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Mercati Export Agnello gallese IGP: una buona annata

Export Agnello gallese IGP: una buona annata

Secondo gli ultimi dati diffusi da Hybu Cig Cymru – Meat Promotion Wales (HCC), ente promotore delle carni ovine e bovine gallesi, il 2020 è stato un anno di successo per l’agnello d’Oltremanica in Italia. 5.338 sono

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state infatti le tonnellate di carne ovina esportate nel Belpaese, per

un valore di £ 29.639.000.

Sul totale delle esportazioni britanniche, il Galles gioca un ruolo importante con più di 1/3 della produzione ovina e una presenza massiccia sui mercati internazionale del brand Welsh lamb IGP. Le esportazioni di Welsh lamb verso l’Italia sono aumentate del 27,71% in volume e del 17,94% in valore rispetto all’anno precedente. «I consumatori acquistano sempre più cibi di cui si fi dano, dalla fi liera garantita, prodotti con alti standard qualitativi e sempre più sostenibili. Questo è ciò che può offrire la carne gallese: ecco perché lo scorso anno, nonostante le turbolenze causate dal Covid-19, abbiamo assistito ad un aumento delle vendite sia sul mercato interno sia sui mercati internazionali, nei quali i nostri clienti europei ci hanno rinnovato la loro fi ducia», ha affermato DEANNA JONES, Export Market Development Executive HCC. Un picco di esportazioni si è registrato nella tarda primaverainizio dell’estate, quando il primo lockdown era stato allentato. Un andamento positivo che è proseguito, su livelli più ragionevoli, fi no a dicembre dello scorso anno quando i volumi sono diminuiti dell’11,74%; un calo dovuto ad un prezzo relativamente alto e alla situazione di incertezza legata ai negoziati sulla

Photo © Leighton Collins – stock.adobe.com. HCC – Hibu Cig Cymru è l’ente responsabile per lo sviluppo, la promozione e la distribuzione delle carni del Galles. Tra i compiti di HCC vi sono: la promozione di tutti i prodotti di carne provenienti dal Galles, l’evidenziazione delle caratteristiche che diff erenziano i prodotti di carne gallese, la collaborazione con le aziende agricole per diff ondere la qualità, ridurre i costi e migliorare la salute degli animali, la collaborazione con tutta la catena di fornitori per migliorare l’effi cienza e sviluppare la garanzia di qualità, l’attività per la diff usione e il miglioramento della comunicazione della qualità di questo settore. HCC rappresenta per vasta parte l’industria agricola del Galles e trae esperienza dai diversi componenti dei suo Board of Directors e dalle aziende a cui essi appartengono.

>> Link: www.agnellogallese.it

Brexit che non promettevano bene. «Nonostante il 2020 sia stato un anno dominato da molti timori, l’andamento dell’export di Welsh lamb è stato molto positivo» conferma JEFF MARTIN, responsabile HCC del mercato italiano. «L’aumento generale è stato il risultato di una maggiore presenza nella GDO, comparto che ha retto meglio l’impatto della pandemia di Covid-19, e di un rafforzamento della presenza nelle macellerie, soprattutto durante il lockdown della primavera dove molti Italiani hanno riscoperto i negozi di vicinato».

Dall’altra parte, il settore della ristorazione ha avuto un anno molto irregolare, con le esportazioni di Agnello gallese IGP che si sono attestate all’incirca al 35% dei livelli pre-Covid.

«Nonostante la situazione diffi cile che stiamo vivendo sia a livello sanitario che commerciale, le carni ovine gallesi continuano a mantenere la quota di mercato», conclude Martin. «Ciò signifi ca che il Welsh lamb IGP è defi nitivamente entrato nella spesa degli Italiani».

Il consumatore italiano, di fatto, è molto attento alla qualità: a fronte di un consumo ridotto (si cerca di mangiare un po’ meno carne ma più buona) predilige la provenienza garantita, gli allevamenti estensivi, la sicurezza della fi liera e la qualità organolettica, tutte caratteristiche che l’Agnello gallese IGP offre da sempre.

Il Galles è uno dei più grandi produttori di carne di agnello d’Europa, un censimento del 2016 conta quasi 10 milioni di ovini. In tutto il Galles, un territorio di circa 20.000 km quadrati, ci sono circa 14.000 allevamenti, con una media di 700 capi ovini a fattoria.

L’export di carne bovina

di Roberto Villa

Photo © BBQ-Fotos – stock.adobe.com

Il prezzo delle carni bovine nel terzo trimestre del 2020 è salito grazie ad un incremento nei principali Paesi esportatori, ad eccezione degli Stati Uniti, nei quali si è registrata una fl essione.

In Cina nei primi otto mesi del 2020 i prezzi delle carni bovine al dettaglio sono aumentati di più rispetto ai prezzi all’ingrosso, segno che la domanda da parte dei consumatori fi nali sta fortemente salendo: in precedenza il consumo di carne bovina in Cina era prevalentemente legato al consumo fuori casa, ora si sta facendo strada il consumo domestico, che promette di dispiegare un mercato molto vasto sinora latente. Paesi come Stati Uniti, Nuova Zelanda (che esporta il 40% delle carni bovine verso la Repubblica Popolare), Australia e Brasile sono pronti ad affi lare le armi per cogliere le opportunità del grande mercato asiatico.

La situazione in Sud America

L’Argentina ha esportato 918.000 tonnellate di carni bovine nei dodici mesi tra ottobre 2019 e settembre 2020, per un controvalore appena superiore ai 3 miliardi di dollari USA. Il picco di esportazioni mensili è stato raggiunto nel novembre 2019, con quasi 96.000 tonnellate, superiore di ben 13.000 tonnellate rispetto al precedente record registrato nel novembre del 2005. Le quotazioni medie rilevate a settembre 2020 delle carni disossate refrigerate sono state di 7.350 dollari USA per tonnellata, mentre per le carni disossate congelate (media di 23 tagli) si è fermato appena al di sotto dei 3.850 dollari.

Principali mercati per le carni argentine nei primi nove mesi del 2020 secondo l’Instituto de Promoción de la Carne Vacuna Argentina (IPCVA) sono stati la Cina, con 320.900 tonnellate, il Cile, con 23.000, Israele, con 21.600, gli Stati Uniti, con 19.200, la Germania, con 16.900, la Russia, con 12.500; l’Italia ha importato dall’Argentina 3.800 tonnellate, in calo del 32% sullo stesso periodo del 2019.

In termini di valore per quanto riguarda l’export complessivo di carni (refrigerate, congelate, trasformate), la Cina è il primo Paese col 61%, seguita a grande distanza dalla Germania, con l’8%, da Israele, col 7,5%, dal Cile, con il 6,5%, e dagli Stati Uniti con il 4,5%. Nel solo mese di settembre 2020 sono state spedite in Cina 42.200 tonnellate, pari al 72% dei volumi esportati, ad indicare la forza di attrazione del grande Paese asiatico.

L’IPCVA ha partecipato in novembre 2019 per la terza volta all’edizione della fi era CIIE (China International Import Export) in Shanghai, che ha visto 3.800 espositori con 67 padiglioni nazionali, raccogliendo interesse e siglando contratti per prezzi superiori alla media realizzata nell’anno trascorso: 4.500 dollari contro i citati 3.850 dei dodici mesi precedenti. A giudizio del capo delegazione SEBASTIÁN BENDAYÁN, le numerose visite e contatti intrapresi sono motivo di soddisfazione per gli sforzi compiuti nell’organizzazione dell’evento.

Come in parte accaduto per l’Argentina, anche in Brasile la svalutazione della moneta locale ha favorito le esportazioni, tanto che per la carne bovina le stime dell’USDA statunitense prospettano un anno record con oltre 2,5 milioni di tonnellate (intese come Carcass Weight Equivalent, cwe), pari al 24% del volume commerciale

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In Cina, nei primi otto mesi del 2020, i prezzi delle carni bovine al dettaglio sono aumentati di più rispetto all’ingrosso, segno che la domanda da parte dei consumatori fi nali sta fortemente salendo. Si sta infatti facendo strada in maniera preponderante il consumo domestico rispetto al fuoricasa; consumo che promette di dispiegare un mercato molto vasto sinora latente. (photo © Brent Hofacker).

globale, con un ulteriore ascesa nel 2021 fi no a toccare i 2,7 milioni di tonnellate (cwe).

Le macellazioni nei primi otto mesi del 2020 sono state inferiori del 10% rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente, mentre le spedizioni oltre confi ne hanno avuto un incremento del 16% per un volume di 1,1 milioni di tonnellate.

La Cina ha visto importazioni dal Brasile per 530.000 tonnellate tra gennaio ed agosto 2020 pari al +145% sugli stessi mesi del 2019, tanto da rappresentare da sola il 48% di tutti gli invii.

Altri mercati che hanno signifi cativamente aumentato le importazioni sono stati Arabia Saudita, Filippine e Singapore.

Gli Stati Uniti sono tornati ad essere un mercato di destinazione nel 2019, dopo che il mancato soddisfacimento degli standard di sicurezza sanitaria aveva messo in mora il Brasile per circa due anni, con livelli di export pari a 10.000 t nei primi otto mesi del 2020, principalmente costituiti da carni lavorate.

La produzione brasiliana per il 2021 è data oltre i 10 milioni di tonnellate, in aumento del 4% sul valore atteso per il 2020; le condizioni economiche sono favorevoli, coi prezzi delle materie prime interne attualmente stabili.

Il governo sta finanziando con importi pari a 1,1 miliardi di dollari USA vari progetti per il miglioramento della produttività, che spaziano dai miglioramenti dei pascoli all’ibridazione con materiali genetici importati, alla diffusione delle tecnologie riproduttive più avanzate. La produzione di carne bovina brasiliana è ancora prevalentemente al pascolo, mentre solo il 10% avviene in allevamenti intensivi; tuttavia, è previsto che nei prossimi cinque anni tale percentuale salga in maniera sostanziale, fi no a raddoppiare.

In Brasile si è assistito negli ultimi anni ad un crescente utilizzo di un incrocio tra la razza locale Nelore e la Black Angus di origine argentina o statunitense, che ha permesso di combinare la resistenza al caldo e la rusticità del bovino autoctono con l’effi cienza e la qualità della carne Angus; l’importazione di seme Angus dagli Stati Uniti è aumentata del 35% nei primi sei mesi del 2020 rispetto al primo semestre del 2019.

I produttori lamentano, tuttavia, che la carne di migliore qualità ottenuta dall’incrocio, soprattutto in termini di tenerezza e marezzatura, non gode di un sovrapprezzo adeguato; la ricerca di mercati esteri capaci di valorizzare queste qualità potrebbe dare un ristoro all’altezza delle aspettative.

Pure per l’Uruguay la Cina rappresenta un importante sbocco commerciale, tanto che al CIIE di Shanghai il Paese aveva un proprio stand a cura dell’Instituto Nacional de Carnes (INAC), istituto che si accinge ad aprire un uffi cio stabile a Pechino. Nei primi dieci mesi del 2019 le esportazioni sono state pari a 400.000 tonnellate per un controvalore di 1,8 miliardi di dollari; la Cina è stata la prima destinazione con oltre 261.000 tonnellate, seguita da Stati Uniti (57.000) ed Unione Europea (36.000); nel corrispondente periodo del 2020, tuttavia, la Cina ha subito un decremento signifi cativo (172.000 tonnellate), che non è stato compensato da altri paesi, cosicché le esportazioni complessive si sono fermate a 330.000 tonnellate, per un valore di 1,25 miliardi di dollari.

Nell’ambito dell’Unione Europea l’Italia rappresenta la destinazione principale per le carni congelate (5.600 tonnellate) e la seconda per i prodotti a base di carne bovina (4.866) dopo i Paesi Bassi (12.421); le carni refrigerate hanno come prima destinazione comunitaria i Paesi Bassi (14.091 tonnellate) e la Germania (4.223).

Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda

Gli Stati Uniti hanno esportato nel 2019 1,32 milioni di tonnellate, per un controvalore di 8,1 miliardi di dollari; tuttavia, prevedono un calo delle esportazioni di carni bovine per la fi ne del 2020, con un –7,6% già registrato nel primo semestre. Nei mesi di maggio e giugno si è

infatti verifi cato un tonfo del 33% rispetto agli stessi mesi del 2019. Il Giappone, primo mercato di destinazione (311.000 tonnellate nel 2019), ha visto un leggero incremento (+5,6%) nel primo semestre rispetto all’analogo semestre dell’anno precedente, nonostante cali oltre il 20% anno su anno in maggio e giugno; la Corea del Sud, secondo mercato di destinazione (256.000 tonnellate nel 2019), ha perso il 7,4% in volume con cali a doppia cifra nei mesi di aprile, maggio e giugno; il Messico (236.000 tonnellate nel 2019) ha avuto un tracollo nelle importazioni dagli USA (–37% nel primo semestre) tanto da farlo precipitare al quarto posto come destinatario.

Il 2019 è stato comunque il secondo per volumi nel decennio 2010-2019, dopo l’eccezionale 2018 che ha fatto registrare un picco di 1,35 milioni di tonnellate, per un valore di 8,36 miliardi di dollari. Le previsioni per gli Stati Uniti nel 2021 sono quelle di approfi ttare delle diffi coltà di fornitura australiane e di tornare a crescere nei Paesi dove la domanda è fortemente legata ai fl ussi turistici, rafforzando al contempo la penetrazione in Cina dove, nel periodo gennaiosettembre 2020, le quantità sono aumentate del 160% con un +136% in valore.

Secondo i dati della Meat & Livestock Australia, nei dodici mesi tra ottobre 2019 e settembre 2020 il Paese dei canguri ha spedito 1,1 milioni di tonnellate di carni bovine, di cui 300.000 refrigerate e 800.000 congelate, con destinazione Giappone (266.000), Cina (237.000), Stati Uniti (229.000), Corea del Sud (155.000), Indonesia (49.000), Taiwan (25.000), Filippine (22.000), Canada (13.800), Arabia Saudita (10.300), Malesia (9.400), Unione Europea (9.200), in fl essione media del 9% sul corrispondente periodo precedente con tutti i principali mercati in diminuzione, mentre hanno aumentato le importazioni solo alcune destinazioni minori (Singapore, Emirati Arabi, Tailandia, Hong Kong); l’Unione Europea ha ridotto del 44% le importazioni di carni congelate (per un volume 2019-2020 di 427 tonnellate) e del 37% quelle refrigerate (che nell’anno osservato hanno raggiunto 8.750 tonnellate).

Pur in fl essione, il 2020 si preannuncia come uno dei primi tre anni con le maggiori esportazioni nell’ultimo quindicennio.

La Nuova Zelanda ha totalizzato esportazioni per circa 440.000 tonnellate nell’anno che va da ottobre 2019 a settembre 2020, con destinazioni principali Cina (168.000), Stati Uniti (160.000), Giappone (24.000), Taiwan (20.000), Canada (18.000), Corea del Sud (16.000); rispetto all’analogo periodo 20182019 i volumi sono rimasti sostanzialmente stabili, la Cina è calata (era a 180.000 tonnellate) mentre gli Stati Uniti hanno aumentato le importazioni (partivano da 135.000 tonnellate).

Roberto Villa

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Innovazione in agricoltura, le perplessità del consumatore

All’ultima edizione del Forum Agrifood di Nomisma, tenutosi di recente in forma digitale, è stata presentata un’interessante indagine sulla percezione che chi acquista ha nei confronti dei prodotti agroalimentari ottenuti da aziende tecnologicamente avanzate. Non sono mancate le sorprese

di Anna Mossini

Oggi viene chiesto alle imprese agricole italiane di vincere una doppia sfi da fatta di competitività e sostenibilità. L’innovazione è certamente la risposta per vincerla, ma non è così scontato applicarla. Per Denis Pantini, Nomisma, ad esempio, «se è ormai assodato che l’innovazione rappresenta un elemento sempre più importante all’interno delle aziende agricole non è detto che la sua diff usione sia poi così scontata, soprattutto laddove la convinzione che ciò che è vecchio è buono e ciò che è nuovo no è ben radicata» (photo © Erwan Hesry x unsplash).

Qual è l’interesse del mondo agricolo verso l’innovazione tecnologica? E, soprattutto, qual è la percezione del consumatore rispetto alle produzioni che ne derivano inserite nell’ampio contesto della sostenibilità? Di questo si è occupato il quinto Forum Agrifood Monitor organizzato da NOMISMA in collaborazione con CRIF – Together to the next level, svoltosi di recente in modalità digitale nel rispetto delle disposizioni previste contro la pandemia. L’evento ha messo in evidenza diversi aspetti interessanti e anche qualche sorpresa. Ad iniziare proprio dall’approccio del consumatore, oggi descritto come sempre più attento all’etica delle produzioni alimentari e alla tutela ambientale, che dai risultati scaturiti da un’indagine condotta da NOMISMA sembrerebbe meno propenso ad acquistare prodotti frutto di sistemi innovativi rispetto a quelli che potremmo defi nire più tradizionali. Ma andiamo con ordine, perché, secondo l’introduzione di DENIS PANTINI, responsabile agroalimentare di NOMISMA, «se è ormai assodato che l’innovazione rappresenta un elemento sempre più importante all’interno delle aziende agricole — ha sottolineato — non è detto che la sua diffusione sia poi così scontata, soprattutto

laddove la convinzione che ciò che è vecchio è buono e ciò che è nuovo

no è ben radicata».

Sfi de imminenti Covid, cambiamenti climatici, soste-

nibilità. Ma anche formazione. Sono queste le grandi sfi de sul tavolo che impegnano e impegneranno anche in futuro il mondo agrozootecnico. Soprattutto se pensiamo che da qui al 2050 la popolazione mondiale aumenterà in maniera molto esponenziale, passando dagli attuali 7,7 miliardi a 9,7 miliardi di persone, dalle quali arriverà una maggiore richiesta di cibo rispetto a oggi «che — come ha ricordato Denis Pantini — sarà accelerata anche dalla crescita dei redditi in diverse aree del pianeta. Per numerosi Paesi gli incrementi sono tutti previsti a

due cifre: i dati parlano di un +54% in Cina, +49% in Polonia, +45% in India, +25% in Giappone e +21% in USA.

Più cibo quindi, ma con minore disponibilità di superfi ci agricole

e acqua.

Ed è qui che entrano in gioco gli obiettivi della strategia Farm to Fork e della tutela della biodiversità. «Si tratta di obiettivi ambiziosi — ha sottolineato Pantini — la cui realizzazione necessita di un grande supporto. Nel dettaglio, entro il 2030

l’utilizzo di agrofarmaci chimici dovrà ridursi del 50%, quello dei fertilizzanti del 20% e le vendite di antimicrobici per animali d’alleva-

mento del 50%.

Non solo. Entro il 2030 le super-

fi ci coltivate a biologico dovranno aumentare e arrivare al 25% dell’in-

tera superfi cie agricola della UE;

agli animali dovrà essere garantito un livello più elevato di benessere

attraverso la revisione della normativa, valutando la possibilità di introdurre un’etichettatura collegata per una migliore trasmissione del valore lungo la fi liera alimentare; dovrà essere garantita la sicurezza

dell’approvvigionamento alimentare riducendo la dipendenza estera

da materie prime per mangimi promuovendo modelli di alimentazione sani; dovranno essere garantiti

redditi equi e sostenibili ai produt-

tori agricoli favorendo la digitalizzazione e la diffusione dell’agricoltura di precisione e andranno ridotti gli

sprechi alimentari e gli imballaggi

non ecologici/riciclabili».

Obiettivi ambiziosi e sostenibili

Se non è una scalata sul tetto del mondo poco ci manca. «Ma è un’impresa che non si può realizzare senza l’innovazione». È stato l’incipit di PAOLO DE CASTRO, presidente del Comitato scientifi co di NOMISMA. «Il Farm to Fork è una sfi da europea — ha scandito il parlamentare europeo — che non può realizzarsi senza l’innovazione, perché non è possibile chiedere al comparto agricolo grandi cambiamenti senza fornire gli strumenti adeguati per ottenerli: tutti gli obiettivi fi ssati rimarrebbero solo una lista di buone intenzioni. Quindi l’innovazione diventa un

tema cruciale, all’interno del quale il nostro Paese ha diverse e importanti carte da giocare sfruttando anche le risorse messe a disposizione dai

PSR 2021-2022 (Piani di sviluppo rurale, NdR) che ammontano a quasi 4 miliardi di euro e che in base a quanto previsto dalla Commissione, per il 50% dovranno essere spesi per investimenti in grado di rendere le aziende agricole più sostenibili e sicure: in una parola, ancora, innovazione».

Ma torniamo all’indagine condotta da NOMISMA nel novembre dello scorso anno su un campione rappresentativo di 1.000 persone

La pandemia non ha fermato l’export

Nonostante la pandemia, il comparto agroalimentare italiano, nel 2020, ha tenuto. Lo dicono i dati presentati durante il quinto Agrifood Forum di NOMISMA. Le vendite dei prodotti alimentari al dettaglio, rispetto al 2019, sono aumentate del 3,7% mentre l’export ha registrato da gennaio a novembre 2020 un incremento del +1,3%, a fronte di un –3,7 della Francia e di un –1,2% della Germania. Dati che, situazione pandemica alla mano, non possono che confortare ma che mettono sull’altro piatto della bilancia un aspetto meno soddisfacente. L’I-

talia è un Paese non autosuffi ciente dal punto di vista agricolo, tant’è vero che nel decennio 2009-2019 la quota di prodotti

agricoli importati ha conosciuto un aumento del 55%, raggiungendo una quota in valore di circa 15 miliardi di euro. Nel settore zootecnico solamente il comparto avicolo registra l’autosuffi cienza produttiva, che a quota 108% può soddisfare tutta la richiesta interna, mentre sul fronte della carne bovina l’autoapprovvigionamento non supera il 51%, la carne suina e i salumi il 63% e il lattiero-caseario il 79%. Chiediamo a DENIS PANTINI: esistono previsioni di incrementi produttivi per arrivare nel medio periodo alla autosuffi cienza? «Direi di no, alla luce delle condizioni dei singoli mercati penso che ci sia piuttosto un trend verso la riduzione delle produzioni di alcuni comparti e, di conseguenza, visto che invece l’export cresce e il consumo è stabile, si allarghi il defi cit, forse ad eccezione del settore lattiero-caseario che comunque non raggiungerà in tempi rapidi l’autosuffi cienza».

A.Mo.

di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Nel panel, il livello di istruzione era così suddiviso: il 20% degli intervistati era in possesso di un diploma di scuola media inferiore, il 53% di un diploma di scuola media superiore e il 27% di una laurea. «L’obiettivo della nostra indagine — ha spiegato Pantini — era quello di comprendere l’interesse e la percezione dei consumatori nei confronti dell’innovazione in agricoltura insieme all’approccio verso i prodotti agroalimentari derivanti da tecniche innovative.

I risultati scaturiti sono stati piuttosto interessanti e se il 79% ha dichiarato che l’innovazione è essenziale per promuovere la crescita economica di un Paese, il 23% ha invece affermato che comprare un prodotto innovativo è un rischio per il consumatore. A queste percentuali si unisce il 46% di chi, davanti a un prodotto o un servizio innovativo lanciato sul mercato, preferisce continuare ad acquistarne uno tradizionale, mentre il 54% proverebbe subito il prodotto innovativo. Relativamente all’impatto delle innovazioni sulla società e sulla qualità della vita, il 91% degli intervistati ha dichiarato che il settore più importante per il futuro dell’umanità è quello sanitario, mentre all’agricoltura è andata la preferenza del 77%».

Interessante la risposta che gli intervistati hanno fornito al signifi cato della parola “agricoltura”. «Quella maggiormente pronunciata — ha spiegato ancora Pantini — è stata cibo. Eppure, quando abbiamo chiesto se, potendo scegliere, il nostro interlocutore preferirebbe che i prodotti alimentari acquistati provenissero da aziende tecnologicamente avanzate o tradizionali, quindi con un ridotto utilizzo di tecnologie innovative, solo il 34% si è detto favorevole alle prime, mentre il 39% preferisce prodotti tradizionali e addirittura il 27% si è dichiarato indifferente al tema».

Vantaggi dell’innovazione

L’indagine ha voluto inoltre sondare il parere degli intervistati sugli obiettivi che ritengono più importanti da centrare attraverso l’innovazione e le nuove tecnologie agricole. Il 39% ritiene che si possa aumentare la produttività delle colture; il 36% pensa che si possano ridurre le perdite e lo spreco di prodotti, il 32% che si può contenere l’impatto ambientale, mentre il 28% che l’innovazione possa soddisfare la domanda alimentare nazionale e globale. A scalare, il 26% pensa che l’innovazione e le nuove tecnologie possono migliorare la tutela degli agricoltori e il 24% che favorisca l’aumento del livello di sicurezza degli alimenti.

La stessa percentuale di intervistati ritiene che l’innovazione e le nuove tecnologie agricole possano migliorare la qualità degli alimenti, mentre il 22% pensa che sarà il benessere animale a trarne vantaggio. Infi ne, il 19% è convinto che l’innovazione in agricoltura può combattere il cambiamento climatico e il 17% che favorisca l’incremento della biodiversità.

Agli intervistati è stato infi ne spiegato che entro il 2050 la produzione agricola mondiale dovrà aumentare tra il 60 e il 70% per soddisfare la crescente domanda alimentare e che se l’agricoltura italiana non investirà in innovazione, la scarsità delle risorse di terra e di acqua, unita al cambiamento climatico e alla concorrenza internazionale potrebbero portare alla chiusura di molte imprese agricole italiane.

Detto ciò, il 18% si è detto favorevole ad acquistare a prezzi più elevati prodotti agricoli da aziende tecnologicamente arretrate; il 13% intende cambiare dieta introducendo alimenti alternativi, Il 10% acquisterà prodotti agricoli stranieri mentre il 5% sceglierà cibo prodotto in laboratorio. Ma per il 54% degli intervistati le aziende dovranno investire in innovazione per evitare gli scenari descritti».

Anna Mossini

Nota

Fonte grafici: www.nomisma.it/ forum-agrifood-monitor-linnovazione-e-competitivita-sostenibile

Ottonese: un progetto triennale per la salvaguardia della razza

Si è concluso a gennaio il progetto Convenient, fi nalizzato alla valorizzazione di una specie autoctona tipica dell’Appennino emiliano. L’iniziativa ha coinvolto il CRPA di Reggio Emilia, l’Università di Parma e una piccola azienda agricola situata sulle colline del Piacentino. Ottime le qualità organolettiche del latte prodotto. E ottima la sua caseifi cazione

di Anna Mossini

Tutelare le razze autoctone, studiarne le caratteristiche per approntare delle iniziative volte a valorizzare le produzioni che da esse derivano. È questo lo scopo del GOI (Gruppi operativi per l’innovazione) che con il progetto Convenient, partito nel 2017 e conclusosi nello scorso mese di gennaio, si è concentrato sulla Ottonese, una razza bovina originaria delle zone appenniniche dell’Emilia-Romagna, laddove la regione confi na con la Lombardia e la Liguria. Il progetto ha coinvolto il CRPA (Centro Ricerche Produzioni Animali) di Reggio Emilia, il Dipartimento di Medicina Veterinaria e di Scienze degli Alimenti e del Farmaco dell’Università di Parma e l’azienda agricola Delmolino, situata a Centopecore, piccola località del Piacentino, che, oltre ad allevare cavalli di razza Bardigiano, conta 16 bovine di razza Ottonese, sette delle quali in lattazione.

Produzione circoscritta

I risultati del progetto Convenient sono stati illustrati durante un recente webinar al quale hanno partecipato tutti i soggetti referenti. A iniziare da ELENA BORTOLAZZO del CRPA. «Oggi in Italia non si contano più di 750 capi di razza Ottonese — ha dichiarato introducendo i lavori — di queste una trentina si trovano in Emilia-Romagna. Col progetto Convenient, il CRPA ha voluto sviluppare una strategia per verifi care le potenzialità del latte prodotto da questa razza nella trasformazione lattiero-casearia. Se i numeri non possono certo essere paragonati a quelli di razze come la Frisona e/o la Bruna, la qualità del latte della

Ottonese ha dimostrato di non avere

nulla da invidiare, tant’è vero che la sperimentazione portata avanti in questi tre anni ci ha permesso

La razza autoctona Ottonese, originaria della zona appenninica di convergenza tra Lombardia, Emilia, Liguria e Piemonte, conta in Emilia-Romagna solo una trentina di capi, ma le sue caratteristiche di longevità e rusticità la rendono ancora interessante per le aree marginali rispetto ad altre razze.

Il Progetto Convenient ha studiato la Ottonese sia dal punto di vista della produttività, lavorando sullo studio delle razioni ottimali per migliorarne e standardizzarne le performance produttive, sia sulla caratterizzazione chimica, nutrizionale, tecnologica e sensoriale del latte, sia mettendo a punto formaggi mono-razza realizzabili direttamente in azienda, come fonte di integrazione del reddito dell’allevatore.

di individuarne con accuratezza le caratteristiche e le potenzialità.

Dopo aver quindi stabilito la resa casearia, il tempo ottimale per il taglio della cagliata ed effettuato le prove di caseifi cazione che ci hanno permesso di stabilire quanto formaggio è possibile ottenere da 100 kg di latte, abbiamo concluso che il latte della Ottonese è particolarmente adatto alla trasformazione in formaggi freschi, con particolare riferimento a tre tipologie: la

robiola, la crescenza a pasta molle

e la caciotta a pasta semimolle. La produzione potrebbe ampliarsi con lo yogurt, ma è evidente che a questo riguardo andranno fatte altre analisi, per lo più legate agli aspetti economici e di mercato.

Il progetto Convenient ha voluto concentrarsi sulle considerazioni di tipo tecnico, non sottovalutando la localizzazione dell’azienda e la logistica ad essa legata. Per noi era importante individuare gli aspetti potenzialmente trasferibili ad altre piccole realtà impegnate ad allevare una razza che diversamente rischierebbe l’estinzione, causando un impoverimento della biodiversità locale e di un patrimonio zootecnico che invece deve essere tutelato e, laddove possibile, incrementato pur

I formaggi di latte mono-razza per salvare la razza bovina Ottonese in via

di estinzione. Dalle prove condotte, il latte di Ottonese è risultato ottimale per la caseifi cazione. La ricerca si è focalizzata sulla produzione di tre formaggi: uno a pasta molle, uno fresco a coagulazione acida e pasta molle e un formaggio semimolle a breve stagionatura. Sulla base dell’esperienza di Convenient, tutti i tre formaggi potrebbero essere prodotti a piccola scala se si desiderasse trasformare il latte di Ottonese attraverso un caseifi cio aziendale.

con tutti i limiti che questo impegnativo percorso può nascondere».

Triplice attitudine

Robusta, rustica, capace di resistere alle diffi coltà climatiche e del territorio, la Ottonese è una razza particolarmente longeva e molto prolifi ca. Durante il webinar le sue caratteristiche sono state illustrate da ALESSIO ZANON, medico veterinario che, numeri alla mano, ha ricordato la drastica riduzione del numero di capi allevati, passati da una popolazione che nel 1959 arrivava a contare tra i 20.000 e i 25.000 soggetti, ai 300 oggi iscritti al Registro anagrafi co. «La Ottonese è una razza a triplice attitudine — ha dichiarato — latte, carne e lavoro e insieme alla Reggiana, alla Modenese, alla Garfagnina, alla Pontremolese e alla Romagnola costituisce un gruppo di sei razze autoctone tipiche dell’Emilia-Romagna, che si caratterizzano per alcuni aspetti particolarmente positivi come la resistenza potenziale alle epidemie e alle variazioni climatiche, una produttività costante anche in presenza di un’alimentazione povera, il forte legame al territorio e alle tradizioni locali, la possibilità di legarle a produzioni limitate e territoriali, le qualità organolettiche e qualitative sempre percepibili, il forte valore storico di impatto sul consumatore e l’adattabilità a sistemi di allevamento di varia natura.

Il rovescio della medaglia, però, riguarda le consistenze numeriche, il reperimento del seme e di allevatori esperti e motivati, l’aiuto tecnico, il coordinamento tra enti e la mancanza di evoluzione selettiva della razza ferma purtroppo a sessant’anni fa. Detto questo — ha concluso Zanon — non vi è alcun dubbio che le elevate caratteristiche organolettiche del latte prodotto da bovine di razza Ottonese possono rappresentare il trampolino di lancio per produzioni lattiero casearie da valorizzare, che potrebbero spuntare prezzi superiori ad altre analoghe tipologie di formaggi».

Difesa della biodiversità

Ma torniamo al progetto GOI Convenient e all’attività svolta con la collaborazione dell’azienda agricola Delmolino che ha messo a disposizione i suoi capi di razza Ottonese. Nel corso del triennio della sua durata, i campioni di latte sono stati sottoposti alle necessarie analisi per stabilirne la composizione e le caratteristiche nutrizionali, successivamente confrontati con latte prodotto da vacche di razza Frisona. Ebbene, il grasso e la proteina del latte di Ottonese ha raggiunto rispettivamente un valore di 4,71 e 3,44, a fronte di 3,54 e 2,89 della Frisona. «I risultati ottenuti dalla caratterizzazione chimica e tecnologica del latte di Ottonese — ha puntualizzato Elena Bortolazzo —dimostrano che ci troviamo di fronte ad un prodotto molto adatto alla caseifi cazione. In considerazione del numero limitato di capi e nella prospettiva di una trasformazione aziendale del latte, la scelta è ricaduta su formaggi freschi per la cui preparazione è stata utilizzata l’attrezzatura disponibile nella sala prove lettiero-casearie del CRPA.

Come dicevo, abbiamo optato per la produzione di tre diverse tipologie di formaggio, che sulla base dell’esperienza di Convenient potrebbero essere prodotti su scala ridotta se l’intenzione dell’azienda fosse quella di trasformare il latte all’interno di un caseifi cio aziendale dove, in una fase iniziale e di avvio dell’attività, i formaggi più adatti dovrebbero essere quello molle e quello semimolle a breve stagionatura. La tutela della biodiversità nel settore dell’allevamento bovino investe il tema della tutela delle razze a rischio estinzione come la Ottonese — ha concluso Elena Bortolazzo — nel tempo via via sostituite da razze più produttive, tant’è vero che oggi, in Italia, su un totale di venti razze autoctone ancora in produzione, solamente sei contano più di 10.000 capi e non più di tre hanno una diffusione nazionale.

Si tratta quindi di un patrimonio da salvaguardare per il mantenimento delle tradizioni locali e dell’ecosistema grazie alla conservazione di prati e pascoli in quelle aree marginali del Paese dove la ridotta disponibilità di alimento, la qualità del latte ma anche le condizioni climatiche spesso avverse, farebbero lievitare considerevolmente i costi di produzione di razze più produttive. A questi fattori ne va aggiunto uno non mento importante: la redditività dell’allevatore. Produzioni di nicchia, adeguatamente valorizzate e promosse sul mercato, potrebbero avere un effetto decisamente positivo a vantaggio dell’azienda ma anche del territorio».

Anna Mossini

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