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IL personaggio: Ottone Brentari

Il personaggio

di Massimo Dalledonne

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OTTONE BRENTARI

Ci sono due motivi, anzi addirittura tre per ricordare, in questo numero di Valsugana News, la figura di Ottone Brentari. La prima. Quest’anno si rciordano i 170 anni dalla sua nascita, avvenuta il 4 novembre del 1852 a Strigno. La seconda. Sono trascorsi esattamente 101 anni da quando, il 17 novembre del 1921, si spense, all’età di 69 anni, nella sua casa di Rossano Veneto. Il terzo motivo. In suo ricordo la Sat decise, pochi giorni dopo la scomparsa, di dedicargli il rifugio Cima d’Asta. E proprio quest’anno, si festeggia il secolo di vita del rifugio Ottone Cestari. Scrittore e giornalista, nacque a Strigno dove il padre Michele, originario di Rovereto, esercitava la professione di ufficiale giudiziario. La madre si chiamava Elisabetta Negrelli, nipote del celebre ingegnere. E proprio da lei, come scrive Antonio Zanetel nel suo volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud-Orientale” fin da giovane “sembrò aver ereditato le capacità intellettuali, il carattere e l’eccletticità degli impegni”. Da Strigno il giovane Ottone si trasferì a Rovereto, Malè, Fondo e Cembra. Con la morte del padre si stabilì a Rovereto per ultimare gli studi, preferendo quelli classici ai tecnici. Nel 1873 la maturità a cui seguirono gli studi universitari, presso l’ateneo di Innsbruck, prima, e Vienna poi, nella facoltà di materie letterarie, sezione storia e geografia. Una volta laureato insegnò a Rovereto e nella cittadina di Pisini, in Istria per finire ad educare gli studenti in lettere presso il ginnasio di Catania. “Nel 1870 – scrive Zanetel – lo troviamo insegnante di Liceo a Bassano del Grappa, dove ne assumerà poco dopo anche la presidenza. Nel 1878 si sposa con Domenica Fusaro e nel 1890 abbandona la scuola per trasferirsi a Milano dove si dedica al giornalismo”. Sportivo, escursionista e ciclista, fin da giovane si occupava di poesia e di prosa diventando poi un conferenziere e pubblicista. In quei anni iniziò la compilazione di opere d’interesse locale a carattere storico e di guide turistico-alpinistiche del Triveneto. Politicamente orientato su posizioni irredentiste, si avvicinò alla Società degli Alpinisti Tridentini (SAT), che gli affidò la realizzazione di una guida del Trentino. La grande opera, prima guida organica in italiano della zona, venne pubblicata in quattro volumi tra il 1890 e 1902. A Milano entra nella redazione del Corriere della Sera e collabora con diverse testate giornalistica di Trento, Catania, Vicenza e Venezia. Nel 1908 fonda una rivista turistica-patriottica: la chiama Italia Bella e, una volta scoppiata la Prima Guerra Mondiale, decide di costituire la Lega nazionale, con scopi irredentistici. Come ricorda ancora Zenetel “negli anni proseguì la sua collaborazione con il Corriere della Sera illustrando ai lettori i bollettini del comando supremo. Era il 2 giugno del 1920 quando a Milano tenne una conferenza dal titolo “L’allegra agonia

Ottone Brentari

Il personaggio

Rifugio Ottone Brentari

del Trentino… tutto il bene viene fatto male e tutti il male viene fatto bene” e pochi mesi dopo si trasferì a Trento per assumere la direzione del quotidiano di tendenza liberale La Libertà. Carica che mantenne per pochi mesi, dimettendosi per divergenze politiche con i finanziatori del giornale ed il partito Liberale Trentino”. In occasione delle elezioni politiche del 1921 decise di candidare per la lista del blocco economico in Trentino. “Quell’anno – si legge nel volume di Zanetel - si presentarono agli elettori la lista Sud Tirol, quella popolare dello scudo crociato con la scritta Libertas con candidati locali Alcide Degasperi, Luigi Carbonari, Pietro Romani, Valentino Toffol di Siror ed Enrico Tamanini di Vigolo Vattaro, la lista socialista, quella del blocco economico con Brentari e la lista liberale con candidato Alberto Ognibeni”. A Borgo votarono il 65,8% degli elettori aventi diritto. I popolari ebbero il 47,9%, i liberali il 9,2%, i socialisti il 39,2% e la lista del blocco economico il 3,5%. Nessun voto per la lista tedesca. “Ottone Brentari ebbe una grande delusione – conclude Zanetel – ma dal vaso della politica sorte più assenzio che miele. In quei anni si adoperò tantissimo a sostegno della ricostruzione in Trentino. Lo fece denunciando i ritardi burocratici, l’incompetenza delle amministrazioni comunali affidate d’autorità ad elementi usciti dall’esercito”. Verso la fine del 1921 si ritirò nella casa della moglie a Rossano dove spirò il 17 novembre.

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Tra storie e tradizioni

di Maurizio Panizza

IL TRATO MARZO

Le antiche regole non scritte delle comunità trentine

Frotte di ragazzotti salivano su di un luogo bene in vista sopra al paese e da lì, all’imbrunire, iniziava un “rito” vecchio di centinaia d’anni, richiamando con fuochi, grida e scoppi, i popolani all’attenzione. Per certi versi il “Trato marzo” - così si chiamava - si configurava come una sorta di rito di passaggio per l’età adulta i cui protagonisti spesso erano i coscritti, i giovani giunti quell’anno alla maggiore età. Era una tradizione fortemente radicata nel territorio contadino del Sud Tirolo e di essa è rimasta un’ampia letteratura a riguardo. Nel 1889, scriveva Albino Zenatti: “La sera del primo di mar-

zo, chi percorresse la strada che da Verona mena a Rovereto e a Trento vedrebbe dai poggi che sovrastano i paeselli delle due rive dell’Adige, innalzarsi grandi fiammate ad illuminar di una luce fantastica le vecchie torri degli Scaligeri e dei Castelbarco, e udrebbe grida e canti e spari risvegliar gli echi del Monte Baldo”

In ogni vallata il “Trato marzo” poteva chiamarsi in modo leggermente diverso, ma le feste seguivano sempre uno schema rituale comune e celebravano tutte la rigenerazione del tempo verso le prime settimane di marzo, in coincidenza con l’arrivo della primavera. Se fino agli inizi del ‘900 questo era un rito diffuso in molte parti del Trentino, Valsugana compresa, oggi resiste ancora in pochi paesi, più come momento di folklore che non come quell’antico rito pagano visto in chiave trasgressiva con esplicito richiamo alla sessualità e alla fecondità. Un “canto di accoppiamento”, lo si potrebbe definire, che conteneva in sé soprattutto un elemento regolatore dell’ordine sociale del paese, nonché la volontà di garantire continuità ai valori e alle regole comunitarie, in particolare al matrimonio e alla famiglia. L’origine del nome non è chiara, tuttavia secondo alcuni potrebbe derivare da “trarre”, che in dialetto trentino significa anche “gettare”. In questo caso l’espressione “trar zo marzo” potrebbe voler dire lanciare dall’altura l’annuncio di fidanzamento fra due giovani. Oppure, ancora, potrebbe significare l’entrata nel mese di marzo, quello che apre la stagione della primavera e il ritorno alla vita dopo i rigorosi inverni di un tempo. Dall’alto del paese (qui ne facciamo un semplice esempio), ad un certo punto uno dei giovani, gridando

Tra storie e tradizioni

a squarciagola, cominciava il rito tradizionale, che anche nella “liturgia” e non solo nel nome poteva variare a seconda del luogo: - Trar zo marz su questa téra, per

sposar ‘na fiòla béla.

- Chi éla? Chi no éla? - domandavano in coro gli altri compagni, mentre sotto, in paese, si radunavano altri ragazzi e curiosi. - L’é la Bepina dele Viate. - A chi ghè la dente? (trad. “A chi la diamo?”) Rispondevano gli altri a “botta e risposta”: - Al Toni del Minco. - Ghè la dente o no ghè la dente? - Dènteghela! Dènteghela! E allora giù grida, spari e risa a non finire per poi proseguire prendendo di mira altri soggetti fino a quando non fossero state passate in rassegna tutte le ipotetiche e molte volte del tutto improbabili coppie da maritare. Era, per certi versi, un modo scherzoso, ma pure feroce di mettere alla berlina dei capri espiatori attraverso la burla e la denuncia. In effetti, molto spesso l’attenzione dei “declaratori” si appuntava non solo su giovanotti o ragazze in età da marito, quanto piuttosto su coloro che il matrimonio per una ragione o per l’altra non l’avevano ancora contratto o difficilmente avrebbero potuto farlo. In altre parole, se la funzione principale della donna era quella riproduttiva, i riti del “Trato marzo” servivano a riconfermare questo principio mettendo in ridicolo chi da quella funzione (il matrimonio e la procreazione, appunto) intendeva derogare: le zitelle, gli scapoli, le vedove, addirittura - a volte - pure i parroci e le perpetue. Alla lunga, comunque, queste antiche tradizioni via via trasformatesi in vere e proprie “commedie”, vennero a più riprese messe sotto accusa proprio dalla Chiesa, la quale in numerose occasioni si dichiarò contraria al mantenimento di simili usanze offensive delle persone, della Chiesa e dell’ordine costituito. Infatti, in Sud Tirolo, fin dalla prima metà del XVII secolo, il “Trato marzo” era stato proibito dal Principe Vescovo e dalle varie autorità civili, spesso - come abbiamo visto - senza grandi risultati. Col passare del tempo, però, fu questa la causa che in Trentino portò alla graduale scomparsa dei riti profani di inizio primavera Ecco una lettera proveniente da Mori, apparsa l’8 marzo 1910 sul giornale “Il Popolo”. “Tratto marzo! E’ ora di finirla con

quest’uso, che se in tempi addietro poteva costituire uno svago tollerabile per la gioventù innamorata, oggi è degenerato in una consuetudine così stupida e nauseabonda, che i Zulù arrossirebbero di mettere in pratica. Succedono da varie sere delle scene veramente riprovevoli e i nomi delle persone che per vecchiaia, per fisiche imperfezioni od altro, hanno tutto il diritto al nostro rispetto e alla nostra compassionevole commiserazione, vengono gridati ai quattro venti, con aggiunte di nomignoli offensivi ed inverecondi”.

Ma vi era anche un altro rito pubblico di antica cultura popolare, pure quello avente come oggetto il matrimonio. Era una tradizione in uso nei secoli scorsi con forme analoghe pure in Inghilterra, Francia e Germania. Consisteva in questo: quando ad esempio era in vista un’unione fra un vedovo anziano e una donna molto più giovane, o un matrimonio non voluto dai parenti; oppure quando era previsto uno sposalizio con qualcuno che veniva da fuori (o, addirittura, se si era a conoscenza di una relazione clandestina), veniva messa in scena una strana rappresentazione pubblica, della quale i giovani erano gli attori, ma dove i registi, più o meno occulti, erano gli adulti. In questi casi, i giovani andavano a fare chiasso battendo su secchi metallici o padelle proprio davanti alle case di chi era stato preso di mira, appunto perché quel rapporto era visto di cattivo occhio e, se possibile, non si doveva consumare. Ma non era solo baldoria. A volte con dei mattoni si muravano in casa le vittime, oppure se ne ostruiva la porta con carri o legname: insomma, una cattiva carnevalata che veniva a coinvolgere tutto il paese.

Tra storie e tradizioni

Quella che oggi noi chiamiamo “privacy” e che fa parte dei diritti acquisiti e inalienabili di ogni singolo cittadino, allora non esisteva. Per questioni di sopravvivenza in un periodo estremamente duro, il ruolo della comunità era del tutto prevalente rispetto agli interessi della singola persona. Infatti, i comportamenti dell’individuo erano costantemente sottoposti al giudizio di tutta la collettività, in particolare della Chiesa, e i rituali in parola scattavano proprio nel momento in cui qualcuno con il suo comportamento minacciava la coesione interna rompendo quell’ordine sociale e morale che garantiva da secoli al paese l’equilibrio demografico e il perpetuarsi inalterato di modelli di lavoro e di convivenza civile e religiosa. E’ in questo modo che la gente contadina aveva saputo conservare e tramandare attraverso i secoli la propria cultura contenuta in riti e in regole non scritte della comunità al fine di adattarla ai ritmi dell’economia e della sopravvivenza. Cultura e regole - aggiungiamo - che alla luce di quanto accade nella società di oggi è difficile se non impossibile tentare di giudicare.

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