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A Burano, isola di pescatori, a lezione di sarde in saor
di Chiara Papotti
Burano si trova nella parte settentrionale della laguna di Venezia, a circa 10 km da Piazza San Marco. Subito si rimane abbagliati dalle casette colorate con tinte vivaci e dalle barche ormeggiate lungo i canali. Tra i tanti venditori di souvenir, sull’isola resistono alcuni pescatori che continuano a portare avanti il rito più importante della laguna: quello della pesca. La cooperativa dei pescatori riunisce coloro che si dedicano ancora a raccogliere ciò che la laguna produce, nonostante la loro attività sia troppo spesso disturbata dai vaporetti carichi di turisti. Il mare della Serenissima è tuttora capace di stupire e di regalare reti piene, nonostante negli ultimi decenni la pesca in questo tratto di Adriatico sia molto cambiata.
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Storicamente la pesca lagunare si è sempre distinta per essere un’attività multi-attrezzo e multi-specie. A seconda del periodo stagionale, infatti, i pescatori si dedicavano a specie diverse, utilizzando una moltitudine di attrezzi.
Le due tecniche più diffuse erano quella con le reti e quella a strascico. Tra le reti più utilizzate si annoverano la “seragia”, la “trèssa” e la “chebe”, che rimanevano nell’acqua per lunghi periodi prima di essere tirate dai pescatori. Dalle barche si pescava con la “togna”, cioè la lenza arrotolata su di un pezzo di legno o di sughero. Mentre per la pesca notturna si utilizzava una fiaccola di canne, la “fàgia”, da cui deriva il nome di una tecnica di pesca tuttora utilizzata, il “fagiarotto”1
La pesca tradizionale a Burano viene ancora praticata soprattutto nei periodi di Quaresima e “fraìma”
Il primo va dalla fine dell’inverno all’inizio dell’estate (marzo-giugno); il secondo coincide con i mesi autunnali (settembre-novembre). La Quaresima coincide con l’entrata in laguna (montata) delle specie a riproduzione marina e con il periodo riproduttivo delle specie a riproduzione lagunare. Il secondo tempo, invece, sfrutta i comportamenti migratori delle specie verso le acque lagunari più profonde e il mare, in conseguenza della diminuzione di temperatura dell’acqua sui bassi fondali lagunari.
Chi pesca ancora con i metodi tradizionali lavora quasi esclusivamente con attrezzi fissi da posta, che vengono controllati e salpati regolarmente per la raccolta del pescato. Il lavoro dei pescatori comincia il pomeriggio, poco prima del calar del sole, quando escono al largo per la giornata di lavoro. Si dirigono verso la laguna oppure verso le bocche di porto e da lì, a seconda che siano “seragianti” (pescatori di granchi o gamberi che stendono le reti in acque basse), “caparozzolanti” (raccogli- tori di caparozzoli, le famose vongole di laguna), o “maranti” (coloro che vanno a pesca di scorfani, passarini, sarde e sardoni), organizzano la pesca. Proprio le sarde pescate in mare sono le protagoniste di uno dei piatti più conosciuti da queste parti: le sarde in saor.
Anche nota come “sardella” o “bianchetto”, la sardina appartiene alla famiglia Clupeidae. Può raggiungere una lunghezza massima di 20 cm, ha una carne semigrassa ed è fra i pesci più ricchi di proteine nobili, sali minerali (fosforo, potassio, calcio e selenio) e vitamine del gruppo B. In cucina viene impiegata in diversi modi: fritta, al forno, arrosto, marinata o come base di sughi. In commercio la si può trovare salata o sottolio ad un prezzo molto popolare, dovuto all’abbondante reperibilità sui mercati.
La versione “in saor” di Burano ha un sapore agrodolce, dovuto alla presenza di aceto e cipolla, necessari per garantire la lunga durata della pietanza. La buona conservazione è, infatti, la ragione che ha portato alla nascita di questa ricetta tradizionale. Mentre oggi i pescatori escono al tramonto e rientrano a notte fonda, un tempo, quando le barche erano spinte solo dalla forza dei remi, stavano al largo anche per
40 giorni. Il saor (letteralmente “in sapore”) era, quindi, l’unico modo per nutrire i pescatori, che restavano in barca per tanto tempo, senza avere la possibilità di procurarsi del cibo o di conservare a lungo quello a bordo. A questo si aggiunge il fatto che i marinai erano soliti consumare cipolle per scongiurare lo scorbuto, una carenza vitaminica molto diffusa tra chi andava per mare, perché non aveva la possibilità di nutrirsi in modo appropriato.
Sulle imbarcazioni le sarde si gustavano con la polenta, cotta nell’acqua di laguna. Alcuni storici fanno risalire questo piatto straordinario, addirittura, al 1300.
La ricetta tradizionale prevede un primo passaggio di pulitura dei pesci: si tolgono le interiora e la testa, mentre viene mantenuta la coda. Le sarde vengono quindi lavate sotto acqua corrente e lasciate sgocciolare per qualche minuto; si infarinano una ad una e si friggono in olio bollente, fino a quando risultano rigide e perfettamente croccanti. Per preparare il saor, invece, si tagliano le cipolle a fette sottili e si friggono in olio, un pizzico di sale, due bicchieri di aceto e un cucchiaio di zucchero. La cottura è lenta e a fuoco basso, fino a quando le cipolle non risultano del tutto cotte e restano croccanti. Alla fine, si posizionano le sarde in una teglia, alternandole a strati di cipolle con il liquido di cottura. Alcuni aggiungono altro aceto, finché i pesci non risultano completamente sommersi. Le sarde così preparate vengono lasciate riposare per un paio di giorni prima di essere servite.
La versione veneziana del “saor” si unisce a ricette simili come il “carpione” dei laghi lombardi, lo “scapece” del Mezzogiorno d’Italia o lo spagnolo “escabeche”. Tutte antiche preparazioni accomunate dall’idea di trattare il pesce con aceto per esaltarne le caratteristiche e allungarne la conservazione. Rimedi dovuti alla necessità ma pur sempre creazioni geniali.
Chiara Papotti
1 www.isoladiburano.it/it/pesca. html