Premiata Salumeria Italiana 1-2018

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXX N. 1 Gennaio-Febbraio 2018

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N. 1 Anno XXX Gennaio-Febbraio 2018

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Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 – New York, NY 10128 Tel. 001 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CC 2018. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2018.

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19° SALONE INTERNAZIONALE DELL’ALIMENTAZIONE

PARMA.7|10MAGGIO.2018

WELCOME TO FOODLAND


N. 1

In questo numero: Immagini

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Tendenze

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Attualità

Salumi e salumeria nell’anno del cibo italiano

Giovanni Ballarini

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Legislazione

Sede dello stabilimento in etichetta

Sebastiano Corona

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Memento

Ricordando Gualtiero Marchesi, il maestro della cucina italiana

Clara Scaglioni

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Social food

Elena Benedetti

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Macellerie e salumerie virtuali

Giovanni Ballarini

26

Il food in rete

Aziende

Meglio Solo (Così) che mal accompagnato

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Prodotti tipici

Vacanze romane: fraschette e coppiette Giorgio Montanari Lo speck secondo Stefano Tondelli, maturato con la brezza di montagna Riccardo Lagorio

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Mocetta, salume antico

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Massimiliano Rella

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Prosciutto crudo di Cuneo, una lavorazione artigianale nel rispetto della tradizione

44

Bresaola della Valtellina Igp, tutto l’anno

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Indagini

Il pranzo è servito, direttamente in ufficio

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Sapori mediterranei

In compagnia… di un fagiolino

Giorgia Fieni

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Sapori dal mondo

Un assaggio di caviale

Riccardo Lagorio

56

Dal vassoio alla tavola gourmet: i bignè

Giorgia Fieni

60

Curiosità

Cuocere con la mattonella di sale: dal rosa dell’Himalaya al bianco di Cervia Nunzia Manicardi

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Genuine food

Rural, il festival della biodiversità agricola

Veronica Fumarola

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Week-end

L’oro bianco della Sardegna

Sebastiano Corona 74

Les Halles, ad Avignone il mercato diventa green

Massimiliano Rella

Fiere Formaggio

Vino

Viva la Marca del Distributore

84

Nel Coros classico la vocazione di una regione a tutta caseina

Massimiliano Rella

88

Il Saltarello e i suoi fratelli in attesa della Dop

Nunzia Manicardi

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Cerasuolo di Vittoria, vino di frontiera, vino del futuro

Riccardo Lagorio

98

ORTO Venezia, vino di laguna sull’isola di Sant’Erasmo

Gian Omar Bison

102

Scarpe grosse e cervello FIVI I vini di Premiata Salumeria Italiana

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Degustazione: coppiette e vino

106 Laura Franchini

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In copertina: coppiette, salume tipico della regione Lazio (photo © Massimiliano Rella).

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Birra

Bradipongo: piccoli birrifici crescono

Gian Omar Bison

Dolci

Seadas, la pasta si fa dessert

Sebastiano Corona 118

Aceto

Aceto Balsamico di Modena Igp, radici forti che viaggiano lontano

Tecnologie

Dall’origine alla tavola in tutta sicurezza

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120 122

Conservazione e qualità dei salumi

Giovanni Ballarini 124

Storia e cultura

Il tabacco in cucina

Giovanni Ballarini 126

Libri

Guide di gusto per tutti i gusti

130

Osterie d’Italia, il racconto della nostra identità

132

Cibo è potere (e libertà)

134

Le città invincibili: Matera 2019

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Sessanta cose impossibili prima di pranzo

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IMMAGINI

La mocetta è una carne essiccata, oggi in prevalenza di bovino, ma in passato anche di camoscio, cervo o cinghiale. Il salume è incluso nel tradizionale tagliere delle Alpi occidentali e riconosciuto come Prodotto Agroalimentare Tradizionale italiano. Il servizio di Massimiliano Rella su questo salume antico è a pagina 40 (stagionatura della mocetta presso la macelleria-salumeria Pavese a Morgex; photo © Massimiliano Rella).

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TENDENZE

J is for Jacket potatoes

Sono un classico della cucina anglosassone, golose patate al forno farcite e spesso indicate semplicemente sui menu come baked potatoes. Il “ripieno” può variare moltissimo, con Cheddar e bacon abbrustolito a farla da padroni e una sostanziosa dose di burro salato che solitamente non manca mai. Ma la polpa soffice all’interno e la buccia croccante della baked potato fanno da base per aggiungere i formaggi e/o i salumi che preferite. «Una base su cui inventare, esprimere creatività e qualità dei prodotti» ha detto Antonio Testa, uno dei cinque soci del nuovo locale aperto lo scorso ottobre a Milano interamente dedicato alla baked potato all’italiana: Gialle & Co (gialleandco.com). 15 ricette/patate in tutto, 13 sempre nel menu più altre 3 che cambiano secondo la stagione, ideate dallo chef Andrea Vigna. Per l’aperitivo ci sono invece le minibaked, farcite e servite come finger food, da accompagnare a vino e birra artigianale Canediguerra. In Redazione anche noi abbiamo scelto la nostra potato: è la Crudelicious, con songino, burrata e prosciutto crudo, al naturale e croccante di Fattoria Ca’ Dante. Italians bake it better!

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ATTUALITÀ

Salumi e salumeria nell’anno del cibo italiano Tra i cibi che meglio caratterizzano lo stile italiano della tavola i salumi hanno un posto di rilievo, dimostrato dal loro aumentato successo anche all’estero di Giovanni Ballarini

I

l Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, assieme al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, ha proclamato il 2018 “Anno nazionale del cibo italiano”, ribadendo come la sua tutela e

la sua promozione significhino fare cultura e stimolare due settori fondamentali della nostra economia. Molti e continui sono i riconoscimenti del valore delle produzioni alimentari italiane e delle cucine del nostro paese, testimoniate

anche da riconoscimenti internazionali, ultimi dei quali quelli UNESCO, ma non bisogna dimenticare che il nostro patrimonio enogastronomico non è soltanto la Dieta Mediterranea (peraltro sempre meno seguita), la pasta, l’arte

Una delle locandine della campagna social promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo insieme al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, condivise dall’account Instagram @museitaliani. La campagna social invita a visitare gli oltre 420 musei, parchi archeologici e luoghi della cultura italiani, a cercare, fotografare e condividere il tema del mese con l’hashtag #annodelciboitaliano (photo © www.beniculturali.it).

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del pizzaiolo napoletano o i vini che stanno conquistando il mondo; essa comprende infatti anche le carni e tra queste soprattutto quelle di maiale, con le loro trasformazioni in mille salumi che interpretano i caratteri e le culture delle regioni della nostra penisola. I salumi italiani, molte volte più antichi della pasta, sono espressioni di una cultura che interessa molti distretti del cibo, coinvolgendo tutti i protagonisti della filiera: allevatori, trasformatori, distributori, cuochi e consumatori. Valorizzare i mille salumi tradizionali italiani non è soltanto sottolineare gli indubbi successi raggiunti da questo settore, ma un modo di ribadire il profondo legame che hanno con il paesaggio e l’identità di chi li produce mantenendo in vita tradizioni plurisecolari, con la capacità d’interpretare i cambiamenti e assecondando le esigenze dei nuovi consumatori, sempre più attenti alla salubrità della loro dieta. Il 2018, anno del cibo italiano, deve essere l’occasione per tutelare maggiormente le nostre produzioni salumiere e soprattutto per valorizzare il gran numero di salumi che ancora oggi, quasi ignoti ai più, ristagnano nei giacimenti enogastronomici di cui l’Italia è tanto ricca da dimenticarsene. Se alcuni salumi italiani hanno raggiunto una grande notorietà anche all’estero, moltissimi altri hanno la possibilità, se non il diritto, di avere un altrettanto grande successo e l’anno del cibo italiano è un’occasione imperdibile che deve vedere presenti e uniti i produttori, i trasformatori, gli operatori della grande e piccola distribuzione e i consumatori, così come i cuochi che hanno in primo luogo la possibilità di proporre nuovi usi e accostamenti dei salumi in una cucina moderna e adatta agli attuali stili di vita. I salumi italiani, dalle Alpi al Capo Lilibeo, accanto ai vini, sono tra i principali cibi che attraggono l’attenzione del turismo nazionale e internazionale, iniziando dalla loro varietà, che cambia da regione a regione e da luogo a luogo, facendo dell’Italia un paese nel quale il confine tra arte e cibo scompare offrendo ai viaggiatori la possibilità di vivere all’italiana. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Pres. On. Accademia Italiana della Cucina

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LEGISLAZIONE

Sede dello stabilimento in etichetta di Sebastiano Corona

L

a telenovela continua, sebbene possiamo dire di essere arrivati ora ad un punto fermo. L’indicazione della sede dello stabilimento di produzione diviene infatti un nuovo obbligo. E, a dirla tutta, non si tratta per l’Italia di una novità assoluta, visto che il nostro ordinamento, al contrario degli altri Paesi europei, ne prevedeva la perentorietà prima che divenisse operativo il Regolamento 1169/2011/UE. Dopo varie vicissitudini, proteste dei consumatori, petizioni on-line, accuse tra forze politiche, è stato il Decreto Legislativo 145/2017 che disciplina la fornitura di informazioni sugli alimenti a sancire che la sede dello stabilimento di produzione o confezionamento debba comparire in etichetta. I prodotti alimentari preimballati destinati al consumatore finale devono riportare sul preimballaggio o su

un’etichetta ad esso apposta, oltre alle note informazioni imposte negli articoli 9 e 10 del Reg. 1169/2011, anche la sede dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento. I prodotti alimentari commercializzati in una fase precedente alla vendita al consumatore finale possono riportare la sede di produzione o confezionamento sui documenti commerciali, purché tali documenti accompagnino l’alimento cui si riferiscono o siano stati inviati prima o contemporaneamente alla consegna. La sede dello stabilimento di produzione è identificata dalla località e dall’indirizzo dello stabilimento produttivo e può essere omessa nel caso in cui: a. la sede coincida con l’indirizzo del soggetto responsabile delle informazioni in etichetta; b. i prodotti alimentari preimballati

riportino il marchio di identificazione di cui al Reg. (CE) 853/2004 o la bollatura sanitaria ai sensi del Reg. (CE) n. 854/2004; c. il marchio contenga l’indicazione della sede dello stabilimento. Le disposizioni del decreto 145 non si applicano ai prodotti alimentari preimballati, legalmente fabbricati o commercializzati in un altro Stato membro dell’UE o in Turchia o fabbricati in uno Stato membro dell’EFTA, parte contraente dell’Accordo sul SEE. Nel caso in cui il responsabile dell’informazione sugli alimenti disponga di più stabilimenti, è consentito indicarli tutti, purché quello effettivo sia evidenziato mediante punzonatura o altro segno. Il provvedimento è già operativo dall’ottobre scorso, ma gli alimenti immessi sul mercato o etichettati entro il termine di cui sopra possono essere

Il Decreto Legislativo 145/2017 che disciplina la fornitura di informazioni sugli alimenti sancisce che la sede dello stabilimento di produzione o confezionamento debba comparire in etichetta (photo © Sergey Ryzhov – stock.adobe.com).

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commercializzati fino all’esaurimento delle scorte. L’autorità competente all’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente decreto è l’ICQRF del MIPAAF, ferme restando le competenze spettanti, ai sensi della normativa vigente, agli organi preposti all’accertamento delle violazioni. Le sanzioni amministrative sono importanti, soprattutto se si considera che il tessuto produttivo nazionale è composto prevalentemente da micro e piccole imprese, per le quali certe somme potrebbero essere spropositate. Vanno da 2.000 a 15.000 euro per chiunque non riporti l’indicazione sul preimballaggio o sull’etichetta o sui documenti commerciali. Nel caso in cui l’impresa che dispone di più stabilimenti non evidenzi quello effettivo mediante punzonatura o altro segno è soggetto alla sanzione amministrativa da 2.000 euro a 15.000 euro. Va invece da mille euro a 8.000 euro la sanzione per chi riporta in etichetta l’indicazione dello stabilimento di produzione o confezionamento, senza rispettare le regole stabilite dal Regolamento 1169/2011. Questo decreto spazza via le polemiche innescate in questi anni da chi,

spesso senza reale cognizione in merito, ha sostenuto che l’assenza dell’indicazione dello stabilimento produttivo come informazione al pubblico minasse alla salute del consumatore. Ma la salubrità del nostro cibo — gli operatori lo sanno bene — fortunatamente, è garantita da ben altre regole e da un impianto normativo ampio e complesso. Non è infatti tanto o solo questa indicazione a permettere alle autorità di controllo di attivare le azioni utili a mitigare il rischio per la salute pubblica in caso di allerta. Lo sono ben altre disposizioni! Era e rimane semmai più condivisibile la posizione di chi sosteneva che l’indicazione dello stabilimento produttivo fosse importante per consentire ai singoli di fare una scelta di acquisto consapevole e guidata da legittime motivazioni economiche e occupazionali. È vero che la trasformazione del prodotto in un certo luogo non assicura che anche la materia prima abbia la stessa provenienza, ma se il consumatore intende sostenere il proprio territorio acquistando cibi realizzati in loco, è certamente sulla buona strada. L’obbligo è stato comunque reintrodotto, seppur

solo in Italia, e questo significa che non è più possibile per l’impresa decidere o meno di indicarla a seconda della propria politica aziendale. E, al di là delle vicissitudini tipiche del nostro ordinamento di omettere o generare norme che nel loro complesso creano più disorientamento che certezze, riteniamo che indicare la sede dello stabilimento possa, anzi debba, essere considerata come un’opportunità importante, da tanti punti di vista. Prova ne è il fatto che questa scelta, finora facoltativa, era invece stata fatta da decine di imprese della produzione e della distribuzione. Mentre nei mesi scorsi si consumava la polemica sul tema, infatti, moltissimi nomi della GDO e DO e diverse aziende leader nel proprio settore, avevano dichiarato di voler mantenere l’indicazione sulle confezioni del prodotto, sebbene ne fosse venuto meno l’obbligo. Una scelta, questa, letta dal mercato come una forma di rispetto e un segnale importante di trasparenza che ha avuto certamente dei riflessi sul piano commerciale e sui numeri di bilancio di quelle imprese. Sebastiano Corona

Casa Modena (GSI) passa all’Unibon Dopo quasi vent’anni si chiude la partnership che ha fatto nascere il leader italiano nel settore dei salumi: la famiglia altoatesina Senfter ha infatti ceduto alla modenese Unibon le quote del 50% che deteneva in IS Holding Spa, la controllante al 100% di Grandi Salumifici Italiani. La cessione nasce dalla volontà di Senfter di concentrarsi su investimenti a carattere locale, in particolare nell’ambito turistico, in cui è già attivo da diverso tempo. Per gli stabilimenti produttivi di Chiusa e San Candido, invece, non cambierà nulla: i posti di lavoro sono assicurati e i dipendenti continueranno a lavorare sotto l’insegna GSI. «Dopo 17 anni di collaborazione — ha spiegato Helmuth Senfter, vicepresidente di Senfter Holding — abbiamo deciso di percorrere altre vie. Per entrambi i gruppi si aprono così nuove prospettive». Secondo Senfter «i tre stabilimenti altoatesini sono tra i gioielli del gruppo GSI. Negli ultimi cinque anni sono stati investiti 50 milioni di euro e gli stabilimenti sono ai massimi livelli. I posti di lavoro in Alto Adige sono al sicuro. Gli impianti svolgono un ruolo fondamentale nel gruppo. La direzione centrale è stata a Modena fin dall’inizio e lì rimane. Quindi continua tutto come prima». La transazione è soggetta all’approvazione dell’autorità garante della concorrenza e del mercato e il perfezionamento è previsto entro il primo bimestre 2018. Grandi Salumifici Italiani (nota per i marchi Casa Modena, Alcisa, Senfter) fattura oltre 650 milioni di euro con più di 1.500 dipendenti impegnati nei 13 stabilimenti produttivi tra Emilia-Romagna, Toscana e Trentino Alto Adige. L’azienda esporta in 34 Paesi del mondo. Il piano industriale al 2021 prevede un fatturato oltre ai 900 milioni, ma il Gruppo punta “ragionevolmente” a superare il miliardo di euro. Milo Pacchioni, presidente di Unibon e attuale presidente di IS Holding, e Giuliano Carletti, vicepresidente di Unibon e GSI, hanno commentato: «Dopo quasi un ventennio di fruttuosa collaborazione con la famiglia Senfter, Unibon intende sostenere GSI quale grande player nazionale del food e polo di aggregazione a livello nazionale, volto ad espandersi sui mercati nazionali e esteri nei prodotti della tradizione e nei settori innovativi. Siamo certi che tutte le risorse umane coinvolte sapranno sostenere e vincere le nuove sfide». (EFA News, www.efanews.eu)

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MEMENTO

Ricordando Gualtiero Marchesi, il maestro della cucina italiana di Clara Scaglioni

H

o provato una grande emozione e tanta tristezza quando dai giornali ho appreso la notizia della morte di GUALTIERO MARCHESI. Con questo importante personaggio della cucina italiana ho iniziato nel suo ristorante di Milano, in via Bonvensin Della Riva nel 1987, il mio personale percorso di appassionata studiosa della cucina e della sua storia. Ognuno di noi porta nel proprio DNA quanto appreso nella vita privata e, nel mio caso specifico, devo riconoscere che la famiglia nella quale

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sono nata ha molto influenzato le scelte poi sviluppatesi nella maturità . La mia mamma era un’insegnante originaria di Palermo e mio padre un importante funzionario dello Stato che veniva da un paese del Cilento, terra consacrata per la dieta mediterranea. Abitavamo a Piacenza dove i miei genitori svolgevano il loro lavoro. Alla mia mamma non piaceva cucinare; per lei la cucina non era una cosa importante e il tutto, anche per i suoi impegni con la scuola, era demandato alla donna di servizio. Mio padre, invece, avrebbe desiderato che

in casa gli si cucinassero quei semplici piatti della sua terra, come le polpette di patate in umido o le melanzane imbottite, ma questo avveniva molto molto raramente. La nostra alimentazione, ricordo, era a base soprattutto di verdure di stagione. La mamma faceva il sugo con il pomodoro buono, gli struffoli per Natale, la pastiera per Pasqua, le cotolette e la carne alla pizzaiola. Non ricordo altro della sua cucina. Nel 1955 ci trasferimmo a Modena. Frequentavo allora il secondo anno del liceo classico e, quando le mie

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compagne di classe festeggiavano, ad esempio, un compleanno in casa con gli amici, le loro mamme preparavano delle specialità per il buffet per me incredibili. Per la prima volta sentivo parlare di galantine, zamponi, pasticci, bavaresi, semifreddi vari, piatti non solo con nomi a me in parte sconosciuti ma buonissimi, per cui restavo affascinata da tanta bravura in evidente contrasto con la semplice e mediterranea cucina di casa mia. È da quel momento che maturò in me il desiderio di capire e comprendere meglio la cucina, tra l’altro tanto diversa fra il Nord e il Sud d’Italia, sia per motivi climatici che politici, avendo avuto la nostra terra nei secoli dominazioni di origini diverse, come i Borboni, gli Arabi, gli Svevi-Normanni, gli Estensi, ecc... che hanno lasciato la loro influenza anche in cucina. Mi sposai giovanissima ed ebbi la fortuna di avere al mio fianco una domestica che mi insegnò le tante specialità della cucina di tutti i giorni, ma il mio pensiero fisso era quello di approfondire l’argomento. Così, quando i miei figli diventarono grandi, decisi che era arrivato il momento di andare a scuola per capirne sempre di più. Nel 1987 non esistevano corsi di cucina come quelli che pullulano oggi: solo gli istituti alberghieri davano le giuste preparazioni a chi voleva intraprendere la carriera di cuoco. Forse, sarà stata l’esigenza sentita già da molte persone allora a spingere i cuochi più noti del momento, MARCHESI, ANDREAS di Villa Mozart a Merano, ANGELO PARACUCCHI di Amelia in provincia di La Spezia, ad aprire le proprie cucine a chi desiderava imparare e scoprire le preparazioni alla base delle nostre specialità tipiche. Venni a conoscenza di questa opportunità e telefonai al ristorante di Marchesi. Sapevo già che per la sua grande attenzione allo spirito di rinnovamento che animava l’alta cucina francese del momento, era stato insignito della prima stella Michelin nel 1977, della seconda nel 1978 e, nel 1985, della terza, considerato dalle più autorevoli guide tra i quindici migliori ristoratori al mondo. Al ristorante mi dissero che le lezioni, riservate a 12 persone soltanto, si svolgevano l’ultimo sabato di ogni mese. Chiesi di essere messa in lista di attesa e, dopo due mesi, venni contattata. Poteva partecipare anche

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Gualtiero Marchesi e Clara Scaglioni (photo © Clara Scaglioni). una mia amica, ma dovevamo assolutamente arrivare al ristorante entro le 8,30 del mattino. Significava per noi partire da Modena con un treno in arrivo dal Sud verso le cinque. Cosa che facemmo e, con un taxi preso al volo alla stazione di Milano, arrivammo puntuali. Entrate nel ristorante ci fecero accomodare in una sala dove alcuni camerieri premurosi servivano agli allievi in arrivo da varie parti d’Italia una ricca prima colazione, in attesa di Marchesi che, alle 9 in punto, avrebbe iniziato la lezione. Ricordo che entrammo in cucina dove ci attendevano il Maestro e un cameriere che consegnò ad ognuno di noi il brogliaccio nel quale erano scritte, per seguirne i vari passaggi, le ricette che avremmo visto mano a mano realizzare. Io ero estasiata: sarebbe stato preparato un pranzo completo dall’antipasto al dolce. Con l’aiuto di un cuoco, Marchesi spiegava quanto era programmato con chiarezza e

rispondeva con gentilezza anche alle domande strampalate che gli venivano fatte dai presenti. Il menù prevedeva, insieme alla terrina di coniglio, alle costolette di agnello in sfoglia e alla gelatina di arance, la realizzazione del famoso raviolo aperto, piatto fondamentale della sua cucina; ero incantata nel vedere la foglia di prezzemolo che, tra due strati di pasta da lasagna passata più volte nella macchina, dilatandosi tra i suoi rulli, diventava una specie di dipinto astratto all’interno della sfoglia. Una bellezza unica, mai vista, almeno da me, che pendevo dalle parole di Marchesi, il quale preparava i piatti previsti e che poi avremmo assaggiato tutti insieme. Verso le 12 ci fecero prendere posto attorno a una lunga tavola rettangolare, in una sala del ristorante dove a capotavola ci attendeva Marchesi; mangiò con noi e commentò i piatti preparati in cucina, serviti con i vini consigliati dal sommelier ANGELO SOLCI e accom-

Uno spirito libero, arguto e coraggioso che con la sua cucina, basata sulla materia, l’essenzialità e l’eleganza, ha rivoluzionato la tradizione diventando un esempio per i futuri cuochi

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Gualtiero Marchesi ha cambiato la cucina italiana, partendo da un piccolo ristorante di Milano. È stato il primo a conquistare le tre stelle Michelin, il primo a restituirle. Un maestro insuperabile per tanti cuochi oggi famosi. pagnati da aneddoti vari raccontati dal suo amico MEDAGLIANI, che aveva un famoso negozio di articoli di cucina e gli procurava i tegami necessari per il suo lavoro.

Un’esperienza bellissima, che ancora oggi mi emoziona e che ebbi l’opportunità di ripetere nel 1992. Nel 1991, intanto, avevo fondato il Club del Fornello di Modena, un

club al femminile senza scopo di lucro, oggi presente in tante città italiane, che riunisce padrone di casa appassionate di cucina, per cui chiesi di potere avere una lezione per il mio gruppo. Fu in

Il lascito di Gualtiero Marchesi nella sua Fondazione A poche ore dalla sua scomparsa, la Fondazione Gualtiero Marchesi ha salutato il cuoco, il Maestro e l’uomo di cultura. “Uno spirito libero, arguto e coraggioso che con la sua cucina, basata sulla materia, l’essenzialità e l’eleganza, ha rivoluzionato la tradizione diventando un esempio per i futuri cuochi”. Qual è lo scopo e il terreno di gioco della Fondazione Gualtiero Marchesi? “Partire dai ragazzi e prepararli al bello fin dall’età prescolare, coltivandone il gusto per tutte le arti attraverso corsi di musica, di pittura, di scultura, laboratori teatrali e culinari. Scoprire la verità di un sapore richiede la stessa attenzione e il medesimo slancio che accompagna l’ascolto della musica, la conoscenza di uno strumento, l’uso del disegno, l’abbandono al gesto teatrale. Accanto a questa sorta di nido d’arte, la Fondazione Gualtiero Marchesi si occuperà anche degli adulti, in particolar modo dei cuochi che hanno già iniziato un loro percorso lavorativo o che, magari, sono appena usciti dai corsi di formazione di ALMA, la Scuola internazionale di Cucina italiana. A questi, che hanno già imparato a cucinare, si prospetta il passo successivo, quello più arduo per il quale è indispensabile la presenza di un maestro: l’apertura ad una visione creativa. La creatività è qualcosa di diverso rispetto alla maestria. Ci sono persone bravissime che non creano né creeranno mai nulla. La questione di fondo è un’altra. Capire cosa significhi creare, allenando lo spirito a quel salto che distingue, nei momenti di grande libertà, una grande esecuzione da un un’opera d’arte”. >> Link: www.marchesi.it

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quell’occasione che Marchesi ci fece conoscere sua moglie, una nota pianista. Marchesi accettò e dopo un mese ci comunicò la data del suo arrivo. La sede che ci era parsa più appropriata per preparare la colazione del Fornello e ricevere il Maestro era villa Manodori di Montale Rangone, di proprietà della “fornella” Luisa Rabino Giberti: una villa del 1700, con un bellissimo parco. Tutti facemmo il possibile per ricevere al meglio l’illustre ospite. Il generale CESARE PUCCI (la moglie PIERA partecipava alla lezione), che allora comandava l’Accademia Militare, gli fece visitare l’Accademia e le cucine in particolare, come lui desiderava. Poi una “fornella” lo accompagnò a Montale Rangone, dove tutte noi, emozionatissime, avevamo preparato un pranzo a base di specialità modenesi. Al pranzo partecipò anche il dottor GIORGIO FINI, grande amico del padre di Luisa, e fu un successo. So che Marchesi apprezzò questo nostro invito e quando lo incontrai nuovamente, nel gennaio 2008, a Milano, alla prima giornata della manifestazione Identità Golose, mi salutò con affetto dicendomi che si ricordava ancor di me, nonostante gli anni trascorsi. In seguito alla mia esperienza con Gualtiero Marchesi ho fatto tanti altri corsi di cucina. Ho frequentato per anni la scuola Alto Palato di Milano di TONY e TERRY SARCINA, dove ho visto lavorare anche VISSANI; sono stata da PARACUCCHI ad Amelia; ho fatto lezione con tantissimi chef, BRUNO BARBIERI, IGLES CORELLI, MASSIMO BOTTURA, tutti insegnanti bravissimi, ma la classe, la cultura di Marchesi e la sua signorilità innata lo hanno reso ai miei occhi una persona speciale: averlo conosciuto ed essergli stata accanto in quella mia indimenticabile esperienza è stato un vero privilegio. Quando, per disaccordo con chi concedeva le stelle Michelin, decise di rinuciarvi e restirtuirle, io gli mandai un messaggio nel quale sostenevo che non aveva bisogno di valutazioni, essendo ormai una figura al di sopra di tutto e tutti. Rimasi senza parole quando ricevetti il suo biglietto col quale mi ringraziava per il sostegno. Questo era Gualtiero Marchesi, un personaggio unico da tenere nella nostra memoria. Un italiano vero. Clara Scaglioni

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Aceto Balsamico di Modena Acetaia Leonardi che da sempre coltiva le proprie vigne scegliendo metodi naturali, presenta una nuova gamma per rispondere alla domanda sempre crescente di prodotti certificati biologici. Nasce così LEONARDI BIO, una famiglia completa di prodotti rivolta ai mercati specializzati che garantiscono al consumatore un metodo di coltivazione che consenta di trattare terreni e vigneti senza l’uso di pesticidi chimici, concimi sintetici e senza organismi geneticamente modificati, garantendone così la massima qualità e sicurezza.

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Vi invitiamo a visitare la V nostra Acetaia e il Museo, dove, da più di 130 anni, i migliori Balsamici invecchiano in uuna riserva di botti unica al mondo.

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Tante storie, una sola Favola.

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IL FOOD IN RETE

Social di Elena

2. Le pagine web di Allan Bay 1. San Pietro, prosciutti belli e buoni È on-line il nuovo sito di SAN PIETRO, www.sanpietro.com, l’azienda di Annalisa Sassi che a Lesinano de’ Bagni, nel cuore della food valley parmense, seleziona le migliori cosce di suino e le stagiona seguendo le regole della tradizione salumiera emiliana. Bellissime le immagini e i video e utili sono le ricette di alcuni food blogger che danno suggerimenti per l’uso del prosciutto di Parma in cucina.

Anno nuovo, sito nuovo. Lo scrittore enogastronomico meneghino ALLAN BAY, studioso e cultore della cucina, ha iniziato una nuova avventura sul web con www.allanbay.it. Uno spazio che raccoglie le recensioni sui ristoranti di Milano (e non solo), oltre a ricette, tecniche di cottura, negozi da visitare, cocktail, vini e altro ancora. Da leggere e seguire come buona abitudine (photo © dialoghisulluomo.it).

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food Benedetti

3. Un corto per raccontare «Trasmettere in maniera diretta ed emozionale il messaggio chiave che dietro l’unicità e la straordinarietà del nostro sistema agroalimentare e delle sue eccellenze c’è il cosiddetto “quinto elemento”, ovvero quella capacità, tutta italiana, di combinare in maniera irriproducibile materie prime di elevata qualità, un’abilità unica di trasformazione, tradizioni secolari unite a costante innovazione tecnologica, un’agricoltura efficiente e sostenibile e territori caratterizzati da una immensa biodiversità». Così i presidenti di ICE e FEDERALIMENTARE, Michele Scannavini e Luigi Scordamaglia, hanno raccontato l’obiettivo del video The Fifth Element, realizzato dall’Agenzia ICE. Ecco il link al video: youtu.be/8262LZEfcEY. Molto bello!

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4. Sempre più Instagram Se dai quarant’anni in su Facebook è la piattaforma social di riferimento per comunicare, flirtare, litigare e polemizzare, i giovani e giovanissimi preferiscono di gran lunga Instagram.com. Per condividere immagini e video, attraverso le stories e i post, raccontando umori e sensazioni. Gli analisti del web prevedono una vertiginosa crescita di questo canale nel corso del 2018 (nell’immagine uno scatto della Instagrammer fiorentina ELISA RICCI, aka wonderdida; photo © instagram.com/wonderdida).

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Macellerie e salumerie virtuali L’inarrestabile avanzata del commercio digitale sta modificando la vendita al dettaglio, anche quella alimentare, compresa la distribuzione di carni e salumi di Giovanni Ballarini

Il sito web di MoodItaly, shop-on line che propone prodotti di alto pregio (photo © www.informalive.it).

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upermercati e negozi di vendite al dettaglio stanno chiudendo in America, Europa e Italia. Negli Stati Uniti dopo Sharper Image, CompUSA e Circuit City, anche RadioShack ha ridotto la propria presenza sul territorio; cento sono le chiusure di negozi della catena Macy’s, fallita è la H.H. Gregg (220 store) e si profilano i licenziamenti Walmart. Interessate a una diminuzione di vendite sono le catene di distribuzione dell’elettronica e dell’abbigliamento come Aeropostale, Pacific Sunwear of California, Sports Authority, American Apparel. Queste chiusure e riduzioni di vendite dipendono dall’avanzata del

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commercio elettronico o e-commerce e per ogni occupato nelle strutture del commercio digitale se ne perdono sei nel tradizionale e nell’indotto. Una rivoluzione nella distribuzione, che da moderna sta diventando postmoderna, e recente è la notizia di un nuovo servizio del colosso americano Amazon con il lancio dei suoi prodotti con marchio privato. In Italia, secondo CONFCOMMERCIO, chiudono i negozi al dettaglio nei centri storici delle città, mentre aumentano, in particolare al Sud, gli ambulanti e la categoria della ristorazione con alberghi, bar e ristoranti. La chiusura dei negozi è dovuta all’incremento dell’età media della popolazione, che consuma meno,

e all’alto costo dell’affitto, mentre una progressiva importanza sta acquistando il commercio elettronico. Nel nostro Paese il commercio elettronico in generale e quello alimentare in particolare hanno un’utenza relativamente limitata e non sono ancora tanto diffusi da provocare una rilevante chiusura di esercizi, ma questa non tarderà a diffondersi e a produrre conseguenze simili a quelle nordamericane. In una sfida tra il negozio “fisico” e quello “virtuale”, in un mondo sempre più dominato dalla rete informatica, quali sono le previsioni per il commercio alimentare al dettaglio e soprattutto per quello di carni e salumi? Di norma gli Italiani prediligono la rete

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Incredibilmente vaste sono le prospettive per i prodotti tipici e di nicchia che solo con il commercio elettronico possono essere conosciuti e soprattutto consumati in Italia e all’estero. L’Italia è ricchissima di questi prodotti, soprattutto di salumi, gran parte dei quali non sono sempre facilmente reperibili sui banchi dei tradizionali negozi di alimentari

Gli alimenti freschi non hanno caratteristiche facilmente comunicabili con scritti e tabelle e la loro osservazione dal vivo permette un apprezzamento che nessuna immagine elettronica può dare. Ed è su questo aspetto che occorre lavorare

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Gli Italiani prediligono la rete per l’acquisto di prodotti legati a turismo (alberghi, ristoranti, ecc…), elettronica e abbigliamento, ma sta crescendo l’interesse per alcuni comparti alimentari, specialmente quello di vini e liquori (photo © zinkevych – stock.adobe.com). per l’acquisto di prodotti legati a turismo (alberghi, ristoranti, ecc…), elettronica e abbigliamento, ma sta crescendo l’interesse per alcuni comparti alimentari, specialmente quello di vini e liquori. La rete, anche in Italia, comincia ad essere un punto di riferimento per quanti sono alla ricerca di prodotti di pregio, di nicchia, legati al territorio. Già diverse aziende alimentari d’intermediazione si affacciano su internet, proponendosi come sistema alternativo, più comodo e sicuro, per offrire alimenti tipici o di alta gastronomia a consumatori che altrimenti sarebbe difficile o quasi impossibile intercettare. I sistemi di distribuzione elettronica sono attraenti per una classe di popolazione prevalentemente giovanile, con una buona preparazione informatica, ben introdotta nella rete, che in questo ambiente virtuale trova un particolare piacere nella ricerca, scelta e acquisto di novità. Sempre più persone, attraverso l’e-commerce, comprano diversi beni (libri, dvd, oggetti vari e abbigliamento), ma verso i prodotti alimentari mostrano ancora ingiustificate diffidenze. Prevale spesso la paura di incorrere in frodi (agropirateria), adulterazioni (modificazione della composizione naturale), contraffazioni, sofisticazioni

(aggiunta di sostanze non consentite per migliorare gli aspetti organolettici quali odore, colore, sapore e consistenza) e alterazioni. Quali sono le prospettive per il settore delle carni e dei prodotti trasformati in quelle che diventeranno macellerie e salumerie “virtuali”? Per carne e derivati, come per altri alimenti, il commercio elettronico può offrire il piacere della ricerca di prodotti “particolari”, a diffusione locale, pressoché sconosciuti fuori dal proprio ambito, ma è necessaria una distinzione tra “alimenti freschi o a breve conservazione” e “alimenti a lunga conservazione”, con l’ovvia preliminare osservanza delle normative in vigore. Gli alimenti freschi non hanno caratteristiche facilmente e completamente comunicabili con scritti e tabelle e la loro osservazione dal vivo permette un apprezzamento che nessuna immagine elettronica può dare. Manca inoltre la possibilità di un preventivo assaggio “olfattivo” e “gustativo”, molto importante per il piacere dell’acquisto. Per di più, i tempi di consumo sono piuttosto brevi e costituiscono un parziale ostacolo per un commercio elettronico, anche per problemi di ma-

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In Italia esiste Quomi (www.quomi.it), un servizio di delivery che, invece di portare piatti già pronti, consegna ingredienti con relativa ricetta per realizzarli. Di qualità, freschi e già dosati, i prodotti freschi vengono inseriti in un contenitore isotermico che, insieme alle buste di gel refrigerante congelato, garantisce una temperatura tra 0 e 5 ºC per 24 ore. Carne, pesce e latticini viaggiano così in tutta sicurezza fino alla consegna (photo © www.quomi.it). gazzinaggio e distribuzione. Questo giustifica l’offerta prevalente, da parte dell’e-commerce, di prodotti alimentari a lunga scadenza, confezionati o surgelati e consegnati in apposite confezioni termocontrollate. Per il prodotto fresco è necessaria una chiara e dettagliata presentazione e, soprattutto, un’ottima presentazione della ditta che, con il suo marchio, deve dare sicurezza al consumatore. Seguendo questa linea si potranno commercializzare per via elettronica tagli di carne pregiati, di razze nobili, di selvaggina, confezio-

nati in modo adeguato, refrigerati e in qualche caso congelati o surgelati, poi distribuiti in modo adeguato. Per i prodotti carnei conservati, indubbia sarà l’espansione dell’ecommerce degli alimenti in scatola e dei derivati (sughi, salse, ecc…), che hanno tempi di scadenza molto lunghi. Particolarmente interessanti sono le prospettive per i prodotti di macelleria (hamburger, ecc…) e soprattutto di salumeria, adeguatamente confezionati. Molto importante in questo mercato è ribadire l’importanza di una buona pre-

In passato il consumatore trovava nella sua macelleria/ salumeria tradizionale il macellaio/salumiere che gli dava fiducia; nella nuova macelleria o salumeria “virtuale” del commercio elettronico è nella marca che il consumatore troverà la fiducia di cui ha necessità

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sentazione della marca, indispensabile per dare fiducia al consumatore e fargli superare ogni diffidenza. Altrettanto vaste sono le prospettive per i prodotti tipici e di nicchia che solo con il commercio elettronico possono essere conosciuti e soprattutto consumati in Italia e all’estero. L’Italia è ricchissima di questi prodotti, soprattutto di salumi, gran parte dei quali non sono sempre facilmente reperibili sui banchi dei tradizionali negozi di alimentari. Alcuni, di ottime marche, sono già disponibili on-line e moltissimi altri potrebbero usufruire del commercio elettronico per conquistare nuove fasce di consumatori. Nel passato il consumatore trovava nella sua macelleria o salumeria tradizionale il macellaio o il salumiere che gli dava fiducia; nella nuova macelleria o salumeria “virtuale” del commercio elettronico è nella marca che il consumatore troverà la fiducia di cui ha necessità. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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AZIENDE

Meglio Solo (Così) che mal accompagnato Alimentari Radice mette al bando i nitriti e gli zuccheri e lancia un prodotto unico sul mercato, un cosciotto di suino a lenta cottura che contiene solo tre ingredienti: coscia di suino, sale e aromi naturali

È

trascorso poco più di un anno dal lancio sul mercato di Solo Così, cosciotto di suino a lenta cottura prodotto dalla ditta Alimentari Radice di Lentate sul Seveso (MB) con una ricetta semplice e genuina, fatta di soli ingredienti naturali: coscia di suino, sale e aromi naturali derivanti da agrumi ed erbe del Mediterraneo. Nessuna aggiunta di nitriti, quindi, e nemmeno zuccheri, usati di norma da parte dell’industria salumiera nella produzione di prodotti cotti per mantenere

una certa compattezza e lucidità della fetta e conferire maggior sapore. Per arrivare a questo risultato ci sono voluti due anni di ricerca, durante i quali l’azienda, attiva sin dagli anni Sessanta nel settore della salumeria, ha sfruttato le tecniche di lavorazione e le competenze artigianali perfezionate via via nel corso del tempo, dalla profonda conoscenza della materia prima alla perfetta padronanza di ogni fase della lavorazione, per realizzare un cotto “rivoluzionario”, come ha dichiarato ad alcune riviste di settore al

momento del lancio del prodotto RENATO MASPERO, titolare di Alimentari Radice. Signor Maspero, come hanno reagito i consumatori e il mercato alla proposta di Solo Così? E, soprattutto, siete riusciti a “trasmettere” le novità racchiuse nel vostro prodotto? «Posso dirle che, ad oggi, siamo assolutamente soddisfatti, anche se le difficoltà incontrate proprio a livello di comunicazione non sono state poche. Quella del Solo Così è una ricetta uni-

Il cosciotto di suino a lenta cottura Solo Così è realizzato con solo ingredienti naturali, senza aggiunta di nitriti, senza zuccheri, senza glutine, allergeni, derivati del latte e senza aggiunta di glutammato e polifosfati.

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ca, la prima in Italia ad avere queste caratteristiche. Un prodotto così non si inventa dall’oggi al domani, ma è frutto di una lunga tradizione, di esperienza, di passione e di ricerca. Ecco: per veicolare tutti questi messaggi sono necessari tanti mezzi e risorse, la comunicazione non è semplice e immediata ma, quando l’informazione arriva e viene recepita, superando scetticismo e dubbi, il consumatore risponde in maniera decisamente positiva. Lo abbiamo capito soprattutto grazie alla pagina Facebook e al blog (www.solocosi.com) che abbiamo dedicato appositamente al Solo Così: i feedback ricevuti hanno messo in luce l’esistenza di una sensibilità diffusa verso questo tipo di prodotti naturali, innovativi nel nostro settore. Sono tante le persone oggi attente alla composizione dei prodotti che finiscono nel proprio carrello della spesa e alla ricerca di alimenti più genuini. Anche i buyer delle catene in cui è stato inserito Solo Così si sono convinti, visto che i consumatori che avevano acquistato il nostro cotto hanno continuato a cercarlo». La dolcezza non ha bisogno dello zucchero Lei parla di un prodotto e di una ricetta unici attualmente sul mercato. In che senso Solo Così si distingue da altri prodotti di salumeria oggi in commercio senza l’aggiunta di additivi chimici? «Siamo l’unica azienda ad aver proposto sul mercato un salume cotto totalmente privo di nitriti aggiunti, mentre diversi produttori li hanno semplicemente sostituiti con altri di origine vegetale. Queste sostanze sono comunque presenti naturalmente in diversi alimenti, carne compresa: ecco perché abbiamo voluto evitarli completamente, così da non favorire quell’accumulo dannoso per la salute recentemente messo in evidenza anche dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), organo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Pensi che proprio per questo motivo non possiamo usare per Solo Così la denominazione “prosciutto cotto”, riservata, secondo i dettami del Decreto Ministeriale del 21 settembre 2005, “al prodotto di salumeria ottenuto dalla coscia del suino eventualmente sezionata, disossata, sgrassata, privata dei tendini e della

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Un prodotto sano, gustoso, disponibile anche preaffettato nella pratica vaschetta. cotenna, con impiego di acqua, sale, compreso il sale iodato, nitrito di sodio, nitrito di potassio eventualmente in combinazione fra loro”. Sulla confezione del prodotto compare infatti “cosciotto”». Mi conferma che l’utilizzo di nitriti non è indispensabile al fine di garantire la conservazione e, soprattutto, la sicurezza del prodotto? «Esatto. Una delle perplessità che Solo Così ha suscitato presso consumatori e addetti ai lavori è stata l’effettiva conservabilità del prodotto senza la presenza di nitriti, prevenendo al contempo il rischio del Clostridium botulinum, batterio responsabile del botulismo alimentare. Sia l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Bologna che l’ATS, Azienda di Tutela della Salute hanno fatto tutte le analisi e i controlli del caso. Al termine di questo iter, l’Istituto Superiore di Sanità ha dato parere favorevole. Di recente abbiamo rinnovato la ricetta rimuovendo anche gli zuccheri: un’etichetta più pulita di così proprio non si poteva avere! Siamo certi della sicurezza del nostro prodotto così come della sua bontà, una vera e propria rivoluzione nel campo della salumeria, naturale, sicura e piena di gusto». Solo Così si riferisce ad un unico prodotto o ad una linea con altre referenze? «Al momento proponiamo anche l’Arrosto di tacchino Solo Così, un prodotto che, come il cosciotto, si distingue per la sua clean label, caratterizzata cioè da un’ingredientistica minima. Quello dell’arrosto di tacchino è però

un segmento di mercato più complesso rispetto a quello dei prosciutti cotti, nel quale a dominare l’acquisto è soprattutto il prezzo e dove ci confrontiamo con competitor di ben altre dimensioni rispetto a noi. Ma non ci abbattiamo certamente per questo: la nostra volontà è quella di introdurre altri criteri e logiche di scelta e la sfida è appena iniziata». Estero o Italia? Dove vanno i salumi di Alimentari Radice? «Da settembre in azienda un export manager si occupa di approcciare specificatamente i mercati esteri poiché saranno sempre più cruciali per questo settore. In Italia la lenta discesa dei consumi è un trend inevitabile, a parte la tenuta dei prodotti cosiddetti “salutistici”. Anche nel nostro Paese abbiamo comunque ampliato la rete commerciale già dall’autunno, coinvolgendo nuovi consulenti e agenti. Abbiamo avuto moltissime richieste per la realizzazione di prodotti halal, ad esempio,un comparto in grande crescita, con una domanda caratterizzata da una capacità di spesa molto importante: pensiamo solo agli Emirati Arabi Uniti. Per quanto riguarda i canali di vendita, invece, ci rivolgiamo per il 40% alla distribuzione moderna e per il restante 60% a grossisti e a diversi salumifici che desiderano ampliare la propria gamma». Alimentari Radice Srl Via Privata Giulio Natta 24 20823 Lentate sul Seveso (MB) Telefono: 0362 57721 E-mail: info@alimentariradice.com Web: www.alimentariradice.com

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VPE, la new company di Veronafiere e Fiere di Parma Si chiama VPE (Verona Parma Exhibition) la nuova società creata da Veronafiere e da Fiere di Parma che insieme rappresentano il primo organizzatore diretto di rassegne dedicate al settore agricolo e agroalimentare in Italia e si classificano ai vertici in Europa nel segmento. Le due Spa sono il secondo polo fieristico nazionale sia per fatturato consolidato nel 2016 con 127 milioni di euro (88 Verona, 39 Parma), sia per superficie lorda coperta con 283.000 m2 complessivi (153 Verona, 130 Parma). Verona e Parma nel 2016 hanno organizzato complessivamente 91 tra fiere ed eventi in Italia e all estero (67 Verona, 24 Parma) per 1,8 milioni di visitatori (1,3 Verona, e 0,5 Parma) e 21.350 espositori (14.000 Verona e 7.350 Parma). E sono due piattaforme internazionali per l’export agroalimentare del Paese, con brand riconosciuti nel comparto food & wine quali: Vinitaly, Sol & Agrifood, Enolitech, OperaWine,Vinitaly International Academy (Veronafiere) e Cibus, Cibus Tec, Cibus Connect e Cibus Market Check (Fiere di Parma). L’agroalimentare è un comparto trainante dell’economia italiana e nel 2017, secondo i dati di Nomisma Agrifood Monitor, supererà i 40 miliardi di euro di export con una crescita di oltre il 6% sul 2016, per un valore complessivo di 130 miliardi di euro, dalla produzione agricola alla ristorazione. La new company, con quote paritetiche tra Verona e Parma, è stata presentata lo scorso dicembre alla presenza del sindaco di Verona, Federico Sboarina, dei presidenti e dei CEO delle Spa di Verona e Parma, rispettivamente, Maurizio Danese, Gian Domenico Auricchio, Giovanni Mantovani, Antonio Cellie, e del presidente di Agenzia ICE, Michele Scannavini. Primo passo della società è l’organizzazione di una nuova rassegna, WI.BEV-InternationalWine & BeverageTechnologies Event, dedicata al settore delle tecnologie per il wine & beverage (www.wibev.com) che guarda all’Italia con la sua eccellenza manifatturiera nel comparto, ma anche a importanti aree geo-economiche in forte sviluppo — Asia e Africa —, oltre Giovanni Mantovani, Gian Domenico Auricchio, Federico Sboarina, che ai mercati di consolidata tradizione Maurizio Danese, Michele Scannavini e Antonio Cellie (photo © come il Nord America (fonte:Veronafiere). Veronafiere-ENNEVI).

L’IVSI negli USA per il progetto Enjoy European Quality L’Istituto Valorizzazione Salumi Italiani (IVSI) partecipa ad Enjoy European Quality (www.enjoyeuropeanquality.eu), progetto triennale cofi nanziato dalla Comunità europea che ha lo scopo di aumentare la notorietà e la riconoscibilità dei prodotti europei nel settore food & wine negli USA. E lo fa con due compagni di eccezione che con i salumi “vanno a nozze”: i vini, rappresentati dal Consorzio di Tutela dell’Asti Docg, e i formaggi, con il Consorzio tutela Provolone Valpadana Dop. Enjoy European Quality si articola in diversi momenti: workshop, incontri B2B per le aziende, attività di social media marketing, eventi promozionali in ristoranti selezionati, eventi, promozioni nei punti vendita nelle città che rappresentano i maggiori mercati statunitensi come Miami, New York, Chicago, Los Angeles, San Francisco, oltre ad altre città selezionate in Ohio e Michigan. Per i salumi italiani quello degli Stati uniti è un mercato molto importante: gli USA sono infatti il primo Paese di destinazione extra-UE seguito da Svizzera e Giappone. Nel corso del 2016 le esportazioni di salumi italiani verso gli Stati Uniti hanno raggiunto le 8.308 tonnellate per un valore di 100,7 milioni di euro. Ma quali salumi italiani preferiscono gli Americani? Il prosciutto crudo stagionato, in primis (83%); seguono prosciutto cotto (7%), mortadella e würstel (6%) e salami stagionati (2%). L’esistenza di barriere di tipo sanitario ha a lungo penalizzato la possibilità di esportare l’intera gamma di salumi italiani, determinando un’elevata concentrazione delle nostre esportazioni sui prosciutti crudi stagionati. Una situazione questa che sta cambiando, perché a partire dal 2016 si è potuto procedere con le spedizioni di prodotti a breve stagionatura autorizzate a seguito del riconoscimento da parte delle autorità americane dell’indennità della macroregione del Nord Italia dalla Malattia Vescicolare del suino (fonte: Istituto Valorizzazione Salumi Italiani).

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Felsineo Veg: nuova linea di affettati interamente vegetali e bio Uno nuovo stabilimento totalmente dedicato alla produzione di affettati 100% vegetali e biologici in commercio da ottobre con il brand Veghiamo. La nuova azienda, FMV Srl, con logo commerciale Felsineo Veg, nasce dalla partnership tra Felsineo Spa, leader nella produzione mortadella, che ha messo a disposizione la sua organizzazione e gli oltre 50 anni di esperienza, e Mopur Vegetalfood Srl, altrettanto forte nel know how di questo prodotto. Veghiamo è una linea di affettati altamente proteici, interamente vegetali e biologici, dedicata a tutti coloro che cercano alternative gustose alla carne e ai salumi. Il nuovo stabilimento di Zola Predosa (BO) dedicato a questi prodotti, inaugurato lo scorso fine novembre, vanta un processo produttivo all’avanguardia, a testimonianza di quanto i vertici della nuova azienda credano nel potenziale del settore. «È un dato incontrovertibile che stia crescendo il numero di consumatori che scelgono il vegetariano e il vegano. Non sono mode effimere, ma nuove abitudini alimentari che ben si posizionano sotto l’ombrello della salute e del benessere alimentare» ha dichiarato il presidente di Felsineo e di FMV ANDREA RAIMONDI. La nuova azienda utilizza esclusivamente ingredienti biologici e ha scelto di ottenere le certificazioni Bio e Vegan con la collaborazione del Consorzio Icea. Gli affettati sono proposti in vaschette di carta che proviene in prevalenza da fonti rinnovabili, certificate FSC. L’azienda, inoltre, è integralmente no-smoking: il divieto di fumo è esteso a dipendenti, fornitori e visitatori, anche nei cortili e piazzali adiacenti. Gli affettati Veghiamo sono realizzati con il processo produttivo Mopur, che propone una nuova concezione di alimento. Sono ottenuti dall’abbinamento di diverse farine (di grano, lupini e ceci) attraverso un processo di fermentazione naturale che offre al prodotto caratteristiche distintive: sapore e profumo accattivanti, consistenza unica, ottima affettabilità e maggiore digeribilità. Tutto ciò li rende nutrienti, leggeri, versatili e adatti a tutti; contengono oltre il 25% di proteine e solo il 7% di grassi, valori che li rendono estremamente appetibili per chi segue un’alimentazione sana e bilanciata e indicati per tutta la famiglia (fonti: mtm – World Food Press Agency).


King’s celebra il suo 110o anniversario con la presentazione del prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop in vaschetta King’s, storica azienda di Sossano Veneto specializzata nella lavorazione e produzione di prosciutti, celebra il 110 o anniversario dalla sua fondazione con la presentazione di un nuovo prodotto: il prosciutto Veneto Berico Euganeo DOP nel formato pre-affettato in vaschetta con il logo storico che richiama le origini legate al territorio. Il prosciutto Veneto Berico Euganeo DOP nel formato pre-affettato in vaschetta rappresenta per l’azienda una novità e un vero e proprio motivo d’orgoglio, perché King’s è al momento l’unica realtà produttrice di prosciutto Veneto DOP ad aver ricevuto l’autorizzazione dell’omonimo Consorzio di tutela per l’affettamento in vaschetta. La vaschetta da 100 grammi di prosciutto Veneto Berico Euganeo DOP si contraddistingue per il caratteristico sapore elegante e pieno, frutto dell’equilibrio perfetto tra i tempi di salatura e le condizioni di stagionatura, e confezionato ad atmosfera modificata per mantenerne inalterate le peculiarità. «Storicamente riconosciuta come l’azienda del “Prosciutto di San Daniele nel cestello”, grazie al caratteristico contenitore di vimini che da sempre racchiude come uno scrigno i nostri prosciutti, oggi King’s è diventata un’azienda in grado di produrre specialità di elevata qualità, capaci di soddisfare le esigenze di ogni canale distributivo» ha commentato in proposito Vladimir Dukcevich, Amministratore Delegato di King’s. >> Link: www.kingsprosciutti.it

Aroma delicato e personale, originale per gusto e morbidezza, il prosciutto Veneto è una base ideale per preparare antipasti, primi e secondi piatti, oltre a contorni di elevato livello gastronomico.

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Prosciuttificio IL CONTE S.r.l. Via Sant’Ambrogio, 4 – Fraz. Bazzano 43024 Neviano degli Arduini (PR)


PRODOTTI TIPICI

Vacanze romane: fraschette e coppiette di Giorgio Montanari

L

e coppiette sono un salume tipico del Lazio e vantano una tradizione secolare. Di origini umili (così come la maggioranza delle ricette tipiche italiane), le coppiette aiutavano i pastori a nutrirsi durante i mesi della transumanza. Chi lavorava con il bestiame era infatti costretto ad allontanarsi per mesi dalla propria casa, spostandosi da terre montuose a zone pianeggian-

ti e viceversa: per queste persone le coppiette rappresentavano una fonte di proteine veloce, gustosa e “a portata di tasca”. Ci si nutriva scaldando il cibo sul fuoco dei falò serali e, in caso qualche cavallo vecchio o zoppo fosse venuto a mancare durante le fatiche del percorso, un po’ della sua carne (magra ed invitante) veniva cotta ed affumicata: il pastore aveva, in questo modo, creato una versione “semplificata” delle

coppiette. Per decenni questo prodotto ha animato le “fraschette”, vale a dire le tipiche osterie dei Castelli romani: le coppiette venivano servite come “antenato” del nostro aperitivo perché erano in grado di stimolare l’appetito e, soprattutto, incrementare la sete dei clienti… Chissà quante ne avranno mangiate TRILUSSA o GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI nel trarre ispirazione per le loro poesie vernacolari!

Coppiette laziali, aperitivo ante litteram nelle osterie dei Castelli romani. Le coppiette sono caratterizzate da un sapore marcato conferito alla carne essiccata dalla concia a base di peperoncino, sale e semi di finocchio (photo © www.prosciuttodibassiano.it).

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Dopo avere letto le origini di questa pietanza, scopriamo quale è il processo produttivo tradizionale delle coppiette laziali. Per prima cosa, la carne viene tagliata a strisce, irregolari, lunghe una quindicina di centimetri e larghe un paio. La concia è la base per donare al prodotto finito quel marcato sapore proverbialmente piccante: spiccano dunque peperoncino, sale e semi di finocchio selvatico; alcune ricette insegnano ad intingere prima la carne in un condimento con vino, pepe ed aglio, altre invece approvano l’uso del coriandolo o del rosmarino. Come si può immaginare, da famiglia a famiglia si affina la preparazione a seconda della reperibilità degli ingredienti o, più sovente, ci si adatta al palato dei commensali. Il peperoncino, oltre a donare la punta stuzzicante e profumata alle coppiette, era tradizionalmente un metodo di conservazione o, addirittura, un espediente per coprire le imperfezioni della carne. Ritorna alla memoria quindi l’aneddoto sui pastori che vivevano tante settimane lontano dalla propria abitazione. All’aromatizzazione segue sempre una fase di riposo di alcune ore: in questo periodo le listarelle assorbono quegli ingredienti che renderanno il prodotto finito tanto particolare. Due successive cotture (circa tre quarti d’ora ciascuna) permettevano alla carne di perdere i liquidi ed i grassi: oggi l’operazione si esegue nel forno, un tempo invece si realizzava in casa davanti al camino (la materia prima, piegata in due, riposava su un filo posto vicino alle braci domestiche). La carne, condita e semilavorata, è pronta per il passaggio successivo, ossia quello della stagionatura. Il processo di maturazione, che dura sessanta giorni, in antichità era indissolubilmente legato agli aspetti climatici; in tempi più recenti, grazie alle moderne tecnologie, si è ricorsi a celle dotate di temperatura controllata ed umidità costante. Come ultimo step produttivo, a seconda delle sfumature che si desiderano dare alla ricetta, si può valutare una leggera affumicatura. La presenza di sale, peperoncino e l’essiccazione della carne permettono al prodotto finito di conservarsi a lungo, così come storicamente serviva nel periodo della transumanza. Al giorno d’oggi, oltre alle tecnologie produttive, si sono evoluti anche i

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La Fraschetta, trattoria romana in Trastevere (photo © francescofaustini.blogspot.it). consumi: a fianco della versione equina, vale a dire quella tradizionale, si sono diffuse sempre maggiormente le coppiette fatte con carne di suino. Per questa preparazione la salumeria ricorre al lombo, alla spalla o alla coscia del maiale; i tagli vengono accuratamente sgrassati in quanto il prodotto finale deve restare ben asciutto. Le coppiette di suino si presentano di colore rosa, quelle di cavallo sono invece decisamente più scure (la loro tonalità è in equilibrio fra il rosso cupo ed il marrone). I due sapori si differenziano fra di loro, così come la consistenza delle carni, pur mantenendo la costante e consueta nota piccante. Nella zona dei Castelli romani, della Ciociaria e in alte zone del Lazio le coppiette sono tutt’ora reperibili, tramite piccoli produttori, nelle salumerie, in alcune enoteche ed in molte osterie e “fraschette”. Probabilmente vi verranno proposte nel corso di un menù tipico laziale, insieme all’immancabile porchetta di Ariccia calda e, perché no, potrebbero essere servite con

una birra bionda artigianale (la cui freschezza contrasterà con il pizzicore del peperoncino). Immaginiamo, invece, di tornare tutti insieme agli anni ‘60, sedendo in un’osteria trasteverina per ascoltare il canto di GABRIELLA FERRI. L’oste ci porta del pane ed un cesto di paglia con una porzione di coppiette; nell’osservarle notiamo, incuriositi, che sono abbinate da uno spago rosso: un tempo si usava proporle “vestite” in questo modo. La nostra sete cresce (proprio come si aspettava il cameriere…), non ci resta quindi che ordinare una bottiglia di vino dei Castelli. Nell’accettarla riconosciamo quanto un buon bicchiere di rosso deciso possa essere l’abbinamento ideale per un salume saporito e speziato come quello di cui abbiamo appena letto la storia. La serata fra amici continua con spensieratezza, allontanando per un attimo le preoccupazioni della settimana… Magari, sgranocchiando un’altra porzione di coppiette laziali. Giorgio Montanari

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Solo sale, pepe e coriandolo per il salume più rispettato dell’Alto Adige

Lo speck secondo Stefano Tondelli, maturato con la brezza di montagna di Riccardo Lagorio

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iposa all’aria dei 1260 metri di altitudine nel mezzo del Parco Nazionale dello Stelvio. È lo speck che fa di un minuscolo borgo in Val Venosta una delle capitali del salume più rispettato dell’Alto Adige. A vederlo preparare le conce, spingere i carrelli con le mezzene appese e portare all’affumicatoio quelli che diventeranno speck, sembra che STEFANO TONDELLI abbia aperto ieri l’altro la bottega. Ma era il 1968 e lui aveva

già alle spalle una buona esperienza come garzone nel cantone San Gallo. È il viavai di automobili alla ricerca di frescura d’estate, di piste innevate in inverno ferme davanti all’ingresso a rivelarne la presenza. Dietro il bancone STEFANO JR. e LEA, la nipote pronta a prendere il timone come terza generazione e con in tasca una laurea in economia. La competenza conseguita in cinquant’anni non concede errori. «Lo speck ha bisogno di cure continue

perché non usiamo aria condizionata nelle cantine di stagionatura. Dobbiamo azionare le finestre per dominare il clima dell’Ortles: solo con la loro apertura e chiusura siamo in grado di creare i presupposti ideali per la maturazione dello speck». La scelta cade su suini di origine austriaca, che garantiscono secondo i Tondelli le migliori caratteristiche finali del prodotto, ma che ben si addicono anche alle fasi di lavorazione. Soprat-

Stefano Tondelli e Stefano junior.

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tutto per merito di una proporzionata distribuzione di carne e grasso, che risulta essere uno dei segreti per la buona riuscita del salume. «Una volta che abbiamo scelto le parti che secondo noi risultano adeguate per l’ottenimento dello speck, vengono rifilate e le mettiamo in una concia di sale, pepe e coriandolo, le uniche spezie che secondo la tradizione locale venivano utilizzate». La sosta dura all’incirca due settimane. Durante questa fase la carne assorbe il sale e gli aromi, rilasciando i liquidi. È proprio al nostro arrivo quando Stefano Tondelli, classe 1937, sta togliendo dalle vasche gli speck per posizionarli su rastrelliere in metallo. Le attrezza e spinge come un ragazzino. «Questa operazione è necessaria per togliere dagli speck le impurità più evidenti; lo facciamo con un getto d’acqua. Evidentemente non insistiamo con l’acqua, ma siamo ben sicuri che sulla superficie si è già creata una naturale pellicola protettiva e impermeabile». L’asciugatura può durare una giornata e l’indomani si inizia il processo più delicato per raggiungere il risultato finale: l’affumicatura. Nella stanza dove si fa lentamente carbonizzare segatura di faggio il gioco d’aria è fondamentale: a seconda della intensità dell’umidità e della pressione che si trova fuori, il fumo è leggero o più intenso e le aperture verso l’esterno devono essere pilotate. «Anche la notte, se serve» evidenzia il veterano dello speck. La legna e la segatura di faggio sono posizionate nel vecchio pentolone in rame annerito proprio sotto gli speck. Questi rimangono in nell’affumicatoio per 15 giorni e, al termine del percorso, passano nella sala di stagionatura vera e propria. Vi rimarranno 6, più spesso 8 mesi e l’unico elemento a stabilire il momento esatto di termine stagionatura sarà l’andamento del tempo, la temperatura, l’umidità. Di impianti di condizionamento neanche l’ombra: uno speck autenticamente maturato con la brezza di montagna, insomma. Al taglio a macchina sottile la parte di grasso appare bianco candida, rosso intenso la parte magra; profumo intenso di carne matura e lontano ricordo di affumicato al naso. Anche alla prova del gusto il fumo è tenue, la salatura equilibrata, la speziatura si sente lontana.

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L’affumicatura degli speck. L’incessante sosta di turisti che ha consolidato il nome dello speck dei Tondelli è la testimonianza più evidente del suo successo. Nella bottega sopra il laboratorio un piacevole profumo di spezie si mischia a quello del filo di fumo. Gli speck sono appesi un po’ ovunque alle pareti, sotto le tettoie che riprendono il gusto altoatesino delle facciate delle case in legno. Ma negli ultimi anni i Tondelli non si sono fermati allo speck. È nato il Kaiserspeck per coloro che proprio non ce la fanno a convincersi che la parte di grasso del salume dà gusto e piacere. Nasce dal cuore della coscia ed è pura carne priva di cotica e grasso. Il passaggio nell’affumicatoio dona il caratteristico colore ocra all’esterno mentre l’interno trasuda di bontà. Si sono guadagnati una nomea speciale i Kaminwurzen, specie quelli con l’ag-

giunta di carne di cervo. Aspettano di essere tagliati a fette spesse durante le merende insieme al Schüttelbrot, il pane croccante di segale. E i würstel, anche di dimensioni… giganti. «Da qualche stagione prepariamo con il magatello o la punta d’anca dei bovini altoatesini un salume di carne magrissima messo in concia, affumicato ed essiccato. La potremmo definire bresaola insomma. Ce lo chiedevano romani e lombardi». Il sole scende rapido nel pomeriggio d’autunno sulle parole di Stefano jr., quando le macchine si sono fatte rade in attesa della prossima neve. Riccardo Lagorio Macelleria Tondelli Frazione Gomagoi 10 39029 Stelvio (BZ) Telefono: 0473 611772

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Immancabile nella tradizionale merenda valdostana

Mocetta, salume antico di Massimiliano Rella

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ocetta, in dialetto motzetta: un nome grazioso per questo salume antico della Val d’Aosta, poco conosciuto fuori regione ma molto apprezzato e immancabile nella tradizionale merenda valdostana, insieme ad altre specialità come il Jambon de Bosses DOP, il Lard d’Arnad DOP, il Jambon à la braise de Saint-Oyen. Spesso la mocetta è proposta come antipasto con un calice di vino locale oppure come ingrediente dei gustosi involtini di Fénis e di altri piatti tipici. Salume tipico d’alta montagna La mocetta è una carne essiccata, oggi in prevalenza di bovino, ma in passato anche di camoscio, cervo o cinghiale, ottenuta da cosci magri e compatti. Nata in tempi antichi quando le famiglie contadine avevano necessità di conservare la carne per l’inverno, è inclusa nel tradizionale tagliere delle Alpi occidentali e riconosciuta come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT) italiano. La lavorazione è artigianale. Ogni pezzo di carne è insaporito con sale, aglio ed erbe aromatiche di montagna, poi lasciato a macerare per una ventina di giorni in contenitori ricoperti del liquido “estratto” dalla carne. Quindi si passa alla stagionatura, quando i pezzi sono appesi in locali freschi e arieggiati per un periodo da 1 a 3 mesi, a seconda delle dimensioni. La mocetta si può consumare fresca, quando ha ancora consistenza morbida, oppure stagionata, tagliata a fette sottili. Il sapore è intenso, l’aggiunta di erbe e altri aromi arricchisce ma non copre il gusto della carne. Pavese, punto di riferimento per carne e salumi a Morgex Per gustare la mocetta vi consigliamo una visita alla macelleria-salumeria Pavese (Vicolo Don Oddone Cretaz 1, Morgex, Aosta; telefono: 0165 809713;

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L’insaporitura della carne con rosmarino, alloro e issopo per la preparazione della mocetta nella macelleria-salumeria Pavese a Morgex (AO).

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Macelleria Pavese, le varie fasi di lavorazione della mocetta. 1) Completamento della salatura nella moville per una settimana. 2) Cucitura. 3) Stagionatura.

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La ricetta che i Pavese si tramandano di padre in figlio per la preparazione della mocetta prevede di insaporire la carne e, una volta salata, di “massaggiarla” con un trito di erbe aromatiche di montagna. La carne è poi lasciata a macerare in sale per 10 giorni, periodo nel quale gli umori formano la moville, un liquido che rende ancor più intenso il gusto

www.macelleriapavese.it), a Morgex, uno storico borgo a pochi chilometri dal monte Bianco e da note località sciistiche come Courmayeur e La Thuile, a ridosso dei vigneti montani tra i più alti d’Europa (dai 900 ai 1.200 metri di altitudine), dai quali nasce il Blanc de Morgex et de La Salle, un vino ottenuto dal vitigno autoctono Priè blanc. A gestione familiare dal 1964, quando fu aperta da CARLETTO PAVESE, la macelleria è oggi condotta dal figlio GIORGIO e dal nipote LUCA DE VECCHI. I due vendono carne e producono salumeria di qualità nel laboratorio annesso, a pochi passi dalla piazza principale. Lavorano carne bovina, ovina, caprina, suina, in prevalenza della Val d’Aosta ma anche Fassona piemontese, rifornendosi da una rete d’allevatori locali. Preparano in proprio, sempre artigianalmente, diversi prodotti: salsicce (anche al peperoncino, al tartufo e ai funghi porcini o di carne di pecora o cinghiale); salsiccette di maiale e vitello da cuocere; cotechini; pancetta tesa o steccata; coppa e lardo, anche marinato nel vino prima della salatura. E poi: prosciutto crudo stagionato in cantina

per 3 anni e il boudin, fatto con patate bollite e barbabietole rosse, cubetti di lardo, vino e sangue di maiale, da mangiare crudo o cotto. In una produzione così tradizionale non poteva mancare un’ottima mocetta fatta solo con carni bovine valdostane: da un coscio di 20-30 cm e del peso di circa 2,5 kg fresco si ottiene circa 1,8 kg di prodotto stagionato. La ricetta che i Pavese si tramandano di padre in figlio prevede di insaporire la carne e, una volta salata, di “massaggiarla” con un trito di erbe aromatiche di montagna, come issopo e ginepro e altre più comuni come rosmarino, aglio, cannella, ecc… La carne è poi lasciata a macerare in sale per 10 giorni, periodo nel quale gli umori formano la moville, un liquido che rende ancor più intenso il gusto. Alla salatura segue il processo di stagionatura in cantina per 2 mesi e mezzo. Il prodotto fresco è venduto a 21,00 €/kg, stagionato a 28,00 €/kg. Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella.

Un simposio per celebrare i 20 anni di Speck Alto Adige Igp In occasione dei vent’anni dello Speck Alto Adige Igp, prodotto diventato simbolo della qualità e della tradizione altoatesina, il Consorzio Tutela Speck Alto Adige ha indetto un simposio per celebrare questa importante ricorrenza. Svoltosi venerdì 1 dicembre 2017 presso la Camera di Commercio di Bolzano, il simposio è stato un’occasione di confronto e di discussione sui vent’anni trascorsi e sul futuro che attende lo Speck Alto Adige Igp nei mercati internazionali. A presenziare, Andreas Moser, presidente del Consorzio di tutela dal 2012, Arno Kompatscher, presidente della Provincia Autonoma di Bolzano, Alfred Aberer, segretario generale della Camera di Commercio di Bolzano e altri relatori locali ed esteri. Dall’incontro è emerso quanto il marchio Igp sia uno dei pilastri fondamentali del successo dei produttori di speck Alto Adige in questi ultimi anni. La certificazione di Indicazione Geografica Protetta dell’Unione Europea ha infatti rappresentato un punto di svolta, permettendo di garantire e tutelare la bontà e la genuinità del salume a livello nazionale e internazionale. A confermare questa strada in ascesa due importanti fattori: la crescita dell’export e le indagini di mercato condotte tra i consumatori. Se il primo fa dello Speck Alto Adige Igp uno dei prodotti più esportati della salumeria italiana, il secondo testimonia come lo stesso rappresenti una sorta di simbolo della cultura del gusto e della qualità dei prodotti altoatesini. L’obiettivo per i prossimi 20 anni? Per il presidente Moser, lo Speck Alto Adige Igp deve continuare a fungere da ambasciatore della qualità dei prodotti dell’Alto Adige all’estero (photo © www.speck.it).

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Parmacotto finanzierà i restauri delle Catacombe di San Gennaro a Napoli Le sinergie tra aziende e mondo dell’arte sono sempre più diffuse, volte a valorizzare il patrimonio culturale e creare nuovi modelli di sviluppo economico tra le imprese e il territorio. Su questa linea è la notizia dello scorso dicembre, pubblicata da Artribune, che annuncia l’accordo tra Parmacotto e La Paranza, cooperativa che gestisce l’apertura al pubblico delle Catacombe di San Gennaro a Napoli. “L’azienda emiliana stanzierà 30.000 euro per il restauro del Vestibolo Superiore del sito paleocristiano”. Una bella notizia per tutti gli appassionati della Napoli sotterranea, ricca di suggestioni e di opere archeologiche di inestimabile valore (photo © catacombedinapoli.it). >> Link: www.catacombedinapoli.it – www.parmacotto.it


Prosciutto crudo di Cuneo, una lavorazione artigianale nel rispetto della tradizione Cenni storici a tradizione della lavorazione e conservazione delle carni suine nell’area cuneese risale a parecchi secoli fa. Già i Romani, insediati nei primi secoli d.C. in provincia presso le città di Pollenzo (Pollentia), Alba (Alba Pompeia), Benevagienna (Augusta Begiennorum), erano noti per aver sviluppato l’attività dell’allevamento di porci e conoscevano le tecniche per la conservazione delle loro carni. Le ricerche inerenti la storia della produzione del prosciutto nell’area cuneese hanno consentito di trovare

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libri contabili, custoditi dal Monastero degli Agostiniani di Cussanio-Fossano, risalenti al 1630 circa, che parlano della stagionatura dei prosciutti nella “stanza del paradiso” e della destinazione della “noce” per la tavola del Vescovo e dell’Abate. Il sale, elemento fondamentale per la conservazione delle carni, non è mai mancato nell’area cuneese in quanto terra attraversata da numerose “vie del sale”, utilizzate a trasportare la pregiata merce dalle saline della costa azzurra verso le città di Torino e Milano. Tant’è che LODOVICO II, Marchese di Saluzzo, già nel 1482, allo scopo di favorire il

trasporto di merci, tra le quali il sale, fece scavare la prima galleria delle Alpi, detta Buco del Viso, che univa la valle del Queyras e la valle Po (regione della Provenza e area cuneese). Dopo la seconda metà del XIX secolo, il prosciutto della pianura cuneese assunse maggiore importanza: la nuova borghesia, nata dallo sviluppo dell’industria e del commercio, elevò il prosciutto e la sua lavorazione a vera e propria arte culinaria; i cuochi iniziarono ad abbinare al prosciutto vini e formaggi pregiati. La nobiltà ed il clero, legati alla tradizione, esigeva-

Il prosciutto crudo di Cuneo Dop.

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Galleria delle Alpi detta il Buco del Viso. la stagionatura dei prosciutti, anche in cantine naturali, senza particolare condizionamento d’ambiente. La DOP “Crudo di Cuneo” scaturisce dall’azione combinata e concomitante di fattori umani e ambientali, che nel corso del tempo hanno influito sul suo ottenimento ed hanno contribuito alle sue caratteristiche qualitative uniche.

Area di produzione del prosciutto Crudo di Cuneo Dop. no ricette personalizzate dai “maestri salumieri” fondatori dei primi salumifici artigianali. Una realtà oggi costituita da numerosi trasformatori con piccoli stabilimenti di macellazione e stagionatura sparsi sul territorio e da migliaia di allevatori. Negli ultimi anni, alcuni operatori della filiera suinicola cuneese, attraverso la costituzione del Consorzio di Tutela e Promozione del prosciutto Crudo di Cuneo, hanno avviato l’iter per il riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta (DOP) del prosciutto medesimo per valorizzare l’elevato numero di suini allevati nell’area di produzione. Un’azione, questa, che ha portato alla registrazione definitiva della DOP nel dicembre del 2009. Successivamente, si è potuta avviare la produzione di prosciutti marchiati Crudo di Cuneo DOP all’interno dell’area di produzione.

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L’area di produzione L’area di produzione del prosciutto crudo di Cuneo comprende la provincia di Cuneo, la provincia di Asti e 54 comuni della zona Sud della provincia di Torino. La zona di produzione è riparata su due lati (Sud e Ovest) dalle Alpi, Liguri, Marittime e Cozie, e sulla parte orientale dalle colline delle Langhe e Monferrato, mentre a Nord, una sorta di barriera ventosa che scende dalle valle Susa la protegge dalle correnti fredde e umide provenienti dal settentrione. Tale configurazione orografica costituisce un anfiteatro naturale all’interno del quale sussiste un microclima ottimale per la stagionatura dei salumi. Tutta la zona evidenzia un andamento dell’umidità relativa, costante, molto bassa, senza punte difficili da controllare. Il livello dell’umidità varia dal 50 al 70%. Le condizioni sono quindi ottimali per

Una lavorazione artigianale nel rispetto della tradizione I giorni della mattanza del maiale, che si teneva verso la fine dell’inverno, erano giorni di festa durante i quali le famiglie contadine seguivano un rituale quasi sacro tramandato di generazione in generazione, il tutto sotto la direzione del sautissé, cioè l’esperto della lavorazione delle carni, che passava di cascina in cascina per lavorare i suini. Le cosce migliori venivano sezionate dalla carcassa del maiale per essere poste in salagione e avviate alla stagionatura nelle cantine o nei granai delle cascine e ottenerne, per l’anno successivo, degli eccellenti prosciutti. I prodotti ottenuti, tra cui i prosciutti, rappresentavano una fonte alimentare insostituibile per l’apporto proteico e per quello calorico. Il processo produttivo Il crudo di Cuneo DOP è ottenuto da suini in purezza o d’incrocio, ibridi, comunque non manipolati geneticamente, di razza tradizionali quali: Large White, Landrace e Duroc iscritte al Libro Genealogico italiano o a Libri Genealogici esteri riconosciuti dal Libro Genealogico italiano e che presentano finalità compatibili con il Libro Genealogico italiano per la produzione del suino pesante. A garantire la salubrità degli animali concorre l’origine delle materie prime utilizzate per l’alimentazione de-

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Ogni prosciutto crudo di Cuneo DOP è identificato con una carta d’identità sulla quale è fissato il QR Code che contiene tutti i dati della storia del prosciutto stesso.

In alto: la salagione del prosciutto eseguita a mano allo scopo di dosare in modo razionale il sale e utilizzarne il meno possibile. In basso: marchiatura a fuoco. gli animali, di provenienza prevalente della medesima area di produzione del crudo di Cuneo DOP. Al momento della macellazione, gli animali devono aver raggiunto almeno gli otto mesi di età e un peso che va dai 148,5 kg ai 181,5 kg. La lavorazione prevede diverse fasi che riportiamo di seguito: • Sezionamento – Subito dopo la macellazione, le cosce fresche sono isolate dalle mezzene; • Rifilatura – Le cosce per essere avviate alla lavorazione devono provenire da animali macellati da non meno di 24 ore e non oltre le 120. Vengono private del piede e rifilate per essere quindi refrigerate. La rifilatura serve a conferire al prosciutto crudo di Cuneo la caratteristica forma tondeggiante. La rifilatura si esegue asportando parte del grasso e della cotenna, per

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un motivo anche tecnico, in quanto favorisce la successiva salagione. Con la rifilatura la coscia perde grasso e muscolo per un 24% del suo peso; durante questa operazione le cosce che presentano imperfezioni, anche minime, vengono scartate. Al momento della salagione la temperatura della coscia deve essere compresa tra –1 e +3 °C. È vietato congelare le cosce; • Salagione – La salagione viene eseguita a mano, allo scopo di dosare in modo razionale il sale e utilizzarne il meno possibile. La salagione avviene a secco con sale essiccato o parzialmente umidificato. Al momento viene utilizzato esclusivamente sale marino anche se il disciplinare consentirebbe di aggiungere piccole quantità di pepe nero spaccato e aceto che può es-

sere miscelato con spezie o estratti di spezie o antiossidanti naturali, mentre non possono essere impiegati conservanti. Questa fase dura da 2 a 3 settimane. La salagione assicura la risalita a livello capillare dell’umidità ancora presente nella carne della coscia che, al momento della stagionatura, contribuirà a far sì che il prosciutto acquisisca le caratteristiche organolettiche che lo distinguono; Riposo – Le cosce sono fatte riposare per un periodo non inferiore ai 50 giorni dalla fine della salagione, all’interno di locali con condizioni di temperatura e umidità tali da garantire un’ottimale asciugatura a freddo; Tolettatura e lavaggio – Vengono rimosse eventuali asperità formatesi a seguito dell’asciugatura e quindi le cosce vengono lavate e fatte asciugare; Stagionatura – La produzione attuale prevede una stagionatura minima di 22 mesi, anche se il disciplinare consentirebbe di effettuare una stagionatura di soli 10 mesi dall’inizio della salagione. Deve avvenire in locali idonei, dotati di aperture che garantiscano un buon ricambio d’aria. In una prima fase le temperature sono mantenute intorno ai 12-18 °C, mentre in un secondo momento (invecchiamento) si alzano a 15-23 °C; Sugnatura – Si esegue, in più riprese, durante il periodo della pre-stagionatura. Si applica sulla superficie muscolare un impasto formato da sugna, sale e farina di riso o di frumento, a cui può essere aggiunto anche pepe nero o bianco in polvere.

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La puntatura La puntatura consiste sostanzialmente nel collaudo di ogni singolo prosciutto e viene eseguita nella fase finale della stagionatura. Il “puntatore”, inserendo l’ago di osso di cavallo in predeterminati punti del prosciutto, individua eventuali difetti e odori non conformi e decide l’esclusione dei prosciutti non idonei alla marchiatura. Il marchio a fuoco Solo i prosciutti che ai controlli finali dell’ente terzo e del produttore non presentano alcun difetto possono essere marchiati Crudo di Cuneo DOP. Il marchio è impresso a fuoco sui due lati maggiori della coscia e su ogni trancio, nel caso di porzionatura. La marchiatura è realizzata direttamente dall’ente terzo di controllo incaricato dal Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Il marchio simboleggia tre importanti elementi dell’area di produzione: la forma a punta delle montagne che circondano la zona di produzione, la città capitale che ha pianta topografica a forma di “cuneo” e la forma stilizzata del prosciutto crudo di Cuneo. Disosso e legatura a mano Il prosciutto crudo di Cuneo D OP viene commercializzato con osso o disossato nella forma ad addobbo. Nel caso del disosso e successiva legatura, le operazioni vengono eseguite a mano. In particolare la legatura è effettuata a mano ed è finalizzata a confezionare il prosciutto nella forma addobbo conferendo al prosciutto una forma arrotondata e non piatta. La forma ad addobbo non richiede la pressatura del prosciutto che sappiamo avrebbe un impatto non positivo su gusto e profumi. Confezionamento I prosciutti devono essere opportunamente confezionati e devono riportare, sulla confezione o su etichette apposte o su cartelli, anelli e fascette legate al prodotto, la designazione Crudo di Cuneo seguita dalla menzione Denominazione di Origine Protetta o DOP, a caratteri di stampa chiari, indelebili, nettamente distinguibili da ogni altra scritta che compare sulle stesse. Devono essere presenti inoltre il logo della denominazione, il logo comunitario e il

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Valore nutrizionale (valori ogni 100 grammi di prosciutto) Energia

172 kcal / 722 kjoule

Grassi di cui acidi grassi saturi

6,2 grammi 2,6 grammi

Carboidrati di cui zuccheri

<0,5 grammi <0,5 grammi

Proteine

29 grammi

Sale

4,7 grammi

numero di identificazione del produttore inserito nel sistema di controllo. L’etichetta L’etichetta è il segno di riconoscimento del vero Crudo di Cuneo DOP e deve essere apposta su ogni confezione di detto prosciutto. All’atto dell’immissione al consumo, il prosciutto deve essere provvisto dell’etichetta, approvata dall’ente terzo di controllo, a garanzia dell’origine e della identificazione del prodotto DOP. L’etichetta riporta al suo interno due loghi associati: il logo del Consorzio e il simbolo comunitario rotondo della DOP, di colore rosso-giallo, previsto dalla normativa UE in materia. Ogni confezione di prosciutto intero, a tranci o in vaschetta, riporta l’etichetta distribuita in modo controllato dal Consorzio di tutela. Caratteristiche nutritive e valore nutrizionale Dal punto di vista nutrizionale il prosciutto crudo di Cuneo DOP appartiene senz’altro alla categoria dei salumi magri e con basso contenuto di sale. In particolare, la riduzione netta del contenuto di sale rispetto ad alcuni anni fa è consentita dalle condizioni igieniche ottimali nelle quali vengono lavorate le cosce e dal rispetto rigoroso della catena del freddo nelle prime settimane della lavorazione. Il prosciutto crudo di Cuneo DOP, oltre ad avere un ottimo apporto proteico (circa il 29%), può essere consumato senza preoccupazioni anche da chi è a regime ipocalorico in quanto i grassi di infiltrazione negli ultimi anni sono scesi dal 15-20% al 3-8% circa. Inoltre, detti grassi sono migliorati come qualità rispetto agli anni addietro e contengono quantità maggiori di acidi grassi Omega-3 (quelli del pesce per intenderci) che

contribuiscono a prevenire l’eccesso di trigliceridi nel sangue, mentre sono praticamente inesistenti i grassi trans, quelli che aumentano il rischio cardiovascolare. Pertanto, il prosciutto crudo di Cuneo DOP, grazie all’ottimo contenuto proteico, al ridotto contenuto di sale e di colesterolo, nonché alla presenza di calcio, ferro, fosforo e magnesio, è consigliabile alla popolazione di tutte le età: dai bambini agli anziani, passando anche dagli sportivi, merito del marcato contenuto di sali minerali. Il prosciutto crudo ha un alto coefficiente di digeribilità, attorno al 97%, quindi leggero. Ottimo l’abbinamento con la frutta: melone, ananas, kiwi, arancia, mela, ecc… Etichettatura elettronica Ogni singolo prosciutto crudo di Cuneo DOP è identificato con una carta d’identità che illustra i connotati del prodotto e sulla quale è fissato il QR Code che contiene tutti i dati della storia del prosciutto stesso. Il QR Code viene esposto nel punto vendita e può essere letto dal consumatore con un semplice clic del proprio smartphone o iPhone o tablet. Esso contiene le seguenti principali informazioni: l’allevamento dove è nato e dove è stato allevato il suino, cosa ha mangiato, dove è stato trasformato, dove sono state salate le cosce e dove e quanto è stato stagionato il prosciutto. In questo modo la tracciabilità è certa, completa e messa in vetrina. Una semplificazione e una garanzia in più per il consumatore. Il prosciutto crudo di Cuneo è l’unico prosciutto a denominazione di origine controllata a potersi fregiare di una etichettatura così completa, moderna e facile da leggere per il consumatore. >> Link: www.prosciuttocrudodicuneo.it

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Bresaola della Valtellina Igp, tutto l’anno Abbinare la bresaola è un’arte che fonde gusto, creatività e sana alimentazione. Per innamorarsene basta assaggiarla, ma spesso la conoscenza non corrisponde alla confidenza. Non tutti sanno infatti che la sua anima si sposa con tanti alimenti “insospettabili”: parola della foodwriter Francesca Romana Barberini. Eclettica e sfaccettata, è da provare e scoprire anche con formaggi e frutta di stagione: melagrana, cachi, finocchio e castagne. E ben si presta anche alle diete detox post scorribande gastronomiche di fine anno

Bresaola della Valtellina Igp con finocchio e chicchi di melagrana. È uno dei mix proposti da “Bresaola Inedita” (www.bresaolainedita.it), una app promossa dal Consorzio di Tutela Bresaola della Valtellina che insegna come valorizzare la bresaola al meglio. Sulla app si trovano consigli, falsi miti, guida all’assaggio e 40 ricette e abbinamenti approvati da un panel di esperti (photo © consorziobresaola.inc-press.com).

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Dal 1996 la vera Bresaola della Valtellina è garantita dal marchio comunitario di Indicazione Geografica Protetta, utilizzato esclusivamente dai produttori certificati della provincia di Sondrio, che si attengono al rigoroso Disciplinare di produzione

Fagottini di bresaola con pinoli e rucola (photo © consorziobresaola.inc-press.com).

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Il Consorzio di tutela Bresaola della Valtellina dal momento della sua costituzione garantisce la provenienza di questo raffinato prodotto, ne promuove l’immagine e lo salvaguardia da imitazioni e contraffazioni

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i modi in cui mangiarla ce ne sono veramente tanti e spesso senza sensi di colpa, perché una delle sue caratteristiche è proprio quella di adattarsi a centinaia di preparazioni e di essere, al contempo, leggera e nutriente. Facile da mettere in tavola, la Bresaola della Valtellina IGP incontra molti alleati in diverse occasioni: da pasto veloce, quando si ha poco tempo, ad ingrediente per ricette elaborate, viene consumata regolarmente tutto l’anno e si presta a diversi usi, mettendo tutti d’accordo. FRANCESCA ROMANA BARBERINI, foodwriter, conduttrice e autrice di programmi enogastronomici, ha realizzato cinque ricette che raccontano la Bresaola della Valtellina IGP e che sono un’ottima idea per ogni stagione. «Quella della Bresaola della Valtellina IGP — racconta Francesca — è una storia di grande successo del made in Italy. Per innamorarsene basta assaggiarla, ma spesso la conoscenza non corrisponde alla confidenza. Soffre di luoghi comuni e non tutti sanno che la sua anima eclettica si sposa con tanti alimenti “insospettabili”: in abbinamento con la frutta esotica (ananas, mango e avocado) esalta le note fresche e dolci, sa accostarsi a zenzero e fichi secchi tirando fuori la sua anima più decisa, e con l’arancia, il caco, la melagrana o il finocchio dimostra di essere sempre

delicata e perfetta anche d’inverno». Il punto di forza di questo salume è la leggerezza: è un salume povero di grassi e l’alta percentuale di proteine lo rende altamente digeribile. «Da mamma, è un salume che posso far consumare ai miei bambini con serenità — continua Francesca — nel pranzo dopo la scuola, prima dello sport, per un pasto leggero oppure per una merenda sana e golosa. Inoltre, è un ottimo alleato come alimento per un regime depurativo post abbuffata». 151 kcal per 100 grammi di bresaola, di cui il 97,4% di pure proteine (e solo il 2,6% di grassi). La bresaola è quindi effettivamente un cibo magro ed ipocalorico, indicato per un regime alimentare equilibrato. A dimostrare la passione per questo alimento, i dati elaborati dalla ricerca DOXA per il Consorzio di Tutela della Bresaola della Valtellina IGP. Oltre 42 milioni di persone (8 Italiani su 10) la mangiano abitualmente e la apprezzano per il suo sapore inimitabile, la sua consistenza morbida e vellutata, la leggerezza. Nel 2016 sono state prodotte poco meno di 12.700 tonnellate di Bresaola della Valtellina IGP, con una crescita di consumo del +3,2% rispetto all’anno scorso e addirittura +43% rispetto al 2000. Il consumo in vaschetta, invece, ha superato il 42% del mercato. >> Link: www.bresaoladellavaltellina.it

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INDAGINI L’Osservatorio sul food delivery di Just Eat Italia segna un incremento del 137% per il cibo a domicilio

Il pranzo è servito, direttamente in ufficio

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li avvocati ordinano on-line panini, chi lavora in ambito della moda e del marketing preferisce il sushi, negli uffici amministrativi, invece, vince la pizza. Ma chi non sceglie il digital food delivery ama portarsi il pranzo da casa. Lo rivela l’Osservatorio sul food delivery di Just Eat Italia condotto in 15 città, dove Milano e Bologna sono tra le più attive. Una cosa è certa, sempre più Italiani scelgono questo canale per mangiare, visto che il cibo a domicilio ordinato via app durante la pausa pranzo ha registrato un incremento del 137% rispetto allo scorso anno. Scopriamo

così che il 36% ordina mediamente il pranzo 2-3 volte al mese e il 32% lo fa in compagnia per gruppi di 3-4 colleghi. I professionisti del settore sanitario e commerciale insieme ai liberi professionisti sono quelli che utilizzano maggiormente il digital food delivery. Sulle scrivanie primeggiano a livello nazionale panini e piadine (22%), cucina giapponese (15%), hamburger (11%), ma stanno crescendo moltissimo i cibi healthy, tra cui insalate, specialità di pesce e crêpes e le cucine straniere come quella greca, l’indiana e la mediorientale. Dall’analisi emergono poi differenze anche in relazione al metodo di pagamento del

pranzo a domicilio ordinato sul web: il 20% paga con i buoni pasto, quasi il 50% con carta di credito, ma con Just Eat il 33% usa ancora i contanti. Quanto, infine, all’identikit degli appassionati di questo canale, secondo il Rapporto, il 41% è rappresentato da impiegati, il 18% da liberi professionisti e il 33% da studenti. Mediamente i lavoratori Millennials (26-35 anni) utilizzano di più il digital food delivery che, a pari merito con la Y generation, rappresentano con il 36%, seguiti dagli Xennials (36-45) con il 20% e dagli over 45 (8%). (vpo, World Food Press Agency, Efanews.eu)

Secondo l’Osservatorio sul food delivery di Just Eat Italia cresce il cibo a domicilio ordinato via app durante la pausa pranzo. Primeggiano sulle scrivanie panini e piadine seguiti da cucina giapponese e hamburger (photo © tech.everyeye.it).

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SAPORI MEDITERRANEI

In compagnia… di un fagiolino di Giorgia Fieni

H

o sempre avuto un pessimo rapporto con i fagiolini. Innanzitutto perché, da piccola, la nonna me li faceva pulire e io non capivo il senso del togliervi quelle che chiamavo “teste e code”; dopo tanta fatica, perciò, pensavo almeno di trovarmi di fronte un prodotto dal sapore sopraffino, invece… era poco distante da quello di cartone bollito. Poi, in quarta elementare, ho letto “Le avventure di Cipollino” di GIANNI RODARI, un libro che ha cambiato la mia infanzia e il mio rapporto col cibo. Lì, infatti, tra gli altri c’erano Fagiolino, il miglior amico del protagonista, e

suo padre Fagiolone, il cenciaiolo, costretto a portare in giro il grasso barone Melarancia con una carriola. La simpatia di questi personaggi mi ha fatto pensare a questi legumi in modo diverso, ovvero come ad alimenti che hanno bisogno di compagnia per esprimersi al meglio. Il luogo migliore dove trovarli è dunque in un insalatone. Con senape in grani, cipolla di Tropea, succo di limone, pomodorini. Con peperone, cipolla, pancetta, aglio e aceto (si dice sia una ricetta afrodisiaca). Con patate, broccoli, cavolfiore, gamberi, cozze, canocchie. Con piselli, lattuga,

cipollotti, formaggio di capra, mandorle, senape, vinaigrette all’aceto di mele. Con papaia, aglio, peperoncino, pomodoro, succo di lime. Ma anche nella classica nizzarda. Compagnia però i fagiolini possono trovarla anche in un caldo sugo. Nel ripieno dei cannelloni con lo stracchino, conditi con besciamella ai piselli. Nelle lasagne con dadini di pollo e carote. Con linguine e zafferano. Con maltagliati, patate e pesto. Con mezze maniche, pomodorini, origano, ricotta e mollica di pane croccante al balsamico. Con spaghetti alla chitarra, prosciutto crudo ed emulsione di zucchine.

Tortino di verdure con fagiolini, spinaci, ricotta, uova e formaggio (photo © Alexandra – stock.adobe.com).

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Insalata di fagiolini con senape (photo Š Stolyevych Yulia).

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Con trofie e calamari. Nel risotto con verdure di stagione e nel ripieno (con ricotta, yogurt e origano) di gnocchi di patate (tali e quali o formando un rotolo con l’impasto). Con tagliatelle al nero di seppia e pannocchie. Ma soprattutto in una torta salata. In sfoglia con crescenza e basilico. In sformato, con patate, fontina e parmigiano. In tatin con patate e ricotta al pesto. In brisé con patate, cipolla, salsiccia e bitto o con asparagi e besciamella. Nel calzone con cavolini di Bruxelles, pomodori, pancetta e cipollotto. In quiche con patate, formaggio spalmabile, pesto di basilico, castagne lesse. In strudel con speck, caciotta, panna e sugo di pomodoro. E come contorno, che già di per sé ha funzione di accompagnamento. In padella con burro e pangrattato. Saltati in olio e semi di sesamo. Al vapore con anacardi crudi. Con basilico e pecorino. Con pepe e limone. Alle erbe (rosmarino e basilico) con sedano, aglio e cipolla. All’aneto. Con burro al fieno greco. Conditi con burro d’arachidi croccante, zucchero di canna, salsa di soia, aceto, semi di sesamo. Aggiunti al purè di patate e alla giardiniera. Ovviamente, dovendo partecipare a tali aggregazioni di alimenti, il fagiolino deve sempre mostrarsi ben brillante. Per conservarne il colore ci sono diversi metodi. Nel 1896, il cuoco parigino PAUL FRIAND suggeriva di evitare assolutamente di mettere il coperchio alla pentola: basta mettere nell’acqua un pezzettino di bicarbonato. Nel 1925, invece, MADAME SAINT-ANGE scrive che «bisogna, come nella cucina di classe, utilizzare utensili in rame rosso non stagnato, lo stagno decompone il principio chimico del colore verde» (teoria supportata anni dopo dallo chef PAUL BOCUSE). ALAIN DUCASSE, infine (evidentemente in Francia hanno avuto modo di studiare il problema con attenzione), suggerisce di non mescolarli in anticipo con la vinaigrette. Questi legumi sono infatti piuttosto fragili: non dimentichiamo trattarsi di baccelli del fagiolo, raccolti prima della maturazione (ogni tre giorni, in media), quando i semi sono ancora piuttosto piccoli. Si conservano in frigo qualche giorno, crudi oppure cotti, anche se l’industria li vende in barattolo col proprio liquido di governo, in modo da poterli conservare a lungo in dispensa.

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Pasta con pomodori, fagiolini e cacioricotta (photo © www.pugliainesclusiva.it).

Avendo, dunque, tempo a disposizione, si può pensare ai fagiolini in modo gastronomicamente più fantasioso. In vellutata, per esempio, con menta, melone e pepe nero. Avvolti nel prosciutto e coperti di sottilette. Al forno con mozzarella e acciughe. Al prosciutto crudo con mandorle, grana e basilico. In palline di risotto, servite con salsa di pomodoro (idea di ALESSANDRO BORGHESE). Alla carbonara, con pancetta, cipolla, aglio, uova, panna, peperoncino, noce moscata, parmigiano. Con pesto al pistacchio («Assieme è un trionfo di verde brillante!» parola di NIGELLA LAWSON). Sulle tartine, infornate con prosciutto di Praga e caciocavallo. In tempura. Sul carpaccio di pesce spada (con zucchine, alghe, lattughino, pomodoro e un’emulsione di zenzero, succo di limone, tabasco e olio extravergine) o di polpo (con lattuga e peperone arrostito) o di vitello (con melanzane, pomodori e scaglie di grana). Nel cocktail di granchio (con funghi o couscous). Nelle crêpes, con besciamella, patate e pesto. Sui crostini con sedano, olive e acciughe sottolio. Nel ripieno, coi funghi, dell’orata al forno. Nella padella degli scampi alla grappa con alloro, vino bianco e tabasco. Nella

mattonella di verdure in gelatina. Nel muffin di zucchine. Nel ripieno dei carciofi con arachidi, asparagi, carote, panna e senape. In crema nei vol-auvent. Nella panna cotta con mandorle. Nel plumcake con quartirolo. In frittata con lardo e prezzemolo. Nel pillus di semola con arselle e seppie marinate (ROBERTO PETZA). In zuppa con santoreggia, würstel e pancetta croccante (volendo anche un po’ di panna). In casseruola con latte di cocco, pasta al curry rosso, salsa di pesce, zucchero di palma, funghi champignon, tofu compatto, foglie di kaffir lime, peperoncini rossi, coriandolo fresco. In una padellata di carne o pesce, aggiungendo sapori esotici e servendo col riso. Nel polpettone con patate, ricotta, uova e maggiorana (da cuocere al forno e gustare tiepido o freddo). Nel plumcake con Roquefort e noci. Nell’impasto della pizza di farina integrale. Con bastoncini di asparagi, zucchine e peperone. Nei turbanti di sogliola, serviti con salsa a base di panna, brodo di pesce e cerfoglio. Che sia una ricetta semplice o complessa teniate però sempre presente il concetto di base: è inutile provarci. Da soli proprio non ci sanno stare! Giorgia Fieni

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SAPORI DAL MONDO

Un assaggio di caviale di Riccardo Lagorio

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miliardi di persone e uno sfruttamento delle risorse ittiche selvagge impossibile da sostenere. Secondo le previsioni della Banca Mondiale, l’acquacoltura potrebbe rivelarsi uno degli strumenti per realizzare il diritto di ogni essere umano a nutrirsi a misura dei propri bisogni, partecipando altresì alle decisioni che lo riguardano e alla realizzazione delle proprie aspirazioni (PAPA FRANCESCO, Discorso alla FAO, 16 ottobre 2017). Tutelando fauna ittica e ambiente. Caviale d'acciaio L’Italia per anni è stato il primo Paese al mondo produttore di caviale (pare che oggi la Cina sorpassi il Belpaese, ma di poco) contribuendo a dare nuova vita agli Acipenser, estinti più dalle paratie e dall’inquinamento sul fiume Po che dalla pesca forsennata. Erano gli anni Sessanta del secolo scorso quando BENVENUTA ASCOLI, la Nuta, cavò nel ghetto di Ferrara l’ultimo granello scuro dal ventre di uno storione. Assenza breve. Alla rinascita del caviale italiano provvide nel 1977 GIOVANNI TOLETTINI, socio delle Acciaierie di Calvisano, nella bassa Bresciana. Geniale l’intuizione di utilizzare il surplus termico dell’acciaieria per conseguire un’ottima condizione della temperatura dell’acqua. Acqua purissima, di risorgiva. «La presenza delle Acciaierie di Calvisano fu senz’altro la molla per il moderno allevamento dello storione in Italia», ricorda l’attuale presidente di Agroittica Lombarda (agroittica.it), GIOVANNI PASINI. L’ascesa, nel periodo a cavallo Novecento e Duemila, della società bresciana tra i colossi dei produttori mondiali di caviale sa di miracoloso. Sfruttando con grande abilità imprenditoriale alcuni fattori esterni come la messa al bando della pesca dell’Acipenser selvaggio e l’isolamento politico dell’Iran, il Paese che più di altri ha

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contribuito al compimento del mito del caviale, nel 2007 Agroittica immette sul mercato 25 tonnellate di caviale, il 30% della produzione mondiale e acquisisce un ruolo strategico nella fornitura alle compagnie aeree per soddisfare i clienti first class. «Con un occhio attento alla sostenibilità, poiché continuiamo a utilizzare l’acqua di raffreddamento che serve l’acciaieria, diamo lavoro a 108 persone e contribuiamo alla crescita dell’economia con oltre 22 milioni e mezzo di euro di fatturato», continua Pasini. Accanto all’apertura delle sedi negli Stati uniti, nel 2009, e in Francia, nel 2016, si deve registrare anche la sorprendente notizia dell’esportazione di caviale italiano in Russia a partire dal 2013. A fronte di questo processo di sviluppo che sembra inarrestabile le tonnellate di caviale estratte aumentano a 28, gli ettari di vasche utilizzate salgono a 60 a fine 2017. Un risultato da incorniciare per il made in Italy. Nell’impianto di Calvisano sono allevati Huso huso, Acipenser Baerii e Acipenser transmontanus, quest’ultimo originario della costa americana dell’Oceano Pacifico. Nel Parco del Ticino si cura la crescita di altre tre famiglie di Acipenser: il naccarii, il güldenstädti e lo stellatus. Si distingueranno in 12 tipologie diverse di caviale (Classic, Royal o Imperial) sulla base di caratteristiche visive come la forma, la grandezza, l’omogeneità e il colore delle uova; olfattive come l’assenza di odore di pesce conservato; gustative che possono evocare sensazioni di frutta secca o burrose. Status symbol esclusivo e gustoso, ma come altri prodotti dell’agroalimentare può soffrire lo spauracchio delle sofisticazioni cinesi, sempre dietro l’angolo. Per sapere se il caviale ha gli occhi a mandorla, la CITES (Convention on International Trade in

La parola caviale è di origine turca e si trova già nei ricettari delle corti rinascimentali italiane. Nell’800 furono gli aristocratici russi a diffonderne la moda a Parigi, rendendo à la page fra la borghesia quel che fino ad allora era stata solo una “curiosità”

Le uova sono tanto più fragili quanto più grosse e di elevata qualità ed è quindi opportuno manipolarle il meno possibile. Per la stessa ragione non si dovrebbero usare cucchiaini o coltelli di metallo, ma speciali cucchiaini d’osso o di madreperla

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Spaghetti al caviale con burro e pepe nero (photo Š www.calvisius.it).

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Il caviale è un ingrediente pregiato con profonde radici nella tradizione gastronomica italiana. Storicamente veniva riservato alle famiglie nobili ed ai Papi, specialmente tra il XV ed il XIX secolo (photo © arsitalica.it). Pesce

Caviale

Nome scientifico

Nome comune

Nome commerciale Note organolettiche

Huso huso

Beluga

Beluga

Dimensione superiore a 2,8 mm; colore grigio canna di fucile; il gusto ricorda la frutta secca

Acipenser baerii

Siberiano

Siberiano

Dimensione superiore a 2,5 mm; colore grigio scuro; gusto un poco iodato

Acipenser stellatus

Stellato

Sevruga

Dimensione superiore a 2,3 mm; colore grigio scuro; gusto intenso e talvolta marino

Acipenser güldenstädti Danubiano o Russo Oscietra

Dimensione superiore a 2,7 mm; colore bruno dorato; grani ricordano il gusto di frutta secca

Acipenser naccarii

Cobice

Naccarii

Dimensione superiore a 2,7 mm; colore grigio ardesia; gusto iodato e di nocciola

Huso dauricus

Orientale

Kaluga

Dimensione superiore a 2,6 mm; colore marrone scuro o nero; gusto finale di macadamia

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Caviale, che ci bevo? Caviale Sevruga, Caviale Siberiano Spumante Metodo Classico Brut Nature Cuvée Gerbollier, Cave du Vin Blanc de Morgex et de La Salle (cavemontblanc.com). Colore paglierino, naso catturato dalle note di selce e di miele di corbezzolo. Bocca con struttura, erbacea, lunga, minerale. Caviale Naccarii, Caviale Kaluga Spumante Metodo Classico Hausmannhof, Haderburg (haderburg.it). Occhio che va dall’oro all’ambra e naso scosso da un ventaglio vegetale in continua evoluzione. La frutta del palato cede a una struttura complessa e di nerbo. Caviale Beluga, Caviale Oscietra, Caviale Naccarii Spumante Metodo Classico Majgual, Fausto Zazzara (spumantiartigianali.com). Colore giallo dorato con sentore di erbe aromatiche: spicca la salvia. La bocca, piena e rotonda, ricorda gli agrumi maturi. Caviale Beluga, Caviale Oscietra Spumante Metodo Ancestrale Nudo, La Fiòca (lafioca.com). Colore giallo tenue e riflessi verdolini con naso erbaceo, balsamico, d’eucalipto. Sapida e vegetale, la bocca lascia via via spazio a note minerali.

Endangered Species of Wild Flora and Fauna, Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione) ci mette una pezza. L’etichettatura obbligatoria per il caviale prevede una stringa in cui si segnala, tra l’altro, la specie di storione (in tre lettere), se si tratta di una cattura selvaggia o in cattività (contrassegnato dalle lettere W oppure C) e il Paese d’origine (per mezzo di due lettere), l’anno di confezionamento e il codice CITES del produttore o confezionatore. Se sotto la scatoletta di caviale la scritta evidenziata è NAC/C/IT, si può avere la certezza che all’interno troveremo caviale di Acipenser naccarii allevato in cattività in Italia. Iran, la perla di Ghorogh A livello internazionale anche Marvaride Ghorogh (La Perla di Ghorogh; info: Caviar Import – Iran Darya, www.caviale.it) è ritenuto un modello nell’ambito degli allevamenti di storione destinato alla produzione di caviale. Si tratta di una cooperativa sulle coste del mar Caspio, nel nord dell’Iran. Qui si sono adottati singolari accorgimenti per l’allevamento di Huso huso. Il direttore della cooperativa, ERFAN VAZIRI, ha eccezionalmente aperto alla nostra

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redazione le porte dell’allevamento (per il servizio completo con le relative fotografie si veda la rivista IL PESCE n. 5/2016, pag. 38). Tra campi di riso e quasi sulla spiaggia della cittadina vivono oltre 7.000 Huso huso. È noto che la rinomanza del caviale iraniano proviene sia dalla natura dell’Huso huso, oltre dall’esperienza dei salatori. Ma l’impianto di Ghorogh ha svelato altri importanti elementi di diversificazione. Per la funzionalità delle vasche, profonde circa 2 metri, l’acqua necessaria viene captata direttamente dal mar Caspio. Questa è centrifugata per renderla più ricca di ossigeno e per triturare le sostanze che servono all’alimentazione dei pesci (gamberetti, insetti, parti di piante). Una volta utilizzata dalle vasche un impianto di depurazione attraverso decantazione su sabbia permette la reimmissione nel mare. Si facilita in questo modo il mantenimento dell’ecosistema e si garantisce al pesce un nutrimento molto simile a quello che avrebbe lo storione selvaggio. Con innegabili conseguenze positive sotto l’aspetto organolettico. Le vasche ospitano gli storioni in base all’età e alla dimensione e una volta appurato il sesso, l’individuo viene dotato di microchip che permette

di seguirne le varie fasi di crescita. «I maschi sono avviati alla macellazione al raggiungimento dei 12 kg, intorno ai 4 anni di età; i pochi fortunati da riproduzione, una trentina, sono mantenuti sino a quando possono garantire la piena operatività, ovvero 2 kg di sperma ogni 6 mesi, in grado di fecondare 40 kg di uova, cioè un numero variabile da 8 a 10 di femmine», svela Vaziri. Per l’Huso huso femmina il periodo di produzione delle uova avviene trascorsi almeno 12 anni. Il sistema di microchip aiuta a conoscere lo stato di salute del pesce ma soprattutto a stabilire il suo stato di maturità sessuale. La presenza di un pronto soccorso e di un ospedale per gli storioni in vasche monoposto al fine di garantire il livello di salute dei pesci sempre al massimo livello completa l’allevamento. «La previsione per il 2017 era di estrarre almeno 1,2 tonnellate di uova: una quantità considerevole se si pensa che l’intero Iran produce circa 3 tonnellate all’anno di Beluga, per buona parte destinato all’esportazione. Ma l’obiettivo è di poter contare nei prossimi tre anni su una nostra produzione di oltre 3 tonnellate. Il mercato ce lo richiede», afferma con una punta d’orgoglio Vaziri. A maggior gloria di quei fortunati consumatori di caviale Beluga. Riccardo Lagorio

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Dal vassoio alla tavola gourmet: i bignè di Giorgia Fieni

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e coperti di sfoglia e panna sono noti come Saint-Honoré, se di caramello Croquembouche, se di cioccolato Profiteroles… Noi li chiamiamo semplicemente bignè. Un dessert del passato, immancabile nei vassoi di paste della domenica, quelli anni ‘50 e ‘60 soprattutto, quando, durante il boom economico, le donne di casa, stanche di cucinare dolci con ciò che avevano in dispensa e con molti più soldi a disposizione, uscivano, fiere di potersi comprare un dolce di pasticceria. Si affidavano così a questi “gonfiotti” di pasta choux (l’acqua bolle col burro, fuori fuoco si aggiunge la farina tutta insieme, poi si fa cuocere mescolando finché non sfrigola, di nuovo lontano dalla fiamma vi si rompono dentro le uova e alla fine diventerà un impasto molto solido) ripieni di crema pasticcera, morbidi e golosi: quelli che in francese

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prendono il nome di Éclair (in quanto oltralpe i Beignets sono frutti avvolti da pastella e fritti). Qualche soldo in più e la farcitura diventava di crema al cioccolato (esattamente come quelli serviti sul Titanic la notte dell’affondamento) o di panna montata (con fragole) o di gelato o si ordinavano i Montmorency (con crema pasticcera al cherry brandy e ciliegie), i Cenevole (crema di marroni e panna montata al kirsch) e i Normanna (confettura di mele e crema pasticcera al Calvados). Le cucine più “aristocratiche”, invece, si permettevano i Regina (vellutata e julienne finissima di pollo), i Mediterraneo (fumetto di pesce) e i Porto Cervo (vellutata di pesce e dadolata di aragosta). «Avrei voluto inventare il beignet» ha detto ISIDE DE CESARE, della Parolina di Trevinano, frazione di Acquapendente. «Trovo affascinante la sua versatilità, la tecnica che contempla una doppia

cottura e il risultato che regala un prodotto vuoto, da riempire in mille modi, dolci e salati». Poi è esplosa la moda di voler di nuovo cucinare tutto a casa, quindi il farlo oggi non è più simbolo di povertà ma di maestria, perciò i bignè sono diventati “pericolosi” perché non tutti i provetti cuochi sono sicuri che la pasta choux uscirà dal forno della giusta consistenza e non schiacciata come pancakes. Inoltre, bisogna saper usare (e, in mancanza, costruire) un sac-àpoche… il che potrebbe costituire un altro insormontabile ostacolo. Per i poco coraggiosi, l’industria alimentare fornisce bignè già pronti (anche se spesso troppo friabili, se non addirittura secchi. Per rimediare BENEDETTA PARODI consiglia di farcirli per bene e poi lasciarli riposare anche alcune ore, in modo che la pasta si ammorbidisca e diventi soffice e burrosa).

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Osate con mousse al prosciutto cotto, parmigiano e tartufo; zucca al rosmarino e zenzero, fonduta di toma, e sesamo e lamelle di mandorle a coprire; mortadella, stracchino, pistacchi e pepe; crema di gorgonzola, mascarpone, pepe nero, nocino e copertura di cioccolato amaro

Il maestro pasticcere Luca Montersino prepara i bignè con chantilly al parmigiano e come guarnizione mette una cialdina al parmigiano e pepe rosa e un anellino di panna montata con al centro una riduzione di aceto balsamico e miele. Bellissimi e buonissimi

In alto: bignè farciti con crema di formaggio e salmone (photo © Irina Schmidt – Fotolia). In basso: éclairs alla vaniglia (photo © sriba3 – Fotolia).

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Profiteroles con crema di cioccolato e pistacchio. La tradizione prevede una farcitura con panna montata zuccherata, ma le versioni sono davvero tante per questo dolce così amato (photo © Ryba Sisters – Fotolia). Eppure varrebbe la pena provarci, perché i bignè sono davvero versatili, golosi e apprezzati da tutti. Durante un picnic, o un buffet in piedi, gli invitati potrebbero ingoiarne una decina a testa pur di tentare di capire se contengono un ripieno dolce o salato e che tipo di combinazioni avete usato! Qualche suggerimento curioso Crema zabaione dentro; confettura di albicocche e granella di nocciole in superficie. Crema pasticcera alla banana e limone; copertura di cioccolato fuso e granella di zucchero. Crema di cocco (o al limone e basilico) come ripieno, ganache al cioccolato bianco alla vista. Una glassa al limone e frutta candita che nasconde una morbida crema di nocciole. Un bignè che ricorda il cannolo siciliano o il tiramisù o la caprese (sia in versione dolce che salata). Non abbiate dunque paura di sperimentare anche i ripieni più azzardati, in grado di trasformare il vostro dolcetto in un antipasto sfizioso. Burrata e filetti di alici. Merluzzo al vino bianco e capperi. Granchio e spinaci. Noci e salsa

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al gorgonzola. Pâté di trota affumicata e barbabietole. Mousse al prosciutto cotto, parmigiano e tartufo. Avocado al lime, polpa di granchio in salamoia, cipolla rossa caramellata. Polvere di rapa rossa, formaggio spalmabile, panna acida. Zucca al rosmarino e zenzero, fonduta di toma (con sesamo e lamelle di mandorle come copertura). Mortadella, stracchino, pistacchi, pepe. Crema di gorgonzola, mascarpone, pepe nero, nocino e copertura di cioccolato amaro. Crema di sedano. Se volete sperimentare un impasto particolare, potete osare la combinazione semola & carbone vegetale (con un ripieno di ganache montata al parmigiano) oppure pasta di seitan, tamari e succo di ginger fresco. E, se per caso siete ancora spaventati dalla pasta choux, preparate una pastella con farina, burro, uovo, cognac e albume montato, fate riposare 30 minuti, immergetevi fragole, mela e pompelmo marinati al maraschino e friggete in olio… il risultato sarà comunque goloso. L’ultima “moda” in fatto di bignè riguarda però la loro presentazione,

che deve renderli più accattivanti e suggerirli così anche per cene di un certo riguardo. Li ho visti farciti di crema di spinaci e infilzati sugli stuzzicadenti, e questi ultimi erano ben disposti sulla calotta di mezzo pomodoro, a sua volta posato su una grossa foglia di radicchio, e a fianco una ciotolina che conteneva fonduta di fontina: ogni commensale toglieva lo stuzzicadente e vi immergeva il bignè, ottenendo così un boccone pieno di gusto. LUCA MONTERSINO prepara i bignè con chantilly al parmigiano e come guarnizione mette una cialdina al parmigiano e pepe rosa e un anellino di panna montata con al centro una riduzione di aceto balsamico e miele. Molto belli anche i cigni di choux farciti di panna e presentati come se scivolassero su una superficie di cioccolato fondente. Ecco, queste versioni decisamente spiccherebbero in un vassoio di pasticcini! Giorgia Fieni Nota A pagina 60, bignè vuoti (photo © Riba Systers – Fotolia).

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


CURIOSITÀ Piastre innovative

Cuocere con la mattonella di sale: dal rosa dell’Himalaya al bianco di Cervia di Nunzia Manicardi

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l moderno modo di cucinare tende a valorizzare, soprattutto in chiave dietetica, sistemi e utensili assolutamente innovativi ma che non di rado traggono ispirazione e origine dalle antichità e tradizioni più remote. È il caso delle mattonelle di sale,

usate come piastre di cottura. Già diffuse nelle cucine professionali e apprezzate da famosi chef, rimangono sconosciute al grosso pubblico benché la cottura al sale (in crosta di sale o sotto sale) sia un metodo da lungo tempo utilizzato per la preparazione di pesci, crostacei

e carni in quanto offre il vantaggio di una cottura ottimale ma senza perdita di liquidi. La mattonella di sale consente a sua volta una cottura sana e veloce permettendo di realizzare pietanze senza l’aggiunta di grassi (olio, burro, margarina) e dimezzando i tempi di

La mattonella di sale cuoce i cibi attraverso l’induzione del calore. Utilizzarla è molto semplice: è sufficiente disporla sopra al fuoco dei fornelli oppure in forno o sul barbecue e posizionarvi sopra gli alimenti da cuocere. Se si opta per il primo metodo è necessario sistemarla all’interno di un tegame o di una pentola possibilmente in acciaio mentre negli altri due casi è possibile appoggiarla direttamente sulla placca o sulla griglia (photo © alexeyborodin – stock.adobe.com).

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Rispetto alla preparazione “in crosta di sale”, la mattonella permette di cucinare più velocemente, risparmiando sulla quantità di sale necessaria. I cibi assorbono direttamente dalla piastra le giuste quantità di sale cosicché, terminata la cottura, non è necessario insaporirli ulteriormente

La mattonella di sale consente una cottura sana, senza l’aggiunta di grassi e dimezzando i tempi di cottura (photo © Noce Moscata food blog).

Le mattonelle di sale risultano particolarmente scenografiche perché mettono in rilievo il colore dei cibi, col vantaggio di conservarne a lungo la temperatura. Sono quindi utilizzate sempre più spesso anche come piatto da portata

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cottura. È l’ideale per chi segue una dieta dimagrante o ipocalorica e per chi non ha troppo tempi da dedicare alla cucina; offre anche un vantaggio economico, facendo risparmiare sull’utilizzo dei condimenti. Inoltre, il cibo cotto in questo modo assume dalla mattonella stessa la giusta quantità di sale di cui ha bisogno, in modo equilibrato e autonomo, per cui diventa oltretutto praticamente impossibile sbagliare la salatura delle pietanze. La mattonella di sale è indicata per qualsiasi tipo di cibo. Non deve essere né oliata né imburrata. Il principio basilare è quello dell’induzione del calore. Non si deve fare nient’altro che disporla sul fuoco del fornello, all’interno di un tegame o di una pentola preferibilmente in acciaio, a fiamma bassissima (andrà scaldata a lungo prima di poterla impiegare per la cottura) oppure metterla direttamente sulla placca del forno (che può essere scaldato da 150º a 250º con dentro la mattonella) o sulla griglia del barbecue. Per la cottura in forno sono consigliabili filetti, sia di carne che di

pesce, e fettine sottili di verdura. Poiché la mattonella trattiene a lungo il calore, si può eseguire o ultimare la cottura anche davanti ai commensali. Se volete effettuare l’intera cottura, perfino di una bella fiorentina, scaldatela a 250° per un’ora, poi portate in tavola e ponetevi sopra la bistecca da cuocere senza salare. La piastra sarà rovente e cuocerà per almeno 15 minuti. Successivamente, anche se la temperatura scenderà molto lentamente, non sarà più adatta per la cottura di un pezzo grosso come la fiorentina. Potrà invece servire ancora per vivande preparate in fette sottili e, ovviamente, come tagliere per porzionare la pietanza. La mattonella di sale creerà in questo modo ulteriore motivo di convivialità e darà un originale apporto creativo alla nostra tavola. Le mattonelle di sale risultano infatti particolarmente scenografiche perché mettono in rilievo il colore dei cibi, unito al vantaggio di conservarne a lungo la temperatura. Oltre che come mezzo di cottura esse sono quindi utilizzate sem-

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Mattonella dello chef al sale dolce di Cervia (photo © shop.salinadicervia.it). pre più spesso come piatto da portata per verdure, pesce, carni e formaggi, avendo cura però di evitare pietanze già sapide di natura perché queste piastre rilasciano comunque sempre un po’ di sale. Si consiglia anche di utilizzare un lato per la carne e uno per il pesce per non intaccare i sapori oppure, ancora meglio, di utilizzare due diverse mattonelle. Scaldandole per circa mezz'ora in forno a 60 °C diventeranno un perfetto piatto da portata-scaldavivande. Se invece volete presentare dei piatti freddi non avrete che da lasciarle nel congelatore per qualche tempo affinché le vivande non aderiscano al supporto (come invece succede con le basi di ghiaccio). Siccome, quando sono raffreddate, non rilasciano sale possono pure essere utilizzate come piatto da portata per gelati e semifreddi. Sono perfette anche per carpacci e sushi. E, una volta adoperata, che cosa si fa della nostra mattonella? La si butta via? Niente affatto! Basterà cospargerla di bicarbonato, eliminare eventuali residui di cibo e incrostazioni con una spazzola o una spugnetta abrasiva e pulirla poi con un panno bagnato o anche sciacquarla con acqua corrente, ma davvero molto velocemente. Asciugarla per bene e riporla per il prossimo utilizzo. Con il tempo il sale tenderà certamente a

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consumarsi, ma può essere utilizzata per parecchie cotture (c’è chi dice anche una cinquantina). Vietati nel modo più assoluto l’immersione in acqua e l’impiego di lavastoviglie e detersivi, altrimenti davvero diventa inutilizzabile. E non fatevi spaventare da eventuali alterazioni di colore (tende a schiarirsi) e struttura, che sono del tutto naturali e derivanti anche dal fatto che si tratta di un prodotto artigianale; esse non modificano in alcun modo il suo corretto e salutare utilizzo. Anche le crepe che si formeranno con il tempo non ne compromettono la funzionalità. Bisogna però avere l’avvertenza di non sottoporla a shock termici per evitare che si rompa (e, per lo stesso motivo, non dovrà essere lavata quando è ancora calda). Dove trovarla? In vendita on-line ma anche nei negozi di accessori per la casa (quelli meglio forniti, naturalmente). Il prezzo varia da poco più di una decina di euro ad alcune decine e dipende dalle dimensioni della mattonella e dal materiale con cui è realizzata. Le varianti più diffuse sono quelle composte da sale marino integrale di Cervia e da sale rosa dell’Himalaya. Non è consigliabile acquistare piastre composte da un agglomerato di sale grosso (marino classico) perché durerebbero pochissimo, a parte il fatto che le pietanze risulterebbero troppo salate.

Ultimamente si fa un gran parlare del sale rosa dell’Himalaya (che in realtà non proviene da questa catena montuosa ma da miniere collocate a qualche centinaio di chilometri di distanza, nella zona del Punjab in Pakistan), sicuramente di grande effetto cromatico ma sulle cui tanto vantate proprietà salutari sarebbero opportuni ulteriori approfondimenti. Meglio, secondo noi, rimanere sul più conosciuto e consolidato sale marino integrale di Cervia, che abbiamo a portata di mano da migliaia di anni senza bisogno di scomodare luoghi e culture così differenti da noi. Ed è al sito dei produttori di mattonelle di sale di Cervia che ci rifacciamo per le note seguenti, mattonelle commercialmente indicate come “mattonelle dello chef”. Il sale della Salina di Cervia è un sale marino integrale prodotto, raccolto e confezionato secondo il metodo tradizionale; non è essiccato artificialmente ma mantiene le sua naturale umidità (2%) che è tipica del sale marino non raffinato. Questo metodo fa si che il sale conservi tutti gli oligo-elementi presenti nell’acqua di mare, come: iodio, zinco, rame, manganese, ferro, magnesio e potassio. Da sempre è conosciuto come un sale dolce, non perché abbia una minore capacità salante ma per una più limitata presenza dei sali amari, come i solfati di magnesio, di calcio, di potassio e il cloruro di magnesio, cioè quelle sostanze per lo più insolubili che danno al sale quel retrogusto amarognolo meno gradito al palato. La Società Parco della Salina di Cervia è stata costituita l’8 dicembre 2002 per volontà di un gruppo di enti locali che ne sono diventati soci fondatori. Si tratta del Comune di Cervia, della Provincia di Ravenna, del Parco del Delta del Po e della Camera di Commercio di Ravenna. Per il 92% pubblica, ha un solo socio privato, le Terme di Cervia di Brisighella. La Salina di Cervia si estende per 827 ettari; è composta da oltre 50 bacini e circondata da un canale di oltre 16 chilometri, consentendo all’acqua del Mare Adriatico di entrare e uscire dalla salina. Il sale viene lavorato tramite lo storico metodo “a raccolta multipla” ed è conosciuto come sale marino integrale perché puro e inalterato, nel senso che è un condimento che non altera i gusti delle pietanze. Nunzia Manicardi

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Le proprietà nutrizionali e salutistiche del riso Riso integrale, riso nero e riso rosso sono ricchi di polifenoli, composti bioattivi con proprietà antinfiammatorie che possono contribuire alla prevenzione di malattie croniche. Lo ha stabilito un nuovo studio coordinato dall’Ente Nazionale Risi e realizzato in collaborazione con la Fondazione Umberto Veronesi e il Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Milano. Pubblicato sull’Universal Journal of Agricultural Research, lo studio ha evidenziato (utilizzando un modello cellulare in vitro) come i polifenoli svolgano una potente azione anti infiammatoria, quasi dimezzando i livelli della proteina iNOS, uno dei mediatori dell’infiammazione. L’infiammazione cronica è anche associata a sovrappeso, obesità e invecchiamento e favorisce malattie croniche come cancro e malattie cardiovascolari. L’assunzione di composti anti infiammatori come i polifenoli contenuti nel riso integrale e, in particolare, nei risi pigmentati, può aiutarci a ridurre il rischio di incorrere nell’infiammazione cronica. Prediligere il consumo di cereali integrali aiuta infatti a ridurre l’incidenza non solo di malattie cardiovascolari, ma anche di obesità e diabete di tipo 2. «Riso integrale, riso nero e riso rosso sono circa quattro volte più ricchi di fibra rispetto a riso lavorato bianco e riso parboiled, in quanto subiscono un minor grado di lavorazione e quindi mantengono una maggiore quantità di tessuti esterni del chicco di riso» ha sottolineato Katia Petroni, professore associato di Genetica dell’Università degli Studi di Milano. «Nel nostro studio è stato visto che riso rosso e nero hanno un maggiore potere antiossidante rispetto agli altri tipi di riso, grazie al loro maggiore contenuto in flavonoidi e polifenoli. In particolare, il riso nero contiene principalmente antocianine (pigmenti viola presenti anche in molta frutta e verdura) e il riso rosso contiene alchilresorcinoli accanto alle pro-antocianidine che ne conferiscono il colore rosso». «Anche il riso lavorato o bianco è raccomandato per una alimentazione sana, grazie alla sua elevata digeribilità che ne consente l’utilizzo nei baby foods (sotto forma di farina di riso è uno dei primi alimenti che viene assunto dai bambini nella fase di svezzamento) ed è raccomandato per celiaci e sportivi», ha ricordato Cinzia Simonelli, responsabile qualità del Laboratorio Chimico Merceologico Ente Nazionale Risi. Il riso è inserito tra i pasti principali nella piramide alimentare della Dieta Mediterranea, insieme a pasta, pane e altri cereali, ed occupa un posto d’onore nella tradizione culinaria italiana. Ente Risi, ente pubblico economico sottoposto alla vigilanza del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, ha comunicato che il raccolto di riso per la stagione 2017 sta registrando un buon andamento: 1 milione e 600.000 tonnellate di risone x 233.000 ettari coltivati. Il Governo italiano ha chiesto all’Unione Europea l’applicazione della clausola di salvaguardia a tutela del settore risicolo dalle importazioni dai paesi asiatici. In Italia le vendite di riso integrale nella Grande Distribuzione sono raddoppiate dal 2013 al 2016: da 3 a 7,5 milioni di chilogrammi, corrispondenti in valore a 9 e 20 milioni di euro (dati: IRI sul totale della GDO, inclusi i Discount). La superficie coltivata per i soli risi pigmentati è aumentata tra il 2013 e il 2016 da 614 a 1929 ettari (dati: Ente Risi). L’Italia è il maggior produttore europeo di riso con i suoi 234.000 ettari coltivati a riso, 4.265 aziende risicole, 100 industrie risiere, per un fatturato annuo di 1 miliardo di euro. Un cereale da riscoprire Lo studio ha dato origine alla pubblicazione del volume della Fondazione Umberto Veronesi “Il riso. Un cereale da riscoprire”. Il volume parte dalla storia del riso per poi presentare le sue varietà, i metodi di coltivazione, il rapporto tra risicoltura e sostenibilità, la composizione nutrizionale del chicco di riso, il riso nella dieta mediterranea, le proprietà nutritive e salutistiche del riso, le ricette ed altro ancora. Il volume sarà distribuito gratuitamente da Ente Risi agli Istituti di Agraria, alle Scuole di Gastronomia e alle Università con specializzazioni di pertinenza. È scaricabile gratuitamente dal sito www.enterisi.it oppure lo si può richiede alla Fondazione Veronesi (info@fondazioneveronesi.it).

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GENUINE FOOD

Rural, il festival della biodiversità agricola Tutto ha inizio da un’idea di Mauro Ziveri: recuperare le razze animali antiche e le varietà vegetali autoctone. L’unione di più produttori porta alla nascita del Rural festival, oggi declinato anche in un punto vendita, il Rural market di Parma di Veronica Fumarola

Il Rural festival a Rivalta, Lesignano Bagni, Parma.

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l Rural festival è un appuntamento che si ripete ormai da diversi anni il primo week-end di settembre. In provincia di Parma, a Rivalta, nel 2013, la prima “riunione” per celebrare la biodiversità. Dal 2015, una nuova tappa, a Gaiole in Chianti, in terra senese, per sancire la collaborazione tra gli agricoltori e gli allevatori tosco-emiliani.

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L’idea Tutto nasce da un’idea di MAURO ZIVERI, allevatore di maiali neri, antica razza quasi del tutto scomparsa, che pascola in ampi spazi collinari e si nutre di erba fresca, radici, tuberi, bacche, ghiande che trova in natura, mais, orzo, frumento e favino. L’oasi in cui sono allevati è l’Azienda Agricola Rosa dell’Angelo, a Rivalta. Ma perché proprio i maiali

neri? Per produrre un prosciutto qualitativamente superiore, riscoprendo le origini e le antiche tradizioni. Oggi a Rivalta si producono 140 prosciutti al mese, tutti rigorosamente lavorati a mano, dalla salagione alla posa della sugna. Da un piccolo allevamento, col passare degli anni, la fattoria Rosa dell’Angelo è diventata sempre più un luogo dedito all’allevamento, all’a-

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gricoltura, alla scoperta degli antichi sapori, un’area protetta in cui trovare frutti antichi, ulivi, tacchini e cavalli. L’amore di Mauro per i maiali neri l’ha portato a collaborare con altri allevatori accomunati dalla stessa passione e a dar vita, proprio all’interno della sua fattoria, a un festival della biodiversità, il Rural festival appunto. Il festival La volontà di Mauro è da sempre quella di ridare importanza alle vecchie tradizioni. È per questo che ha riunito tutti quei produttori che, come lui, cercano ogni giorno di recuperare razze animali e vegetali non più allevate o coltivate. All’inizio il progetto comprendeva solo coltivatori e allevatori di quella zona dell’Emilia al confine con l’Appennino tosco-emiliano; oggi fanno parte del progetto anche produttori toscani. Il festival, infatti, da due anni ha una seconda sede, a Gaiole in Chianti, in provincia di Siena. «Per noi biodiversità significa valorizzare specie animali e vegetali in via di estinzione per dare alle generazioni future la possibilità di conoscerle» afferma la figlia di Mauro, ELISA, che oggi si occupa del coordi-

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Il Rural festival si prefigge l’obiettivo di proteggere le produzioni artigianali, custodire e sostenere la biodiversità agricola. namento dei vari produttori. «Il Rural festival ha messo insieme i produttori accomunati da questa volontà per dare loro la possibilità di conoscersi e aiutarsi. All’inizio erano in pochi; piano piano abbiamo coinvolto tutti quelli che ogni giorno lavorano per la biodiversità». Infatti, anche se il festival è ad accesso libero, ci sono dei canoni da rispettare: «Abbiamo degli agronomi — dice Elisa — che valutano il reale recupero di un prodotto, in particolare controllano che

vengano rispettate le antiche tradizioni nella produzione. Il festival si presenta come una vera e propria festa, un luogo in cui celebrare la genuinità e la bontà dei prodotti. Ci sono esposizioni degli animali, dei salumi, dei formaggi; i produttori hanno la possibilità di raccontare il loro lavoro e perché hanno scelto di dedicarsi alla biodiversità; il pubblico può ascoltare storie diverse, degustare e acquistare prodotti genuini, ricchi di sapore».

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latte crudo intero di vacche Bardigiana, Grigia dell’Appennino e Bianca Val Padana, pecorino Massese, mostarde di anguria bianca e molto altro.

Tommasini, il Rural market, seguito proprio da Elisa. Il piccolo mercato, in cui c’è anche un laboratorio, è stato inaugurato nel marzo 2017. Qui è possibile acquistare e conoscere materie prime della biodiversità agricola, frutto del lavoro degli agricoltori e degli allevatori dell’Appennino toscoemiliano. «Il market è una sorta di festival quotidiano. Abbiamo cercato di portare questo genere di prodotti in città per farli conoscere, ma anche per far apprezzare le storie e l’impegno dei piccoli produttori, protagonisti del progetto Rural» prosegue Elisa. «Vogliamo che la gente sia in contatto con i produttori. Ogni sabato organizziamo nel punto vendita incontri con le varie aziende che fanno parte del progetto: agricoltori e allevatori raccontano il prodotto e la sua storia. E attraverso la possibilità di ascoltare, assaggiare e vedere con i propri occhi, chi acquista riesce davvero ad apprezzare la qualità». Veronica Fumarola

Il punto vendita La logica conseguenza del successo riscosso dal festival nel corso degli anni è stata l’apertura di un punto vendita nel cuore di Parma, in Borgo Giacomo

Rural market Borgo Giacomo Tommasini 7 43121 Parma E-mail: info@ruralparma.it Web: www.rural.it

Nel centro di Parma la biodiversità ha trovato casa: nei locali di quella che è stata la rinomata Salumeria Grisenti, in borgo Giacomo Tommasini 7, oggi infatti c’è il Rural market, un piccolo mercato, con annesso laboratorio, in cui trovano spazio materie prime della biodiversità agricola e prodotti genuini che sono il frutto del lavoro quotidiano di allevatori e agricoltori dell’Appennino tosco-emiliano. I prodotti Dalla carne ai salumi, dal latte ai formaggi, dal pane alla pasta. E ancora: ortaggi, frutta, cereali, miele, olio e vini. Le proposte dei produttori sono varie e particolari: carne di Cinta senese, passata di pomodoro Riccio, latte di asina Romagnola, patate di Cetica e Quarantina, zucca Violina, pane di grani antichi, formaggi mono razza bio prodotti con

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Una maialata che aiuta la ricerca Con il termine “maialata” si fa riferimento alla festa che tradizionalmente in passato accompagnava l’uccisione del maiale nei mesi di dicembre o gennaio e durante la quale ci si dedicava alla preparazione dei salumi che dovevano durare per tutto il resto dell’anno. Una celebrazione che ha retaggi ancestrali e vede perpetuare anche oggi riti e gestualità che si ripetono dalla notte dei tempi. Guido Mongiorgi, col figlio Amedeo, è tra i fedele seguaci di questa usanza e ha riunito, lo scorso 23 gennaio, in nome della generosità del “divin porcello”, un centinaio di persone circa a Savigno (BO), presso l’Azienda Agricola Torricella-Agriturismo Mastrosasso. Obiettivo principe della giornata, naturalmente, la preparazione di prosciutti, salami gentili, lombi, filetti, e la degustazione, rigorosamente alla griglia, della carne non destinata alla realizzazione degli insaccati. «Che è stata mangiata tutta!» ci dice orgogliosamente Guido. Tre maiali di 200 chili l’uno circa (peso delle mezzene) e la festa ha preso il via, con i paioli fumanti per la cottura dei ciccioli serviti ai partecipanti già dalle dieci del mattino, seguiti dalla salsiccia, dalla coppa di testa gustata a mezzogiorno con sale e pepe e con la merenda nuovamente a base di ciccioli. I partecipanti hanno poi lasciato il loro contributo raccolto in beneficenza per aiutare la ricerca del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna. Guido Mongiorgi è il proprietario della bellissima e rinomata “Bottega del Macellaio” (labottegadelmacellaio.com), un esercizio storico aperto nel lontano 1898 dal nonno, l’omonimo Guido Mongiorgi, in via Marconi 2, sotto i portici della piazza centrale di Savigno. Un macellaio che ha deciso di seguire le orme del nonno e del padre a soli 16 anni e che porta avanti con orgoglio la tradizione di famiglia. Grazie anche alla preziosa collaborazione della moglie Anna, negli anni l’attività di macelleria e salumeria è stata ampliata con un reparto gastronomico, una cantina e un sala per la ristorazione che richiama buongustai provenienti da ogni parte del mondo.

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WEEK-END

L’oro bianco della Sardegna Chi crede che uno sfruttamento, anche industriale, delle risorse naturali non possa esistere, se non in violazione degli ecosistemi, non è mai stato alle Saline Conti Vecchi. In questo luogo, a qualche minuto d’auto da Cagliari, sorge un sito dall’immenso valore storico e naturalistico dove l’uomo è stato in grado di dimostrare che un connubio perfetto tra ambiente e lavoro è possibile, anche sul lungo termine di Sebastiano Corona

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In queste pagine: le Saline Conti Vecchi ad Assemini, in provincia di Cagliari. Avviato nel 1929 dall’ingegner Luigi Conti Vecchi, l’impianto di estrazione del sale è in funzione da allora. Grazie alla collaborazione tra il FAI – Fondo Ambiente Italiano e l’ENI un progetto di recupero, conservazione e valorizzazione della salina ha dato vita al primo sito archeolgico aperto all’interno di un impianto ancora produttivo. Insieme all’impianto originario restaurato e gli ambienti di inizio Novecento si vedono le vasche rosa in cui il sale sta “maturando” per la raccolta.

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ntrare nelle saline più longeve della Sardegna non è solo un viaggio nella natura. È un percorso a ritroso nella storia recente, che affascina e coinvolge. Significa immergersi in un mondo magico e silenzioso, in cui uomo e territorio convivono pacificamente, da quasi un secolo. In questo contesto in cui si estraggono sale e una serie di altre sostanze preziose, gli spazi del lavoro e della vita di un tempo sono stati in parte recuperati e rappresentano oggi un vero e proprio gioiello di archeologia industriale, visitabile e fruibile dal

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pubblico. L’affascinante storia delle più grandi saline d’Europa si deve al genio dell’ingegner LUIGI CONTI VECCHI, toscano di nascita, generale dell’esercito ed ex direttore delle Reali Ferrovie Sarde che nel 1919 presenta un progetto di bonifica dello stagno di Santa Gilla, allora area paludosa e malsana, alle porte di Cagliari. L’ambizioso piano aveva il duplice scopo di contribuire a debellare la malaria e di rendere produttiva una zona che mostrava enormi potenzialità. Pur inizialmente respinto per gli alti costi di sbancamento e nel timore che

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l’impatto con l’ambiente circostante fosse eccessivo, il sogno di Luigi Conti Vecchi si realizza due anni dopo, quando viene stanziata un’ingente somma per gli interventi di dragaggio dei bacini, posa in opera delle tubazioni e la costruzione di moli, strade, ponti e capannoni. L’ingegnere assiste alla conclusione dei lavori da lui stesso progettati, ma non fa in tempo a partecipare alla prima raccolta del sale, perché muore solo qualche mese innanzi, lasciando quello che diventerà un patrimonio di inestimabile valore a suo figlio Guido. Da questa preziosa eredità inizia l’attuazione di un progetto faraonico ma fortemente calato nel contesto, rispettoso dell’ambiente e del lavoro dell’uomo. E nel 1940, quella che viene in seguito definita la Olivetti della Sardegna, non è più una semplice salina, ma una solida realtà industriale, che dà lavoro a 400 persone, che diventano 1.000 nella stagione della raccolta e che produce, oltre a 240 tonnellate di sale l’anno, anche una notevole quantità di sottoprodotti per l’industria chimica e l’agricoltura.

Gli uffici e tutti gli ambienti dello stabile all’interno delle saline sono stati riarredati con accurata precisione filologica degli esperti del FAI.

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La comunità del sale A fianco del sito produttivo sorge un villaggio che ospita le famiglie dei lavoratori. Villaggio con abitazioni moderne e dotate di ogni comfort, compresi i bagni, all’epoca ancora molto poco diffusi. La comunità del sale, dove dirigenti e operai convivono in un unico spazio, poteva contare sulla presenza di un asilo, di una scuola elementare, di uno spaccio, una chiesa e persino di impianti sportivi, una cabina telefonica, un’infermeria, la foresteria e il dopolavoro, oltre ad un’azienda agricola che contribuiva a rendere il piccolo paesino quasi totalmente autosufficiente. In un ambiente dove i figli degli operai frequentavano gli stessi luoghi dei piccoli dei funzionari o della stessa famiglia Conti Vecchi, la vita sociale è parte integrante del lavoro e viceversa. Nel frattempo, la produzione del sito raggiunge livelli ragguardevoli in quantità e qualità delle materie estratte. Il Nord Europa, il Sud America, il Canada richiedono il sale delle Saline Conti Vecchi e rappresentano il 25% del fatturato dell’impresa che da sola assorbe il 40% del traffico in partenza dal porto di Cagliari!

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Un modello di eco-sostenibilità Ma se il core business è nel sale, il successo di questa straordinaria azienda era e tuttora rimane il processo produttivo che sfrutta integralmente l’acqua e non genera scarti e permette anche l’estrazione di altre sostanze preziose, come il cloruro di sodio, i sali di magnesio, di potassio e di bromo. I Conti Vecchi realizzano anche un materiale completamente nuovo che, non a caso, viene battezzato con il termine Gillite (dallo stagno di Santa Gilla, appunto). Si tratta di un agglomerato di trucioli di legno che, mescolati con i suddetti sali, consente di comporre pannelli leggeri per rivestimenti utili in edilizia. Un modello di eco sostenibilità, dunque. Un luogo in cui uomo, industria e ambiente si incontrano senza prevalere l’uno su l’altro. La Salina Conti Vecchi era già mezzo secolo fa un esempio di sviluppo industriale dove la catena produttiva integrata e a sviluppo circolare generava ricchezza in assenza di residui. Un sistema perfetto in cui nulla viene buttato ma tutto si ricicla. A Santa Gilla non solo esisteva una capacità produttiva esemplare, ma anche un’autonomia operativa come in poche altre realtà. La presenza di un’officina meccanica di altissimo profilo permetteva di intervenire in ogni aspetto meccanizzato del lavoro. L’officina elettrica e la falegnameria, dotate altresì di un impianto di forgiatura e fusione facevano il resto. A queste realtà interne all’impresa si deve l’invenzione di macchinari moderni e all’avanguardia, ma anche la formazione delle nuove generazioni, la creazione di professionalità importanti nel campo: competenze che si sono rivelate in seguito utilissime sia in ambito regionale che nazionale. Il sistema logistico delle Saline Conti Vecchi è stato implementato da subito di nastri trasportatori in grado di elevare il sale sino a 15 metri d’altezza, per essere poi caricato sulle chiatte ormeggiate nel piccolo porto interno al sito. Sempre con uno spirito ecosostenibile, le abitazioni del villaggio, gli immobili interni al complesso produttivo e tutti gli ambienti comuni vennero realizzati in mattoni di “ladini”, ossia di argilla cruda e paglia, grazie ad una produzione interna che ha fatto scuola anche in un comune, Assemini, che in

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L’officina, la falegnameria, i laboratori descrivono un’industria efficiente che venne infatti definita l‘Olivetti della Sardegna.

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Fenicotteri rosa all’ingresso delle Saline Conti Vecchi. fatto di ceramica rappresenta il meglio dell’artigianato isolano. Per decenni le Saline Conti Vecchi hanno operato a pieno ritmo, in una ascesa che sembrava non dovesse arrestarsi mai. Solo la Seconda Guerra Mondiale interruppe, seppur temporaneamente, il lavoro all’interno del sito industriale. Le officine vennero adibite alla produzione di armi, il porto di Cagliari restò inagibile per lungo tempo e il sale non poté essere esportato. La raccolta venne sospesa per due anni. Dal dopoguerra iniziò un graduale rinnovo del parco macchine e l’introduzione di numerose innovazioni sul piano tecnologico e gestionale. L’intervento umano iniziò a diminuire, si spopolò il villaggio di Macchiareddu, dove le famiglie dei dipendenti abitavano, e il sito assunse caratteristiche nuove ed inedite, non senza la protesta di chi nella salina lavorava e viveva da sempre. Ma la svolta avvenne nel passaggio della proprietà all’ENI, nel 1984, ENI che tuttora, tramite Syndial, gestisce il sito. Molte cose nel frattempo sono cambiate nella più longeva salina della Sardegna: il ciclo produttivo è lo stesso di sempre, perché sono il sole, il mare e il vento a decidere i tempi di raccolta e i ritmi di lavoro, ma, rispetto al passato,

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è la tecnologia a farla da padrone. Una tecnologia discreta, rispettosa dell’ambiente e degli ecosistemi. E la produzione è sempre ragguardevole: 400.000 tonnellate di sale all’anno, la specializzazione in prodotti raffinati, tra cui il pregiato Fior di sale, destinato ai mercati più esigenti e remunerativi del mondo. L’attenzione per il delicato equilibrio circostante, che vede nella laguna la presenza di una fauna e di una flora caratterizzata da specie uniche che qui vivono e proliferano, è massima. La Syndial ha poi voluto che questo sito fosse in qualche modo restituito alla comunità che ha contribuito alla sua realizzazione e al suo sviluppo. A seguito di un recente accordo con il Fondo Ambientale Italiano, infatti, alcuni immobili sono stati ristrutturati e resi fruibili al visitatore, al pari della folta documentazione storica dell’impresa, relativa al personale, ai clienti e ai fornitori. Non solo dunque è oggi possibile visitare la laguna attraverso percorsi a piedi, in bicicletta o su un simpaticissimo trenino, ma sono aperte al pubblico anche le sale che un tempo ospitavano l’officina, la direzione centrale, il laboratorio chimico. Il fedele recupero delle strutture risalenti al ventennio fascista, riportate a nuovo sia

nello stile architettonico sia nel mobilio e nei suppellettili, catapulta il visitatore in un mondo antico. Alcuni video che vengono proiettati nelle sale raccontano la vita nella salina, il ciclo produttivo, la fatica di chi lavorava a mano sotto il sole cocente, dall’alba al tramonto. Ma lasciano anche intravedere la storia recente di Cagliari e della Sardegna tutta, in una narrazione affascinante e a tratti commovente. Anche a questo ha portato la collaborazione tra il FAI e la Ing. Luigi Conti Vecchi Spa Syndial, ad un progetto di collaborazione innovativo, che nasce per preservare la salina, ma anche per raccontare al pubblico una storia di successo imprenditoriale come poche, che si fonda sul valore della natura e si arricchisce della tradizione e della cultura isolane. Un progetto che recupera il passato per costruire un futuro sostenibile, in armonia tra cultura e territorio, tra necessità di sviluppo e rispetto dell’ambiente, così come avrebbe voluto l’ingegner Luigi Conti-Vecchi che amava spesso ripetere: “vivete secondo natura”. Sebastiano Corona Note Photo © Manuela Meloni, FAI.

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Pareti verdi in cittĂ e un mercato che esprime la Provenza contadina

Les Halles, ad Avignone il mercato diventa green di Massimiliano Rella

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In alto: una grande varietà di tuberi al banco La ronde des pommes de terre e le specialità di Maison Feste. A sinistra: la parete verde del grande mercato al coperto di Avignone, Les Halles. Il mercato riunisce una quarantina di commercianti, veri e propri ambasciatori dei prodotti locali e delle specialità culinarie della Provenza.

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el centro storico di Avignone, oltre agli straordinari monumenti come il Palazzo dei Papi, i resti del ponte sul Rodano del XII secolo (pont Saint-Bénezet) o la Cattedrale romanica di Notre-Dame-des-Doms, siti patrimonio mondiale dell’umanità, troviamo anche un originale mercato coperto da un’intera parete vegetale, nata per nascondere la bruttezza del parcheggio sopraelevato. È il mercato Les Halles, uno spazio che accoglie i banchi di ben 40 commercianti e produttori, ambasciatori del gusto e della qualità provenzale (Place Pie; aperto mart.–ven. 6:00–13.30; sab.–dom. 6:00–14:00). Qui sono in vendita specialità regionali, dai formaggi alle olive, dai dolci ai salumi, dalle carni al pesce della costa di Provenza. Il mercato è un luogo che esprime la Provenza contadina e autentica, con la sua atmosfera effervescente, i profumi particolari, i sapori incomparabili. È situato al pianterreno di un enorme parcheggio sopraelevato che, per ragioni estetiche, ha la facciata che affaccia sulla Place Pie interamente rivestita da una parete vegetale di piante e arbusti che le donano un aspetto green ed

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eco-friendly. È stata aggiunta nel 2006 nell’ambito di una più ampia riqualificazione del centro storico cittadino. La progettazione è stata affidata al botanico PATRICK BLANC, autore di un’opera analoga per il Musée du Quai Branly a Parigi. La parete vegetale — che misura 30 metri per 11,50 di altezza — è dotata di un sofisticato sistema di irrigazione e oggi contiene 20 piante per metro quadrato. Il mercato coperto è sorto alcuni decenni fa: la prima struttura di ferro fu installata nel 1864, ma soltanto nel 1895 fu approvato il progetto e la costruzione, cominciata poi nel 1898 e conclusa nel giugno 1899. Nel tempo è stato interessato da vari interventi di ristrutturazione, in particolare del tetto, completamente ricostruito nel 1939. Danneggiato dai bombardamenti durante la guerra, fu riparato nel 1947 e nel 1961 piastre di cloruro di polivinile sostituirono il vetro. Nel 1972 tutto il complesso fu smantellato e ricostruito con nuovi locali nel 1974. Ciò che caratterizza il mercato è l’assortita offerta gastronomica di qualità. Tra i banchi troviamo: salumi e insaccati provenzali della Maison Fillière (www.filliere.fr); i salumi di

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In alto: la boucherie BIO des Halles d’Avignon. In basso: pesce fresco, frutti di mare, ostriche e molto altro nel banco di Marée Provençale. Artisan Charcutier Christophe Traiteur (www.christophetraiteur.com) e di Charcuterie du Luberon (www.charcuteriedu-luberon.com); gli oltre 250 tipi di formaggi francesi de La Maison de Fromage; i vini selezionati da Cave Fac & Spera (www.cave-fac-spera.com); la carne di volatili di Hugon–À la Belle

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Volaille. E ancora, il pesce freschissimo di Marée Provençale; i prodotti etnici provenienti dalle ex colonie francesi, con specialità delle isole de La Réunion; la carne, il pollame e la macelleria di La boucherie BIO des Halles. Non mancano il banco della frutta secca, anche confezionata in graziosi

cestini; quello del pane, pizza e dolci; la rosticceria e i piatti pronti da asporto; e molto altro. Il mercato è anche un luogo d’incontro tra i consumatori, con le loro richieste, dubbi e curiosità, e i commercianti, esperti professionisti, sempre pronti a consigliare, prodighi di ricette e utili suggerimenti su cotture e abbinamenti. Inoltre ogni sabato, alle 11:00 di mattina, la Petite Cuisine des Halles, uno spazio adibito a cucina dimostrativa, dotata di attrezzature professionali, ospita grandi chef della Provenza che si alternano di settimana in settimana per proporre i loro piatti preparati con ingredienti in vendita nel mercato. Vale la pena fare un salto, dopo aver ammirato le bellezze di Avignone, e lasciarsi guidare dal profumo che si diffonde tra i banchi per gustare qualche proposta gourmet. Massimiliano Rella >> Link: www.avignon-leshalles.com Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Bologna


FIERE

Viva la Marca del Distributore MarcabyBolognaFiere continua a crescere nel numero di espositori, superficie, insegne e buyer esteri

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ltre 656 espositori, 21 insegne, 80 delegazioni da 19 Paesi. Questi i numeri, tutti in crescita rispetto all’edizione 2017, di MARCAbyBolognaFiere, il salone internazionale dedicato ai prodotti a Marca del Distributore organizzato da BolognaFiere, in collaborazione con ADM (Associazione Distribuzione Moderna), svoltosi il 17 e 18 gennaio scorsi nel capoluogo emiliano. MARCA, seconda fiera del comparto in Europa per importanza, rappresenta un punto di riferimento per la business community dei prodotti MDD ed è la sola manifestazione del settore che vede la partecipazione delle più importanti Insegne della Distribuzione Moderna Organizzata (DMO) presenti con un proprio spazio espositivo e all’interno del comitato tecnico-scientifico della manifestazione. MARCA da sempre ha una vocazione internazionale e, anche per questa edizione, l’ha confermata e rafforzata, con un numero importante di operatori esteri e una significativa presenza di category manager provenienti dal mondo del retail. Sono state 80 le delegazioni provenienti da 19 Paesi (Austria, Belgio, Canada, Cina, Croazia, Danimarca, Egitto, Francia, Gran Bretagna, Germania, Israele, Macedonia, Olanda, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, USA). Questo risultato è stato raggiunto anche grazie ad ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane e al programma di investimento finalizzato al coinvolgimento di VIP buyer provenienti dall’estero. La 14a edizione di MARCA ha visto una crescita dello spazio espositivo (35.500 m2), grazie a due padiglioni in più rispetto allo scorso anno. Quattro le

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MARCA da sempre ha una vocazione internazionale che, anche per l’edizione 2018, ha confermato e rafforzato. insegne new entry: PAM, REWE Group, Consorzio C3 e Leader Price Italia. Quello della Marca del Distributore è un settore che nel 2017 ha superato i 10 miliardi di euro di fatturato, coinvolgendo attivamente una filiera molto rilevante, con oltre 50 settori e comparti economici. Un settore che assicura un’offerta di prodotti sempre più ampia e di alta qualità, in grado di soddisfare anche i bisogni più complessi: nel settore food, ad esempio, si va dal biologico, agli alimenti per le intolleranze alimentari, fino alle migliori eccellenze del

territorio. Dell’importanza di questo segmento di mercato si è discusso nell’ambito del convegno di apertura del 17 gennaio, “Marca del Distributore. Il valore e il ruolo per il sistema-paese”, organizzato da ADM in collaborazione con The European House – Ambrosetti. Un’occasione per discutere delle prospettive future dell’economia italiana, presentando i dati della ricerca sul tema realizzata dai promotori del convegno. Un quadro dettagliato e aggiornato sui dati del comparto MDD nell’anno 2017 è stato poi fornito dall’Osservatorio

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1) Lo spazio di Alcar Uno, l’azienda leader nel settore delle carni suine di Castelnuovo Rangone (MO). Da sinistra: Giovanni Bortolotti, Vania Mozzato, Barbara Cori e Lorenzo Levoni. 2) Christian Galli del Salumificio Galli Remo, bella realtà di Cogozzo di Viadana (MN). 3) Marcello Palmieri del Salumificio Mec Palmieri di San Prospero (MO), presente a Marca con la Mortadella Favola. 4) Lo stand di Felsineo, l’azienda bolognese leader nella produzione e nella commercializzazione della Mortadella e Mortadella Bologna Igp. 5) Ibis Salumi e Ibis snack, brand di Italia Alimentari (Gruppo Cremonini), che a Marca ha presentato nuove linee di prodotto, tra cui le Cotolotte. 6) Il salumificio Terre Ducali di Lesignano de’ Bagni (PR), presente a Marca con la nuova responsabile marketing Anna Rita Bursi e con diverse novità di prodotto.

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1) Bresaole Pini, marchio storico della salumeria valtellinese con sede a Grosotto (SO). 2) Filippo Motta Annoni e Roberto Agnani nello spazio di BP Prosciutti, Gruppo Suincom, di Solignano di Castelvetro (MO). 3) Roberto Agnani, presidente del Gruppo Suincom, con Enrico Cerri, presidente ProSus, e con Nicola Seresini, direttore ProSus. 4) Molto apprezzati dai visitatori di Marca i würstel offerti dal Salumificio Scarlino di Taurisano (LE). MARCA-BolognaFiere nel XIV Rapporto annuale sull’evoluzione della Marca commerciale presentato il 18 gennaio. Per l’occasione sono stati illustrati i ri-

sultati dell’indagine sulle tendenze del mercato della MDD e sui comportamenti dei consumatori nel corso dell’intero ultimo anno.

Ibis Salumi a Marca 2018 Ibis Salumi e Ibis snack, brand di Italia Alimentari (Gruppo Cremonini), sono stati tra i protagonisti di Marca 2018. Insieme ai prodotti della salumeria tradizionale e ai salumi light della linea affettati benessere, sono state presentate le varie linee dei tramezzini con alto contenuto di servizio. Ma la novità assoluta è rappresentata dalla nuova linea delle Cotolotte: bocconcini panati con un morbido ripieno, pronti in pochi minuti in forno o in padella. Cinque gustose varianti, caratterizzate da panature e simpatiche forme, a base di bacon e formaggio, cotto e provola, chorizo e formaggio, crudo e mozzarella e bresaola e formaggio fresco.

Marca 2018 è anche stata l’occasione per parlare di innovazione e creatività, caratteristiche peculiari del made in Italy, che non possono venire meno anche in questo settore. Nel pomeriggio del 17 gennaio si è tenuta la terza edizione dell’ADI Packaging Design Award, nato da un progetto di ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale, e fortemente condiviso da MARCA, e che mira a valorizzare i prodotti più innovativi del comparto del packaging italiano. Una commissione di esperti ha analizzato nel corso della giornata i prodotti esposti e ha selezionato i cinque maggiormente in grado di coniugare il packaging con l’innovazione e l’eccellenza progettuale: due nel settore food, due nel settore non-food, e una menzione d’onore a discrezione della giuria. Appuntamento sempre a Bologna per la prossima edizione il 16 e 17 gennaio 2019. >> Link: www.marca.bolognafiere.it

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International Food, Drinks & Food Service Exhibition

FMCG and food trends show

BARCELONA Aprile 16-19 Fiera Barcellona Gran Via www.alimentaria-bcn.com

A unique Food, Drinks and Gastronomy Experience

Co-located event


FORMAGGIO

Nel Coros classico la vocazione di una regione a tutta caseina di Massimiliano Rella

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meno di 30 km dal mare azzurrissimo di Alghero, il Coros classico è un territorio interno della Sardegna settentrionale caratterizzato da un paesaggio di particolare bellezza, un’area incontaminata a mezz’ora di auto dalla costa. Vasti pascoli, distese di sughere, vigneti, monti aspri e piccoli canyon dove si po-

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trebbero ambientare, senza sbavature e finzioni, film e storie di genere western. Ancora poco conosciuto turisticamente, questo nucleo ristretto di un’area più estesa che abbraccia 12 comuni, il Coros classico è rappresentato da 5 paesi della provincia di Sassari: Usini, Ossi, Ittiri, Uri e Tissi. Tra cantine, frantoi, laboratori di dolci, pastifici tradizionali,

salumifici e macellerie, non poteva naturalmente mancare la produzione di ottimi formaggi. Un lembo della Sardegna più autentica, dove la pastorizia e gli allevamenti non smentiscono la vocazione di una regione a tutta “caseina”. Nel paese di Ittiri, ad esempio, opera la Lait, acronimo di Latteria Ittiri, un’azienda cooperativa nata nel

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La Lait associa 360 tra pastori e allevatori, in un raggio di 70-80 km fino a Porto Torres e Stintino. La produzione di latte ovino ammonta a 16 milioni di litri, concentrata tra novembre e agosto, quando le pecore vanno in “secca” e la materia prima viene drasticamente a mancare

Nel paesino di Tissi Paolo Camboni, allevatore e casaro autodidatta, fa squisite provolette, caciotte di latte vaccino e latte misto, ma anche pecorino fresco e stagionato. Tutta la lavorazione è artigianale e fatta con passione, sguardo fisso a freschezza e genuinità, a cominciare dal latte lavorato appena munto, mattina e sera

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Pecorino romano in salamoia nel Caseificio Lait di Ittiri (SS).

Pecorino romano del Caseificio Lait.

1959 dalla fusione di altre due coop Ittiresi: l’Economica e la San Pasquale, quest’ultima formata, a quanto pare, dai pastori più ricchi. In pieno boom economico nacque al tempo la Nuova Latteria Sociale Cooperativa, che nel 1991 cambiò nome in coincidenza con il trasferimento in un nuovo caseificio e magazzino di stagionatura alla periferia del paese. Oggi la Lait associa 360 tra pastori e allevatori, in un raggio di 70-80 km fino a Porto Torres e Stintino. La produzione di latte ovino ammonta a 16 milioni di litri, concentrata tra novembre e agosto, quando le pecore vanno in “secca” e la materia prima viene drasticamente a mancare. Qualche allevatore, però,

sta cercando di pilotare parti e nascite per allungare il periodo. Il principale formaggio a marchio Lait è il Pecorino romano, denominazione il cui areale abbraccia Sardegna, nord del Lazio e Toscana meridionale. In numeri sono 25 quintali di fresco, circa 92.000 forme. Il Pecorino sardo rappresenta invece appena il 5% della produzione. Questi due formaggi di qualità sono venduti anche nella Grande Distribuzione, il “Romano” pure grattugiato e confezionato. Notevole è il dato delle esportazioni: il 50% va Oltreoceano, principalmente tra USA e Canada. Tra mille luci non manca qualche ombra e anche un’azienda ben strut-

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turata e organizzata come questa non è immune dalle difficoltà di mercato, dovute oggi ad un crollo del prezzo del latte di quasi il 50%. «È un momento difficile» confida l’amministratore NICOLA COSSU. «Al momento i prezzi della remunerazione non coprono i costi di gestione e senza un’inversione di tendenza c’è il rischio che molti allevatori abbandonino l’attività». I soci della Lait però non si lasciano sopraffare e lanciano un segnale positivo: è infatti già decisa l’apertura a breve di uno spaccio aziendale per la vendita diretta. Altro giro altro formaggio. Nel paesino di Tissi troviamo una realtà produttiva diversa, a dimensione e conduzione familiare. Il patron, PAOLO CAMBONI, allevatore e casaro autodidatta, oggi fa squisite provolette, caciotte di latte vaccino e latte misto, ma anche pecorino fresco e stagionato. In passato è stato socio conferitore di latte dell’azienda 3A Arborea. Ma, nel 2000, fatti due conti e visti i bassi prezzi di remunerazione, ha deciso di mettersi in proprio per produrre il formaggio con la “materia prima” dei suoi 20 bovini di razza Frisona e le 35 pecore di razza Sarda. Ora la produzione ammonta a 20 kg di formaggio al giorno, lavorato nel caseificio a pochi metri dalle stalle bovine. Le pecore invece sono al pascolo. Tutta la lavorazione di Camboni è artigianale e fatta con passione, sguardo fisso a freschezza e genuinità, a cominciare dal latte lavorato appena munto, mattina e sera. Salatura, maturazione e stagionatura delle forme variano a seconda del prodotto (prezzi 8,50-12,00 €/kg). Massimiliano Rella

Preparazione del formaggio a Sumonte, Tissi (SS).

Lait Latteria Ittiri Soc. Coop. Reg. Camedda – 07044 Ittiri (SS) Telefono: 079 440568 E-mail: info@laitittiri.com Web: www.laitittiri.com Paolo Camboni Via Municipale Alta Località Sumonte – 07040 Tissi (SS) Punto vendita: lun.-dom. 8:00-19:00 Telefono: 334 8148260 Provolette di Paolo Camboni.

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Nota A pagina 88 forme di Pecorino romano al Caseificio Lait (photo © Massimiliano Rella).

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Il Saltarello e i suoi fratelli in attesa della Dop di Nunzia Manicardi

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ono ottenuti per ovodeposizione della mosca del formaggio, al termine della quale presentano una pasta cremosa con vermi (saltarelli). Appartengono a questa categoria anche il Casu marzu sardo, il Marcetto abruzzese e il Nisso pavese (che adesso sono PAT) insieme con altre varietà regionali. Le moderne tecniche di preparazione e conservazione consentono, pur nel rispetto della tradizione, di superare le perplessità igienico-sanitarie per ottenere il riconoscimento da parte della UE. Il Saltarello friulano L’importante è non confonderlo con l’omonimo ballo popolare tipico dell’Italia Centrale: il saltarello, appunto, che caratterizza in particolare Lazio, Marche, San Marino, Umbria, Abruzzo e alcune zone del Molise, mentre in

Emilia e Romagna e nel Montefeltro si presenta prevalentemente come una forma di contraddanza a sei persone (tre coppie). Ebbene, dimenticate tutto, voltate le spalle alle regioni appena ricordate e dirigete lo sguardo invece verso il Nord-Est d’Italia: il saltarello di cui vogliamo parlare adesso è là, tra le montagne del Friuli nella zona di Socchieve, in provincia di Udine. E, come vedremo, se si chiama saltarello un motivo in comune con il ballo esiste. Anch’esso però, proprio come il ballo, è un prodotto tradizionale che abbisogna di tutte le precauzioni perché non sparisca completamente dal panorama della nostra vita quotidiana. La produzione, infatti, negli anni è andata riducendosi drasticamente e trasformandosi rispetto alle tecniche di lavorazione che, fino a poco tempo fa, erano confinate esclusivamente nelle malghe di montagna.

Il Saltarello friulano è frutto della contaminazione microbiologica che avviene per ovodeposizione. Essa è apportata dalla mosca del formaggio (Piophila casei) che deposita le sue uova nella pasta quando è ancora molle. Dopo un po’ di tempo nascono le larve, o vermi, che colonizzano il formaggio; essi digeriscono la pasta e ne modificano la struttura provocando quei difetti che diventano la caratteristica del formaggio stesso, che viene ad assumere l’aspetto di uno stracchinato. Questi vermi — ecco spiegato il legame tra il formaggio e il ballo —, prendono il nome di saltarelli per l’ovvio motivo che si spostano di qua e di là all’interno del formaggio (anzi, diciamo pure che vi saltellano dentro allegramente). Per preparare il Saltarello si utilizza il latte prodotto al termine della primavera, poi nei tre mesi estivi lo si mette

Casu marzu, formaggio sardo coi vermi.

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Per preparare il Saltarello si utilizza il latte prodotto al termine della primavera, poi messo a maturare nei mesi estivi in locali detti celar. Non c’è stagionatura. Il prodotto finito ha forma cilindrica, senza crosta. La pasta è cremosa e i vermi conferiscono un sapore forte e piccante

Crema di Casu marzu. Nell’edizione 2009 del libro dei “Guinness dei Primati”, il Casu marzu è stato denominato come “il formaggio più pericoloso del mondo” ma in realtà non si ha evidenza di forme patologiche o disturbi vari connessi al suo consumo (photo © www.sardinia12.com).

Anche nell’Oltrepò pavese esiste una varietà di formaggio con i vermi, il Nisso di Menconico, a riprova che questo tipo di produzione è rintracciabile ovunque ci sia o ci siano state una pastorizia o un allevamento bovino di ambito familiare e scarse risorse economiche

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a maturare in locali interrati detti celar. Non c’è stagionatura. Il prodotto finito è un formaggio alto circa 8-10 cm col diametro di 25-35 cm e un peso variabile. Ha forma cilindrica, senza crosta. La pasta è cremosa e spalmabile, proprio come nello stracchino, ed è occupata dai vermi di colore bianco che conferiscono un sapore forte e piccante. Si potrebbe obiettare che il formaggio così ottenuto, essendo il prodotto di un’infestazione parassitaria, non offra garanzie dal punto di vista igienicosanitario, benché tali prodotti siano considerati da lungo tempo addirittura come prelibatezze per intenditori. In effetti bisogna prestare attenzione, ma attualmente esistono molteplici possibilità di difesa meccanica e chimica per quanto riguarda sia lo stabilimento in cui viene prodotto il formaggio che tutte le fasi di produzione e conservazione al fine di prevenire ed escludere ogni rischio alla salute. Comunque è difficile

reperirlo perché non è commercializzato, se non in ambito strettamente locale e privato. Lo si può trovare però ogni anno ai primi d’ottobre alla Sagra di Nonta, una frazione di Socchieve, che tiene vivo il ricordo di questo formaggio le cui origini sono così remote che se ne perdono le tracce. Anche anticamente, tuttavia, veniva prodotto in quantità molto esigue, perché era difficile commercializzarlo a causa della pasta molle e della presenza dei vermi, non a tutti gradita. Finiva spesso che a consumarlo fosse lo stesso contadino, considerandolo come un prodotto di scarto di una lavorazione non ottimale. In origine, quando veniva prodotto nelle malghe, si utilizzava la prima mungitura delle vacche appena arrivate all’alpeggio. Essendo stanche per il lungo viaggio appena affrontato, esse davano un latte che rendeva il formaggio molto grasso con tendenza alla fermentazione. Il formaggio veniva poi messo nel celar,

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Forme di Casu marzu (photo © www.sardegnasotterranea.org). sottoposto all’azione della mosca e lì restava senza che mai venisse mosso. Quando comparivano i primi vermi veniva ricoperto completamente con pasta di gesso per impedire che uscissero e si disperdessero all’esterno. Dopo i tre mesi di maturazione, cioè ai primi di ottobre, quando anche oggi si tiene la Sagra di Nonta, era pronto per il consumo. Ce ne sono ancora molti altri Appartengono a questa categoria di formaggi anche il Casu becciu o Casu marzu (formaggio marcio) sardo, il Cacio puntato o Marcetto abruzzese o cace fraceche, il Gorgonsoa cui grilli (dove, anche qui, con grilli si intendono in dialetto i vermi nell’atto di saltare), il piacentino Furmai nis (formaggio nisso), il Frmag punt di Bari, il calabrese Casu du quagghiu, il Caciè punt del Molise, il piemontese Bross ch’a marcia (letteralmente, formaggio che cammina), il Casu

puntu del Salento, il Gorgonzola delle Grotte, il Begiunn sotto la paglia, tra le foglie di mirto o di faggio, il formaggio di fossa Ambra di Talamello. Formaggi simili si trovano anche al di fuori dell’Italia: in Corsica c’è il Casgiu merzu di latte di capra simile al gemello sardo ovino. Un Casu marzu esiste anche in Croazia. Altri sono presenti in varie aree del Mediterraneo (dall’Egitto alla Grecia). Il Marcetto abruzzese Nel Marcetto abruzzese, rispetto al Saltarello friulano, si cambia latte: non più quello vaccino, ma il pecorino. Il Marcetto è infatti un pecorino che un tempo era prodotto in tutto l’Abruzzo, soprattutto nelle zone interne. La zona dove prevaleva, e dove tuttora è possibile trovarlo, è Castel Del Monte, in provincia dell’Aquila. È un formaggio a lunga maturazione, un anno intero, che

Il Marcetto non è utilizzabile per condimenti o per la preparazione di cibi perché ha un sapore così forte e particolare che diventerebbe predominante. Non deve neppure essere cotto. Si consuma con pane fresco e bruschette o come crema in piatto, accompagnato da vino rosso di struttura tipo Montepulciano

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cremifica a causa della degradazione proteolitica per cui la pasta, senza crosta, diventa molle e anche spalmabile. Il colore varia dal bianco crema al giallo ocra (a seconda del pecorino con cui è preparato). Anche dimensione e peso variano in base alla grandezza del contenitore in cui la pasta-crema viene confezionata. L’odore è forte e penetrante e il sapore decisamente molto piccante. Questo formaggio è maggiormente tutelato rispetto al Saltarello. È stato infatti inserito tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Abruzzo riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e inoltre fa parte dell’Arca del Gusto della Fondazione Slow Food. Per prepararlo si coagula il latte con caglio oppure con coagulante vegetale estratto dalla pianta del fico (perciò idoneo in questo caso anche ai vegetariani… a parte la presenza dei vermetti). Visto l’abbandono della pastorizia degli ultimi anni, ormai il Marcetto è reperibile solo come prodotto tipico per uso familiare e solo in pochi paesi dell’entroterra abruzzese, più che altro come attaccamento alle tradizioni. Nei tempi passati non era che un recupero delle forme che altrimenti sarebbero andate a male. La povera gente delle montagne abruzzesi se lo faceva piacere e, anzi, si riteneva fortunata di poterlo avere al punto che esso costituiva una delle principali fonti di sostentamento. L’origine dovrebbe essere ricercata nelle difficili condizioni ambientali in cui il formaggio veniva fatto stagionare, spesso vicino agli ovili. Non sempre la stagionatura andava a buon fine perché, durante la fase di maturazione, quando può essere ancora presente del siero, forme ancora fresche o incerate con crepe sulla crosta possono essere attaccate dal dittero che vi depone le proprie uova. Comincia così, con lo sviluppo delle larve della Piophila casei (chiamate anche qui saltarelli), un processo di degradazione a carico soprattutto delle proteine che fa diventare la pasta cremosa e piccante e che conferisce le caratteristiche organolettiche tipiche di questo formaggio, in particolare la notevole piccantezza. Una volta questa contaminazione era non voluta ma subita dal pastore:

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egli si trovava a disposizione un prodotto finale difettoso cosicché finiva quasi sempre per mangiarselo lui stesso non trovando gradimento da parte degli acquirenti. Oggi invece la contaminazione viene effettuata appositamente, a tutto vantaggio di chi voglia ancora gustare il Marcetto (non di rado gli stessi pastori di un tempo, che godono sicuramente di condizioni economiche migliori). Quando il fenomeno interessa tutta la pasta, la forma viene esposta all’aria o avvolta in teli bianchi per permettere l’allontanamento delle larve. La stagionatura viene effettuata in locali freschi con temperatura tra 10 e 14 ºC e umidità relativa dall’85 al 90%. La crema viene quindi riposta in recipienti di terracotta o di vetro per essere consumata così com’è oppure omogeneizzata con altro formaggio. Il prodotto finito deve essere conservato in frigorifero. Il Marcetto non è utilizzabile per condimenti o per la preparazione di cibi perché ha un sapore così forte e particolare che diventerebbe predominante. Non deve neppure essere cotto. Si consuma con pane fresco e bruschette o come crema in piatto. Una ricetta locale (Monti Marsicani) tipica del periodo invernale prevede patate a buccia rossa ben lavate, tagliate a metà senza sbucciarle, condite con sale e peperoncino rosso spezzettato e poi cotte sotto il coppo (una speciale teglia da utilizzare nel caminetto sotto le braci) per 40 minuti circa e cacio Marcetto spalmato sulla bruschetta, il tutto accompagnato da vino rosso di struttura tipo Montepulciano. Si può immaginare qualche “scossa” nutrizionale, e dunque anche quale conforto esistenziale, potessero dare tali ingredienti nel rigido inverno marsicano: pecorino cremoso, pane abbrustolito, patate, sale, peperoncino, vino rosso e… vermi! Uscire dalla clandestinità garantendo igiene e sicurezza A proposito di questi vermetti… Si ricorderà il problema sollevato dal Casu marzu sardo nel 2009 quando venne definito “il formaggio più pericoloso del mondo” nel libro Guinness dei primati di quell’anno poiché, era scritto, “eventuali larve rimaste e sopravvissute all’azione di succhi gastrici possono provocare vomito, dolori addominali e diarrea sanguinolenta”.

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In realtà, però, non si è mai saputo di forme patologiche o di disturbi vari derivanti dal consumo, e questo nonostante il Casu marzu sia consumato in Sardegna da tempo immemorabile. Come riporta CRISTOFORO PUDDU in un suo articolo del 2012, simili conseguenze sono escluse da docenti di Microbiologia agroalimentare della Facoltà di Veterinaria dell’Università di Sassari perché “le uova di Piophila casei non possono sopravvivere nello stomaco a causa della forte acidità”. All’epoca un gruppo di parlamentari sardi chiese in Consiglio regionale, all’allora presidente RENATO SORU, di intentare causa contro la società editrice del Guinness in quanto la Sardegna era stata “ingiustamente calpestata e vilipesa dalla notizia riportata a pagina 123 della versione italiana del libro”. Tuttavia, è vero che le norme tecniche emanate dall’Unione Europea non consentono più la produzione dei formaggi con i vermi ed è proibita dalla legge la commercializzazione perché in contrasto con le norme igieniche e sanitarie stabilite in sede comunitaria. Di conseguenza anche il Casu marzu, conosciuto pure con il nome di Casu frazigu, Casu fatu, Casu fatitu, Casu giampagadu, Casu modhe, Casu patitu o Hasu muhidu, è costretto a soprav-

vivere in condizioni di clandestinità, anche se può avvalersi di una deroga comunitaria che a suo modo ne consente una ristretta produzione circoscritta ad un consumo strettamente locale. Ma questa produzione, si badi bene, in Sardegna non è affatto marginale poiché la distribuzione commerciale attuale del Casu marzu — pur da considerarsi “ufficialmente clandestina” — è stimata in circa 1.000 quintali annuali di prodotto al costo di 20 euro al chilo. Quantità e prezzo testimoniano che il giro d’affari è sì sommerso ma anche di rilievo, soprattutto in un’economia non troppo florida come quella sarda dove la pastorizia costituisce ancora una voce fondamentale. Che cosa fare, allora, per salvare questi prodotti? Bisogna fare come hanno fatto l’Abruzzo per il Saltarello e la Sardegna per il Casu marzu: appellarsi alla tutela di questi prodotti indicandoli come PAT. Tale riconoscimento certifica che la produzione è codificata da oltre 25 anni, così da poter richiedere una deroga rispetto alle normali norme igienico-sanitarie poiché si certifica che in questo lungo lasso di tempo non si sono riscontrate problematiche di tipo igienico-sanitario. È la stessa tradizione, quindi, che “garantisce” della salubrità del prodotto.

Marcetto abruzzese. A differenza del Casu marzu, per cui si utilizza latte vaccino, il latte utilizzato in questo caso è di pecora (photo © www.formaggio.it).

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Le moderne tecniche di produzione Questo, però, poteva bastare nell’ambito di economie chiuse quali quelle pastorali di un tempo. Ma oggi, con la promiscuità che contraddistingue i tempi moderni, è ovvio che non è possibile permettere la contaminazione di un prodotto alimentare, per quanto tradizionale, mediante la deposizione al suo interno delle uova di un parassita quale la mosca del formaggio. È necessario dunque approntare altre difese, adeguate ai tempi moderni. Ma è possibile trovarle? Certamente! Queste difese sono state già trovare; si tratta di applicarle e, volendo, lo si potrebbe fare anche su larga scala. Già l’aveva messo in luce MARIA ANTONIETTA DESSÌ proprio sulle pagine di PREMIATA SALUMERIA ITALIANA (Casu marzu: la rivincita di un grande formaggio, n. 1/2008, pag. 95) citando il metodo messo a punto dall’Università di Sassari che risolverebbe i problemi igienici legati alla produzione di Casu marzu salvaguardando la tradizionale tecnica di produzione che vede i vermi protagonisti della trasformazione della pasta. Secondo questo metodo la mosca, proveniente da un allevamento confinato di Piophila casei, nasce, cresce e muore all’interno di un contenitore dove viene posto esclusivamente il formaggio. Non è pertanto possibile alcun contatto con altri organismi o elementi patogeni. La sorte di questo tipo di formaggio dipende però anche dalla soluzione dei problemi relativi ai locali di produzione e all’igienizzazione del processo per impedire il diffondersi di germi patogeni portati dall’attività del moscerino in spazi aperti. Una via l’hanno trovata ancora una volta all’Università di Sassari (Facoltà di Agraria, Dipartimento protezione delle piante, Sezione entomologia agraria e Facoltà di Veterinaria, Dipartimento di biologia animale, Sezione di Ispezione degli alimenti) che insieme con LAORE e AGRIS hanno creato un ambiente controllato in cui hanno realizzato con successo una sperimentazione con oltre 100 forme di formaggio provenienti da ogni parte della Sardegna. Il Comitato Promotore della Dop e il disciplinare Per richiedere il riconoscimento di Denominazione d’Origine Protetta (DOP)

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si è costituito in Sardegna anche un comitato promotore costituito dai comuni di Codrongianus, Florinas, Muros, Ossi, Ploaghe, Uri, Usini, Ittiri, Cargeghe, Villanova Monteleone e dalla Cooperativa Allevatori Villanovesi. A questi si aggiungono la CNA Sarda Alimentare e alcuni privati. Quasi tutti appartengono alla provincia di Sassari, che è quella dove il Casu marzu è maggiormente diffuso, ma il disciplinare che ne è conseguito tiene conto della realtà dell’intera isola e uniforma, regola e pubblicizza alcuni comportamenti e caratteristiche che finora erano stati affidati alla sola iniziativa privata e al solo ambito privato. Il disciplinare prevede che il Casu marzu venga realizzato esclusivamente dal formaggio di latte di pecora, stagionato per almeno 10 giorni, nel quale abbia avuto luogo una colonizzazione delle forme da parte della Piophila casei. Esistono però produzioni molto più circoscritte ottenute da latte vaccino, come quella del Casu marzu da Casizolu (formaggio tipico del Montiferru), dal gusto più delicato e leggero e ugualmente apprezzabile. La preparazione prevede che la forma venga scalfita nella superficie e lasciata in un ambiente molto umido ed esposto alla contaminazione. Non è detto poi che tale contaminazione riesca con successo, innanzitutto perché la presenza della mosca e la sua “volontà” sono assolutamente casuali. La sperimentazione in atto, controllata dall’uomo, garantirebbe invece anche il risultato dell’operazione. Il formaggio nella fase finale, quando è pronto per il consumo perché i vermi ne hanno già mangiato quasi del tutto la parte interna, si presenta con una forma apparentemente simile a quella del solito pecorino: in alcuni casi è addirittura intatto, in altri si osservano arrotondamenti, depressioni, rigonfiamenti o fratture irregolari, dovuti ovviamente alla presenza dei vermi all’interno. Anche la colorazione varia, dal bianco avorio al giallo paglierino talvolta anche molto carico. Quello che resta sempre uguale sono odore, inconfondibile in quanto a intensità e persistenza, e pasta, cremosa, spalmabile, talvolta con grumi e naturalmente con la presenza delle larve, che comunque alla fine del processo di maturazione risultano diminuite di numero. Per consumarlo si apre la forma togliendo la parte superiore che

in pratica risulta come un coperchio, scavato all’interno. La parte inferiore, costituita invece dalla crema umida, è quella commestibile. Il Nisso di Menconico (Pavia) Anche in Lombardia, nell’Oltrepò pavese, esiste una varietà di formaggio con i vermi, a riprova che questo tipo di produzione è rintracciabile ovunque ci sia o ci siano state una pastorizia o anche un allevamento bovino di ambito familiare e di scarse risorse economiche. Quello del Pavese prende il nome di Nisso ed è tipico del paese di Menconico. Si presenta anch’esso come un formaggio grasso, fresco e a pasta molle di colore bianco, dalla crosta morbida di colore giallo paglierino, prodotto con latte di pecora o con latte vaccino. Può essere consumato immediatamente o dopo una maturazione che può durare anche 2 anni. L’origine del Nisso pavese è forse un po’ diversa da quella dei formaggi descritti in precedenza poiché sembra che derivi dall’antica usanza di conservare il più a lungo possibile tutti gli alimenti, compresi quelli più deperibili. Nel caso del formaggio, che fosse di latte vaccino od ovino o misto, lo ponevano in grossi recipienti a forma di anfora chiamati amole dove si conservava e maturava assumendo la forma degli stessi recipienti. Per quanto riguarda la preparazione, possiamo aggiungere che il latte pastorizzato di due mungiture viene inoculato con fermenti lattici e coagulato, alla temperatura di 37 °C, con caglio di vitello liquido. La cagliata, presamica, viene rotta in parti grossolane riducendola alle dimensioni di una mela. Dopo una sosta sotto siero avviene l’estrazione in fuscelle. Nel frattempo i vermi, anche qui, divorano l’interno tanto che il Nisso viene detto anche “formaggio che salta o che brucia” in riferimento rispettivamente alla loro presenza e all’accentuata piccantezza. Dopo la salatura la pasta trova posto nelle amole dove rimane fino al momento della consumazione, che è simile a quella di un qualsiasi formaggio da tavola. A questo formaggio è dedicata anche la Sagra che si tiene da quasi cinquant’anni a Menconico durante la stagione estiva in abbinamento ad altri prodotti tipici locali, tra cui primeggia il tartufo nero. Nunzia Manicardi

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Parmigiano Reggiano celebra a FICO Sant’Antonio Abate

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A Bologna, ospiti del Teatro Arena di FICO Eataly World, 10 caseifici, tra i più rinomati e premiati per la loro produzione di Parmigiano Reggiano, hanno aperto in contemporanea altrettante forme del “Re dei formaggi” con una stagionatura di 30 mesi per celebrare Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici e degli agricoltori. Al rito del taglio, con la particolare sua gestualità, è seguita naturalmente la degustazione delle 10 varietà di Parmigiano Reggiano. All’interno di FICO Eataly World, il Consorzio del formaggio Parmigiano Reggiano è sempre presente con una Fabbrica: grazie a un’innovativa tecnologia, i visitatori si ritrovano idealmente in un caseificio, dove vivono l’esperienza della nascita di una forma. Non solo: in virtù della collaborazione con i diversi produttori, chi è presente a FICO può assaggiare l’intera gamma di varietà della Dop Parmigiano Reggiano, da quello stagionato 12 mesi ad uno straordinario Parmigiano Reggiano stagionato per 144 mesi, dal Parmigiano Reggiano Halal a quello Kosher, passando per il Parmigiano Reggiano da latte di Vacche rosse. «Il nostro obiettivo è quello di sfruttare FICO come vetrina e porta d’ingresso al nostro mondo» ha dichiarato il presidente del Consorzio Nicola Bertinelli. «Partendo dalla conoscenza e dal suo assaggio, puntiamo a far innamorare i visitatori di FICO di un prodotto dalla storia millenaria, frutto di un saper fare custodito e trasmesso di generazione in generazione, e unico per proprietà nutritive e caratteristiche organolettiche. La nostra prossima sfida? Portare queste stesse persone nel comprensorio del Parmigiano Reggiano». (Ufficio stampa Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano)

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VINO Biodiversità e assenza di chimica nel mondo del vino

Cerasuolo di Vittoria, vino di frontiera, vino del futuro di Riccardo Lagorio

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livi, mandorli e carrubi, poi vigne. Dalle colline di Caltagirone sino al mare di Vittoria. In questo triangolo di terra arsa dal sole il vino ha un solo

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nome, Cerasuolo di Vittoria, l’unico vino siciliano a cui è stata riconosciuta la Denominazione d’Origine Controllata e Garantita. I produttori, una trentina, si distribuiscono su tre province (Catania,

Ragusa e Caltanissetta) e puntano sulla sostenibilità ambientale, anche grazie all’interesse sul tema di cui si è fatto paladino il presidente MASSIMO MAGGIO nel corso del suo primo mandato,

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rinnovato nel mese di dicembre dello scorso anno (maggiovini.it). Senza dimenticare il contributo di personaggi come ARIANNA OCCHIPINTI, regina delle fermentazioni spontanee (agricola-

A sinistra: la zona di produzione del Cerasuolo di Vittoria Docg comprende i territori dei comuni di Ragusa, Vittoria, Comiso, Acate, Chiaramonte Gulfi, Santa Croce Camerina, Niscemi, Gela, Caltagirone, Licodia Eubea, Riesi, Butera, Mazzarino e Mazzarrone. In alto: la produttrice Arianna Occhipinti. In basso: Massimo Maggio, presidente del Consorzio di tutela.

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In alto: Silvana Ragnolo. In basso: vigneti della Tenuta Bastonaca a Vittoria (RG). occhipinti.it). «L’assenza di chimica permette di esprimere meglio la varietà biologica dell’uva. Infatti, se ai lieviti serve azoto disponibile, lo si può fare lavorando in vigna. Si spiega così la nostra scelta di specializzarsi in vitigni autoctoni, che danno vini che parlano di territorio». Nei suoi campi di sabbie rosse l’inerbimento con favino o veccia

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sono di casa: consentono la vita alla biodiversità che permette alla vite di vivere meglio. L’antico palmento è stato trasformato in salone di rappresentanza mentre l’80% dei suoi vini vola oltre Oceano… Il principio che sta facendo grande quest’area estrema della Sicilia è che la biodiversità e la sostenibilità ambientale

non possono essere slegate l’una dall’altra. La testimonianza del presidente, Massimo Maggio, è appunto quella di portare alla ribalta una viticoltura che vada ben oltre i consunti (e talvolta devianti) termini del biologico, e che ribadisca l’importanza della biodiversità nel mondo del vino. Aspirazione che si può ottenere solo bandendo la chimica e gli interventi ormai tristemente comuni nella maggior parte delle cantine d’Italia con l’utilizzo di lieviti di laboratorio e solfiti. Nel baglio di Vigna di Pettineo Massimo Maggio ci ha svelato cosa sia il Cerasuolo di Vittorio DOCG, il vino che nasce dall’unione di Nero d’Avola e Frappato su queste che erano terrazze marine sub abissali 20 milioni di anni fa, ricche di metalli da cui le piante assorbono le sostanze per vivere. Le bottiglie marchiate sono circa 800.000. Dall’incontro armonico tra Frappato (dai tannini lievi, buona acidità e corpo medio) e Nero d’Avola (caratterizzato da aromi fruttati, buona struttura e sorso morbido) si ottengono vini rossi rubino.

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Consorzio Tutela Vino Cerasuolo di Vittoria DOCG Piazza Libertà 97100 Ragusa Telefono: 334 3421136 Web: www.cerasuolovittoria.eu

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BEVI RESPONSABILMENTE

www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net

In generale il profilo aromatico è intenso con aromi fragranti di ciliegia, mora e melograno, al palato si distinguono per la media struttura, con sorso dinamico, fresco e scorrevole. Il finale è piacevolmente sapido, che spicca soprattutto per freschezza e non per potenza o concentrazione. Esiste anche la versione Classica, che si ottiene in un areale più ristretto, come avviene per altri vini a denominazione. Illuminante è stata l’esperienza che Massimo Maggio ha potuto esperimentare con un progetto voluto dalla Regione Sicilia, vinificando in purezza 21 biotipi di varietà autoctone, in presenza di lieviti indigeni, con e senza solfiti valutandone l’evoluzione nel corso del tempo. A disprezzo di quanto la vulgata di certe industrie abbia voluto negli anni insinuare, si è constatato empiricamente che i vini a bacca rossa senza solfiti migliorano in aroma nel corso del tempo, esaltando le peculiarità varietali. La presenza di solfiti, viceversa, appiattisce le diversità e impedisce ai vitigni di esprimersi per le loro peculiarità. Nei vini a bacca bianca le conclusioni non sono così evidenti. «L’obiettivo come Consorzio è quello di rendere il vino riconoscibile e appartenente a un comprensorio», sintetizza Maggio. In cucina il Cerasuolo di Vittoria DOCG è versatile. Ce lo hanno insegnato anche i vini di SILVANA RAGNOLO (tenutabastonaca.it), incrociandosi con i piatti del De Gustibus di Pedalino (telefono 0932 729362), uno piacevole ristorante dove giovani imprenditori raccontano il territorio a colpi di prodotti locali. Ecco allora il Cerasuolo di Vittoria DOCG che non teme mettere in fila tagliate di tonno e ricciola; spaghetti al pomodoro, scampi, burrata e zenzero; capretto con patate alla siciliana. Sempre lui, che affronta la crescente complessità dei piatti con nonchalance; sempre lui che non si imbarazza a presentarsi in bottiglie di non giovane età. Il Cerasuolo di Vittoria DOCG, vino di frontiera, vino del futuro. Riccardo Lagorio


ORTO Venezia, vino di laguna sull’isola di Sant’Erasmo di Gian Omar Bison

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on c’è niente di più distante dell’etere dall’agricoltura. Degli studi televisivi dalla campagna. Dei lustrini delle starlette dalle fatiche contadine. Astrazione e concretezza. La svolta professionale ed esistenziale di MICHEL THOULOUZE, imprenditore e manager televisivo di lungo corso, già direttore generale, tra gli altri, di Canal+ in Francia, da qualche anno vigneron lagunare nell’isola di Sant’Erasmo a Venezia, sembra quasi liberatoria. Una fuga dalla modernità e dagli eccessi. In realtà Michel ha sì scelto il suo terroir di elezione vitivinico-

la, ma il suo è un percorso manageriale non certo di ascesi spirituale. E il suo ORTO Venezia, uvaggio di Malvasia istriana, Vermentino e Fiano coltivati in quattro ettari e mezzo di superficie vitata su undici di superficie aziendale disponibile, è quanto di più ponderato e pianificato, non artefatto, ci possa essere. Scordatevi il buen retiro, una fuga dal presente: per quanto ammaliato da Sant’Erasmo, Michel è più istrione, per dirla con CHARLES AZNAVOUR, che guru. «Sant’Erasmo è un posto incredibile — sottolinea — con una vista strepitosa. La sola isola della laguna che non ha

bisogno di turismo. I contadini del luogo non hanno fatto cool business ma hanno continuato a produrre verdure come un tempo, secondo tradizione, salvaguardando gelosamente la cultura e la singolarità del posto. Il carciofo violetto, che è la produzione più rinomata, ne è esempio radioso dovendo essere coltivato e trattato bene, con sapienza e da mani esperte. Per acquistare l’attuale proprietà, quindici anni fa circa, con l’immobile da restaurare profondamente — ricorda — abbiamo impiegato tre anni di trattativa lunga e laboriosa.

ORTO Venezia è un vino bianco con alto contenuto di minerali che concentra ed esalta i sapori di quella lingua di terra dove le onde del mare incontrano le acque sonnolente della laguna (photo © www.venetosecrets.com).

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Non esisteva un mercato di riferimento. E poi la terra non sembrava così adatta, predisposta alla viticoltura. Per qualcuno più che visionario rasentavo la follia. Eppure mi sono convinto che tutto avrebbe potuto concorrere per fare un gran vino, importante nei profumi e per persistenza gustativa in questi terreni che in vecchie mappe del Settecento venivano definiti “Vigna Del Nobil Uomo”». Il terroir, sostiene Michel, è la grande risorsa di quest’isola, la sintesi piena e completa di un microclima specifico (mare, vento e sole), di suoli ricchi e particolari e di uomini capaci ed esperti. Un concetto che ha trasferito alla vite con un obiettivo: produrre un vino unico, bianco, lagunare, elegante al naso, lungo in bocca e soprattutto di profonda mineralità con sentori iodati, di salsedine. Sì, mineralità, quel termine così attuale e dibattuto nella dialettica sulla valutazione organolettica dei vini tra chi vede e racconta una trasposizione diretta dalla radice al bicchiere delle particolarità geologiche del sottosuolo e chi la ritiene una definizione scientificamente debole, indimostrabile. «Ripeto: il segreto qui è la terra. Parliamo di un terreno argilloso e calcareo con sedimenti marini (conchiglie, ecc…) e dolomitici. E se a questo aggiungiamo la cura della vite, la selezione in pianta, il sesto d’impianto ampio, l’aria salmastra e la giusta temperatura mitigata dal mare e una piovosità adeguata, possiamo dire che non ci servono, e non usiamo, fertilizzanti ne trattamenti antiparassitari, né ci serve un utilizzo robusto di anidride solforosa in fase di vinificazione o di imbottigliamento. Ci sono due modi di fare il vino — sottolinea — in cantina o nei campi. Nei campi è più costoso e impegnativo ma si raggiungono risultati migliori. Se

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In alto: Michel Thoulouze assieme alla sua famiglia ha deciso di rilanciare nell’isola la coltivazione della vite e la produzione del vino, utilizzando i metodi tradizionali degli agricoltori locali (photo © Paolo della Corte/BuenaVista Photo). In basso: le botti in acciaio della cantina.

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Le viti sono state piantate direttamente nel terreno senza che le piante venissero innestate nelle radici di vite americana. l’uva è bella il vino sarà buono. Non hai bisogno di macerazione prolungata, di fare una vinificazione sofisticata aggiungendo cazzate, correttivi di acidità o quantitativi di solforosa legittimi ma eccessivi. Noi ne usiamo meno di quella massima mediamente utilizzata nei vini certificati e provenienti da uve biologiche». 2006 la prima annata. La resa è di 35 ettolitri per ettaro, per un numero di bottiglie che varia dalle 12 alle 15.000 a seconda delle annate e con un prezzo medio che varia dai 25 ai 30 euro. Tutto vino rivendicato come “vino da tavola” perché «gli attuali disciplinari di produzione dei vini a denominazione d’origine — afferma — non comprendono nell’areale di lavorazione le isole della laguna di Venezia». Non viene fatta fermentazione malolattica: il vino riposa solo in acciaio e viene messo sul mercato dopo un anno dall’imbottigliamento. «Di sicuro non farà mai barrique — sentenzia Michel — col rischio di alterarne la fragranza e il profilo aromatico Ma è anche un vino che in bottiglia può tranquillamente invecchiare 10 anni, affinando alcuni sentori e caratteristiche».

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In vendita da non molto tempo anche le magnum di ORTO 2011. 360 bottiglie lasciate affinare 9 mesi (in estate l’acqua è troppo calda) dentro ad un sandalo (tipica imbarcazione veneziana), in un punto segreto sul fondale della laguna. L’export pesa per il 70% circa e riguarda soprattutto Giappone, Francia e Stati Uniti. «Il resto in Italia, con due grandi buchi neri: vendiamo pochissimo a Milano e a Roma. Qualcuno ci dice che il prezzo al dettaglio (tra i 25 e i 30 euro) è alto. Ma io credo che sia il prezzo giusto per un vino di qualità. Su questo, se posso, sposo un approccio tipicamente francese solitamente attento a preservare le peculiarità dei grandi vini, dallo Champagne ai bordolesi o borgognoni: se il prodotto ha mercato non si aumenta la superficie vitata, come d’uso solitamente in Italia. Si aumentano i prezzi. Diversamente si rischia di sputtanare il prodotto». Aiutato da ALAIN GRAILLOT del Crozes-Hermitage e da LYDIA e CLAUDE BOURGUIGNON, agronomi del Domaine de la Romanée-Conti, la preparazione iniziale della vigna è partita con il recupero della fertitilità dei terreni attraverso

una semina triennale alternata di orzo, sorgo, avena, ravanelli e radice cinese con il metodo “duro su duro” (senza aratura), ripristinando al contempo l’antico sistema di canali e fiumi. «Poi ci siamo chiesti quali varietà utilizzare e la scelta è caduta su antichi vitigni italiani, tutti selezionati col supporto dei Vivai Cooperativi Rauscedo e piantati a piede franco». Insomma, un altro punto fermo della Venezia da bere. Dopo i lavori di recupero delle varietà di vitigni autoctoni di Venezia, in particolare la Dorona, scoperti tra isole, broli e giardini grazie al lavoro in particolare dell’associazione Laguna nel bicchiere (www.lagunanelbicchiere.it) e del Consorzio Vini Venezia (www.consorziovinivenezia.it), che hanno portato a nuova luce una tradizione secolare che la Serenissima vantava sulla viticoltura e il commercio del vino, in particolare malvasia, un altro tassello, ORTO di Venezia, si è aggiunto alla viticoltura di laguna, al vino del mare. Gian Omar Bison >> Link: ortodivenezia.com

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Haripro, leader in Italia nella produzione di proteine e aromi naturali, fornisce le piĂš importanti aziende produttrici di ingredienti per la salumeria. Haripro grazie ad una continua ricerca, ha sviluppato negl'anni prodotti sempre piĂš all'avanguardia, come proteine funzionali ed aromi naturali anallergici ad alto valore nutrizionale. Haripro is a leading producer of proteins and natural flavours in Italy. It supplies the most important Companies which blend ingredients for the meat industry. Haripro, thanks to a continuous research, had developed through years more advanced products like functional proteins and hypoallergenic natural flavours with high nutritional value.

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Scarpe grosse e cervello FIVI Record di presenze per la settima edizione del mercato dei Vignaioli Indipendenti a Piacenza: ben 15.000 i visitatori. Il prossimo appuntamento sarà per il 24 e 25 novembre

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carpe grosse, cervello FIVI. È questo il messaggio del settimo Mercato dei Vini dei Vignaioli Indipendenti organizzato da FIVI-Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti in collaborazione con Piacenza Expo. Una due giorni in cui 15.000 persone, 6.000 in più dello scorso anno, hanno potuto incontrare i vignaioli e farsi raccontare il loro lavoro in vigna, il loro territorio e il frutto del loro operato. Un evento che si ripeterà i prossimi 24 e 25 novembre,

quando la FIVI festeggerà i 10 anni di vita. «Siamo convinti che il successo crescente del Mercato — ha dichiarato la presidente FIVI MATILDE POGGI — sia la diretta conseguenza della credibilità che ci stiamo guadagnando a livello istituzionale, in Italia come in Europa. Abbiamo le scarpe grosse e il cervello FIVI, le mani nella terra e la testa rivolta a una causa comune». Tante sono infatti le battaglie condotte durante l’anno in corso e tante sono ancora quelle da combattere. Dall’etichetta nutrizionale,

giudicata dalla FIVI un inutile aggravio, alla regolamentazione dell’enoturismo, di cui FIVI come componente della CEVI, la Confederazione Europea dei Vignaioli Indipendenti, sta discutendo con le istituzioni europee. Ma anche e soprattutto la sburocratizzazione di un settore, quello vitivinicolo, schiacciato da una burocrazia che ostacola il ruolo di tutela del territorio che il vignaiolo riveste. >> Link: www.mercatodeivini.it

Il Mercato dei Vini dei Vignaioli Indipendenti è organizzato da FIVI in collaborazione con Piacenza Expo (photo © Federica Cornia). 106

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Più di 500 gli espositori presenti alla 7 a edizione del FIVI. Oltre agli stand, proposte quattro degustazioni nell’arco delle due giornate e numerose le proposte gastronomiche tra cui salumi tipici della Garfagnana. In basso a sinistra, Matilde Poggi, presidente FIVI, e i vincitori del premio Vignaioli dell’Anno, i coniugi Germana Forlini e Alberto Capellini (photo © fotocru.it; photo © Federica Cornia).

FIVI – Federazione Italiana dei Vignaioli Indipendenti La Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti (FIVI) è un’associazione nata nel 2008 con lo scopo di rappresentare il viticoltore di fronte alle istituzioni, promuovendo la qualità e autenticità dei vini italiani. Per statuto, possono aderire alla FIVI solo i produttori che soddisfano alcuni precisi criteri: “Il Vignaiolo FIVI coltiva le sue vigne, imbottiglia il proprio vino, curando personalmente il proprio prodotto. Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, con il suo nome e la sua etichetta”. Poco più di 1.100 i produttori associati da tutte le regioni italiane, per un totale di circa 11.000 ettari di vigneto. Quasi 80 milioni di bottiglie commercializzate, un fatturato che si avvicina a 0,7 miliardi di euro, per un valore in termini di export di 280 milioni di euro. Gli 11.000 ettari di vigneto sono condotti per il 51% in regime biologico/biodinamico, per il 10 % secondo i principi della lotta integrata e per il 39% secondo la viticoltura convenzionale.

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Il vino in pillole Prime Alture sotto l’albero Prime Alture, azienda vitivinicola di alta qualità con wine resort fondata nel 2006 da Roberto Lechiancole tra le colline di Casteggio (PV), non si è fatta trovare impreparata per le festività appena trascorse con Io per Te, spumante brut Sans Année Blanc de Noir ottenuto da uve Pinot nero in purezza sottoposte a lungo affinamento in bottiglia. Bollicine armoniose ed eleganti, retrogusto persistente ed equilibrio di aromi tra note di frutta fresca e sentori di frutta secca tostata e di pane. Questo Metodo classico O.P. Docg si abbina ai saporiti piatti della tavola invernale. www.primealture.it Vi.Vite, vini cooperativi in fiera Anche i vini delle cooperative dei produttori hanno la loro manifestazione fieristica: Vi.Vite – Vino di Vite Cooperative, li ha infatti visti protagonisti a fine novembre alle Cavallerizze – Museo nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano. Una prima edizione voluta dall’Alleanza delle cooperative agroalimentari: 498 cantine, 148.000 soci, il 58% della produzione vinicola nazionale, un giro d’affari di 4,3 miliardi di euro (il 40% del fatturato del vino italiano) ed esportazioni per 1,8 miliardi di euro. Hanno partecipato alla fiera 62 cantine provenienti da 14 regioni.

In basso: si è svolta lo scorso novembre a Milano la prima manifestazione di Vi.Vite – Vino di Vite Cooperative.

In basso: cantina dell’azienda vitivinicola Prime Alture.

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Chiave a stella 2017: menzione speciale per Ferraris L’azienda agricola Ferraris di Castagnole Monferrato (AT) ha ottenuto la menzione speciale come “Miglior esempio d’impiego di nuove tecnologie ai settori della tradizione locale” nel contesto del premio “Chiave a stella 2017”. È la prima volta che il riconoscimento viene attribuito ad un’azienda agricola. Il premio, giunto alla nona edizione, valorizza la piccola e media impresa piemontese e viene assegnato ad aziende contraddistinte per la capacità di esprimere e coniugare innovazione e tradizione, nonché per l’eccellenza del prodotto e la promozione del territorio in Italia e all’estero. La Ferraris Agricola, guidata dal 1999 da Luca Ferraris, con 28 ettari di proprietà quasi totalmente a vigneto, è la più grande tra le realtà agricole del Monferrato e produce 220.000 bottiglie l’anno, di cui più della metà di Ruchè DOCG, il vino più rappresentativo del territorio. www.ferrarisagricola.com Vino italiano e mercato cinese si incontrano a scuola Taste Italy! Wine Academy, la prima wine school italiana dedicata ai wine lovers cinesi, realizza in Cina un nuovo progetto di formazione per promuovere il vino italiano. Quindici città, 100 classi, 2.400 studenti e 1 milione di followers: sono i numeri ai quali risponderà una piattaforma sperimentale basata sulla filosofia dell’insegnare-imparando. Protagonisti in particolare i vitigni autoctoni (54 quelli già inseriti nel programma), ma non mancheranno le nuove proposte. Le prime classi sono previste a febbraio a Shanghai ma l’iniziativa toccherà altre città, come Pechino, Chengdu, Dalian, Guangzhou e Tientsin. Il progetto è a cura di Business Strategies, società fiorentina impegnata in percorsi di sviluppo delle piccole e medie imprese del made in Italy. Massimiliano Rella (a cura di)

In basso: Millennials cinesi alla Taste Italy! Wine Academy di Shanghai promossa da Business Strategies.

In alto: Luca Ferraris, dell’omonima azienda di Castagnole Monferrato (AT).

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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA

Degustazione: coppiette e vino di Laura Franchini

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l variegato, ricco, gustosissimo mondo dei salumi italiano regala, in ogni luogo del Belpaese, perle di tipicità e di sapore. Ecco che nella zona dei Castelli romani troviamo le coppiette, una vera delizia del palato. Nate con lo scopo di conservare la carne, le coppiette sono strisce di carne di maiale nella maggioranza dei casi, ma si trovano anche di cavallo, essiccate e aromatizzate con spezie ed erbe. Anche se di solito vengono associate specificatamente alla zona dei Castelli, vi sono versioni che le danno come

ciociare, dalla provincia frusinate, ma le potete tranquillamente trovare in tutto il Lazio. Non vi è osteria che non proponga queste sottili e gustosissime strisce di carne come antipasto e/o aperitivo, in abbinamento ad un calice di vino. Un’offerta gustosa e certamente azzeccata, uno stuzzichino perfetto per stimolare la sete e accompagnare le serate con gli amici. L’abbinamento ideale è certamente quello con un vino della regione, ma noi vi proponiamo anche qualche alternativa, per soddisfare i gusti e la curiosità di tutti.

“Lo vedi, ecco Marino, la sagra c’è dell’uva fontane che danno vino, quant’abbondanza c’è. Appresso vi è Genzano, cor pittoresco Albano su viett’a diverti’, Nannì Nannì.Nannì, Nannì” (Franco Silvestri, ’Na gita a li Castelli, 1926)

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Le coppiette (photo Š Massimiliano Rella).

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Frascati Superiore DOCG Riserva Luna Mater 2016 Fontana Candida Un’azienda di riferimento per la viticoltura del Lazio, con un bianco dalle grandi potenzialità d’abbinamento. Prodotto con uve Malvasia di Candia e del Lazio, Greco e Bombino, di vigneti con una media di età intorno ai 50 anni, questo vino affina per 12 mesi, di cui 4 in bottiglia, e si presenta visivamente di un giallo paglierino carico con riflessi dorati brillanti. Caldo e armonico nella freschezza, è copioso ed elegante al naso, con intensi sentori di frutta secca e mallo di noce, mandorle e pesche gialle, ricordi fioriti di biancospino e tinte agrumate a corredo. Il palato è corrispondente, lungo e persistente, deciso con raffinatezza. Un calice di carattere, adattissimo ai primi piatti della cucina romanesca, cacio e pepe e gricia in primis. Non sfigurerà con arrosti e piatti di carne e con un assaggio di coppiette romane. Una curiosità: l’etichetta richiama l’opera originale studiata per i cinquant’anni della cantina dall’artista romano Domenico Bianchi.

Fontana Candida Via Fontana Candida 11 Monteporzio Catone (Roma) Telefono: 06 9401881 E-mail: fontanacandida@giv.it Web: www.cantinefontanacandida.it

Cesanese di Olevano Romano DOC Sigillum 2010 Migrante Siamo ad Olevano Romano, un paese della Provincia di Roma che deve la sua fama soprattutto al vino. La qualità d’uva coltivata in prevalenza è il Cesanese di Olevano, l’unico vitigno autoctono rosso del Lazio derivante da quella di Affile, che compone anche questo calice. All’occhio si presenta di un bellissimo rosso rubino con riflessi granato, mentre all’olfattiva si apre netto e pulito, con intense profumazioni fruttate e vanigliate, cannella e marasca, ricordi speziati a contorno. Il palato è vellutato, il tannino coerente, freschezza e alcolicità in equilibrio, intensità capace, ottima l’armonia complessiva. Un calice adatto ai piatti di carne anche elaborati, agli arrosti, alle grigliate, alla coda alla vaccinara. Assolutamente convincente con i saporiti salumi del territorio, immancabile in abbinamento con le coppiette romane, da provare anche con un panino ripieno di porchetta di Ariccia.

Azienda Agricola Migrante Contrada Formale Snc 00035 Olevano Romano (Roma) Telefono: 06 9563583 E-mail: info@migrante.it Web: www.migrante.it

Costa Etrusca Romana IG T Sangiovese Siborio 2016 Tenuta Tre Cancelli Uve Sangiovese in purezza per questo calice che effettua la fermentazione alcolica in tini di acciaio a temperatura controllata tra i 22 ed i 26 °gradi e affina circa un anno e mezzo in botti di rovere da cinquecento litri. Visivamente si presenta color rosso rubino con l’unghia granata, pulito. La degustazione olfattiva porge copiose note fruttate di marasca, cannella, bacca di cacao, carrube, foglia di tabacco e sentori muschiati. L’entrata al palato è avvolgente, setosi i tannini, equilibrata la sorsata, lunga e intensa. Armonia di struttura e carattere convincente, parti morbide e dure in equilibrio. Ottimo con piatti di carne, anche elaborati, paste al forno, tagliatelle al ragù. Si adatta splendidamente alle merende con salumi saporiti, coppe e salami in primis. Decisamente adatto alla coppietta romana e alla cucina della regione laziale, con predilezione per le paste condite con pecorino stagionato.

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Tenuta Tre Cancelli Via della Piscina 3 00052 Cerveteri (Roma) Telefono: 06 9901664 E-mail: info@tenutatrecancelli.com Web: www.tenutatrecancelli.com

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Franciacorta DOCG Brut Cuvée Elementare Monzio Compagnoni

Az. Agr. Monzio Compagnoni Via Nigoline 98 25030 Adro (BS) Telefono: 030 7457803 E-mail: info@monziocompagnoni.com Web: www.monziocompagnoni.org

Calice brillante, dal colore giallo paglierino cristallino, con leggerissimi riflessi ramati, prodotto con uve Pinot nero al 75% e il rimanente 25% di Chardonnay. Al naso è raffinatissimo, elegante di sostenuti sentori tipici di crosta di pane e lieviti puliti, biscotti e pasticceria secca, frutta secca, mandorle tostate e mallo di noce, fruttato di mele golden e pere acerbe. Palato corrispondente, circolare nei sentori, equilibrato. Buono il grado sapido e l’armonia di acidità, avvolgente e morbida la schiuma, perlage non aggressivo, finissimo. Un calice da servire ben freddo e che immediatamente richiama il rito dell’aperitivo, pur essendo adatto anche ai primi piatti di pasta con sughi non troppo elaborati, piatti di pesce e di carne bianca. La coppietta romana, nel suo baldanzoso gusto ben saporito, sarà forse un tantino troppo esuberante in abbinamento, ma come aperitivo, spizzicando qua e là, il calice si presta e si adatta, con facilità, anche a questo abbinamento.

Lambrusco Grasparossa di Castelvetro DOC Monovitigno 2016 Fattoria Moretto

Fattoria Moretto Via Tiberia 13/b Castelvetro (MO) Telefono: 059 790183 E-mail: info@fattoriamoretto.it Web: www.fattoriamoretto.it

I fratelli Fausto e Fabio Altariva gestiscono con sapienza e passione questa bella realtà vinicola del Modenese, sulle colline tra Castelvetro e Levizzano, culla del vitigno Lambrusco Grasparossa, di cui sono valorosi porta bandiera, con ottimi risultati. Questo frizzante calice di Grasparossa in purezza è croccante e seduttivo, assolutamente tipico. Di un bel rosso violaceo è intenso al naso di frutta rossa matura, visciole e fieno secco, erbe di campo e fave di cacao, caffè e foglie di tabacco che tornano anche in retrolfattiva. Schiuma morbida e sgrassante, freschezza piena e equilibrata, armonia precisa e grande tradizione. Impossibile non pensarlo in abbinamento con la cucina emiliana, è altrettanto adatto a spaziare in altre regioni, con successo. Servito fresco sarà un ottimo compagno di merende gustose, soprattutto con i salumi, perfetto con le coppiette romane, i reciproci sapori si amalgameranno con equilibrio.

Lazio IG T Rosato Fieno di Ponza 2016 Antiche Cantine Migliaccio

Antiche Cantine Migliaccio Via Pizzicato 9 04027 Ponza (LT) Telefono: 3392822252 – 3207079269 E-mail: lucianasabino@libero.it Web: www.antichecantinemigliaccio.it

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Tra i meravigliosi e unici panorami di quella perla che è l’isola di Ponza troviamo i vigneti delle cantine Migliaccio, arrampicati su declivi a picco sul mare. Una condizione rara e privilegiata, nonché di difficile gestione, che necessita di pazienza e sapienza e che dà risultati indimenticabili. Prodotto con uve Piedirosso per il 60% e Guarnaccia per il rimanente 40%, questo calice si presenta di un bel color rosato buccia di cipolla, luminoso. Seducente, accattivante al naso, con note fruttate di marasca e ricordi netti di macchia mediterranea, tinte marine iodate, aromatico e intenso, con garbo e finezza. Altrettanto positiva la sorsata, di grande armonia, con note fresche equilibrate, buono il tono sapido. Un vino che si presta al tutto pasto, ad accompagnare zuppe di pesce e catalane di crostacei, primi piatti di pesce e secondi di carne alla griglia. Adattissimo ad un aperitivo, con fritti e salumi, non sfigurerà con le coppiette romane. Magari davanti ad un tramonto, a Ponza.

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BIRRA

Bradipongo: piccoli birrifici crescono Prendi dei giovani tecnologi alimentari con la passione per i prodotti artigianali e la buona birra. Immagina che decidano di collaborare con “qualche miliardo di cellule di lievito”. E ora stappa una Bradipongo di Gian Omar Bison

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otta e bevuta? È più che uno slogan nel birrificio artigianale e pub Bradipongo di Colle Umberto (TV). Identifica al contempo la distanza fisica, poche decine di metri, che separa gli impianti di produzione dalle spine, il produttore dal consumatore e la pulsione che ha guidato i cugini ANNA e ANDREA LIESSI

verso l’apertura dell’azienda: plasmare una birra lineare, beverina, di loro gradimento, che replicasse perfettamente gli stili internazionali conosciuti interpretandoli senza sbavature né eccessi. In comune hanno anche il percorso accademico e professionale: laurea in scienze e tecnologie alimentari e lavori e consulenze diverse presso birrifici

veneti e friulani. «Nel 2012 abbiamo condiviso il desiderio di mettere a frutto l’esperienza maturata. Partiti con l’idea di costruire un birrificio artigianale con annesso centro di degustazione, ci siamo trovati presto con una struttura importante per la produzione ed un pub. Tutto sommato è stato meno difficile del previsto, dalla scelta dei macchinari al

Anna e Andrea Liessi.

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Sono undici le birre prodotte al Birrificio Bradipongo. «Per il futuro ci piacerebbe birrificare biologico e gluten free» ci dicono Anna e Andrea. risultato finale che è esattamente come lo avevamo immaginato». L’esordio è con i piedi di piombo. «Soltanto una chiara a bassa fermentazione, una Belgian Ale e una India Pale Ale. Poi nel tempo le birre sono diventate undici». Solo due le speziate. Dai 350 ettolitri del 2012 (in particolare bionda e rossa) ai 470 hl nel 2013, passando da 3 a 6 fermentatori fino agli attuali 12 fermentatori, 4 dipendenti, un giro d’affari 2016 di cinquecentomila euro circa e 1100 hl raggiunti (450 tra sfuso e bottiglia consumati in buona parte nel locale e 650 tra conto terzi con altri marchi e distribuiti tramite grossisti).

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Tra gli ultimi investimenti, l’impianto di imbottigliamento nel 2016. «Per il momento ambiamo a sfruttare a pieno regime quanto disponibile guardando anche all’export, in particolare al Nord Europa e all’Asia. E per il futuro, non immediato, ci piacerebbe birrificare biologico e gluten free. Materie prime e, quindi, cereali, malto, luppolo, tutto biologico». Lontani comunque dai 200.000 ettolitri come limite massimo di produzione per essere riconosciuti, dalla normativa vigente, birrifici artigianali. «È un limite inarrivabile — puntualizza Andrea — volendo fare dell’artigianalità

un tratto distintivo e quindi mantenere correttamente la catena del freddo senza microfiltrare né pastorizzare. E se anche siamo in presenza di un fenomeno in espansione, non è pensabile approdarci senza avere competenza ed esperienza. Mi è capitato di rilasciare consulenze ad imprenditori che volevano investire nel settore senza avere neanche lontanamente l’idea di come si costruisce una birra. Ma il risultato, alla distanza, non può che essere un prodotto anonimo, che non regge il mercato. È un settore nel quale si può speculare fino ad un certo punto. Poi — sottolinea — il consumatore si accorge se un

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In alto: Andrea al lavoro. In basso: luppolo. prodotto è di qualità o meno e se vale il prezzo pagato. E viene premiato chi lavora con competenza, serietà, idee chiare e pulizia. Per questi ultimi spazio di crescita ce n’è ancora parecchio. Ed è una fetta che nel mercato dell’alcol viene conquistata alla birra industriale, non certo al vino. Ci sono situazioni ed abbinamenti nelle quali io stesso, che amo la birra, apprezzo di più determinati vini». Anche secondo i cugini Liessi è necessario studiare, spiegare e raccontare di più e meglio l’abbinamento birra-cibo e per questo lo spazio nella ristorazione

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c’è e ci sarà ancora per molto tempo. «L’importante — sostengono — è lavorare con qualità. Da parte nostra, volendo, abbiamo la possibilità come altri birrifici artigianali di assecondare rapidamente e con estrema flessibilità la proposta gastronomica dei locali potendo lavorare su spettri olfattivi e gustativi e su tenori alcolici diversi». Ma il Bradipongo è anche un esempio per tutti quei giovani che nell’agroalimentare, nell’enogastronomia e nell’arte birraia intendono conquistarsi uno spazio nel mercato del lavoro o nell’imprenditoria legata alle eccellenze

del made in Italy. In quest’ottica va inquadrata la collaborazione con l’Istituto Cerletti di Conegliano per contribuire al corso per mastri birrai da loro organizzato. Da questa cooperazione è nata franzisca, Single Hop Pilsner a bassa fermentazione prodotta con orzo dei colli Euganei e luppolo del Monte Grappa. Oltre a questa da menzionare la Mafalda, Belgian Ale, alta fermentazione e 6.5% di titolo alcolometrico, nata per caso, come dicono i Liessi, ma che gli è valsa la medaglia d’argento al Brussels Beer Challenge del 2013, oltre ad essere la birra più consumata nel pub. Sono poi inseriti nella selezione Slow Food (Guida alle birre d’Italia) dal 2015 e sono presenti anche nell’edizione 2017 della guida con la BradIPA, India Pale Ale menzionata quale “birra quotidiana”. La partecipazione alle fiere è contingentata a cinque eventi all’anno tra le quali quella storica di Santa Lucia di Piave (TV). Gian Omar Bison Birrificio Bradipongo Srl Via Pin delle Portelle 16 31014 S. Martino di Colle Umberto (TV) Telefono: 0438 394992 E-mail: info@birrificiobradipongo.it Web: www.birrificiobradipongo.it

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ph: Franceschini Vincenzo

Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione.

FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it


DOLCI

Seadas, la pasta si fa dessert La Sardegna non è solo la patria di agnello e maialetto. Con pani, dolci, formaggi, vini, offre un ventaglio di prodotti unici e inimitabili. Tra tutti campeggiano le specialità di pasta. Formati straordinari e sconosciuti ai più di Sebastiano Corona

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i sono piatti che fanno parte dell’offerta gastronomica nazionale pur essendo espressione di alcune regioni in particolare. Ce ne sono altri che, per una serie di motivi, sono rimasti relegati nel tempo alle aree delle comunità che gli hanno dato i natali. La Sardegna, forte del suo isolamento, è divenuta la terra di specialità di pasta fresca e secca uniche nel loro genere e completamente assenti altrove. Il patrimonio pastario sardo non solo è tra i più ricchi ma presenta alcuni piatti tipicamente locali che contribuiscono in modo determinante ad elevare la qualità e il pregio dell’offerta italiana nel mondo.

Oltre ai Culurgionis d’Ogliastra, che di recente hanno acquisito anche l’Indicazione Geografica Protetta, si possono annoverare tra le eccellenze, su Filindeu, le Lorighittas, la Fregula, su Succu o gli Andarinos, solo per citare alcuni esempi. C’è poi un dolce che in realtà è una pasta fresca e che — assieme ad altri— è l’emblema della cucina sarda. Si tratta di un raviolone ripieno di formaggio pecorino e/o vaccino e scorza di agrumi, limone o arancia. Non viene bollito ma fritto e si serve caldissimo, ricoperto di miele o zucchero, a seconda delle preferenze. Rappresenta oggi uno dei più rinomati prodotti sardi, certamente il più famoso tra i dolci isolani.

Questa prelibatezza, le cui origini si perdono nel tempo, rappresenta il connubio perfetto tra le due vocazioni economiche locali dell’agricoltura e dell’allevamento. Le diverse filiere trovano in questa specialità unica la loro massima espressione, con varianti non particolarmente significative da zona a zona. Dove era più diffusa la pastorizia, la seada aveva e tuttora mantiene una tradizione di ripieno di formaggio ovino. Dove invece era prevalente l’allevamento bovino, viceversa, si utilizzava il formaggio vaccino, in questo caso anche con ulteriori varianti locali, con impiego di formaggi diversi.

Seada col miele (photo © Lunipa – stock.adobe.com).

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In zone come il Montiferru la seada, per esempio, viene tuttora realizzata con eccellenti risultati con il Casizolu fresco. In molti amano anche utilizzare entrambi i formaggi, ovino e bovino assieme, soprattutto se si segue l’antica ricetta che prevede che il ripieno, prima di essere posto sulla sfoglia, venga fatto sciogliere in una padella con la scorza di limone o arancia. È bene tuttavia precisare che questo procedimento così complesso da decenni si effettua soprattutto negli ambienti domestici, dove la produzione è per autoconsumo. E talvolta, e in via del tutto eccezionale, in quelli della ristorazione. Per il resto, la tendenza, anche nei pastifici di più piccole dimensioni, è quella di preparare la sfoglia e utilizzare per il ripieno il formaggio a crudo, in una modalità da alcuni definita scherzosamente “alla mandrona”. Questa espressione tipicamente dialettale, e non semplicissima da tradurre, fa infatti riferimento alla pigrizia di chi utilizzerebbe scorciatoie in cucina. Le stesse che tuttavia, da tempo, sono diventate quasi la regola e che garantiscono ugualmente un ottimo risultato, soprattutto se si impiegano materie prime di qualità. Il raviolone ha sempre una presenza circolare che può essere più o meno grande o più o meno tendente all’ovale. In generale il peso di ognuno è tra gli 80 e i 130 grammi. Ma anche nella quantità di formaggio utilizzata e poi conseguentemente nel peso ci possono essere differenze significative. Talvolta si utilizza anche l’uovo, ma come variante locale. Un altro elemento che caratterizza questo prodotto e che chiama in causa un’altra filiera isolana è lo strutto. Ne viene sempre impiegato un minimo nella sfoglia per garantire friabilità alla pasta. L’utilizzo di questo nobile grasso sarebbe — secondo alcuni — anche ciò che ha dato origine al nome. Seada verrebbe infatti da sebum, cioè da grasso, a richiamare non solo il fatto che i grassi vengano utilizzati nella sfoglia, ma anche che il prodotto, a seguito della cottura, si presenti lucido, appunto. Eppure secondo alcuni il termine seadas, nel sardo logudorese che in campidanese muta in sebadas e in altre zone assume ulteriori varianti, come seattas o sevadas, avrebbe origine spa-

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Il dessert sardo per eccellenza è in pratica una specie di tasca chiusa di pasta ripiena di formaggio, simile a un grande raviolo, prevalentemente tonda (photo © www.ecotopianuoro.it). gnola con il significato di “separata”, a sottolineare che il prodotto è realizzato su due dischi distinti, in mezzo ai quali si trova un ripieno. Che la sua origine si perda nel tempo è invece cosa provata, con ampi richiami all’archeologia isolana. Quella forma circolare, così caratteristica, sarebbe infatti ispirata ai nuraghi, le famosissime costruzioni di basalto dell’età del bronzo, che si trovano solo in Sardegna. Ad altre epoche storiche, risalgono invece altri reperti archeologici che dimostrano che la produzione di sebadas avvenisse già nel IV secolo a.C. Infatti, pani speciali simili a focacce con decori rappresentano l’offerta nei rituali religiosi e nelle steli dei tophet del Sulcis. Poiché l’epigrafia ne riporta gli ingredienti, quali semola, formaggio e miele, è facile risalire al pregiato piatto di cui si tratta. Territorialmente le seadas nascono nelle regioni isolane a forte vocazione pastorale, quali la Barbagia, l’Ogliastra, il Logudoro, la Gallura. Tuttavia, questo piatto ha da tempo varcato i confini citati, per diffondersi universalmente in tutta la Sardegna e da decenni si produce ovunque. Oggi non c’è pastificio artigianale o industriale nella regione che non abbia le seadas nel proprio catalogo aziendale. Così come non mancano

mai dai menu di ristoranti o agriturismo. Storia inoltre vuole che venissero preparate in circostanze o ricorrenze particolari. Natale o Pasqua, dunque, ma anche al rientro dei pastori dopo la transumanza, quasi a dare un segnale di bentornato in famiglia o a riconoscere loro un premio per il duro lavoro svolto lontano da casa. Da quell’epoca ne è passato però di tempo e oggi la sebada è, come tanti altri prodotti pregiati nati come piatto della festa, un dolce tra i più richiesti e che si consuma con frequenza. Lo è al punto da essere diventato un protagonista dello street food nell’isola, prendendo il nome di seadas da passeggio. In fondo si tratta di una delizia che, al pari di altre, può essere degustata anche all’aria aperta. Noi però che di questa eccellenza tutta sarda conosciamo le virtù, vi invitiamo a sedervi comodamente a tavola, cospargerla di miele amaro di corbezzolo, di castagne o anche millefiori e di mangiarla con tutta la sacralità e il tempo che merita. È un piatto pregiato, che va onorato così. Se poi è possibile accompagnare la degustazione con un vino bianco locale, magari Vernaccia di Oristano, Malvasia di Bosa o Vermentino di Gallura, il momento diventa un’apoteosi dei sensi. Sebastiano Corona

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ACETO

Aceto Balsamico di Modena Igp, radici forti che viaggiano lontano

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in dall’antichità l’aceto di vino e il mosto cotto sono stati i condimenti per eccellenza della cucina italiana; dalla fermentazione e dall’invecchiamento di questi ingredienti nasce l’Aceto Balsamico di Modena IGP, figlio delle terre di Modena e Reggio Emilia, zone fertili, vocate alla produzione vitivinicola. Uno dei principali prodotti agroalimentari italiani del mondo, con oltre il 92% di prodotto esportato L’Aceto Balsamico di Modena IGP è oggi commercializzato in 120 Paesi del mondo. Con una produzione di oltre 94 milioni di litri l’anno, esportata per oltre il 92%, è uno dei principali prodotti agroalimentari italiani nel mondo. Il fatturato alla produzione supera i 400 milioni di euro e quello al consumo sfiora il miliardo: cifre che collocano l’Aceto Balsamico di Modena IGP nella top ten

del paniere delle specialità alimentari DOP e IGP italiane. Questo straordinario successo è dovuto alla sua estrema versatilità: l’Aceto Balsamico di Modena IGP rappresenta un condimento pregiato sia per gli chef di professione che per i semplici appassionati di cucina. La sua forza consiste nel saper armonizzare e bilanciare le caratteristiche dei singoli ingredienti, sia nelle rifiniture di piatti semplici, quotidiani e veloci, sia per impreziosire in modo fantasioso creazioni raffinate. Per quanto, purtroppo, non siano rare imitazioni ed evocazioni, contro cui il Consorzio si attiva puntualmente, in realtà le sole tre denominazioni registrate previste per il “balsamico” sono l’Aceto Balsamico di Modena IGP, l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP e l’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP. Prodotti con caratteristiche diverse che da sempre convivono e condividono l’origine emiliana.

Consorzio: attività di verifica, promozione e tutela Rappresenta e salvaguarda i produttori associati, promuove la divulgazione del prodotto a livello nazionale e internazionale. Svolge attività di vigilanza commerciale. Nel 1993, per iniziativa dei produttori, è nato il Consorzio Aceto Balsamico di Modena, per conseguire il riconoscimento della Indicazione geografica protetta europea, ottenuta nel 2009. Dal 2014, il Consorzio è stato riconosciuto dal Ministero per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali quale Consorzio di Tutela dell’IGP deputato allo svolgimento delle funzioni pubbliche di promozione, difesa e tutela del prodotto. Il Consorzio rappresenta oltre il 98% della produzione certificata; tra gli associati sono tutt’ora presenti i marchi storici del settore, che hanno contribuito ad affermare fin dai primi del ‘900 il nome del prodotto sui mercati nazionali e internazionali, a partire

La prima vera culla produttiva dell’aceto balsamico sono le acetaie della corte Estense a Modena attive dal 1289. Ancora all’inizio del 1500, in occasione della nascita del primo figlio, Lucrezia Borgia, moglie di Alfonso I d’Este, Duca di Modena, aveva sperimentato l’uso di questo aceto come toccasana nel momento del parto

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L’Aceto Balsamico di Modena Igp si riconosce dal contenitore e dall’etichetta; può essere commercializzato in contenitori di vetro, legno, terracotta o ceramica, di qualsiasi forma, con capacità minima di 250 ml, ad eccezione di confezioni monodose, e massima di 5 l, per uso professionale

dalla prima autorizzazione formale rilasciata dal Ministero dell’Industria nel 1933. Il Consorzio collabora con l’organismo di controllo e il MiPAAF. La gestione del sistema di controllo e di certificazione, relativa alla verifica della conformità del prodotto al disciplinare, è delegata a un organismo di controllo autorizzato, attualmente individuato nel CSQA Certificazioni Srl (www.csqa.it), mentre l’attività di vigilanza commerciale è svolta dal Consorzio tramite i propri agenti vigilatori (con qualifica di agenti di pubblica sicurezza) in collaborazione con le forze pubbliche competenti in materia (Istituto Controllo Qualità e Repressione delle Frodi – ICQRF, Carabinieri – NAC, Corpo Forestale dello Stato – NAF). Il Consorzio è impegnato infine nella promozione e nella divulgazione del prodotto presso i media e i consumatori (www.consorziobalsamico.it); aderisce, inoltre, a organismi nazionali e internazionali (AICIG, Associazione Italiana Consorzi Indicazioni Geografiche e oriGIn, Organization for a International Geographical Indications Network), al fine di diffondere la conoscenza del prodotto e, soprattutto, ampliarne le possibilità di tutela sui mercati più lontani. Dove nasce il balsamico L’Aceto Balsamico di Modena IGP può essere prodotto solo nelle province di

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Modena e Reggio Emilia: sono terre con un tipico clima semicontinentale, reso moderato dalla presenza del vicino mare Adriatico, con inverni rigidi, estati calde e umide e temperature autunnali e primaverili miti, che influenzano, in maniera determinante, il processo di maturazione e invecchiamento dell’aceto balsamico. Come gustare il balsamico L’Aceto Balsamico di Modena IGP si differenzia dall’aceto di vino per la composizione equilibrata dei suoi costituenti. Esso possiede caratteristiche fisiche, chimiche e organolettiche correlate tra loro in modo unico, un maggior contenuto di sostanze estrattive e di composti volatili, per cui la scelta del vino che trasmette all’aceto il suo bouquet deve essere accurata. Innanzitutto si presenta limpido e brillante, di colore bruno intenso, tendente al nero, sapore agrodolce con armonia fra acidità e dolcezza (acidità totale minima 6%), con un profumo leggermente acetico e delicato, durevole con eventuali note legnose. La sua forza sta nel saper armonizzare e bilanciare le caratteristiche dei singoli ingredienti del piatto. Il più riuscito accostamento dell’Aceto Balsamico di Modena IGP è forse quello con il Parmigiano Reggiano, prodotto DOP del territorio: lasciato cadere

goccia a goccia sul formaggio si può assaporare un’unione ineguagliabile di fragranze aromatiche, sfumature e gusti morbidi. Riuscito è l’abbinamento con piatti di pesce, dal baccalà, a quelli d’acqua dolce, come il luccio. I tortellini e la pasta all’uovo della tradizione possono venire arricchiti e insaporiti dal balsamico, aggiunto anche all’ultimo, senza appesantirli. Sulle carni bollite va cosparso direttamente oppure unito alle salse. Sui piatti più semplici e veloci, dalle frittate alle insalate di verdure crude o cotte, l’Aceto Balsamico di Modena Igp è un piacere quotidiano. Sulla frutta, il gelato e i dolci al cucchiaio è una sorpresa, raffinata e intensa. Le Terre del Balsamico a FICO A FICO Eataly World, il grande parco agroalimentare recentemente inaugurato a Bologna, l’Aceto Balsamico di Modena IGP e l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e Reggio Emilia DOP si presentano al pubblico uniti nello spazio denominato “Le Terre del Balsamico”. Accompagnati da personale specializzato, il visitatore di FICO potrà vivere in una sorta di “viaggio sensoriale” alla scoperta delle materie prime, dei legni e della lavorazione del balsamico, fino alla degustazione di una vastissima selezione di prodotti provenienti da numerose acetaie. (Ufficio Stampa Consorzio)

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Dall’origine alla tavola in tutta sicurezza

L’

azienda specializzata nell’affettamento conto terzi Perfetta Srl nasce nel 2007 a Lentate sul Seveso, comune dell’Alta Brianza. ALESSIO SALA, amministratore e socio fondatore, è entusiasta di poter dire che, fetta dopo fetta, l’attività è sempre cresciuta, presentandosi oggi con uno stabilimento ampliato, più collaboratori e un’organizzazione in grado di soddisfare una clientela sempre più esigente. «Ho iniziato l’attività di affettamento alla vigilia della crisi economica» spiega Alessio. «Ciò nonostante, siamo cresciuti in modo progressivo e costante anche in tempi così difficili. La nostra clientela

ci ha premiato. Perché? Perché non abbiamo mai tradito i punti cardine del nostro lavoro: qualità senza compromessi, innovazione e dinamicità». Pur sviluppando una parte del fatturato con il proprio marchio, per Perfetta Srl il conto lavorazione rappresenta un segmento strategico del suo volume d’affari e, pertanto, «lo seguiamo con un’attenzione particolare in ogni passaggio» chiarisce Alessio Sala. «Chi desidera avvicinarsi al mondo degli affettati, trova in noi un partner competente e capace di offrire una soluzioni su misura e senza quantitativi minimi. Il nostro impegno è tutto rivolto al controllo di ogni singola fase della produzione: dalla scelta del

packaging alle tipologie di lavorazione. Per questi motivi abbiamo deciso di avvalerci del supporto informatico del gestionale CSB-System fornito dall’omonima azienda veronese». Il CSB-System è un gestionale modulare e completo specifico per le industrie del settore alimentare; la copertura è completa: si va dagli acquisti al magazzino, dalle vendite con gestione offerte, listini e condizioni, alla totale rintracciabilità di filiera, dall’ottimizzazione ricette alla produzione, fino alla peso-prezzatura integrata senza dimenticare il controllo qualità e la contabilità industriale. «Inizialmente — continua Alessio — abbiamo implementato

L’esigenza di offrire uno standard qualitativo di alto livello ha portato Perfetta Srl a dotarsi sin da subito di camera bianca, con tre linee diverse, due termoformatrici e una sigillatrice.

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solo i moduli per il settore Acquisti e Vendite con emissione bolle e fatture. Successivamente, con il crescere della mole di lavoro, abbiamo avvertito la necessità di passare a processi produttivi chiari e trasparenti e ottenere dal sistema informazioni in grado di supportare le decisioni aziendali; si pensi ad esempio al costo interno per la produzione di ogni articolo che per noi è un’informazione fondamentale. Abbiamo così implementato anche i moduli Produzione, Tracciabilità e Magazzino del CSB-System». Tecnologia, manualità e igiene L’esigenza di offrire uno standard qualitativo di alto livello ha portato l’azienda a dotarsi sin da subito di camera bianca con tre linee diverse, due termoformatrici e una sigillatrice. Tutti i passaggi in questo locale sono rigidamente controllati: dal personale che vi accede alle materie prime in ingresso, fino all’aria che viene filtrata e immessa a umidità e temperature controllate. Il tocco finale è dato dall’esperienza degli operatori che posizionano con cura e perizia le porzioni affettate prima del confezionamento ermetico, perché «noi della Perfetta — spiega DESIRÈE CATALDO, che gestisce i flussi di magazzino — abbiamo fatto della flessibilità, capacità di servizio e serietà la nostra filosofia. Gli investimenti fatti sia in macchinari sia nel gestionale, ci hanno permesso di essere ancora più flessibili nel proporre e gestire differenti

Il CSB-System è un gestionale modulare e completo specifico per le industrie del settore alimentare; la copertura è completa, dagli acquisti alla produzione, senza dimenticare controllo qualità e contabilità industriale

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tipologie di produzione, anche di alta gamma, siano esse salumi, pesce o formaggi. Perfetta Srl dispone di cinque postazioni CSB-System, tre in ufficio per il controllo delle merci in entrata e in uscita, una per gestire le vendite e mantenere la supervisione di tutti i dati e una in produzione per carico e scarico e gestione della tracciabilità completa così come dice il motto aziendale: “dall’origine alla tavola”. In fase di ricevimento merce il modulo Acquisti del CSB-System garantisce un controllo affidabile di quantità e qualità delle merci in entrata e rappresenta la base d’inserimento di tutte le informazioni riguardanti la rintracciabilità della merce commercializzata. Svariate altre funzioni come il controllo delle forniture oppure statistiche automatiche per acquisti e fornitori sono costantemente a disposizione». Il cliente prima di tutto «Abbinare affettati di altissima qualità ad un ampio catalogo di prodotti dai sapori diversi è sempre stata la nostra carta vincente» racconta con soddisfazione Desirèe. «Il tutto servito da un packaging innovativo e un confezionamento all’avanguardia. L’ampia gamma di referenze esprime il forte sodalizio tra la nostra azienda e le aziende produttrici del nostro territorio». Le etichette personalizzate e multilingua sono collegate al modulo Magazzino, il quale comprende anche funzioni quali carico e scarico automatico, inventari, statistiche di fabbisogno e consumo. Evasione ordini puntuale e precisa Grazie al collegamento integrato con l’inserimento ordini e l’aggiornamento automatico del magazzino, il modulo Vendite del CSB-System garantisce a Perfetta Srl la gestione di una pluralità di casistiche a seconda che la destinazione finale sia in Italia o all’estero, una GDO o un negoziante, oppure il magazzino del cliente stesso, se quest’ultimo preferisce gestire in casa le consegne con quantitativi più ridotti per il normal trade. I prodotti affettati vengono stoccati con precisione in un’apposita cella a temperatura controllata: il metodo di stoccaggio di questi affettati fa sì che siano immediatamente disponibili per l’etichettatura e quindi per la preparazione dell’ordine e della sua spedizione

in tempi brevissimi. Tutte le operazioni sono eseguite in modo tale da garantire precisione e puntualità massime, con lotti separati e facilmente identificabili: così, oltre a garantire la massima flessibilità, per ogni richiesta si è certi della gestione ottimale del FIFO. Rigorosi controlli Qualità Perfetta Srl è in possesso delle certificazioni BRC e IFS, che consentono di monitorare e verificare tutte le fasi di lavorazione e il rispetto rigoroso dei requisiti igienici lungo l’intera filiera, garantendo di fatto non solo la sicurezza degli alimenti che vengono trattati, ma anche una pronta gestione del rischio nel caso in cui dovessero verificarsi dei problemi in fase produttiva. Il piano di autocontrollo aziendale prevede rigorosi controlli, dal ricevimento del prodotto da affettare alla spedizione, ma non solo: tutti i fornitori delle materie prime, del materiale di confezionamento e dei servizi sono attentamente selezionati perché rispondano a rigorosi standard qualitativi. Collaborazione vincente anche per il futuro «Mescolando insieme spirito imprenditoriale ed evoluzione dei consumi, qualità del prodotto e innovazione, tradizioni antiche e tecnologia moderna credo che la collaborazione tra noi e la CSB-System si sia rivelata vincente in termini di sicurezza alimentare, qualità costante del prodotto, razionalizzazione delle risorse, ottimizzazione dei costi e, soprattutto, di pronta risposta alle esigenze del mercato in continua evoluzione» conclude Alessio Sala.

Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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Conservazione e qualità dei salumi di Giovanni Ballarini

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ane di un giorno, vino di un anno (e ragazza di venti)”, “L’ospite è come il pesce e dopo tre giorni puzza”, “Il pesce ha ventiquattro virtù e ne perde una all’ora”… Molti sono i proverbi e i detti che collegano la qualità dei cibi al tempo, che li può deteriorare, sì, ma anche migliorare. Accanto agli alimenti che col tempo peggiorano fino ad “andare a male”, altri col tempo maturano aumentando di valore, pregio e prezzo (a volte migliorano anche le loro proprietà organolettiche), come un Cognac

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invecchiato per anni o un formaggio stagionato o un prosciutto crudo di 18, 24, 36 mesi. Oltre alle conoscenze empiriche tradizionali, oggi la possibilità di miglioramento degli alimenti nel tempo sta divenendo un nuovo argomento di ricerca nel quadro delle nuove tecniche di conservazione del cibo, con interessanti prospettive. Conservazione e etichette Attualmente abbiamo etichette con due diverse definizioni che regolano la shelf-life o periodo di permanenza di un alimento sullo scaffale e nella

cucina o frigorifero del consumatore: Da consumare prima del… e Da consumare preferibilmente prima del… Nel primo caso, il periodo di conservazione garantisce la sicurezza dell’alimento; nel secondo, il mantenimento delle qualità organolettiche (aroma, sapore, consistenza, ecc…). Vi sono anche alimenti che non hanno queste indicazioni, come i vini per esempio. In questo caso, però, viene indicata la data di “nascita” del prodotto e questo serve all’intenditore per utilizzare l’alimento nel momento ottimale delle sue caratteristiche. Qualche cosa di

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Nei salumi, come nel vino, una intelligente conservazione può migliorare il prodotto e minimizzare lievi difetti, ma questi devono essere “lieviâ€? perchĂŠ un prodotto di scarso pregio non potrĂ mai divenire d’alta qualitĂ solo con la conservazione simile sta avvenendo per altri alimenti di sempre piĂš largo consumo conservati con sistemi innovativi, quali le confezioni in atmosfere modificate, come ad esempio i prosciutti crudi stagionati. Conservazione dei salumi aettati Sempre piĂš diffuso è il confezionamento dei salumi in vaschette contenenti atmosfere modificate (ATM, miscele di anidride carbonica, azoto e altri gas piĂš o meno inerti), studiate e applicate per ridurre i processi di ossidazione che portano ad imbrunimento del colore, irrancidimento del grasso, perdita degli aromi principali, formazione di odori anomali. In queste condizioni si controlla l’ossidazione, ma nell’ambiente riducente della confezione si formano nuovi equilibri che lentamente generano reazioni di trasformazioni dei costituenti l’alimento, producendo modificazioni sensoriali, analogamente a quanto avviene in una bottiglia di vino. Come nel vino appena stappato vi sono aromi che è bene lasciare volatilizzare, lo stesso si è visto per le vaschette di salumi che hanno un profilo organolettico diverso appena aperte o dopo pochissimo tempo. Cosa avviene in un prosciutto stagionato per 18 o 24 mesi, affettato e confezionato in una vaschetta in un’atmosfera modificata? Bisogna abbandonare il “concetto pesceâ€? secondo il quale, in ogni caso e condizione, il prodotto confezionato all’apice delle sue caratteristiche organolettiche inevitabilmente va incontro ad una graduale decadenza che il confezionamento e il controllo delle condizioni di mantenimento (temperatura, radiazioni illuminanti, ecc‌) possono solo rallentare. Bisogna considerare anche il “concetto Cognacâ€? per gli alimenti che con la conservazione in precisate

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condizioni migliorano le loro caratteristiche sensoriali. Un caso quest’ultimo che è stato recentemente segnalato da GIAN PAOLO BRACESCHI (L’Assaggio 59 – Autunno 2017, pagg. 11-14). Studiando l’evoluzione aromatica di salumi nel corso della conservazione in vaschette con atmosfere modificate si sono ottenuti risultati molto interessanti, come quello di un aumento della complessitĂ aromatica retro-olfattiva e di un maggiore impatto in bocca della parte aromatica. Sorprendente è che la conservazione faccia anche scomparire alcuni lievi difetti presenti nel prodotto al momento della conservazione. Conservazione e miglioramento degli alimenti Nei salumi, come nel vino, una intelligente conservazione può migliorare il prodotto e minimizzare lievi difetti, ma questi devono essere “lieviâ€? perchĂŠ un prodotto di scarso pregio non potrĂ mai divenire d’alta qualitĂ solo con la conservazione! Oltre al vino, distillati e salumi quali altri alimenti si potranno giovare di appropriate tecniche di conservazione? Come educare il consumatore ad apprezzare i vantaggi di appropriate tecniche di conservazione degli alimenti? Domande che dimostrano quanto sia viva la ricerca che, tramite le tecnologie alimentari, tende a migliorare la qualitĂ dei nostri alimenti. Prof. Em. Giovanni Ballarini UniversitĂ degli Studi di Parma Nota A pagina 124, sempre piĂš diffusa è la conservazione dei salumi affettati con atmosfere modificate e il confezionamento in vaschette, una tecnologia che può anche migliorare la qualitĂ del prodotto (photo Š Meat – Thermopak).

Factory ERPŽ per gestire e controllare il processo produttivo e ottimizzare l‘utilizzo delle risorse

Quanto ne sa il vostro software di carne? Il nostro davvero tanto. 3URFHVVL VSHFLĂ€FL GL VHWWRUH integrazione di macchine e LPSLDQWL PRQLWRUDJJLR H UHSRUWLQJ ULQWUDFFLDELOLWj RWWLPL]]D]LRQH ULFHWWH JHVWLRQH TXDOLWj H PROWR altro. CSB-System è il software aziendale per il settore Carne. La VROX]LRQH FRPSOHWD FRPSUHQGH (53 FACTORY ERPÂŽ e MES e include giĂ le Best Practice aziendali. Siete curiosi di sapere esattamente perchè i leader del settore si DŕŠ•GDQR DO &6% 6\VWHP" CSB-System S.r.l. Via del Commercio 3-5 | 37012 Bussolengo (VR) Tel.: +39-045 890 55 93 | Fax: +39-045 890 55 86 info.it@csb.com | www.csb.com


STORIA E CULTURA

Il tabacco in cucina Dal lambitivo ai bonbon all’aria della cucina molecolare. Fin dal suo arrivo in Europa il tabacco ha avuto un suo uso anche come aroma di cucina di Giovanni Ballarini

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a quando il tabacco è arrivato e si è diffuso in Europa non è stato solo fumato in diversi modi, ma anche fiutato, masticato e mangiato, con alternanza di successi e abbandoni. Consultando il web sembra che più di centomila siano le ricette che vedono la presenza del tabacco sotto diverse forme (anche in associazione con la carne; pensiamo al raffinato filetto in crosta di tabacco presentato da Nicolò, uno dei concorrenti della quarta edizione del programma

televisivo Masterchef). Il tabacco da fumo è stato utilizzato anche con sofisticati strumenti, dall’orientale narghilè alle odierne sigarette elettroniche. Il tabacco da fiuto è invece un finissimo tritato venduto in bustine simili a quelle del tè. Il tabacco da masticazione si trova ancora oggi sotto forma di foglie strappate, attorcigliate o compresse in cubetti, confezionate in lattina, vendute come blocchi solidi o in bustina. Coloro che le usano le mettono fra la guancia e le gengive. Tra gli altri tipi di tabacco

che non si fumano vi è lo Snus prodotto in Svezia. Si tratta di polvere di tabacco compressa, dall’aspetto molto simile a una caramella dura che si scioglie in bocca e che per certi aspetti si potrebbe assimilare a un lambitivo rinascimentale. Il lambitivo è un’antica forma di medicamento liquido, usata per lambire (da qui la denominazione) le parti ammalate, specialmente i mali di gola e di petto. Molte erano le ricette di lambitivi fatti con mele stemperate in decozione, con polpa di cassia, puleggio e anche tabac-

Narghilè, chiamato anche Shisha, è uno strumento per fumare composto da ciotola, tubo di gomma, ampolla e corpo, un tubo metallico che tramite una guarnizione si unisce con l’ampolla. Il fumo passa dal tubo all’acqua per arrivare all’ampolla e con questo sistema il tabacco non viene bruciato bensì vaporizzato (photo © stock.adobe.com).

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In alto: foglie di tabacco messe ad essiccare, Vignales, Cuba (photo © Maroš Markovič – stock.adobe.com). In basso: il tabacco si presenta in commercio sotto forma di tabacco da fumo, da fiuto, da masticazione. In Svezia si trova anche sotto forma di bustine contenenti polvere di tabacco compressa che, simili a una caramella, si sciolgono in bocca. Col tabacco però si aromatizzano anche alcuni cibi e persino la birra. co. A quest’ultimo riguardo D. BENEDETTO STELLA, nel 1669, a Roma, pubblica un volumetto intitolato Il tabacco, nel quale tratta dell’origine, historia, coltura, preparazione, qualità, natura, virtù, & uso in fumo, in polvere, in lambitivo, et in medicina della pianta volgarmente

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detta tabacco (cfr., Il tabacco opera di D. Benedetto Stella da Civita Castellana M.D.S.B. nella quale si tratta dell'origine, historia, coltura, preparatione, qualità, natura, virtù et uso in fumo, in polvere, in foglia, in lambitivo, et in medicina della pianta volgarmente detta

tabacco, 1669, Filippo Maria Mancini). Un uso che era praticato anche dagli indiani americani e dagli europei precisando come segue: cavano il sugo dalle frondi verdi dell’erba, e cotto col zuccaro a consistenza, che sembri un unguento, lo portano dentro vasetti di vetro, o scatolini, o chiocciole marine. Si lambisce col dito, mettendone un poco su la punta della lingua, e si sputa quell’acquosità che tira dalla testa. Si servono di questo lambitivo le persone dilicate nell’America, e per lo più le donne nobili: e trovandosi in conversazione, l’una invita l’altra a prenderlo. Esisteva anche un lambitivo semplice, sotto forma di sciroppo e in tavolette, e non bisognava ingerirlo, ma solo lambirlo tenendolo in bocca, altrimenti avrebbe potuto procurare il vomito. Diversi erano gli usi del tabacco in medicina, somministrato anche per clistere. Il lambitivo declamato dallo Stella non ebbe successo, diversamente dal Bonbon (da bon bon, cioè due volte buono), la “dosa di tabacco Millefiori” che il chimico di Lione PIETRO PERLONT portò a Torino, dove le dame della

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Pipa o sigaro e un cognac da sorseggiare accompagnato da cioccolato sono ancora oggi irrinunciabili ingredienti per una meditazione da poltrona (photo Š kosoff – stock.adobe.com).

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“Tabacco è il nome che designa, in tutte le lingue del mondo, con lievi varianti grafiche e fonetiche, il prodotto vegetale di uso voluttuario più universalmente noto e desiderato. Lo stesso termine designa anche la pianta da cui tal prodotto si ricava, coltivata da tempo immemorabile”, scrive Daniele Vallesi, sul blog GustoTabacco Formaggio di latte vaccino stagionato circa 24 mesi ed affinato in tabacco Kentucky. Proveniente da coltivazioni italiane, è l’unica varietà di tabacco utilizzata per la preparazione del sigaro toscano (photo © www.foodedrinkconsulting.it). buona società usavano anche come profumo un tabacco di dama all’acqua angelica, sapiente combinazione di muschio, ambra, benzoino, acqua di rose e fior di cedro. In modo particolare si apprezzava l’associazione del tabacco con altri aromi; tra questi anche il caffè rientrava nelle polveri da fiuto e a Torino si diceva “prendo un tabacco al caffè”. In cucina, e non poteva essere diversamente, il tabacco è usato come aroma, uno dei circa quattromila a disposizione, e serve in particolare per preparare schiume o “arie”, divenute di moda con la cucina molecolare, usate per decorare un piatto e dare una nota aromatica non invasiva. Alcune schiume sono usate da secoli: quando si montano gli albumi si forma una schiuma e anche la panna montata è una schiuma. Per produrre le schiume o arie oggi si utilizzano soprattutto la lecitina e l’aroma desiderato, lavorati con strumenti costruiti per montare il latte e preparare il cappuccino. Le arie si utilizzano principalmente per diluire aromi molto intensi. L’aroma sarà così presente, ma rarefatto e delicato. Un esempio sono le arie al limone che accompagnano le portate di pesce sostituendo il succo dell’agrume; quest’ultimo, infatti, tende

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ad aggredire l’aroma del pesce e non ne conserva il sapore. Gli aromi di tabacco sono disponibili sul mercato ma vi è chi preferisce prepararli in proprio partendo dalle foglie di tabacco o dai sigari. ANDREA GRIGNAFFINI, già direttore di TORPEDO1, parla di tabacco chef con entusiasmo e si dichiara grato ai cuochi che accolgono il tabacco nelle loro cucine, permettendo alla gente di scoprire che, se i nostri nonni si limitavano a masticarlo (e da allora ad oggi l’associazione è stata sempre con il fumo), oggi il tabacco si può gustare anche come elemento significativo di un grande piatto. I ristoratori usano il tabacco all’interno di alcune proposte culinarie: dolci, carni e pesci. Superati lo stupore e le perplessità iniziali, il cuoco MARCO FADIGA ha dichiarato che chi prova la crema leggera al rum con infuso di sigaro e croccante alla frutta secca non la abbandona più. L’approccio all’aroma di tabacco non è facile, come per il vino, e vi è chi ha dichiarato di aver fumato, prima di scoprire il tabacco giusto, anche trecento sigari, scegliendo alla fine il sigaro Winston Churchill, di foglia dal sapore robusto e aromatico.

Lo chef FILIPPO CHIAPPINI ha usato il tabacco in infusione per elaborare una salsa di accompagnamento a un pesce leggermente affumicato. Si può anche usare il vapore di tabacco per cucinare un piatto: del resto, anche lo zafferano o lo zenzero possono essere deliziosi o stucchevoli, dipende dalla mano di chi li usa. DAVIDE SCABIN qualche tempo fa al Salone del Gusto di Torino stupì con la sua scatola affumicatrice, con la quale ogni commensale poteva affumicare piccoli tranci di pesce e molluschi sul proprio piatto partendo dal fumo del proprio sigaro. AIMO e NADIA MORONI hanno scelto il tabacco da pipa, perché più morbido e piacevole in bocca, per un dessert con tre mousse di diversi tipi di cioccolato. LUCIANO TONA di ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, prepara una cioccolata bianca con gel di rum e aria al tabacco, destinata a chiudere un pranzo o una cena di grande livello. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Nota 1. Nata alla fine del 1997, fu la prima rivista italiana per gli amanti del fumo di qualità.

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LIBRI

Guide di gusto per tutti i gusti Riscoprire le città d’arte con un percorso da gourmet tra stelle, cappelli e forchette

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hiocciole, cappelli o forchette? Il mondo delle guide gastronomiche italiane è vario e movimentato e molto spesso ricco di curiosità e retroscena. Proviamo a considerarle dal punto di vista delle città d’arte, come quelle della Pianura Padana ad esempio, che, nelle pause tra un museo e un monumento, sanno farsi apprezzare, e parecchio, a tavola. Prima di entrare nei dettagli delle singole città e dei locali indicati per ognuna, una citazione a parte va fatta per l’Osteria Francescana di MASSIMO BOTTURA, a Modena. Miglior ristorante del mondo secondo “The World’s 50 best restaurants 2016”, nel 2017 è rimasta ai vertici delle

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classifiche di tutte le guide nazionali e internazionali. L’Osteria, sita nel centro storico di Modena, dove assaporare una cucina definita come “collisione di idee, tecniche e culture”, insomma, fa storia a sé, anche nel panorama delle esperienze enogastronomiche consigliate dalle Guide. Per anzianità cominciamo dalla Guida Michelin (www.viamichelin.it/web/ Ristoranti). ANDRÉ ed EDOUARD MICHELIN sono stati i fondatori dell’azienda di pneumatici Michelin. Fu ad André che venne in mente di scrivere una guida che aiutasse i pochi automobilisti dell’epoca — si parla del 1900 — nei loro viaggi, per trovare con facilità luoghi dove dormire, mangiare, fare riforni-

mento o riparare l’auto: nacque così la guida dalla caratteristica copertina rossa. Solo nel 1957 la guida arrivò a comprendere tutta l’Italia e nel 1959 si contavano già 81 locali insigniti di una stella. Le famose stelle Michelin nascono dopo una serie di scrupolosi controlli. Sia per i ristoranti che per gli alberghi gli ispettori si attengono a 5 principi: visite anonime, indipendenza del giudizio, selezioni per categoria di prezzo e di comfort, aggiornamento annuale e omogeneità. La guida del Gambero Rosso prende il suo nome dalla favola di Pinocchio: è l’osteria dove il Gatto e la Volpe portano il burattino, prima di arrivare al Campo dei Miracoli. Gambero Rosso è

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oggi un gruppo editoriale multimediale, con un canale TV e diverse pubblicazioni al suo attivo: la sua Guida è nata nel 1990, dopo il successo ottenuto con la guida dei Vini d’Italia. Le sue recensioni segnalano birrerie e bistrot, non solo ristoranti. Nel 2017 si trovano, per la Lombardia, le recensioni per la Trattoria Ressi di Pavia, l’osteria La Sosta di Cremona e La Coldana di Lodi che è un anche un beerstot oltre che un ristorante. Monza ha ben cinque citazioni mentre Brescia arriva a sette. Per Brescia segnaliamo che esiste un elenco di ristoranti, trattorie e pizzerie citate nelle guide, che si può consultare sul sito istituzionale: www.turismobrescia. it/it/content/i-ristoranti-delle-guideenogastronomiche. Sempre nel 2017 in Emilia-Romagna Parma spicca per l’alto numero di locali recensiti, 11 in totale. Tra questi Inkiostro e Parizzi, insigniti anche di una stella Michelin. Segue Modena, con 8 locali. In città L’Erba del Re annovera tra i riconoscimenti una stella Michelin, due cappelli della Guida L’Espresso e due forchette del Gambero Rosso; alti anche i punteggi del Gambero Rosso per Hosteria Giusti e Strada facendo. Reggio Emilia e Piacenza seguono, rispettivamente con tre e due locali citati. La Guida de L’ESPRESSO esprime in “cappelli” i propri pareri: si va dai 5 cappelli “il meglio in assoluto” fino al singolo cappello, simbolo di una “buona cucina”. Come anticipato i 5 cappelli lo scorso anno erano per l’Osteria Francescana di Massimo Bottura; Miramonti l’Altro e Villa Feltrinelli, oltre alla doppia stella Michelin hanno ottenuto anche i tre cappelli, che stanno a significare “cucina ottima”. Per i già citati Erba del Re e Inkiostro due cappelli, simbolo di “cucina di qualità e di ricerca”. Regione per regione, i cappelli assegnati si possono consultare sulla guida on-line (temi.repubblica.it/espresso-espressoguide-ristoranti-2017/2016/10/18/iristoranti-regione-per-regione). Guida Osterie d’Italia di Slow Food (www.slowfood.it) assume come criterio fondamentale la ricerca di locali con cucina di tradizione e cibo buono, pulito e giusto. Altri criteri di classificazione sono le fasce di prezzo: di recente sono state istituite 3 fasce: sotto i 25 euro, dai 26 ai 35 euro e oltre i 35 euro.

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Massimo Bottura al lavoro nel suo locale di Modena, l’Osteria Francescana. Ritenuto il miglior ristorante al mondo nel 2016, il locale è ancora ai vertici delle classifiche di tutte le guide nazionali e internazionali. Parma compare nell’edizione 2017 con due indirizzi: Ai due Platani, segnalato anche dalla Guida Michelin per il buon rapporto qualità/prezzo, e la trattoria Antichi Sapori. Infine una guida un po’ diversa, non solo per il nome: Il Mangiarozzo. Presente nel panorama editoriale da più di 10 anni, questa guida considera 4 requisiti per la recensione: essere in un luogo storico o una tavola storica; fare cucina di tradizione e di territorio; avere una gestione/servizio familiare e infine presentare un conto, bevande

escluse, sotto i 45 euro. La guida non dà voti ma segnala, descrive piatti e ambiente per ogni locale e indica anche gli eventi organizzati. Segnaliamo la presenza — nell’edizione 2017 — di Pavia con l’Osteria alle Carceri, e Piacenza, con due trattorie, Dell’Angelo e San Giovanni. Armatevi quindi di un sano appetito e partite per un safari enogastronomico nelle città d’arte, all’insegna del buon cibo e del buon vino. Fonte: Circuito Città d’Arte della Pianura Padana

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Osterie d’Italia, il racconto della nostra identità

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entirsi a casa: è questa la sensazione che i locali recensiti nella 28a edizione di Osterie d’Italia suscitano nei propri frequentatori. «Nella guida ci sono le osterie che incarnano al meglio l’autenticità della cucina italiana, una cucina semplice, priva di barocchismi ed eccessi di lavorazione che hanno il solo fine di stupire. Una cucina che non cerca di uniformarsi in un unico stile con cotture millimetriche, sottolinea le differenze e non si piega alle mode» si legge nell’introduzione di MARCO BOLASCO ed EUGENIO SIGNORONI, i due curatori di questo sussidiario del man-

giarbere all’italiana. «In un panorama gastronomico affollato, la guida rimane un pilastro di attendibilità. La selezione di Slow Food è un ritorno alle origini, una ricerca di quelle tipicità radicate al territorio, in controtendenza a una globalità che tende a rendere tutto uguale. Noi siamo cresciuti in osteria, i clienti ci hanno visto crescere. Ecco, questa sensazione di grande famiglia noi la ritroviamo nella guida» ci racconta Sofia, figlia di Angelina, abile cuoca della storica osteria campana ‘E Curti, di Sant’Anastasia (NA), gestita dalla stessa famiglia da ben quattro generazioni a partire dal 1924. «Non c’è

molto da dire» aggiunge Enzo, gestore della trattoria Di Pietro di Melito Irpino (AV), presente fin dalla prima edizione. «Osterie d’Italia è la numero uno. E il riscontro è effettivo: tutti quelli che vengono da me dicono che quando consultano la guida di Slow Food non sbagliano mai». 1.616 le osterie recensite nell’edizione 2018, di cui la maggior parte con un menù che non supera i 35 euro. In continuità con la scorsa edizione, i locali un po’ più cari della media sono segnalati dal bollino con Euro e freccia, mentre il bollino Novità sta, naturalmente, per le nuove segnalazioni, che

Angela Ceriello è la colonna del ristorante ‘E Curti a Sant’Anastasia, paese a pochi chilometri da Napoli. È la memoria storica e la mano che ha raccolto in cucina il testimone di un’osteria nata quasi cent’anni fa, nel 1924 (photo © Davide Gallizio).

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MARCO BOLASCO E EUGENIO SIGNORONI (a cura di) Osterie d’Italia 2018 Sussidiario del mangiarbere all’italiana 896 pp. – € 22.00

I numeri: • 1.616 osterie segnalate in guida • 176 nuove segnalazioni • 275 chiocciole, i locali che meglio incarnano il modello di osteria • 207 osterie da visitare per la notevole selezione di formaggi • 400 osterie consigliate per la carta dei vini attenta al territorio • 347 indirizzi dove acquistare prodotti di qualità, gustare un buon gelato o fermarsi per un piacevole aperitivo • 456 locali con un orto di proprietà • 373 osterie che propongono un menù vegetariano • 310 osterie con alloggio

La ristorazione, attraverso le proprie scelte e le proposte ragionate, svolge da sempre un ruolo significativo nella valorizzazione di prodotti e territori. E gli osti segnalati nella guida, veri e propri ambasciatori dei messaggi di Slow Food, con la loro capacità di raccontare ogni più piccola sfumatura del lavoro che svolgono, fanno emergere la biodiversità delle produzioni alimentari, le vocazioni territoriali e il rispetto delle trazioni

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Bucatini con soffritto del ristorante ‘E Curti (photo © www.facebook.com/ecurti1924). sono 176, ad indicare un fenomeno in continua evoluzione e crescita. Il simbolo dell’Annaffiatoio indica i locali con un orto di proprietà, la Chiave quelli dove si può anche dormire, il Formaggio è usato per quelli che propongono una selezione di prodotti caseari di qualità, la Bottiglia per un locale dalla proposta di vini articolata, rappresentativa del territorio, con prezzi onesti e, infine, la Chiocciola, dedicata ai locali più in sintonia con i principi di Slow Food. Inoltre, ci sono caratteri speciali per indicare quali osterie aderiscono al progetto Alimentazione Fuori Casa dell’Associazione Italiana Celiachia e quali all’Alleanza tra i cuochi e i

presidi Slow Food, cioè dove si utilizzano regolarmente nei menù almeno tre presidi della propria regione. «La ristorazione, attraverso le proprie scelte e le proposte ragionate, svolge da sempre un ruolo significativo nella valorizzazione di prodotti e territori. Per questo motivo gli osti segnalati nella guida, rappresentano dei veri e propri ambasciatori dei nostri messaggi, con la loro capacità di raccontare ogni più piccola sfumatura del lavoro che svolgono, facendo emergere la biodiversità delle produzioni alimentari, le vocazioni territoriali e il rispetto delle trazioni» dichiara GAETANO PASCALE, presidente di Slow Food Italia.

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Cibo è potere (e libertà)

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ibo è sinonimo di potere, declinabile sotto numerosi punti di vista. Perché nel cibo sta scritta la nostra storia, la nostra cultura, la nostra identità. Il potere del cibo, un vizio contro il quale si scagliavano le religioni, oggi sostituite dalle scienze mediche più miopi e tecnologicamente restrittive, si manifesta in un’infinita varietà di elementi, costitutivi di un’umanità che, unica tra tutti i viventi, ha inventato e sviluppato la cucina e la gastronomia, trasformandole in fonte di nuovi piaceri, ma anche inediti, inaspettati e particolari poteri. Partendo da questi presupposti, GIOVANNI BALLARINI, professore emerito dell’Univer-

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sità di Parma, dove ha insegnato per cinquant’anni, e presidente onorario dell’Accademia Italiana della Cucina, firma ora per Diabasis Cibo è potere. Per una libertà alimentare, un saggio dal titolo programmatico nella visione, coerentemente sviluppata dai sedici capitoli che la compongono. Ne scaturisce un’analisi seria e approfondita, frutto di oltre trent’anni di studi sugli aspetti culturali dell’alimentazione umana. Nella prefazione, FRANCO CARDINI, rovesciando la celebre massima di FEUERBACH, spiega che “l’uomo mangia quello che è, costruisce mangiando il proprio corpo e quindi la propria identità, la propria personalità”. Bisogna ricor-

GIOVANNI BALLARINI Cibo è potere. Per una libertà alimentare Diabasis, 2017 254 pp. – € 18,00

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darselo. Così come dobbiamo tenere presente un insegnamento prezioso che emerge da queste pagine di Ballarini, il quale dimostra “a gourmet/cibomani del nostro tempo che il cibo è fatto per l’uomo e non l’uomo per il cibo”. Molte le implicazioni di questa constatazione. Ecco, dunque, che, nell’introduzione, l’autore precisa: “il potere del cibo è solo un aspetto di un molto più vasto quadro o sistema di poteri che ogni società regola attraverso indispensabili elementi e strumenti di controllo”. Fin dall’antica Roma (si pensi a CATONE o TRIMALCIONE), si capisce, fra l’altro, come il cibo, sia stato il principale elemento di distinzione fra le classi. Senza contare che alcuni cibi, come la carne, si sono imposti come simbolo di potere laico e religioso. Ma c’è molto di più: negli alimenti troviamo radici simboliche e mitiche, che hanno a che fare con l’identità stessa di una civiltà, oltre che con la psiche individuale. Perciò, dalle parole alla religione, esiste una connessione forte tra ciò che siamo, ciò in cui crediamo e ciò che mangiamo.

Negli alimenti troviamo radici simboliche e mitiche, che hanno a che fare con l’identità stessa di una civiltà, oltre che con la psiche individuale. Perciò, dalle parole alla religione, esiste una connessione forte tra ciò che siamo, ciò in cui crediamo e ciò che mangiamo Nel saggio, l’autore, che spazia con efficacia tra diverse aree disciplinari, dall’antropologia all’economia, non tralascia il tema della cucina (interessanti le osservazioni sull’evoluzione storica della figura del cuoco) e indaga anche aspetti legati al mondo contemporaneo, come il potere degli imperi alimentari e quelli del mercato, ma anche i cosiddetti poteri deviati (terrorismo, fondamentalismo, complottismo alimentare e persuasione occulta), per approdare a macrotemi decisivi ed epocali, come quelli del cibo in relazione al clima e all’ambiente, senza dimenticare la gestione delle risorse e la fame del mondo. Prima della bibliografia è for-

mulata la tesi a cui approda questo articolato e stimolante saggio: occorre costruire una libertà alimentare. “Nell’attuale complessità dell’antropologia alimentare umana diviene importante riaffermare l’indispensabile valore di una libertà alimentare che, come ogni altra libertà, è continuamente minacciata da sempre nuovi divieti, in parte sostenuti o favoriti dai risorgenti fondamentalismi”. Potrebbe servire una legge? O potrebbe essere più efficace un’educazione alimentare a tutto tondo? Il tema del cibo e delle sue implicazioni, come dimostra questo stesso libro, è complesso e la discussione è aperta. Come la stessa “non conclusione”, del resto, auspica.

Le città invincibili: Matera 2019

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apitale europea della cultura si diventa. Il titolo assegnato a Matera per il 2019 è frutto di un lungo e intenso lavoro che ha visto protagonisti cittadini, istituzioni e professionisti della cultura. In questo diario di bordo, SERAFINO PATERNOSTER, giornalista, critico musicale, esperto di comunicazione e caposervizio dell’ufficio stampa della giunta regionale della Basilicata, racconta come è nata la candidatura e come si è sviluppata attraverso progetti e attività che dal 2010 al 2015 hanno portato Matera sempre di più alla ribalta sul piano nazionale e internazionale. Le città hanno un corpo e un’anima, non possono restare immobili e ancorate alla loro storia. Le politiche

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pubbliche devono governare il cambiamento attraverso idee, azioni e strategie lungimiranti. Anche a questo servono le competizioni di capitale europea e capitale italiana della cultura. Dall’esperienza di Matera tutte le città possono trarre un consiglio: non basta essere belle, non basta avere una ricca storia, uno straordinario patrimonio culturale, un paesaggio unico. Per diventare invincibili occorre costruire un modello di cambiamento e una visione di futuro. SERAFINO PATERNOSTER Le città invincibili L’esempio di Matera 2019 Editrice UniversoSud 416 pp. – € 14,90

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Sessanta cose impossibili prima di pranzo

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lice si mise a ridere. «È inutile che mi ci provi, non si può credere alle cose impossibili». «Forse non hai la pratica necessaria — disse la Regina. — Quando io avevo la tua età, mi esercitavo per mezz’ora al giorno. Ebbene, a volte credevo nientemeno che a sei cose impossibili prima di colazione»” (da LEWIS CARROLL, “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”). L’amabile conversazione fra Alice e la Regina Bianca è il punto di partenza di questo surreale libro di Harriet Russell. Chi è venuto prima, l’uovo o la gallina? Dov’è il centro di nessun posto? Come si arriva alla fine di un arcobaleno? E dove trovare l’ago nel pagliaio? Ci sono domande che non hanno risposte o che sono così difficili da essere impossibili. Altre ancora hanno così tante risposte che è impossibile darne una sola. A tutti i curiosi che si

sono cimentati con domande, idee e indovinelli così singolari, questo libro offre la possibilità di credere fino a 60 cose impossibili prima di pranzo! E, come nel romanzo di Lewis Carroll, pagina dopo pagina le illustrazioni di Harriet Russell costruiscono un mondo in cui le cose non sono poi così impossibili come sembrano… L’autrice Harriet Russell ha studiato alla Glasgow School of Art e alla Central Saint Martins a Londra. Collabora con case editrici e quotidiani come PENGUIN, THE GUARDIAN, INDEPENDENT ON SUNDAY, RANDOM HOUSE, PHAIDON e molte altre. Vive e lavora a Londra. “Sessanta cose impossibili prima di pranzo” è il suo quinto libro per Corraini, dopo “A come rinoceronte”, “Un libro da colorare per i pigri”, “Il libro per contare che non conta niente” e “Giacomino e il fagiolo magico”.

HARRIET RUSSELL Sessanta cose impossibili prima di pranzo Mantova, 2011, Corraini Edizioni www.corraini.it 96 pp. – € 16,00 Lingue: disponibile in italiano e inglese

Una pagina illustrata dal libro di Harriet Russell edito da Corraini.

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