri della Radioterapia”. Edoardo Rosso fu autore e proponente di una mozione in consiglio Comunale votata all’unanimità, che impegnava l’istituzione a recuperare l’unità di telecobaltoterapia per ridare valore e rilevanza a questa memoria storica, culturale e scientifica. Nel Comitato scientifico della F.O.R sedevano tra gli altri nomi di assoluto valore nomi come: dott. prof. Claudio Valdagni, dott. Prof. Umberto Veronesi, dott. Prof. Numa Cellini (oncologo del Santo Padre Giovanni Paolo II), dott. Marco Pierotti (direttore Scientifico Fondazione RCCS Istituto nazionale dei tumori), dottor Claudio Graiff primario di medicina oncologica presso l’Ospedale di Bolzano, Dott. Riccardo Valdagni Direttore radioterapia oncologica 1 Fondazione RCCS Istituto Nazionale dei Tumori, prof. Alessandro Quattrone (direttore CIBIO) ed altri prestigiosi uomini di scienza. Il direttivo di Borgo Valsugana F.O.R. era composta da: Edoardo Rosso (presidente), Claudio Valdagni (presidente onorario), Stefano Chelodi (vicepresidente curatore e autore di Caccia al killer), Giorgio Caumo (tesoriere), Ugo Simonetti, Marisa Chelodi
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Una vita di guerra con i tumori
(architetto progettista), Luigi Cima, Aldo Voltolini (mitico tecnico che accompagnò tutta la vicenda sin dai suoi inizi), Monica Ropele (docente di fisica e autrice del libro “L’Atomica della Salute”). Con un grande spirito di servizio e grande sforzo venne dato il via all’azione di recupero di Eldorado (il nome della unità di telecobaltotera-
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pia) che era nei giardini di un centro di ricerca di Trento, ed alla progettazione e realizzazione di un sito in cui esporre la macchina individuando il terreno. La fortuna aiuta davvero gli audaci, ed aiutò i membri di F.O.R. che grazie alla disponibilità della APSS (sia Trento che Borgo Valsugana) individuarono uno spazio idoneo presso l’Ospedale S. Lorenzo, inoltre l’allora assessore alla sanità Ugo Rossi in seguito Presidente della Provincia Autonoma di Trento, promise un sostegno economico alla iniziativa e sostegno reale fu. Alcuni progettisti si misero a disposizione gratuitamente per predisporre il progetto, la parte esecutiva e curarne la direzione lavori e furono davvero molto disponibili: Arch. Marisa Chelodi,(progettista),Ing. Mario Morandini, Ing. Bruno Moratelli, Ing. Pierluigi Coradello.(direzioni lavori). Grazie ad un enorme lavoro di Edoardo Rosso e Giorgio Caumo, il “museo” vide la luce e venne inaugurato e la “bomba” ottimamente restaurata, venne esposta, accompagnata da pannelli esplicativi. L’installazione, tra l’altro, progettata dall’ Arch. Marisa Chelodi, richiama proprio “il bunker”
dove l’unità era collocata all’interno dell’Ospedale. L’Associazione F.O.R. si è fatta anche promotrice di attività divulgative, che hanno tra l’altro portato ad includere Borgo Valsugana tra le “Città del Sollievo”, organizzata dalla Fondazione Ghirotti, che include tutte quelle città che si sono attivate e distinte nel “lenire” le sofferenze dei malati di tumore, ed oggi due targhe alle estremità del paese ricordano questo fatto. Per andare a chiudere, l’Associazione svolto il suo compito (recupero e posizionamento della Eldorado e divulgazione della storia di questo fatto eccezionale) è andata allo scioglimento, consegnando al Comune il sito museale, oggi incluso anche nella rete dei musei trentini, donando alla locale APSS quanto disponibile sul C/C, predisponendo una piccola pubblicazione ed approntando un programma di divulgazione nelle scuole medie della Valsugana. Certo di aver ottemperato fino in fondo al proprio impegno, il presidente Rosso con estrema commozione, in una assemblea sociale recente ha dichiarato chiusa l’esperienza della Borgo Valsugana Future of Oncology and Radiotherapy, ringraziando di cuore, Amministrazione, APSS, professionisti che hanno prestato l’opera, PAT e tutti i membri della Borgo Valsugana F.O.R. per l’impegno profuso a favore ed in favore del territorio, ma anche del recupero di una importantissima memoria storica, scientifica e sociale. L’Epopea del S. Lorenzo termina qui, ma continua la sua testimonianza di eccezionalità nella storia della medicina, dell’oncologia, ma anche nella storia italiana ed europea, in cui un piccolo ospedale, di un piccolo borgo, di una piccola valle, di una piccola provincia diede l’avvio ad una fase attiva e di speranza nella lotta alle neoplasie tumorali in un tempo in cui il vero nemico sembrava in realtà essere la fame e la povertà diffusa.
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Il Prof. Valdagni con Giorgio Caumo e Edoardo Rosso
Monica Ropele, il Prof. Valdagni e Stefano Chelodi
Il Prof. Valdagni con Il dr. Cima e Aldo Voltolini
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Uomo, ambiente, ecologia di Francesco Zadra
L’uomo che sussurra ai bambù
Yuri e la sua foresta L
avora, studia meccatronica ed è, al pari di molti coetanei, un convinto ecologista.Insomma, Yuri Teverini, classe ‘97, sembra un giovane come tanti. Ma dietro quel volto acqua e sapone Yuri nasconde un segreto. Riguarda le canne. Quelle di bambù. Per vederci chiaro ci dirigiamo sul lago di Caldonazzo, in località San Cristoforo, dove tutto ha avuto inizio. Lo troviamo impegnato a dissodare il terreno, un vecchio campo da quasi 2 ettari acquistato nel 2019, con tanto di indumenti da lavoro. Rigorosamente in fibra di bambù. Qui sta prendendo forma il suo sogno: “Logical Forest”. “L’idea della foresta nasce da una crisi esistenziale - racconta Teverini qualche anno fa ho iniziato a riflettere sull’impatto della nostra società sul pianeta. Un impatto molto negativo: inquinamento, consumo di territorio e allevamenti intensivi. Un disastro ambientale”. Yuri decide però di non lasciarsi abbattere e trasformare la crisi in opportunità. “Invece che prendermela con il mondo ho cominciato a pensare a cosa potessi fare io per cambiare le cose.” Così, tra un click e l’altro, ha scoperto su internet il mondo del bambù. Una vera e propria industria vegetale che, oltre ad assorbire tonnellate di anidride carbonica, dà lavoro a più di 1 miliardo e mezzo di persone. “È incredibile la quantità di cose che si possono realizzare con questa pianta: tisane, bioplastica, indumenti e perfino biciclette. Del bambù non si butta via niente.” I più golosi saranno felici di sapere che pure i germogli sono commestibili e hanno un gradevole sapore di carciofo.
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Ma la start-up di Teverini non si limita alla produzione agricola. Anzi, il cuore del progetto è soprattutto sociale: “voglio che la foresta diventi uno spazio di aggregazione, un luogo di Comunità” continua. Le oltre 900 piante di specie Moso e Sasa (che stanno crescendo a velocità impressionanti) faranno infatti da sfondo a un ricco palinsesto di attività sociali, che variano da laboratori per bambini a programmi occupazionali per persone in difficoltà. Una “foresta di persone” che avrà sempre le porte aperte, h24, per chiunque volesse visitarla e rilassarsi tra le sue fronde. A tal proposito Yuri sta progettando laghetti, aree sosta, sentieri e, perchè no, tavoli per studiare o fare smartworking. Ad aiutarlo, oltre ai volontari che di tanto in tanto fanno capolino per piantumare germogli, ci sono Claudio Valenti e Matteo Bruschetti. Rispettivamente educatore professionista e laureato in informatica. Grazie a loro “Logical Forest” si sta espandendo nel mondo del web, fondamentale soprattutto per raggiungere i giovani, e sta beneficiando di vari bandi pubblici
Le parole d’ordine sono quindi innovazione e lavoro di squadra: “ogni persona che verrà qui potrà dare il proprio contributo in termini di idee. Fino a un anno fa era visto come un progetto folle ma ora sono in tanti, anche da fuori regione, a contattarmi per chiedere informazioni e consigli”. Non è difficile credergli, perché tutti sono capaci di sognare ma sono pochi quelli che si rimboccano le maniche e si mettono in gioco. Teverini è uno di questi e in questo campo, ancora piuttosto spoglio, già vede il labirinto verde che di anno in anno andrà a creare. “Immaginate delle canne di 30 metri che vi isolano dal frastuono delle macchine e producono un suono magico a contatto col vento, un luogo verde in cui rilassarvi e perdere il senso del tempo…” A Yuri e alla sua foresta non ci resta che augurare buona fortuna. Dopotutto, il “green” non è forse il colore della Speranza? Potete contattare Yuri tramite mail logicalforest.tn@gmail.com o il sito www. logicalforest.webflow.io Per rimanere aggiornati sulla crescita del progetto seguite “Logical Forest” su Facebook e Instagram.
Salute & Benessere di Rolando Zambelli, titolare dell’Ottica Valsugana, è Ottico Optometrista e Contattologo
MONTATURE E LENTI PER BAMBINI...
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na scelta delicata I nostri occhi, e in particolare quelli dei bambini sono preziosi e sensibili. È quindi necessario proteggerli (con occhiali da sole con protezione UV) e nel caso di difetti visivi correggerli nel miglior modo possibile. Il primo passo nella scelta dell'occhiale, è quello di ricercare una montatura che sia adatta all'anatomia del viso, non deve perciò essere troppo grande, in modo tale da assicurare il miglior centraggio delle lenti: il margine superiore deve superare di poco il sopracciglio in modo tale che il bambino non sbirci al di sopra, il bordo inferiore non deve toccare le guance. Sopratutto in età pediatrica è
opportuno la scelta di una montatura in materiale plastico e anallergico, e che non presenti spigoli. La scelta poi del colore deve essere fatta insieme al bambino, più il colore piace al bimbo più lo indosserà volentieri. Il secondo passo è quello della scelta delle lenti. L’unico materiale consigliato è quello organico, ovvero plastica infrangibile, poiché offrono sicurezza e protezione, anche durante il gioco. Se è possibile è bene orientarsi su materiali che abbiano una protezione UV che hanno anche la qualità di
essere più resistente agli urti (es. lenti in materiale Trivex). Oltre alla scelta dei materiali delle lenti bisogna anche valutare il tipo di trattamento che queste devono avere. Un primo trattamento è quello indurente, che assicura una minor abrasione della superficie. Se il bambino è in età scolare è consigliabile utilizzare anche il trattamento antiriflesso, che diminuisce l'affaticamento del bambino durante lo studio, oltre ad aumentare il contrasto e a rendere la lente molto più trasparente. Sopratutto in età scolare è consigliabile tenere sotto controllo i bambini, con visite programmate annualmente, per esempio prima dell'inizio della scuola ed eventualmente durante l'attività scolastica, per controllare come il sistema visivo funzioni sia sotto sforzo che in momenti di riposo. I bambini, passano molto tempo all'aria aperta, sarebbe quindi consigliabile l’utilizzo degli occhiali da sole protettivi così da diminuire l'influenza dannosa dei raggi UV per gli occhi.
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Medicina & Salute di Laura Fratini
Pronti, attenti, via: liberi tutti!
MA NON ESAGERIAMO!
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a libertà è come l’aria: ci si accorge del suo valore quando comincia a mancare. Lo ha scritto Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti della nostra Nazione e un uomo che ha vissuto sulla propria pelle la privazione della libertà. Certo quella che stiamo vivendo non è una situazione paragonabile a quella di poco meno di un secolo fa, ma per la nostra generazione è certamente la prima volta che si prova una esperienza di questo tipo. La pandemia ci ha posto di fronte a limitazioni collettive e individuali che prima d’oggi solo pochi, nella nostra società, avevano provato e questo ha inevitabilmente delle conseguenze sia nel rapporto con gli altri, sia nella propria sfera emotiva. Se guardiamo la definizione più generica, la “libertà” è intesa come la condizione per cui un individuo può decidere di pensare, esprimersi e agire senza costrizioni, ricorrendo alla volontà di ideare e mettere in atto un’azione, mediante una libera
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scelta dei fini e degli strumenti che ritiene utili a realizzarla. Un modo un po’ complicato per dire che una persona libera è una persona che può essere sé stessa, vivere in base alle proprie scelte, almeno finché questo non interferisca con la libertà di qualcun altro. Il desiderio di libertà personale, per l’essere umano, ha sempre costituito uno dei motori più importanti alla base del desiderio di miglioramento delle proprie condizioni esistenziali e il problema della libertà personale, con riferimento prevalentemente alle condizioni di vita di un adulto occidentale moderno, si è notevolmente modificato nel corso del tempo. Si è passati, infatti, da una condizione in cui la libertà era qualcosa da conquistare nei confronti di una volontà altrui, ad una realtà in cui il bisogno di liberare sé stessi ed il proprio potenziale creativo si scontra per lo più con i limiti ed i blocchi che poniamo a noi stessi. Il concetto di libertà parte con l’inizio della vita e ci accompagna per
l’intera esistenza, ma l’uomo di molti anni fa non è l’uomo di oggi e così anche la libertà personale è cambiata nei secoli. Spesso, però, la libertà di ogni individuo è vincolata da dogmi e leggi interne all’individuo stesso che derivano da una educazione personale (familiare, esperienziale) della quale talvolta rimane vittima. Freud, padre della psicanalisi, affermava proprio questo: “siamo consciamente confusi e inconsciamente controllati”, ribadiva la sua convinzione circa la ben poca possibilità per l’uomo di svincolarsi da un “destino” che lo vedrà diventare un prodotto di ciò che l’ambiente ha fatto di lui. Oggi però, ad un anno dall’inizio della pandemia, il lockdown, le zone rosse ci hanno messo davanti proprio alla rivalutazione del concetto di libertà che molti non avevano mai messo in discussione. Proprio come ha scritto Calamandrei, improvvisamente ci siamo trovati senza aria. E’ difficile prendersi delle responsabilità collettive che limitano la libertà personale
Medicina & Salute e intorno a questo si muovono tutte quelle emozioni di rabbia, tristezza e angoscia. In questo anno in molti hanno dovuto imparare a mettersi nei panni dell’altro, ma è tutt’altro che facile e la parola empatia spesso viene abusata, senza saperne neppure il vero significato, ovvero quello di entrare in contatto e condividere le emozioni di chi ci è vicino, molto spesso la sofferenza. Chi è riuscito ad accettare questa condizione, ad accettare le limitazioni consapevole che sono state dettate dal benessere collettivo, e alzando di conseguenza la propria soglia di tolleranza, sta vivendo con più serenità una condizione che comunque porta a vivere anche emozioni negative. Sono sentimenti normali a fronte di una situazione che ci sta mettendo duramente alla prova. Non è facile accettarlo ed è probabile che durante questo periodo alcune emozioni si esasperino, arrivino a farci provare
una frustrazione che può diventare dannosa per noi e per chi ci sta vicino. Per questo occorre imparare ad automonitorarsi e non perdere di vista l’obiettivo comune che ci potrà portare alla fine del tunnel.
E’ anche vero, d’altra parte, che c’è chi, vivendo già prima problematicamente la quotidianità, in questa situazione ha potuto ritrovarsi in una dimensione di confort, perché si è sentito “protetto” dal confronto e dal contatto dagli altri. Ora che i muri cominciano a cadere, di fronte all’aumento delle vaccinazioni e al calo dei contagi, dobbiamo essere attenti a non spingerci troppo in là, a non esagerare con la voglia di manifestare la nostra libertà ritrovata, a non spingerci oltre quei confini che il buon senso ci dice essere ancora presenti per poter avere un futuro migliore. Psicologicamente può essere difficile, perché come l’assettato d’aria respira profondamente per recuperare l’ossigeno mancante, ora avremmo voglia di evadere e sentirci ancora più liberi! Attenzione però a non esagerare: non dobbiamo mai dimenticare che la nostra libertà deve fermarsi dove inizia quella del nostro vicino e che è nell’equilibrio delle emozioni che possiamo trovare il nostro benessere! Dott.ssa Laura Fratini Psicologa-Psicoterapeuta Studio, Piazzale Europa, 7 - Trento Tel. 339 2365808
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C
on il termine parafarmacia si intende un’attività commerciale, presso la quale è possibile acquistare farmaci, parafarmaci e prodotti farmaceutici, da banco o di automedicazione, comunemente chiamati OTC e SOP, per i quali non esiste l’obbligo di presentare apposita prescrizione medica. E quindi la differenza tra una farmacia e una parafarmacia consiste nel fatto che mentre nella prima si possono vendere farmaci soggetti a prescrizione medica e tutti i prodotti da banco (anche senza ricetta medica), nella parafarmacia l’attività di vendita può riguardare farmaci e/o medicinali presenti nell’elenco del Ministero della Salute e tutto ciò che comprende prodotti per la cura, bellezza e benessere del corpo, che non necessitano di prescrizione medica.
Presso il Centro Commerciale “Le Valli” di Borgo Valsugana, opera dal 2016, “Il Farmacista del Centro”, che è l’unica
Lunedì: 15.00 - 19.30 Martedì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Mercoledì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Giovedì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Venerdì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30 Sabato: 9.00 - 19.30 (continuato) Domenica: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30
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parafarmacia in Bassa Valsugana per la vendita di medicinali e prodotti da banco senza l’obbligo di ricetta. Una particolare struttura, inaugurata da CaKu Erida, che del “Il Farmacista del Centro, è la competente titolare, che in pochi anni ha saputo dare una particolare impronta al “suo” negozio riuscendo, sempre di più, a soddisfare chi si rivolge a lei con specifiche richieste ed esigenze, anche particolari. Il tutto grazie alla presenza, al suo interno, di collaboratori farmacisti regolarmente iscritti all’Ordine Nazionale. Un comodo punto di riferimento e una organica funzionale esposizione per l’acquisto, oltre che di prodotti farmaceutici, anche di moltissime specialità quali: integratori alimentari, prodotti erboristici e fitoterapici, farmaci omeopatici, farmaci veterinari (senza obbligo di prescrizione), prodotti cosmetici, con una particolare linea adatta al trattamento di problematiche cutanee e anche anallergici. E ancora, oli essenziali, articoli sanitari, di alimentazione, prodotti per l’infanzia, per il bambino e per l’igiene, (compresa la foratura dei lobi), e un completo e vastissimo assortimento di creme solari, protettive, abbronzanti e dopo sole. (P.R.)
Tempo d’estate in collaborazione con il "Farmacista del Centro"
Sole, lago, mare e abbronzatura
L’
abbronzatura è quel particolare fenomeno, naturale o artificiale, mediante il quale la nostra pelle si scurisce per effetto della esposizione ai raggi ultravioletti (UV) provenienti dal sole o a quelli della luce artificiale generati da lampade al quarzo o altre fonti. E il corpo diventa abbronzato in quanto avviene un maggiore rilascio e quindi produzione di un pigmento detto melanina che ha la precipua funzione di proteggere la nostra epidermide dai raggi solari, specialmente da quelli dannosi. E’ bene ricordare che una lunga esposizione ai raggi solari può causare un danneggiamento alla nostra pelle e determinare quindi la comparsa di patologie più o meno gravi quali eritemi, scottature anche serie, cheratosi, danni agli occhi, invecchiamento precoce della pelle, disturbi del sistema immunitario. Ma il pericolo più grave di una esposizione non controllata ai raggi del sole non solo può causare l’invecchiamento della pelle, ma soprattutto la formazione di lesioni precancerose che nel tempo possono causare la comparsa di tumori della pelle tra i quali il melanoma che, purtroppo, può causare anche la morte. Oggi noi distinguiamo 3 tipi di raggi UV e precisamente: gli UVA, ultravioletti A, che costituiscono circa il 95% dei raggi che raggiungono la superfice terrestre. Sono quelli meno “potenti”, ma non per questo meno pericolosi, ed agiscono in profondità della pelle. Gli UVB, ultravioletti B, circa il 5% molto più dannosi degli UVA perché agiscono in superfice e quindi possono generare disturbi, anche seri, patologie varie, ma anche molti tumori della pelle. Infine gli UVC sono particolarmente dannosi perché possiedono un potere cancerogeno. Per fortuna questi raggi vengono trattenuti e assorbiti dalla fascia di ozono, dall’ossigeno e dall’azoto presenti nella nostra atmosfera e per questo non hanno
effetti particolari sulla pelle, tranne che in alta quota. Ecco perché è necessario non solo abbronzarsi lentamente e con cautela ma anche e principalmente proteggere la nostra pelle dall’incidenza dei raggi UV. Purtroppo i raggi solari non si vedono e non fanno rumore, ma alla lunga possono creare danni cutanei che si possono manifestare anche a distanza di moltissimi anni dopo l’esposizione. La moderna cosmetica e le ricerche farmaceutiche mettono a nostra disposizione moltissimi prodotti per ogni tipo di esigenza e per ogni tipo di pelle e di corpo quali creme più o meno potenti, olio, latte, gel, spray, acqua solare nonché sostanze specifiche dopo sole e idratanti. Il consiglio degli esperti è quello di non esagerare con l’esposizione al sole, e la quantità di tempo, ma farlo in maniera intelligente. Intanto è bene proteggere sia il capo con un cappellino che gli occhi con occhiali. Di poi è bene sapere che bisogna evitare di farlo nelle ore calde 12/15 (da preferire la mattina presto fino massimo alle 11 e pomeriggio dopo le 16/17) ricordandosi anche che ci si può abbronzare rimanendo sotto l’ombrellone o in zona d’ombra. La cosa più importante
da fare, però, specialmente nei primi giorni, è quella di proteggere (anche abbondantemente) la pelle con apposite creme solari che abbiano un fattore protettivo di 15/20 o anche di più, e che siano, possibilmente, a doppia protezione, sia nei confronti dei raggi UVA che di quelli UVB. Creme che devono essere sempre usate non solo per garantirsi una buona abbronzatura e protezione, ma anche e soprattutto per evitare di arrecare danni, anche seri, alla pelle. Ed è buona regola quella di spalmarsi, alla sera, una crema “doposole” idratante o emolliente in quanto i raggi del sole determinano una “secchezza” della pelle che nel tempo può creare patologie epidermiche. In ogni caso è da evitare sempre il famoso “fai da te” e quindi buona cosa è rivolgersi a medici, dermatologi, farmacisti e/o esperti i quali saranno in grado di dare i giusti e appropriati consigli sul tipo di creme e di specifiche protezioni da utilizzare in base al tipo di pelle. (A.M.)
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Medicina & Salute di Erica Zanghellini
GROOMING Pericolo per i minori I
l grooming è un fenomeno con cui purtroppo dobbiamo fare i conti, soprattutto negli ultimi anni visto che la nostra società è sempre più tecnologica e soprattutto perché già da piccoli se ne viene in contatto. Grooming significa adescamento in rete, ovvero quando persone adulte manifestano un interesse sessuale nei confronti di minori e cercano di approcciarsi online con loro per poi arrivare ad incontrarli dal vivo e instaurare una vera e propria relazione. E’ una possibilità reale e molto rischiosa ed è per questo che è importante conoscerlo come genitori per poter a nostra volta mettere in guardia i nostri figli. La rete se da una parte è una enorme risorsa, dall’altra è uno spazio dove non sempre tutto quello che vediamo corrisponde a verità. Si può fare un uso inadeguato di internet che espone la persona o il minore a potenziali pericoli. Può essere che anche i giovani siano alla ricerca di stimoli legati alla sessualità e questo li esibisce ancora di più alla possibilità di incappare in situazioni pericolose, ed è per questo che è importante fornirgli una educazione adeguata rispetto l’affettività e la sessualità. Solo conoscendo un argomento si può scegliere consapevolmente, quello che è giusto e quello che invece è meglio evitare. Ricordiamoci che una delle “aggravanti” della rete è che non si può essere sicuri di chi ci sia dall’altra parte del computer, per cui si sono verificati e si verificheranno ancora, purtroppo, adescamenti dove
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il mal intenzionato si fingerà un minore. Il ragazzo o ragazza che si trova per esempio a chattare e che pensa che dall’altra parte ci sia un suo pari si sentirà più libero/a di dire e mostrarsi come vuole. Il problema è che alcuni minori non hanno la forza magari dopo una frequentazione online di chiudere o chiedere aiuto quando vengono a sapere la verità. Dobbiamo avere in testa che possono esserci richieste di scambio di materiale fotografico o riprese con la webcam, è questo li metterà in situazioni ad altissimo rischio e che possono lasciare delle ripercussioni psicologiche importanti nella vittima. Spesso la vittima non ha nemmeno in testa di esserlo, non riesce a capire
che il rapporto che si è instaurato è sbagliato, in alcuni casi non riesce nemmeno ad identificare che la sua volontà nel partecipare a questo tipi d’incontri venga meno, ma che sia sollecitata attraverso artifici, minacce o dall’altra parte lusinghe. Questo è l’adescamento e ricordiamoci che è un reato, è punito dal codice penale. Il materiale prodotto non possiamo sapere che fine farà, potrebbe essere venduto,scambiato, o usato per attirare altre vittime se non utilizzato per ricattare ancora il minore e ottenere di più. La vergogna, il senso di colpa inevitabilmente fanno capolino nei ragazzi adescati e possono essere i due motivi per cui non riescono a parlare e/o confidarsi con i loro adulti
Medicina & Salute di riferimento rimanendo schiacciati in questo meccanismo e soffrendo terribilmente. Non pensiamo che a questo tipo di pericolo siano esposte soprattutto le ragazze, anzi possono essere a rischio molto di più i ragazzi maschi, soprattutto quelli disorientati rispetto la propria identità e/o orientamento sessuale. Ma quindi cosa possiamo fare per proteggere i nostri ragazzi? Cerchiamo di coltivare una relazione con loro basata sul dialogo. Partiamo già da quando sono bambini, a parlare con loro e ad interessarci della loro giornata, così che anche durante l’adolescenza sarà più facile portare avanti quest’abitudine. Evitiamo in tutti i modi d’essere giudicanti, ma puntiamo ad una relazione accogliente, ricca di scambi e condivisioni. Attenzione a non fare l’errore di diventare troppo controllanti.
Se l’adolescente si sente sotto controllo e pressato sarà facile che cerchi di evitarvi. Bisogna dosare la giusta quantità di controllo e di libertà. Individuiamo assieme delle regole, su come comportarsi, su come utilizzare la rete e i tempi d’impiego. Asseconda dell’età possono essere o meno condivise le regole, ma comunque deve essere sempre il genitore ad avere la decisione finale. Non facciamo leva sulla paura dello sconosciuto, ma informiamoli invece, su cosa può succedere, sui rischi e che questi sono il motivo per cui noi genitori mettiamo dei paletti. Ulteriore passo sempre sulla linea dell’informazione, come accennato sopra è fare una buona educazione sentimentale, emotiva e sessuale. Averla ricevuta adeguatamente, rende i ragazzi più sicuri e soprattutto li protegge da possibili comportamenti impulsivi
dettati dagli istinti dalla loro età. Aver ben chiaro come funzionano le cose li potrebbe proteggere ulteriormente perché hanno in testa quello che è lecito e quello che invece potrebbe essere un pericolo o un tentativo di manipolazione. Ed infine se vi accorgete che avete a che fare con l’adescamento, fermatevi e chiamate chi di dovere, la Polizia Postale, il Commissariato di Polizia di Stato o i Carabinieri, tenete traccia di tutti gli scambi che ci sono stati tra vostro figlio e l’adescatore e chiedete un supporto psicologico per voi e il minore.
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In collaborazione con Chiara Giaccio - Koru Bar - Borgo Valsugana
NEGRONI: il cocktail italiano famoso in tutto il mondo
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l Negroni è un cocktail italiano alcolico amato in tutto il mondo ed è riconoscibile dal colore arancio scuro e dal gusto particolare e unico: il gusto dolce del vermut rosso incontra quello amaro del bitter e il retrogusto forte del gin in una miscela eccezionale di sapori che lo rende ancora un drink richiestissimo. La sua storia comincia nel 1919 a Firenze quando il conte Camillo Negroni, abitudinario del Caffè Casoni, abbandonò il suo abituale aperitivo, l'Americano, e chiese al barman, tale Folco Scarselli, una spruzzata di gin al posto del consueto seltz. Questa variazione piacque talmente tanto alla clientela che, da quel momento,
il cocktail Americano cominciò a chiamarsi "l'Americano alla maniera del conte Negroni". Così nacque il Negroni, arrivato sino a noi, a base di bitter Campari, vermut e gin con la classica fetta d'arancia, uno degli aperitivi più alcolici tra quelli conosciuti. La variante più famosa è il Negroni “Sbagliato”, dove si sostituisce il gin con lo spumante Brut e fu inventato dal Bar Basso, in via Plinio a Milano. Va citato, inoltre, il Negroski che presenta la vodka al posto del gin ed è molto meno aromatico e più leggero. Se cercate, invece, un gusto meno aspro al palato, chiedete un Bencini, variante del Negroni con il Rum bianco al posto del gin.
Per preparare il cocktail versate del ghiaccio in un tumbler basso o in un old fashioned fino a riempirli completamente, scolate l'acqua e aggiungete 1/3 di gin, 1/3 di bitter Campari e 1/3 di Vermut rosso. Mescolate gli ingredienti delicatamente, per 20/30 secondi, e guarnite con una fetta d'arancia.
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In collaborazione con Pizzeria Vintage – Borgo Valsugana
LA PIZZA, italianità nel mondo
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uando si parla di pizza, la nostra mente identifica una particolare specialità definita come un prodotto gastronomico di origine napoletane. Un particolare piatto conosciuto oggi in tutto il mondo e che rappresenta l’italianità culinaria nel mondo. In assoluto, le prime attestazioni scritte della parola "pizza" risalgono al latino volgare della città di Gaeta intorno all’anno 997. Un successivo documento, scritto su pergamena d'agnello, di locazione di alcuni terreni e datato sul retro 31 gennaio 1201 presente presso la biblioteca della diocesi di Sulmona-Valva, riporta la parola "pizzas" ripetuta due volte. La pizza, per come la intendiamo noi,
ha una storia lunghissima che sembra iniziare agli inizi del XIX secolo. E’ vero che alimenti simili a focacce erano già conosciuti presso gli Egizi e i Greci, ma nulla avevano a che fare con il piatto più consumato dagli italiani che per essere tale deve presentare alcune e indispensabili caratteristiche: pasta tondeggiante, pomodoro fresco, mozzarella (necessariamente di bufala) e basilico. Nel tempo e con il passare degli anni,però, a questi ingredienti sono stati aggiunti altri alimenti per migliorarne sia il gusto “personale” e sia per offrire maggiori possibilità di scelta al consumatore. Oggi sono numerosi i tipi di pizza che non solo prendono il nome dagli ingredienti usati, ma anche dalla forma della
pasta data dal pizzaiolo. Si hanno quindi pizze tonde, pizze al taglio (di forma rettangolare), pizze al metro (venduta appunto in lunghezza stabilita) e le focacce che vengono cotte, specialmente nel meridione, dentro particolari contenitori di alluminio o metallo con l’aggiunta anche di verdura e insalate varie.
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Storie di casa nostra di Nicola Maschio
La storia (mai raccontata) di Xiaorong Li e del suo Giardino di Giada
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Pergine Valsugana è difficile trovare qualcuno che, almeno una volta, non abbia detto “Stasera a cena andiamo dal Li!”. Il suo Giardino di Giada, ristorante cino-giapponese, è diventato nel tempo un vero e proprio punto di riferimento per tutti: da Caldonazzo a Levico, da Civezzano a Madrano. Tuttavia, pochissimi conoscono la storia di Xiaorong Li, originario della provincia di Zhejiang vicino a Shanghai e con una laurea alla facoltà cinese di Lettere. Sposato, con un figlio, e capace di parlare tre lingue (oltre al cinese anche l’inglese e l’italiano), quello che tutti conoscono semplicemente come “il Li” ha deciso di raccontarci la sua storia. Li, partiamo dal principio: come sei arrivato in Italia? Devo dire che è davvero successo tutto per caso. Dopo le manifestazioni di piazza Tienanmen, tra l’aprile ed il giugno del 1989, mi sono trasferito in Australia per frequentare una scuo-
In quegli anni però il regime cinese era abbastanza duro, quindi non mi hanno fatto rientrare con facilità. Ho dovuto aspettare parecchio e rivolgermi anche alla sede di Roma. Mentre aspettavo di ottenere un nuovo passaporto, ho trovato lavoro a Milano nella cucina di un ristorante cinese dove ho lavorato dal ‘91 al ‘93, spostandomi poi fino al ‘97 al servizio di sala. Stavo però cercando di aprire una mia attività.
la privata dopo la laurea in Lettere. All’inizio degli anni ‘90 ho deciso di fare un viaggio in Europa, passando per Francia, Svizzera, Austria e Inghilterra. Ma una volta atterrato a Ginevra, sono stato derubato: mi hanno portato via valige, soldi e passaporto. Non sapendo come tornare in Australia, ho chiesto aiuto ad un mio amico in Italia, a Milano, sperando di poter risolvere tutto al Consolato.
Poi cosa è successo? Un amico di un mio amico mi ha detto che, proprio a Pergine, un nuovo ristorante cinese cercava qualcuno che sapesse parlare bene l’italiano. Io avevo già deciso di restare in Italia anche perché mi ero sposato e avevo avuto un figlio, quindi mi sono offerto. Era la primavera del 1998 e, dopo 10 giorni a Pergine tra marzo e aprile, sono tornato a Milano. Qualche mese dopo, in giugno, il titolare di questo ristorante mi ha chiamato dicendomi
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Storie di casa nostra che non riusciva più a proseguire, dato che nessuno di loro parlava italiano. Mi ha chiesto se ero interessato a gestirlo io, ed ho accettato: credevo che fosse un’ottima zona, anche se in quegli anni Pergine contava circa 10mila abitanti. Nel settembre del 1998 ho cominciato ufficialmente la mia nuova vita qui. Una vita completamente diversa rispetto a quella milanese… Si, all’inizio per me è stato come andare all’estero. Non ero abituato ad un paese così piccolo, con una cultura diversa. Appena arrivato ho allargato il ristorante e, fortunatamente, ho sempre avuto il sostegno di tanti amici e parenti. Ormai Pergine è casa mia, come l’Italia: quando tra il 2006 ed il 2010 ho gestito anche un secondo ristorante a Trento, ho sempre detto a tutti che ero pergine-
se. Nel 2014, inoltre, ho ottenuto la cittadinanza italiana. Ma non ti manca la Cina? Certamente. Mi manca soprattutto perché ho lì genitori e parenti, quindi senza dubbio c’è nostalgia. Ma ogni anno, e spero riprenderò dopo la pandemia, torno a trovarli. E loro sono venuti più volte qui. Il mondo di oggi non è cosi “lontano”, è facile spostarsi e viaggiare. A dimostrazione del tuo attaccamento a Pergine, lo scorso anno hai anche donato delle mascherine alla città Si è vero, ma l’ho fatto con piacere. E spero che il Giardino di Giada, anche quando andrò in pensione, rimarrà il “ristorante del Li”, un punto di riferimento che ormai è storico per Pergine.
Un’ultima considerazione: che rapporto c’è tra gli italiani e il cibo cinese? È vero, tante persone pensano che i cinesi mangino cose completamente diverse. Anni fa, i nostri piatti venivano scelti una volta ogni tanto, ma oggi sono popolari quasi come la pizza. Si tratta di una grandissima differenza rispetto a vent’anni fa: ora abbiamo molti clienti con più di 70 ed 80 anni, che si avvicinano a questo mondo con curiosità. Il 60-70% di loro vuole cibo cinese più che quello giapponese: dal riso ai gamberi, provano qualsiasi cosa e cercano subito di assaggiare i nuovi patti. È quasi come una moda, un cibo divenuto “classico”. Significa che il mondo si sta evolvendo, sta cambiando molto velocemente e ormai la cucina cinese è tra le più importanti al mondo. Proprio come quella italiana.
centro rottamazione veicoli
alta valsugana Via al Dos de la Roda, 24 | 38057 | Pergine - Fraz. Cirè | tel. 0461 531154 | fax. 0461 539410
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Novaledo in cronaca di Mario Pacher
LA TORRESELA
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ella zona Ovest di Novaledo, a poche decine di metri dal confine con il comune di Levico, esiste un fabbricato oggi quasi del tutto abbandonato, chiamato la “Torreséla.” La sua forma è quadrata, alta e stretta, proprio come una torre e merita di essere ricordata anche perché contiene una simpatica e forse anche buffa pagina di storia. La struttura è antica di parecchi secoli ed i proprietari inizialmente, per quanto si sa, erano i signori Villi di Borgo Valsugana. Poi nel 1863 passò in proprietà dei fratelli Bertoldi di Lavarone, che assieme i fratelli Giongo acquistarono più di 40 ettari di suolo. Il piano terra di questa torre, in un tempo ormai lontano, era adibito a stalla per i cavalli mentre il piano superiore costituiva l’alloggio del cocchiere, sempre pronto con la sua carrozza al trasporto dei signori. In tempi più recenti i discendenti Bertoldi di Maso San Desiderio, la usavano solo come luogo di deposito occasionale dei prodotti della terra. Fra la popolazione locale un tempo era diffusa la convinzione che la Torresèla fosse posseduta dai fantasmi e per questo la gente aveva paura ad avvicinarsi. Qualcuno affermava anche di aver visto, di notte, all'interno, delle luci muoversi e per di più di aver udito anche strani rumori. I contadini che in quella zona possedevano i loro fondi e che quindi dovevano transitare nei pressi della Torresèla, mantenevano le debite distanze da quel fabbricato e si sentivano tranquilli solo quando erano passati oltre. Una sera, sul finire del secolo scorso, un contadino del luogo di nome Giuseppe ma soprannominato “Bepi Bepéto”, si era intrattenuto fino a tarda ora per com-
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pletare alcuni lavori nel vigneto poco distante da quel misterioso fabbricato. Ormai era giunta la notte e per rincasare bisognava passare proprio lì davanti e così per guadagnare tempo e anche per farsi coraggio, si mise a camminare di buona lena, quasi di corsa. Arrivato là davanti si fermò per un istante, e, fra curiosità e paura, aguzzò l'orecchio per sentire se davvero dall'interno provenissero dei rumori. Nel silenzio della notte gli parve davvero di udire uno strano fracasso. L'uomo allora iniziò una grande corsa “a gambe levate” come si usa dire, per raggiungere in fretta la sua abitazione che distava non più di 300 metri, ma più correva e più lo strano rombo si faceva sentire e sembrava sempre più vicino. Raggiunse senza fiato l'uscio di casa e stramazzò a terra mentre gridava “aiuto.... gli spiriti, me è corésto drìo i spiriti della Torresèla e i m'à quasi ciapà”. Accorse in suo aiuto la moglie Marietta cercando in tutte le maniere di calmarlo e di rincuorarlo, ma non vi fu modo di tranquillizzarlo. Ripresosi dallo shock, il mattino successivo il Bepi, per rendersi conto di quanto accaduto, ritornò sui suoi passi, questa volta però in compagnia di un amico e sembra anche armato di un vecchio fucile anticarica. Avvicinatosi con tanto timore a quella torre maledetta, trovò lì davanti, in quel preciso luogo dove la sera prima si era fermato e che aveva sentito i primi strani rumori, il turacciolo ( fatto di “zigòtolo” così era chiamato ) che copriva la zucca che un tempo si usava come fiasco, e che lui era solito avere attaccata alla cintura con dentro qualcosa da bere per dissetarsi durante le lunghe ore di lavori nei campi. Pensa, studia, medita e
riprova, finalmente il “Bepi Bepéto” riesce a dare una spiegazione logica e rassicurante: Quella sera del terrore tirava un forte vento e mancando il tappo alla sommità della zucca, il soffio dell'aria produceva uno strano fragore che assomigliava al sibilo. Con la velocità della corsa poi la forza del vento aumentava accentuandone il fischio cosicchè i presunti fantasmi gli sembravano sempre più vicini, proprio alle sue spalle. Ci volle del tempo, ma una volta chiarito l'equivoco, sia pur lentamente, il trauma venne superato. Ma al di là di questo episodio dai risvolti buffi, la Torresèla continua anche oggi ad essere considerata luogo misterioso. Sono pochi coloro che la credono occupata dai fantasmi, ma nessuno ama avvicinarsi di notte per una passeggiata rilassante. L'avventura di Bepi Bepéto, a distanza di oltre un secolo, viene ricordata ancora in paese non tanto come fatto storico ma come simpatico aneddoto per una ventata di buon umore.
Torresel
Le leggende della Valsugana di Andrea Casna
CALDONAZZO le due città scomparse
Un tempo lontano e remoto, nella parte della Valsugana oggi bagnata dalle acque del lago di Caldonazzo, si trovava una bella e verde vallata con due ricche città: Susa e Caldón. Gli abitanti di Susa e Caldón erano ricchi e benestanti. Tutti vivevano in belle a grandi case di pietra e marmo. I più ricchi in sontuosi palazzi. La gente passava gran parte del tempo a crogiolarsi nell’ozio, fra feste e banchetti che duravano tutta la notte, a bere vino e mangiare del buon cibo. Gli abitanti erano famosi per essere avidi e per nulla caritatevoli. Persino i sacerdoti erano avidi e guai al poveraccio che avesse solo pensato di bussare alla porta della sacrestia per chiedere un solo pezzo di pane. Susa era protetta da un’alta e possente cinta muraria. Gli abitanti non volevano, infatti, vedere circolare per le vie e nelle piazze poveri e vagabondi. Ai quattro ingressi guardie armate, ben pagate, presidiavano giorno e notte il perimetro affinché nessun mendicante potesse entrare a disturbare la ricca gente di Susa. Un giorno si avvicinò, ad uno degli ingressi, un povero mendicante in cerca di un tetto e di una zuppa calda. Non fece in tempo ad avvicinarsi alle mura. Due guardie armate, con spade e lance scintillanti, giunte dinanzi a lui lo fermarono bruscamente facendolo cadere a terra. «Vattene vecchio -urlò uno di loro- qui non c’è posto per te». «Tornatene da dove sei venuto -disse l’altro- e non farti più vedere». «Ma io non sto facendo nulla di male -disse il povero mendicante in ginocchio. Cerco solo un tetto sopra la testa per la notte e una zuppa calda». «Ti
abbiamo detto che qui non ti vogliamo. Prova ad andare a Caldón...forse lì saranno più misericordiosi di noi». Il vecchio mendicante si alzò in piedi e si diresse, a malincuore, verso la vicina città di Caldón. A differenza di Susa, Caldón non era protetta da mura e quindi poté arrivare fino alla piazza della chiesa. Lì chiese ad una giovane donna un tozzo di pane ma fu subito fermato da due guardie armate e ben protette da armature scintillanti. «Vattene poveraccio -dissero in coro di due gendarmi. Qui non sei il benvenuto». Lo presero di forza e lo trascinarono fuori dalla città. A quel punto, triste affamato e infreddolito, il povero mendicante si diresse verso la Marzola. Appena imboccata l’antica strada, che oggi conduce al passo, notò una piccola e umile casetta appena fuori dal bosco. Era in pietra e in legno, con annessa una piccola stalla con pollaio. E poco distante un orticello. Dal camino fuoriusciva un esile fumo. Il nostro povero mendicante tentò la sorte. Giunto sull’uscio busso alla porta. Ad aprire fu una donna. «Buongiorno -disse la donna con voce gentile. Avete bisogno?». «Sì – disse il mendicante. È tutto il giorno che cerco un piatto caldo e un luogo dove passare la notte. Sono stato cacciato da Susa e Caldón. Sono stanco e affamato». «Mi spiace tanto -disse la donna. Non dovrebbe essere stato facile per voi, signore, affrontare gli abitanti di Susa e Caldón. Su venite dentro. Non ho moto da offrire. Sono vedova e vivo con il mio piccolo figlio. Ho soltanto un mucca per il latte, un piccolo orto e due galline per le uova. Ma in
qualche modo facciamo». I quattro divisero una tazza di latte caldo, un paio di uova e un tozzo di pane. Giunta l’ora di andare a dormire, la donna accompagnò il mendicate alla stalla: «vi posso mettere qui per la notte perché in casa non ho posto. Però la paglia è comoda e la stalla è calda». «Vi ringrazio per l’ospitalità -disse il mendicante. Siete una persona buona. Questa notte succederà qualcosa di tremendo e spaventoso. Qualunque cosa accada, però, non aprite per nessun motivo la finestra». Arrivò la mezzanotte e il cielo diventò nero. Un forte vento invase la valle e un forte temporale iniziò ad abbattersi su Susa e Caldón. I tuoni scuotevano le foreste e i fulmini illuminavano la notte nera. I fiumi in piena travolsero le mura, le case e le chiese delle due città. La vedova e i figli erano tentati di aprire la finestra per vedere la distruzione delle due città. Ma non lo fecero. Al mattino un grande lago copriva l’intera vallata. Gli abitanti di Susa e Caldón furono spazzati via per la loro avarizia. Quel lago prese il nome di Caldonazzo.
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Che tempo che fa di Giampaolo Rizzonelli
APRILE 2021
Un mese particolarmente freddo in Trentino ma... Dopo che per mesi e mesi abbiamo raccontato un susseguirsi di record di temperature sopra la media, l’aprile 2021, almeno in gran parte di Europa in Italia e in Trentino è andato in controtendenza, come abbiamo avuto anche già modo di descrivere nel numero del mese precedente parlando delle gelate tardive. TRENTINO Secondo l’analisi meteorologica mensile pubblicata da Meteotrentino, l’aprile 2021 in Trentino è stato meno piovoso e molto più freddo della media, da 23 anni, e precisamente dal 1998 non si registrava un aprile più freddo di quello del 2021, segnalando in particolare le gelate della prima e della seconda decade con temperature minime qualche grado sotto lo zero anche nei fondivalle più bassi, questo per la presenza di frequenti irruzioni di aria fredda dai quadranti settentrionali. Alcuni dati relativi al Trentino sono evidenziati nella tabella di fig. 1 con le varie località per le quali sono riportate la temperatura media di aprile 2021, la media climatica e la differenza (per tutte aprile 2021 risulta un mese più freddo della media).
Fig. 2 Anomalie di temperatura Italia Aprile 2021 rispetto a media 1981/2010
Dal 1800 ad oggi il mese di aprile 2021 in Italia è stato il 99° più freddo, aprile più freddo in assoluto fu quello del 1809 con un’anomalia rispetto alla media 1981/2010 di -4,2°C, più caldo quello del 2018 con un’anomalia di +2,91°C. Dall’immagine di fig. 2 peraltro risulta ben evidente che tra le zone più fredde d’Italia rispetto alle medie spicca il Trentino Alto Adige. Temperatura media Stazione meteo Media climatica Differenza aprile 2021 EUROPA Castello Tesino +6,7°C +8,0°C -1,3°C Per l’Europa (fonte programma CoperniCavalese +6,3°C +7,3°C -1,0°C cus) l’aprile 2021 è stato il più fresco dal Lavarone +5,0°C +6,2°C -1,2°C 2003, con un’anomalia negativa di 0,9 graMalé +7,7°C +9,8°C -2,1°C di rispetto alla media degli ultimi 30 anni. Predazzo +6,2°C +7,6°C -1,4°C Le temperature medie per aprile 2021 sono state al di sotto della media in un’amRovereto +12,4°C +13,1°C -0,7°C pia fascia dall’Islanda al Mediterraneo e al Tione di Trento +8,9°C +10,5°C -1,6°C Mar Nero, ma al di sopra della media nell’oTrento Laste +11,7°C +13,0°C -1,3°C vest della penisola iberica e nell’estremo Fig. 1 Da report Meteotrentino temperature medie mese di aprile 2021 e conoriente del continente. Il mese è iniziato fronto con media climatica con condizioni insolitamente miti in molti luoghi, ma le temperature sono crollate su ITALIA una vasta regione nella prima settimana del mese, raggiunVediamo ora come è stata la situazione in Italia, secondo gendo minimi record su parti dell’Europa occidentale e il CNR/ISAC il mese di aprile 2021 ha registrato un’anomacentrale, ad esempio sulla Slovenia. La Francia è stata tra i lia negativa di temperatura di -0,7°C rispetto alla media paesi che hanno subito notevoli danni da gelo a viti e alberi 1981/2010, come ben evidenziato nell’immagine di fig. 2 da frutto che avevano iniziato a svilupparsi prima del solito.
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Che tempo che fa Ciò ha portato il governo francese a dichiarare la “Calamité agricole”. I venti che hanno interessato diversi paesi provenivano da nord in modo più persistente rispetto alle tipicità di aprile, con il Regno Unito che ha registrato la sua temperatura minima media più bassa per aprile dal 1922 e il numero più alto di gelate di aprile in un record di dati che risale al 1960. PIANETA TERRA Analizzando i dati di temperatura per l’intero Pianeta, purtroppo torniamo (scusate il gioco di parole) con i piedi per terra e ci troviamo ancora davanti a un mese caldo, con un’anomalia di temperatura di +0,79°C rispetto alla media del 20° secolo pari a +13,7°C. E’ stato comunque (magra consolazione) l’aprile più freddo dal 2013, ma comunque al nono posto tra i più caldi su 142 anni di osservazioni. L’aprile 2021 ha segnato il 45° aprile consecutivo e il 436 ° mese consecutivo con temperature, superiori alla media del XX secolo. Il tutto è ben evidente nell’immagine di fig. 3 del NOAA USA (NOAA National Centers for Environmental information). Da un’analisi dei dati planetari emerge, che oltre all’Europa dove, come evidenziato prima, le temperature sono state inferiori alle medie, anche altre regioni del mondo hanno registrato temperature notevolmente inferiori alla media come l’Alaska e parti del Canada settentrionale, gran parte della Siberia orientale e la Cina, una fascia che va da nord-ovest a sud-est sull’Australia e diverse parti dell’Antartide, in
particolare l’Antartide occidentale. Al contrario, le temperature sono state molto più alte della media su gran parte del Canada nord-orientale e della Groenlandia, della Siberia occidentale, parti del Medio Oriente e del Nord Africa, Argentina e Cile meridionale, Namibia costiera e Sud Africa e parti dell’Antartide orientale. Le temperature dell’aria sono state inferiori alla media nella maggior parte dell’Oceano Pacifico tropicale e subtropicale orientale, dove l’ultimo evento di La Niña ha continuato a indebolirsi. Altre regioni oceaniche dell’emisfero settentrionale extratropicale sono state principalmente più calde della media, le principali eccezioni erano l’Atlantico nord-orientale e i mari a nord-est della Groenlandia. Fig. 3 Anomalie di temperatura Pianeta Terra Aprile 2021 rispetto a media 1981/2010
VAIA Cube, la bellezza dell’imperfezione
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n occasione della Giornata internazionale della Terra dello scorso 22 aprile, la stratup VAIA ha lanciato sul mercato dei nuovi amplificatori di suono (cube) “imperfetti”, realizzati cioè con del legno, che mostra il segno del tempo che passa, così come noi alle soglie degli “anta” vediamo apparire le prime rughe. Per questi oggetti di design realizzati a mano si tratta per lo più di qualche macchia nel colorito, che rende ogni cube ancora più originale e unico. Sono convinta anche io, che il legno “sfregiato” dalla tempesta, merita di trovare a sua volta di essere utilizzato per trovare una sua forma e un uso, nella nostra quotidinaità. Lo stesso Federico Stefani, tra i fondatori di questa realtà ha messo in evidenza la loro unicità nel presentarli. “In un mondo in cui si pretende sempre il meglio, in cui sembra che quello che facciamo non sia mai abbastanza, noi di VAIA abbiamo deciso di amplificare un messaggio diverso: nessuno di noi è perfetto, ma è proprio nelle imperfezioni che scopriamo la nostra bellezza. È questo che ci rende unici.” E ancora continua dicendo che: “L’imperfezione esiste in Natura, così come in ognuno di noi. Va scoperta, riconosciuta e raccontata come un qualcosa di cui andare fieri e che ci rende chi siamo. Il nuovo VAIA Cube è il nostro inno alla bellezza dell’imperfezione”. I giovani di Vaia in questi anni hanno saputo sorprenderci e riescono ancora a farlo, “sfornando” sempre accattivanti novità. Per tutte le info su Vaia potete visitare il sito: www.vaiawood.eu o la pagina Facebook: https://www.facebook.com/therealvaia/ (Chiara Paoli)
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Tezze in cronaca di Massimo Dalledonne
1918: pericolo scampato
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uel giorno l’intero abitato di Tezze rischiò di essere completamente distrutto. Se quelle granate non fossero state prive di spolette, si sarebbe formato un enorme cratere che, in poco tempo, alimentato dalle acque del fiume Brenta, si sarebbe trasformato in un grande lago artificiale. Sono trascorsi 103 anni da quel giorno. Era il 22 giugno del 1918, infatti, e da mesi lo Stato Maggiore Generale dell’esercito austro-ungarico si stava organizzando per un attacco contro il nemico italiano. In zona arrivano materiali e munizioni in grande quantità. Si costruirono anche le stazioni militari di Brenta e di Tollo e, in attesa della fine dei lavori, tutte le munizioni vennero ospitate in baracche all’aperto e tettoie in prossimità dei binari ferroviari e della stazione di Tezze. Non solo imballaggi con munizioni di piccolo calibro ma anche carburante. Come si legge nel volume “La ferrovia della Valsugana” di Gian Piero Sciocchetti “la battaglia si svolse dal 10 al 24 giugno ma l’esercito italiano non venne colto di sorpresa. Diversi grossi cannoni ferroviari da 381/40 fecero la loro comparsa lungo le linee ferroviarie venete. Uno di questi, ubicato nei pressi di Bassano, era in grado di colpire con i suoi lunghissimi e micidiali tiri, i centri logistici avanzati, dislocati nella Bassa Valsugana”.
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E così avvenne. Il 22 giugno del 1918, infatti, un colpo di cannone a lunga gittata colpì la piccola stazione ferroviaria di Tezze. Ancora Gian Piero
Sciocchetti. “L’esplosione di alcuni carri carichi di munizioni in breve coinvolse l’intera area di stazione ed il deposito di munizioni in una gigantesca deflagrazione. Una colossale esplosione il cimelio del carrello ferroviario esposto a Rovereto che, di fatto, avrebbe avuto effetti ancor più devastanti se tutte quelle munizioni fossero munite di spolette. Per fortuna ne erano prive e non in grado di scoppiare facilmente “per simpatia”, fenomeno, quest’ultimo, per cui in oggetti non posti a contatto tra loro si verificano le stesse modificazioni. Sul posto c’erano diverse granate da 30,5 centimetri. Tutto è bene quel che finisce gli effetti dell'esplosione nella stazione di Tezze (collezione Mario Voltolini) bene, verrebbe da dire. Ma quel giorno di 103 anni fa la borgata di Tezze rischiò veramente di essere cancellata dalla faccia della terra. E oggi, al suo posto, ci potrebbe essere il lago artificiale di Tezze. In ricordo di quel fatto, presso il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, ancora oggi è conservato un carrello ferroviario rinvenuto tra le lamiere contorte subito Cartolina della stazione ferroviaria di Tezze dopo l’esplosione. Tra i cimeli più ammirati, incastrato contro una ruota, troviamo anche una granata inesplosa di medio calibro. Vicino al cimelio anche una targa esplicativa che così recita: “carrello ferroviario residuato dello scoppio di 200 vagoni A.U. di munizioni avvenuto il 22 giugno 1918 a Tezze di Valsugana”.
LA SCELTA “GREEN” CHE PENSA AL FUTURO DELLA TUA AZIENDA O ATTIVITÀ.
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