Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXVII N. 4 Luglio-Agosto 2015
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N. 4 Anno XXVII Luglio-Agosto 2015
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Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910
Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 – New York, NY 10128 Tel. 001 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.
Premiata Salumeria Italiana, 4/15
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N. 4
In questo numero: Immagini
10
Agenda
12
Tendenze
Taglieri stilosi
Legislazione
Made in Italy e Italian sounding
Vito Rubino
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Il food in rete
Social food La bufala in rete corre veloce
Elena Benedetti Sebastiano Corona
28 31
Comunichiamo
Facebook, pubblicità e target
Chiara Russotto
36
Aziende
Pasquini Marino, l’arte della lavorazione del legno “su misura”
Gaia Borghi
40
La Qualità
Speck Alto Adige Igp, un alleato per l’estate
44
Consorzi
Prosciutto di Parma: Vittorio Capanna presidente
48
Sapori dal mondo
Club sandwich, bontà a più strati
Clara Scaglioni
50
Trend
Indovina chi viene a cena
Sebastiano Corona
54
Locali di gusto
Nizzoli, il tempio delle lumache
Pier Giovanni Bracchi 58
Eventi
Notte dei Culatelli: and the winner is…
Elena Benedetti
Rassegne
Il prosciutto di San Daniele tra musica e spettacoli
Fiere
Summer Fancy Food Show 2015, Italia Paese partner e sponsor Meno quantità e più qualità: il futuro del food è ad Anuga
Elena Benedetti
68 72
Week-end
Sapori di Maremma
Luciana Squadrilli
76
Premiata Salumeria Italiana, 4/15
16
60 64
7
Formaggio
Squacquerone, delizia Dop di Romagna Il Graukäse della Valle Aurina
Nunzia Manicardi Raffaele Bertolini
80 84
Olio
L’albero più rappresentativo del creato
Angelo Valentini
88
Vino
L’uva del dragone Joe Bastianich, ritorno alle origini del gusto
Riccardo Lagorio Tania Mauri
92 96
I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: vini d’Istria
Laura Franchini
98
Birra
Gli Italiani fanno anche la birra. E la fanno ottima
Sebastiano Corona
Tecnologie
Etichettatura alimenti e gestione valori nutrizionali: tutti i dati direttamente dal sistema Testo 270 per oli di frittura: ogni goccia è preziosa Laser e prosciutti
Statistiche
La produzione di salumi nel 2014
Storia e cultura
Grassi animali alimentari
Libri
The Geometry of Pasta Food Book Maiali si nasce, salami si diventa
100 104
Elena Benedetti
106 108 110
Giovanni Ballarini
112 118 119 119
In copertina: bocconcini di Coppa piacentina DOP con scaglie di Pecorino sardo DOP (photo © Massimiliano Rella).
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Immagini
Albero longevo e simbolico, l’olivo ha origini lontane che vanno ricercate nel VI millennio a.C. nell’area siro-palestinese. I suoi frutti erano e sono utilizzati tuttora nella preparazione di alimenti, unguenti medicinali o di bellezza. Ancora oggi, ad esempio, è tradizione regalare l’olio di oliva per alimentare la lampada votiva a San Francesco d’Assisi in segno di fede e gratitudine. Altre storie e virtù di questa pianta ce le racconta Angelo Valentini a pagina 88.
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Agenda
15 regioni italiane Cinemadivino è il titolo della rassegna itinerante eno-gastro-cinematografica che per tutta l’estate 2015 (luglio, agosto, fino ai primi di settembre) porta i migliori film della stagione appena trascorsa, da “Birdman” a “Whiplash” ad “American Sniper”, e alcuni dei migliori film di sempre, come “Soul kitchen” e “Jesus Christ Superstar”, direttamente nelle cantine di 15 regioni d’Italia. Ma quanto è bello immergersi tra le vigne nella visione di un bel film mentre si sorseggia anche un buon calice di vino, magari degustando qualche piatto tipico regionale? Cinemadivino, infatti, non propone solamente il film, ma una vera e propria esperienza di convivialità: si parte, per chi lo desidera, con la visita guidata della cantina e la conoscenza dei produttori; si prosegue cenando direttamente nell’azienda o con lo street food del foodtruck di Cinemadivino; si continua con la degustazione di tre calici di vino dell’azienda e, infine, si assiste alla proiezione cinematografica. Nel corso di alcune serate è possibile incontrare registi e attori che introducono i loro lavori. Emilia-Romagna (dove la rassegna è nata oltre 10 anni fa), Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Liguria, Veneto, Marche, Abruzzo, Umbria, Toscana, Sardegna, Campania, Basilicata, Puglia, Molise, Lombardia sono le regioni coinvolte in questa rassegna itinerante. www.cinemadivino.net
Torino Segnaliamo una bella mostra, Time Table, in calendario fino al 18 ottobre all’interno del Palazzo Madama di Torino sul tema della tavola imbandita attraverso i secoli. Si tratta di una sorta di viaggio nel tempo alla scoperta della convivialità, dei riti sociali e dei piccoli grandi momenti della vita quotidiana. Dalla tavola di Re Artù a oggi, Time Table evoca il tempo e lo spazio della condivisione che nelle società occidentali è rappresentato dalla tavola imbandita. Il percorso è articolato in sei tavoli principali, disposti radialmente intorno ad un fulcro centrale come le lancette di un grande orologio che scandisce il tempo della storia e della memoria. Su ogni tavolo si dispongono gli oggetti ideati e creati in ogni tempo da artisti e artigiani per accompagnare i riti della convivialità. Piatti, tazze, zuppiere, fiasche, bottiglie e bicchieri, ma anche manufatti meno noti come i rinfrescatoi e il vasellame “a sorpresa”. Orari: lunedì 10:00-18:00; martedì chiuso; mercoledì-sabato 10:00-18:00; domenica 10:00-19.00 (a lato, un piatto di porcellana dipinta di blu del tipo Kraak Porcelain Cina, dinastia Ming, era Wanli, 1573-1619; photo © Fondazione Torino Musei). palazzomadamatorino.it
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Roma Bella, anzi, bellissima la mostra L’eleganza del cibo – Tales about food & fashion in calendario ai Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali di Roma in via IV Novembre 94 e aperta al pubblico fino al 1o novembre (dal lunedì alla domenica, 9:30-19:30). La mostra, a cura di Stefano Dominella, con la consulenza storica di Bonizza Giordani Aragno, vuole raccontare la contaminazione tra le culture della moda e della nutrizione, due aspetti del patrimonio nazionale tra i più apprezzati e conosciuti al mondo. Il cibo è fame, il cibo è ricco e povero, il cibo è scoperta, è viaggio, il cibo è calore, è gioia, è denaro e spreco, è est e ovest, è casa e strada, è gioco, lavoro e festa. Il cibo è terra, è aria, è acqua, è fuoco, il cibo è mio, il cibo è tuo, il cibo è di tutti perché il cibo è vita per gli esseri umani e per il pianeta. Nell’anno di Expo 2015, il cibo e le materie prime della natura rappresentano il fil rouge dell’esposizione dove protagonista è la moda di ieri, di oggi e di domani. Abiti, accessori, immagini fotografiche e video, ologrammi, video mapping e visualart costituiscono un percorso creativo contemporaneo, dove il made in Italy, l’alto artigianato e quindi la tradizione del “bello e ben fatto” sono espressione di come e quanto la moda abbia saputo trarre ispirazione dalla nutrizione (in basso, un’opera della fotografa tedesca Helge Kirchberger; photo © Helge Kirchberger). leleganzadelcibo.com
Sant’Agostino (FE) Dal 29 agosto al 13 settembre torna la Sagra del Tartufo di Sant’Agostino (FE), che ha raggiunto quest’anno la sua 36a edizione. Per 16 giorni, i cuochi e le cuoche (ci sono anche tante nonne) chiamati a raccolta dall’Associazione Amici del Territorio della Comunità di Sant’Agostino, preparano menu di qualità a base di tartufo, tra cui la “parmigiana al tartufo e Parmigiano Reggiano” e i “tortellini al tartufo fatti a mano”, specialità che identificano la manifestazione. La sagra è sostenuta da Appennino Food. www.appenninoft.it
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Val di Funes (BZ) Nel primo fine settimana di ottobre torna l’appuntamento per tutti i buongustai e gli amanti del re dei salumi altoatesini: lo speck! Santa Maddalena, paesino nel cuore della Val di Funes, incorniciato dall’incantevole profilo naturale del gruppo alpino Odle, ospita l’appuntamento annuale con la Festa dello Speck Alto Adige e si prepara ad accogliere un numero di visitatori che cresce di anno in anno. Due giorni, 3 e 4 ottobre, ricchi di appuntamenti per grandi e piccini: dalle danze folcloristiche agli spettacoli musicali e i concerti, dallo spazio dedicato ad informazioni relative al prodotto con un percorso sensoriale, al mercato contadino e di artigianato locale, dall’incoronazione della nuova “Regina dello Speck” all’estrazione della lotteria con ricchi premi, il tutto condito da ottime degustazioni di speck Alto Adige IGP. Ricordiamo anche che, contemporaneamente alla festa, si svolgerà a Bressanone il tradizionale Mercato del Pane e dello Strudel Alto Adige (photo © Südtirol Marketing/Ingrid Heiss). www.festadellospeck.it — www.mercatodelpane.it
Bra (CN) A Bra, dal 18 al 21 settembre, Cheese, la manifestazione internazionale che dal 1997 si batte a favore del latte crudo, delle produzioni d’alpeggio e delle razze autoctone, dirà un forte no ai formaggi “senza latte”. L’Italia dell’agroalimentare di qualità, infatti, ancora una volta subisce un attacco sleale e, stavolta, ad essere colpito al cuore è il settore che più di tutti rappresenta la biodiversità e il savoir-faire del nostro Paese: il formaggio. Il pressing arriva dalla Commissione europea con una lettera di diffida che chiede all’Italia di abrogare la Legge nazionale 138 dell’11 aprile 1974. Una norma italiana, di cui andare fieri, che vieta l’uso di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito per fare yogurt, caciotte, robiole, mozzarelle. Secondo Bruxelles tale provvedimento rappresenterebbe una restrizione alla “libera circolazione delle merci”. «Auspichiamo che il Governo italiano difenda questa normativa che ci ha consentito fino a oggi di consumare ed esportare prodotti che non hanno eguali nel mondo», commenta PIERO SARDO, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. «Il prossimo settembre a Bra ci saranno i migliori produttori europei per combattere insieme a noi quest’ultima assurdità e lavorare affinché l’esempio italiano si estenda a tutta l’Europa». In Italia esistono oltre 400 tipi di formaggi: piccole produzioni che potrebbero determinare il futuro dell’agricoltura e dell’artigianato alimentare nazionale e non. È necessario difenderle attraverso leggi ad hoc e combattere la tendenza verso l’omologazione delle materie prime, delle tecniche, della provenienza. Dall’altro lato, è necessario informare i consumatori affinché possano scegliere consapevolmente cosa stanno mangiando e, conseguentemente, quale tipo di agricoltura e di allevamento stanno sostenendo. In questo senso, sono fondamentali le etichette che, nel caso dei formaggi ad esempio, non sono esaustive con quel semplice “latte, caglio e sale” previsto dalla legge. cheese.slowfood.com/it 14
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Tendenze
Taglieri stilosi
Fotografare il cibo è un esercizio di stile fortemente evocativo e suggestivo. Serve la luce giusta, calda e avvolgente. Spesso quella naturale è la migliore. Il materiale di corredo è fondamentale, tra tessuti, taglieri, complementi di arredo e, naturalmente, i cibi che restano i protagonisti assoluti dello scatto. Ne sa qualcosa BETH KIRBY, food blogger e fotografa americana che con il suo localmilkblog.com è oggi conosciuta in tutto il mondo. I suoi taglieri sono incantevoli per l’equilibrio che Beth crea con i vari salumi, i formaggi, la frutta e le conserve (photo © Beth Kirby; Flickr).
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Legislazione Identità culturale e tutela dell’origine dei prodotti enogastronomici
Made in Italy e Italian sounding di Vito Rubino
N
ell’ambito di Expo 2015, l’Esposizione universale dedicata al tema “Nutrire il Pianeta. Energia per la vita”, oltre 130 Paesi si stanno confrontando con il problema del nutrimento dell’uomo, concentrandosi sulle principali sfide che un tema così delicato implica per il futuro del genere umano. Al centro della proposta c’è “l’urgenza di descrivere e confrontarsi sulla storia dell’uomo e sulla produzione di cibo, nella sua doppia accezione
di valorizzazione delle tradizioni culturali e di ricerca delle nuove applicazioni tecnologiche” 1. Dal cibo dipende l’esistenza umana e le sue condizioni, come testimoniano le tragiche immagini delle aree del mondo colpite da carestie per disastri naturali, guerre o sovrappopolamento che quotidianamente i media ci consegnano. Ma il cibo è qualcosa di più di un semplice mezzo di sopravvivenza: è identità culturale e religiosa, ed è strettamente connesso al modo di essere di ciascuno di noi.
Il filosofo FEUERBACH, rielaborando le osservazioni di Ippocrate, sintetizzava il legame fra ambiente, alimentazione ed identità con la frase “der Mensch ist, was er isst”; l’uomo è ciò che mangia2. Se l’affermazione può apparire per certi aspetti eccessiva, è sicuramente vero che il cibo non ha solo effetti sulla salute, ma influenza tutta la dimensione della persona. Le prime forme di “arte” del genere umano sono probabilmente le pitture rupestri paleolitiche raffiguranti
Pasta, pomodoro e basilico: sono questi gli elementi che compongono il trittico dell’italianità nell’immaginario collettivo (photo © expo.cnr.it).
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gli animali e la caccia; Greci e Latini conoscevano bene il legame fra cibo, salute, identità religiosa e costumi; praticamente tutte le religioni contemplano in varie forme il rapporto fra l’uomo e gli alimenti, anche se, forse, nessuna come il cristianesimo ha fatto proprio questo legame al punto da trasformare il pane e il vino nei simboli della comunione fra l’uomo e la divinità. Il binomio alimentazione-identità culturale ha, infine, trovato riconoscimento anche nei giorni nostri grazie all’inserimento della “dieta mediterranea” nel “patrimonio culturale immateriale dell’umanità” dell’UNESCO3, rapporto che si estende al paesaggio e al “saper fare tradizionale”, come dimostra l’analogo riconoscimento conferito nel 2014 alla zona vitivinicola delle LangheRoero Monferrato inclusa nei “siti patrimonio dell’umanità”4. Sicché, si può effettivamente ritenere che l’alimentazione costituisca un elemento fondamentale per l’identificazione di un gruppo, esprimendo caratteri, valori, tradizioni e conoscenze, nonché contribuendo alla definizione di una determinata popolazione tanto sotto forma di autoconsapevolezza, quanto all’esterno, nella percezione del mondo. La sua difesa diventa, quindi, in certa misura anche la difesa della nostra stessa identità. Nel contesto descritto il diritto interviene con strumenti di regolazione diretti tanto alla protezione della tipicità di alcuni cibi (ossia al riconoscimento, alla conservazione ed alla protezione sul mercato di quei prodotti che possiedono un legame esclusivo con l’ambiente naturale e umano da cui discendono), quanto, più in generale, della determinazione e della tutela dell’origine dei prodotti agricoli e alimentari, intesa come comunicazione sul mercato della provenienza geografica di un prodotto, anche di natura industriale, attraverso l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità. Il tema è divenuto negli ultimi anni una vera e propria battaglia per l’Italia, che vede nel proprio tratto identitario (c.d. “made in Italy”) la chance fondamentale per il superamento dell’attuale stato di crisi e la
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conservazione della propria specificità nell’economia mondiale. Sulla questione della tutela dell’origine, tuttavia, si constata frequentemente un certo grado di confusione fra i richiamati istituti giuridici e le relative finalità normative, con il risultato di diffondere una percezione di inadeguatezza dell’attuale apparato normativo e al contempo sollecitare letture estreme della normativa che possono addirittura ritorcersi contro le produzioni nazionali. La tutela dei c.d. “prodotti tipici” è senz’altro la prima e la più importante forma di protezione dell’origine e dell’identità degli alimenti. Normalmente questi prodotti incorporano nella propria denominazione l’indicazione geografica, che caratterizza lo speciale legame con il territorio da cui provengono, motivo per cui la loro protezione passa necessariamente per l’instaurazione di una “privativa” sul toponimo, ossia l’imposizione di un divieto di utilizzo di quel riferimento geografico per prodotti che non rispondano ai requisiti del disciplinare consacrato nel tempo e che non provengano dalla relativa zona d’origine. Gli strumenti internazionali di tutela di questi prodotti sono quindi nati nell’alveo del diritto industriale: la Convenzione di Unione di Parigi del 1883, nel regolare i marchi, ha per la prima volta incluso le denominazioni d’origine fra i diritti proteggibili; nel 1958 alcuni Stati hanno sottoscritto a Lisbona un ulteriore accordo che ha creato un vero e proprio registro multilaterale dei nomi geografici che i contraenti si impegnano a riconoscere e proteggere nell’ambito dei propri ordinamenti; l’Accordo TRIPs6 allegato al Trattato di Marrakech istitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio colloca i toponimi fra i diritti della proprietà intellettuale correlati al commercio, e dedica due distinti articoli alla protezione delle denominazioni geografiche dei vini (cfr. art. 23) e degli altri prodotti (cfr. art. 22). Nel contesto descritto, molti Paesi hanno scelto di assimilare i toponimi ai marchi, consentendone la registrazione da parte dei soggetti interessati. È così avvenuto, ad
Utilizzato fin da subito all’interno del Padiglione del Vino e del Padiglione del Cibo a Expo 2015, segno unico distintivo per le produzioni agricole e alimentari italiane, “The Extraordinary Italian Taste” è stato presentato lo scorso maggio nei primi giorni di apertura dell’Esposizione Universale. Si tratta di un marchio che serve alla promozione del made in Italy agroalimentare sotto una bandiera unica e al contrasto dell’Italian sounding. Nelle fiere ad esempio il logo servirà a caratterizzare in modo univoco l’area espositiva dedicata all’Italia del cibo e del vino.
esempio, che in Canada il marchio “Parma Ham” sia stato registrato da un’azienda, e, in applicazione del principio “first in time, first in right”, la relativa denominazione sia stata preclusa ai prodotti effettivamente originari dell’Italia. L’Unione Europea ha, invece, pun tato sull’impiego di queste denominazioni come strumenti di sviluppo rurale, collocandole all’interno di norme la cui base giuridica è la politica agricola e caricandole di una vera e propria valenza pubblicistica. Analizzando il caso dei prodotti diversi dagli alcolici, la scelta del legislatore europeo appare chiara: a partire dal 1992 il Regolamento 2081 ha unificato le sigle (DOP, Denominazione di Origine Protetta; IGP, Indicazione Geografica Protetta7) e il sistema di registrazione (unico per tutta l’Unione Europea) sulla base dell’articolo 43 TCE (PAC). In questo modo si è venuto a creare un vero e proprio “elenco” di nomi, la cui inclusione nella lista
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Parmigiano Reggiano (photo © Yves Roland, mangiarebuono.it). dei toponimi protetti a livello UE ne inibisce l’utilizzo da parte dei soggetti non legittimati, che assicura una protezione contro l’impiego diretto o indiretto per prodotti non DOP-IGP, l’usurpazione, imitazione o evocazione, le indicazioni false o ingannevoli sulla vera origine dei prodotti ed ogni altra pratica capace di indurre in errore il consumatore riguardo la vera origine dei prodotti non registrati (cfr. art. 13 Reg. 1151/2012 UE). La tutela descritta è andata nel tempo via via espandendosi, fino ad includere oggi l’obbligo di attivazione degli Stati “ex officio” contro le frodi o i tentativi di usurpazione stabilito nell’ultimo aggiornamento della disciplina in cui, non a caso, il legislatore UE ha abbandonato nel titolo il riferimento alla protezione dei nomi geografici per passare in senso decisamente più ampio alla disciplina dei “regimi di qualità” dei prodotti agricoli e alimentari. Come si può facilmente intuire, l’attribuzione a questi istituti giuridici di compiti e valenze
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ulteriori rispetto alla semplice protezione di un diritto di proprietà industriale può generare incertezze applicative, soprattutto nella declinazione in concreto del rapporto fra questi prodotti e i principi generali sulla concorrenza. Così, a titolo esemplificativo, la Corte di giustizia CE nel caso “Cambozola”, chiamata a decidere se questa denominazione potesse essere evocativa del noto “Gorgonzola DOP”8, ha tratto elementi di valutazione dalla percezione del consumatore non solo con riferimento alla fonetica, ma anche alla morfologia del prodotto: entrambi i formaggi si presentavano con le classiche striature derivanti dall’erborinatura ed erano quindi, a giudizio della Corte, sovrapponibili nell’immaginario collettivo. Al contempo, per difendere la funzione remunerativa del prodotto DOP, la Corte, con due sentenze sul Prosciutto di Parma e il Grana Padano9, nel 2003 ha stabilito il divieto di confezionamento all’estero, ancorché il know-how e le condizioni
ambientali risultassero astrattamente riproducibili anche in zone diverse da quella d’origine. Nel solco di questa visione “elitaria”, che pone al centro del sistema la necessità di conferire ai nomi registrati dalla UE maggiore visibilità e rimuneratività sul mercato, la Corte di giustizia, nel 2009 con la sentenza BUD II, ha infine stabilito che l’esaustività del regolamento sulle DOP-IGP impedisce agli Stati Membri di creare sistemi di riconoscimento e protezione “a livello nazionale” di prodotti che possiedano le caratteristiche per accedere alla tutela europea, con il risultato di sguarnire di protezione i toponimi nella fase più delicata della loro esistenza: l’embrionale affermazione della loro notorietà sul mercato locale. L’attuale fase evolutiva di questi istituti genera comunque estrema conflittualità commerciale fra i prodotti DOP-IGP e quelli simil-generici, che, pur rivendicando funzionalità similari, non impiegano la denominazione protetta e non si assoggettano al
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Prosciutto di Parma (photo © Alessandro Carra, ilmattinodiparma.it). costoso sistema dei controlli imposto dalla normativa. La competizione in questi casi avviene solo in forma indiretta e sul piano commerciale, come ha evidenziato una ricerca del 2012 della nostra Università sul grado di consapevolezza dei consumatori, in relazione alle differenze fra Grana Padano DOP e altri formaggi da grattugia di varia provenienza esposti in forma promiscua negli scaffali dei supermercati. La questione è estremamente delicata, anche perché in alcuni casi le produzioni “generiche” sono effettuate sullo stesso territorio della DOP e recano in etichetta richiami all’origine che possono trarre in confusione il consumatore, sebbene in sé veritieri e quindi non censurabili sul piano giuridico10. La diversità di concezioni (privatistica, che consente la registrazione dei toponimi come marchi, e pubblicistica, che vede nei nomi geografici l’espressione di un territorio e della sua cultura) ha portato di fatto alla paralisi dei negoziati, per l’implemen-
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tazione dell’articolo 22 del Trattato di Marrakech sulla protezione delle indicazioni geografiche nell’ambito WTO, e al tentativo della UE di procedere autonomamente con accordi bilaterali con singoli Stati. La tutela internazionale di questi prodotti resta, quindi, ancora frammentaria, consentendo talora clamorose contraddizioni del rispetto dell’identità enogastronomica dei popoli, come dimostra la nascita negli USA di un vero e proprio “Consortium for common food names”, che professa il diritto all’uso di nomi ritenuti generici, come “Asiago” o “Parmesan”, nel marketing di alimenti totalmente realizzati all’estero e interviene anche in Europa con opposizioni e azioni di contrasto alla registrazione di nuove indicazioni geografiche. Sul diverso versante dei prodotti che non possiedono un legame agri-qualitativo con il territorio, ma sono comunque espressione delle tradizioni produttive italiane, la battaglia si sposta sul concetto più generale di made in Italy e
sull’indicazione dell’origine nell’etichettatura. Com’è noto, la normativa europea esclude per la maggior parte dei prodotti l’obbligo di indicazione dell’origine, imponendola solo quando la sua omissione potrebbe trarre il consumatore in inganno circa la reale natura del prodotto offerto in vendita11. L’impostazione deriva dal timore, più volte emerso anche sul piano giudiziale, della possibile ricostruzione di barriere commerciali fra Stati Membri della UE legate a suggestioni nazionalistiche. La tutela offerta in questi casi non ha carattere formale (come nel caso delle DOP- IGP, ove il dato dirimente è l’inclusione nella “lista” dei nomi registrati), bensì sostanziale: occorre accertare in concreto l’esistenza di elementi decettivi nella etichettatura, presentazione o pubblicità dei prodotti che portino il consumatore ad attribuire all’alimento una origine diversa da quella reale. Il Regolamento UE 1169/2011, concernente le informazioni ai con-
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Prodotti ad alto valore commerciale come la mozzarella di bufala, il Parmigiano Reggiano e il prosciutto di Parma sono i più a rischio nel panorama alimentare globale per ciò che riguarda le contraffazioni. sumatori sugli alimenti, ha gettato le fondamenta di una articolata disciplina (ancora in corso di implementazione) sui casi in cui sia necessaria una “discovery” della filiera in etichetta12, vietando, in termini più generali, l’attribuzione ad un prodotto di una origine o provenienza errata13. In Italia la Legge 350/03, art. 4 co. 49, ha cercato di porre un limite al proliferare di prodotti nella cui etichetta compaiono bandiere, monumenti, costumi tradizionali italiani e altri simboli o riferimenti capaci di trarre in inganno il consumatore sulla vera origine (estera) del prodotto, istituendo una autonoma figura di reato con rinvio, quoad poenam, a quanto previsto dall’art. 517 C.p. La casistica assume, talora, livelli allarmanti — e financo grotteschi — ove si consideri che in Cina sono in costruzione città con il nome “Parma” o “Cremona”, negli Stati Uniti esistono 21 città denominate “Florence”, 17 “Rome”, 14 “Milan”, 11 “Naples”, 5 “Turin”, in ciascuna delle quali esistono prodotti alimentari
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che rivendicano il diritto ad inserire in etichetta il riferimento geografico alla propria sede! La pratica a noi più vicina è, purtroppo, altrettanto ricca di esempi, se vogliamo più semplici, ma non meno insidiosi: dal triplo concentrato di pomodoro cinese, dichiarato “product of Italy” una volta diluito e trasformato in Campania in doppio concentrato di pomodoro14, ad oli di origine mediterranea importati in Italia per svolgere solo l’imbottigliamento ed essere rivenduti all’estero come pugliesi o toscani15. Lo “scontro” si è così trasferito sul concetto di “origine”, che in base al Codice doganale UE deve intendersi — quando alla fabbricazione di un alimento abbiano concorso due o più paesi — il luogo “dell’ultima trasformazione sostanziale”, ossia economicamente giustificata e tale da determinare una modifica significativa del prodotto o delle materie prime di partenza. È così stato ipotizzato che la “trasformazione sostanziale” impli-
chi una modificazione chimica (dal carattere tendenzialmente “irreversibile”), non essendo sufficiente il semplice processo “meccanico” (come, ad esempio, una sminuzzatura o vagliatura) a generare un prodotto “nuovo”. La Suprema Corte di Cassazione ha tuttavia smentito l’assunto16, ritenendo “italiana” una macedonia preconfezionata ottenuta da frutta estera, valutazione che si affianca al recente parere del Ministero dello Sviluppo economico circa la compatibilità della denominazione “italico” per un formaggio ottenuto in Italia da latte austriaco. Il concetto di “origine” resta, quindi, di natura giuridico-economico-doganale e si atteggia diversamente a seconda della tipologia di prodotto cui ci si riferisce: essenzialmente incarna il “salto” di categoria merceologica, ossia il passaggio da una tipologia di prodotto (e.g. la cipollina fresca) ad un altro (la conserva di cipolle in scatola). Vicende come quelle descritte alimentano ovvia-
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mente le polemiche di chi, anche con movimentate manifestazioni ai confini nazionali, afferma che il prodotto “italiano” debba necessariamente contemplare l’uso di materia prima italiana per non tradire la vera essenza della nostra produzione agroalimentare. È tuttavia indispensabile ricordare che la normativa sul “made in Italy” colpisce i tentativi di inganno circa l’origine del prodotto nel senso richiamato, non il mero Italian sounding. La semplice evocazione di ricette italiane, l’ispirazione a tradizioni gastronomiche nostrane e l’impiego, talora stravagante, di riferimenti all’italianità, laddove non materialmente “decettivo”, non rientra nei divieti della disciplina in commento e, in funzione del concreto atteggiarsi dell’etichetta, nemmeno nella fattispecie di “pubblicità ingannevole” prevista dal Codice del Consumo. Così l’uso di un’immagine della mozzarella bianca con il pomodoro rosso e il basilico verde, contornata da un paesaggio toscano, non è stato giudicato ingannevole per la presenza dell’indicazione dello stabilimento di produzione all’estero e, probabilmente, il richiamo in numerosi marchi alla “cucina italiana” (non all’origine italiana del prodotto) potrebbe avere la medesima sorte, così come la mera evocazione di ricette “nostrane” (Bolognese sausage, Italian spaghetti,
ecc…) può essere assoggettata a forme di restrizione o privativa sul piano internazionale. In questo modo la grande vocazione italiana per il cibo viene sicuramente diffusa a livello globale dalla proliferazione di nomi, ricette e richiami vari, ma, paradossalmente, l’effetto di “annacquamento” rischia, specialmente sui mercati emergenti, di privare il nostro Paese del vero tratto identitario che la nostra enogastronomia ci ha sempre garantito nel mondo. La sintetica esposizione delle problematiche relative alla protezione del made in Italy evidenzia le criticità che l’Italia deve affrontare in questa cruciale battaglia per la tutela della propria identità, delle proprie tradizioni e della propria economia nel mercato globale. La scelta di puntare su di un concetto restrittivo di made in Italy, che includa anche la materia prima, è probabilmente una strada sbagliata: la normativa UE è decisamente contraria a questa ipotesi e al contempo, anche dal punto di vista materiale, essa non pare in linea con la vera vocazione del nostro Paese. Il made in Italy è soprattutto il know-how di trasformazione, come dimostrano alcuni esempi ben noti: la “pasta” è ottenuta per la maggior parte con grano proveniente da altri Paesi, ma è un prodotto universal-
Un esempio di falso Asiago in vendita su un sito di e-commerce (photo © argav.wordpress.com).
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Kit per fare il Brunello di Montalcino. Con l’e-commerce, la rete diviene anche uno dei canali ideali per la diffusione dell’Italian sounding. Oltre al kit per il vino liofilizzato “Fai da te” con false etichette dei migliori vini made in Italy, su internet si trovano in vendita anche il kit per il falso Parmigiano Reggiano, il falso Pecorino romano ed altri celebri formaggi nostrani come la mozzarella o la ricotta (photo © southernhomebrew.com). mente noto come “italiano”; l’Italia è notoriamente Paese di formaggi, ma il latte che produciamo non è assolutamente sufficiente a realizzare tutte le nostre specialità gastronomiche. D’altra parte, anche dal punto di vista “storico” alcune eccellenze tipicamente italiane devono molto allo scambio con altri popoli ed altre aree del mondo: forme di “globalizzazione ante litteram” ci hanno consegnato materie prime come il pomodoro o le arance; prodotti considerati tipici della nostra tradizione come i “taralli”, sono in realtà di derivazione greca (da daratos, un tipico pane greco) mentre, al contrario, persino DOP come la “feta” devono il proprio nome ai mercanti veneziani (da fetta, formato con cui veniva servito il formaggio greco). Nello scenario descritto, indulgere su visioni eccessivamente restrittive della filiera produttiva rischia di alimentare le contrapposizioni e rendere quindi meno forte la posizione italiana nel contesto dei negoziati di aggiornamento degli strumenti
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giuridici che dovranno garantire, nei prossimi decenni, la protezione della nostra identità enogastronomica nel mondo. Il made in Italy si difende anzitutto con la conservazione del “saper fare” e con la straordinaria e irripetibile capacità degli italiani di coniugare la tradizione con la ricerca e l’innovazione. Vito Rubino Avvocato Ricercatore di Diritto UE Università degli Studi del Piemonte orientale Note 1. Cfr. www.expo2015.org/it/cos-e 2. Cfr. LUDWIG FEUERBACH, Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, 1862. 3. Nelle motivazioni del Comitato intergovernativo, che nel 2010 ne ha deliberato l’inclusione nella lista, si legge che “la dieta mediterranea (dal greco “δίαιτα” diaita, stile di vita) è molto più che un semplice alimento. Essa promuove l’interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità e ha dato luogo ad un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende. La dieta si fonda sul rispetto del territorio e della biodiversità, e garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e dei mestieri collegati alla pesca, all’agricoltura nelle comunità del Mediterraneo (…)”. 4. Nelle motivazioni della decisione si legge che “il sito include il range dei processi tecnici ed economici relativi alle coltivazioni della vite e produzione del vino che ha caratterizzato per secoli la regione”. 5. Non sempre è così. Nel caso del formaggio greco “feta”, ad esempio, il nome deriva probabilmente dall’antico termine veneziano “fetta”, che designava il formato tipico con cui era servito. Nel tempo ha tuttavia assunto valore identitario anche con riferimento alla zona geografica di provenienza, come ha riconosciuto la stessa Unione Europea registrandolo come DOP.
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6. Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), allegato al Trattato di Marrakech istitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. 7. La differenza fra DOP e IGP consiste essenzialmente nel fatto che le prime implicano che tutto il processo produttivo, a partire dalle materie prime, sia realizzato nell’area geografica del disciplinare (salve limitate eccezioni), mentre le altre implicano solo che la fase più significativa del processo (o anche solo la notorietà del prodotto) derivi dalla zona geografica indicata nel toponimo. 8. Sentenza della Corte di giustizia UE 4 marzo 1999, causa C-87/97. 9. Sentenze della Corte di giustizia CE 20 maggio 2003, cause C-108/01 (Consorzio del Prosciutto di Parma et al. c. Asda Stores LTD) e C-469/00 (Ravil et al.). 10. Si veda come caso emblematico la sentenza del Tribunale di Cagliari 1363/2014 del 15 maggio 2014, relativa a un pecorino fatto in Sardegna con latte sardo, non DOP, recante in etichetta ampi richiami alla terra d’origine. 11. Cfr. art. 26 Reg. UE 1169/2011 concernente le informazioni sull’origine degli alimenti ai consumatori. 12. Si veda, a titolo esemplificativo, l’estensione alle carni diverse da quelle bovine dell’obbligo di indicazione del luogo di nascita, allevamento e macellazione degli animali. 13. La pratica è peraltro vietata anche dalla Direttiva 2005/29 CE sulle pratiche commerciali sleali, recepita in Italia dal Codice del Consumo. 14. Cfr. Tribunale di Nocera Inferiore, sentenza n. 404/2012, in Alimenta, 2013, I, p. 16 ss. 15. Per un’ampia rassegna della casistica si veda il report di Federalimentare “Viaggio nel ‘supermercato’ del falso made in Italy alimentare”, disponibile su internet. 16. Cfr. Cassazione penale, sez. III, sent. 27250/07.
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Il food in rete
Social di Elena
2. La app dedicata al vino italiano
1. Il nuovo sito del Bardolino Chiaretto È nato Chiaretto.pink, il nuovo sito web voluto dal Consorzio di tutela del Bardolino per raccontare le caratteristiche di questo vino classico rosato della riva veneta del lago di Garda, da quest’anno più chiaro nel colore e più agrumato nei profumi. Tutto in lingua inglese, il sito è dedicato ai visitatori stranieri. Bella la grafica, moderna, stilosa, tutta giocata sui toni del rosa e con suggestive immagini che richiamano il territorio, con Verona, Venezia e, naturalmente, il lago di Garda. Simpatica e utile anche l’idea di spiegare al navigatore la corretta pronuncia di “Chiaretto”.
VINO – Vinitaly Wine Club è la prima “app” interamente dedicata all’acquisto dei migliori vini italiani, estensione mobile della prima piattaforma digitale per la diffusione di una cultura di conoscenza e scoperta del vino italiano e della sua vendita. VINO propone un’ampia offerta, con una selezione di oltre 1.000 bottiglie provenienti da tutta Italia, dalle montagne alle isole, che oltre a permettere di accedere ad imperdibili offerte esclusive, offre anche l’opportunità di accrescere la propria conoscenza del vino italiano, grazie a continui aggiornamenti e approfondimenti. La app è, inoltre, la guida perfetta per i visitatori del padiglione VINO – A TASTE OF ITALY a Expo Milano 2015: ad esempio, aiuta nella scelta e nella selezione dei vini attraverso la creazione di un “profilo” che suggerisce quali calici degustare nell’area dedicata al gusto, la Biblioteca del Vino al primo piano del padiglione. In aggiunta, il visitatore può condividere la propria degustazione con una community di winelovers e acquistare on-line la bottiglia degustata alla fine del percorso, ricevendo il prodotto comodamente a domicilio. Disponibile su Apple Store e Google Play. Per info: VinitalyClub.com
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food Benedetti
4. Il Pecorino Toscano Dop su eBay
3. Parmigiano Reggiano Dop in 11 lingue Primo fra le DOP italiane e capofila di un turismo enogastronomico che può sensibilmente sviluppare la cultura del prodotto e le vendite in caseificio, il Parmigiano Reggiano ha una nuova “app” per farsi conoscere nel mondo e guidare consumatori e appassionati alla scoperta di tutti i processi produttivi e dei luoghi in cui nasce il prodotto. L’applicazione “Parmigiano Reggiano Audioguida”, creata dal Consorzio attraverso audio, testo e immagini per ripercorrere tutti i passaggi del processo di produzione, fino all’uso del prodotto come alimento a sé o come ingrediente, è scaricabile gratuitamente da Google Play e Apple Store ed è disponibile in 11 lingue.
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Rafforzare la tutela, la valorizzazione e l’informazione delle produzioni italiane DOP e IGP anche tra i consumatori che si avvalgono della piattaforma eBay, favorendo la presenza nel mercato on-line dei prodotti italiani autentici e di qualità. È questo l’obiettivo del protocollo siglato di recente tra il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, eBay e l’Associazione Italiana Consorzi Indicazioni Geografiche, di cui il Consorzio tutela Pecorino Toscano Dop fa parte. Ma come funziona il protocollo con eBay per tutelare le eccellenze enogastronomiche italiane? Un ruolo fondamentale viene svolto dal programma di verifica dei diritti VeRO (Verified Rights Owner), che consente ai titolari di diritti di proprietà intellettuali (come copyright, marchi registrati o brevetti) di segnalare eventuali violazioni. Attraverso questo programma il Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), insieme all’AICIG, si impegna a inviare a eBay le notifiche di violazione di diritti in relazione alle produzioni DOP e IGP. A sua volta, eBay si impegna a rimuovere gli annunci dove vengono riscontrate violazioni relative ai prodotti DOP e IGP. Sarà compito dell’Ispettorato repressione frodi procedere al blocco della commercializzazione dei prodotti rilevati.
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La bufala in rete corre veloce La notizia falsa che gira sul web non finisce mai di creare danni perché viene ritrasmessa in maniera virale, rimbalzando da un sito all’altro senza sosta. È così che si generano credenze errate ed opinioni prive di riscontri nella realtà. E proprio l’alimentare è uno dei temi più amati da chi crea ad arte comunicazioni fasulle da divulgare on-line di Sebastiano Corona
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l mondo dell’informazione è straordinariamente cambiato da quando internet è entrato nelle nostre vite. Gli aspetti positivi sono innumerevoli, basti pensare a quante operazioni, che sino a qualche anno fa richiedevano tempo e fatica, si possono oggi compiere in un secondo appena. In questi decenni il mutamento maggiore si è avuto certamente sul piano della comunicazione poiché il web offre la possibilità di acquisire informazioni in tempo reale e di diffonderle con la stessa celerità ad un numero infinito di persone. Tra gli aspetti più interessanti vi è il
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fatto che l’individuo ora non è più unicamente soggetto passivo, ma può egli stesso fornire informazioni, raggiungendo rapidamente chiunque voglia nel mondo. È così che internet ha cambiato radicalmente il modo di fare notizia. Affiancatosi agli strumenti di informazione classici — giornali, riviste, radio, televisione — oggi è possibile non solo sentire cosa succede in qualsiasi parte del pianeta in tempo reale, ma anche trasmettere una notizia mentre il fatto sta accadendo. La conseguenza naturale è che chiunque può scrivere ad una platea infinita di persone con responsabili-
tà personali limitatissime, talvolta nulle. Tutti sono diventati pseudo giornalisti, tutti scrivono la propria opinione e la divulgano, senza controllo alcuno. Pertanto, se da una parte finalmente si è raggiunta l’era dell’informazione “libera”, slegata da interessi o condizionamenti di terzi, dall’altra tutti sono autorizzati ad esprimersi in piena libertà, senza rispondere direttamente di ciò che sostengono. E, se è pur vero che un controllo esiste e che chiunque, come afferma il Codice civile, risponde dei danni arrecati ingiustamente a terzi, è altrettanto certo che frenare un’informazione falsa diffusa in rete
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Complice il fatto che l’alimentare è sempre di più all’attenzione dei consumatori, il tema del cibo è tra i più bersagliati da parte di chi inventa notizie per manipolare le menti. Una delle bufale più note, ad esempio, riguarda proprio la produzione di würstel (photo © mangiarebuono.it). è difficilissimo, così come lo è far pagare chi ha sbagliato. Se in una redazione giornalistica i responsabili del contenuto di una notizia sono diversi e rispondono sempre, sul piano disciplinare, civile e penale, delle notizie che diffondono, tutto questo su internet non avviene e quando accade si può considerare evento raro. Non bastasse, la notizia falsa che gira sul web è suscettibile di creare danni incalcolabili nel lungo termine, oltre che nell’immediato, perché viene ritrasmessa in maniera virale, rimbalzando da un sito ad un altro o tra i profili dei social network. L’abitudine a condividere un’informazione senza averne verificato l’attendibilità è infatti molto comune e, in fondo, per ritrasmetterla, basta un semplice clic. Effetto a catena e danni incalcolabili! Se è vero che ogni cosa ha un lato positivo ed uno negativo, si può certamente sostenere che in questo caso l’aspetto deleterio del nuovo modo di comunicare sul web sia proprio il
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fatto che le notizie, siano esse vere o meno, viaggiano ad una velocità tale che fermarle è cosa pressoché impossibile. Esse generano quindi un effetto a catena, enfatizzato anche dai commenti di chi le ritrasmette e quando sono prive di fondamento possono provocare danni incalcolabili. C’è qualcosa di più subdolo, però, in quella che viene tecnicamente definita “bufala”. Perché in questo caso la notizia non si genera solo per superficialità o scarsa verifica della veridicità del fatto raccontato. La bufala nasce già con l’intento di mistificare un fatto, di demonizzare un prodotto o una categoria, di buttare discredito su qualcuno, di influenzare il pensiero di migliaia di persone. Creare una bufala e farla girare in rete è un’operazione facilissima, alla portata di tutti, soprattutto di chi, con l’inganno, o anche semplicemente con superficialità, vuole far credere una cosa per un’altra e così condizionare abitudini e credenze della cosiddetta massa. Le bufale vengono pubblicate da un soggetto che
le lancia nel web, ma poi rimbalzano da sole da una pagina all’altra per non essere mai eliminate del tutto. Possono così creare danni a distanza di molto tempo, generando giudizi errati e manipolando le menti di chi non si pone troppe domande. Bufale alimentari Complice il fatto che l’alimentare è sempre di più all’attenzione dei consumatori, il tema del cibo è certamente tra i più bersagliati da parte di chi inventa notizie per manipolare le menti. Ce ne sono, ad esempio, alcune famosissime che da anni rimbalzano da un profilo all’altro. Sono soprattutto video che in certi periodi tornano prepotentemente in auge come se fossero nuovi di zecca. Uno molto impattante per i contenuti, e anche per le musiche utilizzate, mostra le immagini di un impianto che da un lato trita carcasse di suino e dall’altro genera, con quella materia prima, dei würstel. Il video è piuttosto inverosimile ad un occhio attento ed è oggettivamente poco plausibile
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per chi abbia una conoscenza anche minima della normativa in materia di trasformazione di prodotti di origine animale. Tuttavia, pur essendo stato più volte segnalato come una clamorosa bufala, ha subito un numero di visualizzazioni e di condivisioni di assoluto rispetto e tuttora continua a convincere migliaia di ignari navigatori. Ed è così che nell’opinione pubblica si rafforza l’idea che i würstel — tutti i würstel indistintamente — vengano realizzati con materia prima di scarsissima qualità, nociva e contaminata. Eppure è difficile credere che sia ammessa la produzione di un alimento destinato all’uomo con carcasse animali perfino in quei Paesi la cui normativa igienico-sanitaria e di sicurezza del prodotto è poco severa. “Questo video è quindi attendibile al di là di ciò che appare?” è la domanda che ognuno si dovrebbe porre nel vedere simili immagini. Non bisogna infatti dimenticare che oggi con la tecnologia si può fare di tutto, compreso far apparire le cose profondamente diverse da come sono in realtà, e tutto dovrebbe quindi essere valutato attentamente e seriamente approfondito. Il primo modo per farlo è proprio interrogarsi ed andare alla ricerca di risposte. Tanto più che oggi, anche grazie al web, approfondire un argomento è molto più facile di un tempo.
di diverse industrie alimentari che metterebbero in commercio prodotti contaminati da nanoparticelle di metalli pesanti emessi da termovalorizzatori, le quali, manco a dirlo, sarebbero dannosissime. In questo caso, però, ciò che si ottiene non è buttare discredito su un settore, ma su imprese individuate specificamente con lo scopo di danneggiarle e di screditarle. La condivisione è facilissima ed il pensiero comune è che “seppur la notizia non fosse vera, non fa certo male condividerla. In fondo la prudenza non è mai troppa”. Ma è proprio così che si contribuisce a danneggiare un’azienda o un prodotto e quindi a colpire seppur indirettamente un territorio e una classe lavorativa. L’assurdo è che questo genere di notizie costruite ad arte, anziché generare diffidenza nei confronti del web che propone le cose più disparate, rafforza la cultura del sospetto verso imprese, istituzioni ed organi di stampa. Per non parlare del discredito che spesso viene gettato sul mondo scientifico, reo — a parere dei sostenitori della teoria del complotto ad ogni costo — di tacere su determinati temi. Se a trasmettere le bufale ci si mettono pure le “autorità” Bisogna però dire, per completezza d’informazione, che talvolta anche
soggetti autorevoli contribuiscono a far circolare delle notizie false. Lo fanno forse inconsapevolmente — d’altronde gli errori sono nella natura dell’uomo — ma almeno in questo caso ognuno si assume le proprie responsabilità, sia il soggetto “colpevole” una rivista o un’associazione. Non accade altrettanto su internet. È piuttosto recente il caso — riportato anche da diversi quotidiani regionali — di un batterio killer nella ricotta che a Rieti avrebbe ucciso una persona e ne avrebbe mandato in ospedale molte altre. Fortunatamente l’informazione è stata quasi immediatamente smentita da più parti, compresa la prestigiosa rivista on-line Il Fatto alimentare, che al tema delle bufale ha dedicato un intero spazio nel proprio sito. La diffusione di una simile informazione ha comunque generato immediata diffidenza nei confronti del prodotto, con conseguente contrazione delle vendite. Le cattive notizie infatti girano in fretta e fanno clamore, mentre le buone arrivano con meno celerità e non sempre riscuotono la stessa attenzione. Pertanto, anche a seguito di una smentita ufficiale, il dubbio insinuato resta e continua a generare effetti deleteri nel tempo. Un’altra bufala che, spiace dirlo, è stata ampiamente diffusa anche da
Criminalizzazione dei prodotti di origine animale Spiace constatare che molte grosse bufale circolate negli ultimi anni sono andate di pari passo con la condanna di certi ambienti nei confronti del consumo di carne. In più di un’occasione la criminalizzazione di una dieta onnivora è stata al centro di colossali bugie messe in piedi allo scopo di demonizzare l’utilizzo di prodotti di origine animale. Questo fatto ha contribuito a gettare discredito sul comparto zootecnico e a generare credenze prive di fondamento scientifico. La prudenza non è mai troppa… Un’altra bufala sui prodotti alimentari che continua a mietere vittime è quella di un falso articolo di un quotidiano in cui compare l’elenco
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Un gruppo di ricercatori e studenti dell’associazione Pro-Test Italia durante un sit-in di protesta realizzato nel maggio 2014 davanti alla sede Mediaset di Cologno Monzese contro la disinformazione portata avanti dal programma “Le Iene” in campo sanitario (photo © www.sardegnamedicina.it).
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È una bufala o no? Come districarsi nel mare magnum delle notizie in rete Il Manuale delle Giovani Marmotte, piccola guida per come difendersi dalle bufale, a cura di MAICOLENGEL (www.butac.it/ le-guide-di-bufale-un-tanto-al-chilo), è un breve prontuario antibufala che compare nella sezione Le Guide di Butac del blog “Bufale un tanto al chilo”, redatto con l’intento di fornire una bussola per individuare notizie false e poco attendibili nel mare magnum delle notizie in rete. Qualche caratteristica e utili indicazioni in questo senso sono: • titolo in grassetto, URLATO; • appelli a far girare PRIMA che censurino (la parola “CENSURA” e i suoi derivati presente nel titolo); • il sostenere che si tratta di informazioni SEGRETE; • alcune cose non vanno condivise e/o ricercate, come le catene di Sant’Antonio e gli appelli di vario genere! «Mentre le prime sono sempre più rare, i secondi si moltiplicano: credo di aver visto girare la stessa richiesta di sangue per la stessa bambina dieci volte in due anni, capiamoci. A meno che non sia persona che conoscete personalmente coinvolta e di cui potete verificare la cosa, vi prego di NON condividere, MAI!». Come verificare la possibile notizia bufala che abbiamo di fronte Prima regola: sempre leggere tutto fino in fondo, magari cliccare su eventuali fonti fornite. Accorgersi se l’articolo ha senso: se è scritto in un italiano stentato, è probabile che sia stato tradotto in maniera automatica. «Chi fa così è sempre un bufalaro a cui poco importa di cosa ci sia scritto, basta attirare visite». Sempre in termini di senso logico, notare se risaltano evidenti contraddizioni («capita spesso!»). «Parlano di un motore, ma non viene mai citata la fonte energetica? Fuffa! Parlano di un qualcosa di storico stravolgendone i dati noti? Fuffa! E così via… Bisogna sempre ricordarsi che esistono le 5 W del giornalismo, che sono preziose in questi casi: WHO (chi), WHAT (che cosa), WHEN (quando), WHERE (dove), WHY (perché). Se uno o più di questi elementi, necessari alla stesura di un articolo, manca, siete sicuramente di fronte a un grave caso di pseudogiornalismo, e probabilmente anche di fuffa certificata! Se questi elementi sono presenti e volete scoprirne di più potete mettere in pratica un insegnamento prezioso, che Attivissimo spiegava già tanti anni fa: immetto una frase tratta dal messaggio, che va scelta in modo che sia univoca, cioè costituisca una serie precisa e piuttosto insolita di parole che difficilmente compariranno in messaggi diversi da quello che sto cercando. Se non trovo niente nei siti autorevoli (riviste di settore on-line, CNN, BBC, Amnesty International, per esempio), è probabile che sia una bufala. Se anche trovassi qualcosa su siti noti e affermati, sarebbe sempre meglio avere un doppio controllo e verificare che riportino la stessa notizia senza averla pescata da una fonte terza. In quel caso va verificata anche quella. Sì, lo so, è un lavoraccio, ma nove volte su dieci basta fermarsi dopo i primi due punti. Un altro strumento molto utile ce lo regala quest’estensione di TinEye che ci permette di verificare la fonte di un immagine (esiste la possibilità di farlo anche con Google immagini, che rende molti più risultati, ma meno ordinati)». Quali sono le fonti autorevoli «Premetto col dirvi che è impossibile certificare qualcuno al 100%: chiunque lavori nel campo delle news, per professione o per diletto, può scivolare. A noi è capitato ben due volte, su oltre 900 articoli scritti: direi sia una buona media. Ma CNN, BBC e Reuters hanno negli anni dimostrato una certa capacità nell’evitare sòle e nella smentita. Si tratta di etica giornalistica: una cosa che si sta perdendo nel tempo, specie nella stampa on-line. Sono innumerevoli le testate che pubblicano una notizia fasulla per poi rimuoverla senza alcuna spiegazione. Questo comportamento è altamente scorretto! Chi l’ha letta non troverà mai la smentita, così resterà convinto che fosse una notizia buona. Triste dimostrazione di come il lettore, specialmente quello on-line, sia solo il mezzo per far girare i contatori pubblicitari. Come dicevo tempo fa, oggi conta la quantità d’informazione che si genera, non la qualità! Sia chiaro, trovo giustissimo che una testata generatrice di contenuti gratuiti possa campare di pubblicità e sponsor — anche Butac usa AdSense — ma i contenuti DEVONO essere di qualità. Non dico ben scritti, ma perlomeno onesti, e questo dovrebbe valere anche per le grandi testate nazionali. Ma sto divagando». Lista dei siti su cui fare verifiche per quanto riguarda le notizie internazionali • Notizie Internazionali: CNN, BBC, BBC Europe, Reuters; • Notizie ed emergenze sanitarie: WHO, Ministero della Salute; • Siti di bufale e leggende urbane: Il Disinformatico (attivissimo.blogspot.it), Snopes (snopes.com), Medbunker (medbunker.blogspot.it), Bufale & Dintorni (pagina Facebook), Bufale.Net. >> Link: www.butac.it/tecniche-antibufala
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una nota associazione di categoria del primario, è quella del concentrato di pomodoro importato dalla Cina che verrebbe venduto come prodotto italiano. Anche in questo caso, la notizia, già inverosimile di per sé e sebbene sia stata smentita più volte, continua a girare su siti internet e organi di stampa. È facile intuire che, anche senza documentarsi in maniera approfondita, non c’è possibilità alcuna di ottenere pelati da un semilavorato come il concentrato di pomodoro, perché sarebbe come trasformare un succo nuovamente in frutta. Pertanto, sostenere che il concentrato giunga qui dalla Cina per essere poi nuovamente lavorato e ritrasformato in polpa è impossibile. Eppure questa notizia continua a generare diffidenza nei confronti delle salse di pomodoro, di qualunque tipo esse siano.
la debolezza di un malato solo per condizionare credenze ed abitudini senza in realtà fornire una speranza concreta è un atto di viltà imperdonabile. La libertà di opinione è sacrosanta, e per fortuna internet ci dà la possibilità di esprimere ciò che pensiamo senza limiti. Rimane però ingiusto, scorretto e deprecabile il fatto che alcune notizie vengano inventate o distorte al solo scopo di acquisire audience. Non è più accettabile che il lavoro di intere filiere alimentari sia messo a repentaglio da pochi mistificatori in cerca di ascolto. Il consumatore ha in questo senso una grande responsabilità: ha infatti il diritto-dovere di leggere con senso critico e di interrogarsi sulla attendibilità delle informazioni che gli vengono sottoposte. Ha il diritto-dovere di approfondire i temi e l’enorme potere di bloccare il diffondersi di una comunicazione falsa che può provocare danni. Nel condividere una “boiata” non si fa comunque una bella figura. Mai. Sebastiano Corona
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Qui ce n’è per tutti i gusti L’elenco di bufale e notizie simili potrebbe continuare all’infinito. Dal video sulla cotoletta prodotta da polli
macinati vivi e nemmeno spiumati al tonno radioattivo di Fukushima; dai documenti sugli effetti nefasti del glutine sull’uomo (compreso l’individuo non celiaco) alle mele artificialmente cerate, ce n’è per tutti i gusti. E per non farsi mancare nulla, dato che l’argomento dell’alimentare è spesso legato a quello della salute, fioccano le teorie su nuovi metodi per curare le patologie più disparate, tumori compresi. Ogni commento, a questo proposito, è superfluo. Certo è che trattare argomenti serissimi come la cura di persone gravemente malate in maniera superficiale e truffaldina non è cosa accettabile. Se si può tollerare che un certo tipo di comunicazione generi danni alle imprese e a determinati settori produttivi, non è più rinviabile un controllo attento su di un certo modo di fare disinformazione approfittando di chi soffre. Chi vive nella disperazione di un male estremo può essere infatti tentato a percorrere strade di cura alternative e prive di fondamento scientifico. Ma sfruttare
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Comunichiamo
Impariamo a creare una “campagna pubblicitaria” su Facebook
Facebook, pubblicità e target di Chiara Russotto
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ell’ultimo articolo pubblicato su questa rivista vi ho descritto minuziosamente la struttura organizzativa di un progetto di comunicazione territoriale promosso dal Distretto culturale di Valle Camonica e organizzato dall’Associazione Ristoratori Vallecamonica, cercando di darvi spunti
per creare collaborazioni utili alla promozione dei vostri valori. Continuando quindi sul tema della promozione, oggi impareremo a creare una “campagna pubblicitaria” su Facebook. Come vi ho già scritto, se non avete ancora creato una “Pagina” Facebook — ma state pubblicando foto dei vostri prodotti
sul vostro profilo personale — è arrivato il momento di farlo, poiché grazie a “Pagine” avrete la possibilità di comprendere le abitudini del vostro pubblico, implementarlo e vendere attraverso campagne pubblicitarie create ad hoc. Sapete già che Facebook è il luogo migliore per raggiungere persone
Chiara Russotto ha 38 anni, è consulente di comunicazione e titolare insieme a Federico Roveda di Smarti Editrice. Si occupa prevalentemente di food, adora i suoi clienti, cede al cibo per amore, lotta con la dieta, ride, ha due cani ed una passione per i libri che trattano argomenti dei quali, lei, non capisce assolutamente nulla.
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3 2 interessate ai vostri prodotti: la pubblicità sui social network è, infatti, vista dagli utenti di questo social come una forma di informazione, poiché è l’utente stesso a scegliere quale azienda o personaggio seguire per essere sempre aggiornato sulle ultime novità. La cosa che forse però non sapete è che Facebook vi dà la possibilità di raggiungere il pubblico interessato, con ogni tipo di budget: create il post che volete promuovere, definite il target a cui volete mostrarlo e, per farlo, scegliete voi quanto spendere! Più la definizione del vostro pubblico sarà precisa, più la vostra campagna pubblicitaria sarà — conti alla mano — vincente.
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Vediamo insieme come creare una buona campagna pubblicitaria Andate sulla vostra pagina aziendale e cliccate sul pulsante “Promuovi” (1). Vi si aprirà il pannello “Gestione inserzioni”: con il cursore puntate in alto a destra sul box verde e selezionate “Crea un’inserzione”. A questo punto vedrete una schermata nella quale vi sarà chiesto di scegliere tra diverse opzioni (2). Oggi guarderemo insieme “Metti in evidenza i tuoi post”, poiché trovo questo strumento pubblicitario molto più efficace del “Promuovi la tua pagina”, che vi servirà solo nel caso in cui la vostra pagina non abbia molti followers.
Scegliere di promuovere un post (3) vi permette di parlare al vostro pubblico esprimendo, attraverso belle immagini e un testo, il valore della vostra attività. In fondo le nostre abitudini comportamentali all’acquisto passano dall’individuazione di un problema (“sabato ho una cena, cosa posso preparare?”), alla ricerca di informazioni (“vediamo se trovo qualche idea sulla pagina della gastronomia in città”), e quindi dalla valutazioni delle alternative (e qui ve la giocate…), alla decisione di acquisto (“vado proprio a vedere!”). Passiamo ora al prossimo step (4). Definite in “Posizioni” l’area
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5 geografica in cui volete che il post venga mostrato. Se il vostro pubblico è prevalentemente locale, scrivete il nome della vostra città e il raggio di azione di 20 km. Se invece avete
un e-commerce e vendete in tutta Italia o all’estero, gestite la visibilità della vostra campagna di conseguenza. Il post verrà visualizzato solo dalle persone che abitano nella zona che
avete scelto. Per questo sarà importante definire anche l’età e il sesso del vostro pubblico: più sarete precisi nel descriverlo e più raggiungerete i vostri obiettivi di vendita. Non preoccupatevi se notate che la copertura del post (4) si riduce via via che definirete il target: più basso sarà il numero di persone raggiungibili e più alta sarà la possibilità di parlare proprio a chi è veramente interessato. Mi spiego meglio con un esempio: il vostro cliente è generalmente donna, 40/65 anni, lavora, abita nella vostra città e, nella maggior parte dei casi, ha figli o nipoti. Ha necessità di acquistare prodotti già pronti per essere cucinati, ma ama la cucina leggera. Ecco, preparate un post sulle polpette di magro con relativi consigli di preparazione e fate partire la vostra campagna pubblicitaria definendo tutte le caratteristiche del vostro target e… il gioco è fatto (5)! Silvia Rossi (o lo chef Pippo Poppi) vedrà il post, metterà un like alla vostra pagina e memorizzerà il vostro nome, per poi ricordarlo quando ne avrà più bisogno. Consiglio da “un milione di dollari” Dedicate una speciale offerta alle persone che seguono la vostra pagina Facebook. In questo modo, avrete un effettivo riscontro sull’efficacia della vostra campagna pubblicitaria… Scontrini alla mano! Comunicare bene e risparmiare Questa rubrica è nata due anni fa per darvi la possibilità di imparare a comunicare in autonomia, risparmiando. Cosa dite, non siamo dei geni? Chiara Russotto
Qualcuno ha domande da Porci? Attraverso questa rubrica rispondiamo alle mail che ci sembrano più utili ad approfondire gli argomenti trattati. Vi preghiamo di darci più informazioni possibili, così da rendere i nostri consigli efficaci o, nel caso siate interessati ad argomenti specifici, di comunicarcelo a info@pubblicitaitalia.com (Photo © Alessio Sabbadini)
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Aziende
Pasquini Marino, l’arte della lavorazione del legno “su misura” di Gaia Borghi
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rte antica e preziosa, la lavorazione del legno massello è oggigiorno sempre più rara, essendo il pregiato materiale nella maggior parte dei casi sostituito dai più economici multistrato, truciolato e altri. Nella bottega della famiglia Pasquini, però, questo non succede, anzi, in quasi sessant’anni di vita dell’azienda non è mai successo. «Noi ci fermiamo al legno» mi dice convinto REMO
PASQUINI, titolare insieme alla sorella PAOLA dell’omonima attività a Bovolone, piccola cittadina in provincia di Verona, nata con il nonno nel 1957 e proseguita con successo grazie all’abilità e alla competenza straordinaria del padre Marino. «Il legno massello è una materia a sé, viva, mutevole — continua Remo — ha problematiche particolari. Ed è costoso, è vero, ma il legno è anche storia ed è garanzia di qualità, stabilità e durata nel tempo».
La selezione dei materiali da sempre contraddistingue questa stimata azienda artigiana veneta, sviluppatasi inizialmente con la produzione di tavoli, sedie, poltrone e salotti con finiture di pregio e una quasi maniacale attenzione per il dettaglio, dalla scelta dei tessuti alla ricerca di quel “perfetto connubio tra estetica e funzionalità”. Un paio di decenni fa la svolta: sospinti dall’amore condiviso per il buon vino e il buon cibo, Remo
Remo e Paola Pasquini. La bottega di Pasquini Marino porta avanti con orgoglio i valori ereditati dal suo fondatore: la meticolosità nella scelta dei legnami, la ricerca del connubio tra estetica e funzionalità e l’estrema cura del dettaglio.
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Alcune realizzazioni firmate Pasquini. Ogni complemento d’arredo firmato Pasquini Marino è un pezzo unico, frutto di una preziosa sintesi tra tradizione artigianale e una vocazione stilistica attenta alle nuove tendenze.
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Il laboratorio. e Paola, coadiuvati da pochi ma validi collaboratori, decidono di dedicarsi alla progettazione e alla realizzazione di arredi su misura destinati principalmente all’alta ristorazione e alla conservazione dei vini, anche e soprattutto per una clientela di tipo privato. «L’allestimento di cantine, sia di privati che di ristoranti, è la nostra principale area di attività» mi racconta Paola. «Lavoriamo sia in Italia che all’estero e seguiamo ogni singolo ordine personalmente, dall’inizio alla fine, compresa una consulenza specializzata, la delicata fase di montaggio e l’assistenza post vendita». «Un collezionista di bottiglie pregiate comprende l’estrema importanza della loro conservazione»
sottolinea poi Remo, lui stesso grande cultore del vino e la cui conoscenza è quindi elemento utilissimo nella ideazione e successiva creazione dei locali e degli oggetti adatti a conservarlo, proteggerlo, raccontarlo. «Possedere una collezione di bottiglie da degustare in occasioni speciali è il sogno di molti. Chi ha la fortuna di averla sa che la posizione in cui viene mantenuta una bottiglia, l’umidità, la luce e le vibrazioni del luogo in cui quella bottiglia è riposta, ha un ruolo chiave nella sua conservazione. Non ci si può improvvisare in questo lavoro: occorrono competenze specifiche e anche tanta fantasia e creatività». Caratteristiche, queste ultime, ben visibili anche nell’oggettisti-
“A Bovolone, nel Veronese, Remo e Paola Pasquini da quasi vent’anni hanno rivoluzionato l’azienda di famiglia, mettendo al servizio del mondo della ristorazione dell’enogastronomia tutta la propria competenza e la conoscenza dell’arte della lavorazione del legno” 42
ca firmata dall’azienda. Parliamo delle fantastiche creazioni ecosostenibili della collezione Nuova Vita, realizzate utilizzando oggetti in legno dismessi, come le botti della Valpolicella, o di quelle appartenenti alla linea (Pr)Oggetti. «Spesso chi ci contatta è proprietario di residenze esclusive: desidera creazioni uniche, originali, e al contempo pratiche e funzionali, eleganti, che si armonizzino con l’ambiente circostante» dice Remo. «La fiducia che questo genere di clientela ripone in noi ce la siamo guadagnata negli anni, sul campo, e oggi possiamo dire senza timore di essere smentiti che la Pasquini Marino è considerata un punto di riferimento del settore». «La nostra forza — puntualizza Paola — è che concepiamo ogni ordine come una cosa a sé: come se si trattasse di un abito di alta sartoria, gli allestimenti che ci vengono richiesti vengono progettati insieme al cliente, parlando con lui, capendo le sue esigenze. Non abbiamo un catalogo con i nostri lavori, se non un piccolo
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depliant esplicativo: facciamo sempre cose nuove, concepite e realizzate davvero “su misura”». Ma il mondo Pasquini non si ferma qui: insieme all’arredamento per locali, dai ristoranti più rinomati alle enoteche, alberghi, salumerie storiche e trattorie o osterie in Europa e nel mondo («per il mondo della ristorazione ci concentriamo in particolare nello studio delle sedute, che devono essere comode, robuste, moderne e raffinate. Devono mettere a proprio agio il cliente del locale, valorizzando la struttura tutta»), a Bovolone si producono rigorosamente a mano morse per il taglio del prosciutto. «Sono stati gli amici macellai, come Paolo Parisi o Simone Fracassi, e i produttori di salumi a chiedermi di iniziare la produzione delle morse perché in commercio non se ne trovavano di adatte» dice Remo. «Tagliare a coltello un prosciutto crudo è un rituale che ne va ad esaltare il sapore e la freschezza. Una morsa deve quindi servire anche a questo scopo: valorizzare ulteriormente il prodotto, renderne elegante l’esposizione e pratico il taglio». Le morse Pasquini, caratterizzate da un basamento in legno e dotate di parti in acciaio, sono state studiate per una migliore presa del salume. Adatte al taglio di ogni tipo di prosciutto, vengono realizzate in più versioni con diversi tipi di legno (rovere, faggio, noce,…). Infine, i taglieri. «Ero un po’ titubante prima di iniziare questo tipo di produzione e invece i taglieri sono molto richiesti!» racconta ancora Remo. Piccoli pezzi di legno che «se vanno in giro per il mondo», i taglieri Pasquini vengono realizzati con legni di prima scelta, naturalmente anche su misura e personalizzabili con il marchio a fuoco della propria attività. E sono bellissimi, ognuno con una diversa tonalità e magnifiche venature. « Il rovere è quello che va per la maggiore, ma a me piace il frassino» conclude Remo. A ognuno il suo. Gaia Borghi
Taglieri in legno dai dettagli pregiati per rendere speciali i sapori più raffinati Ad ogni piatto il tagliere con la forma e il legno più adatto: un tagliere in rovere con manici in acciaio satinato per servire i formaggi, con le apposite ciotole per le marmellate, o un tagliere in noce con manici di corean vegetale per disporre un trancio di salmone da affettare. La maestria celata nelle realizzazioni dei taglieri di Pasquini Marino è stata scelta dai alcuni nei nomi più prestigiosi nel settore dell’alta ristorazione (in foto alcuni esempi di taglieri; dall’alto in basso, Tavolozza, Cargo, Gustò).
Pasquini Marino Srl Via Madonna 306 37051 Bovolone (VR) Telefono: 045 7100529 Web: www.pasquinimarino.it
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La Qualità
Speck Alto Adige Igp, un alleato per l’estate La speziatura e l’affumicatura tipica del salume altoatesino si sposano bene con il gusto dolce del melone mantovano Igp
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n Alto Adige, terra di confine tra cultura e stile di vita nordici e mediterranei, si è sviluppato un metodo particolare di conservazione della carne suina, nato dalla simbiosi tra la stagionatura all’aria e una leggera affumicatura. Più delicato dei sostanziosi prosciutti affumicati del nord e, allo stesso tempo, più deciso e aromatico dei dolci prosciutti mediterranei, lo speck dell’Alto Adige si contraddistingue per il gusto particolarmente equilibrato.
Lo speck Alto Adige tutelato dal marchio europeo IGP (Identificazione Geografica Protetta) è un prosciutto crudo disossato, rifilato, salmistrato a secco, lasciato ad asciugare e a stagionare per almeno 22 settimane. Dal sapore e dall’aspetto inconfondibili, questo salume deve la sua unicità alle particolari condizioni climatiche delle valli alpine altoatesine e al tradizionale metodo di produzione. Lo speck Alto Adige Igp proviene solo da 29 produttori riconosciuti dal Consorzio di Tutela Speck Alto Adige, i quali
sono tenuti da contratto a rispettare i criteri di produzione, ad uniformare in base a questi i siti produttivi e a garantire agli operatori di un istituto di controllo indipendente il libero accesso in ogni momento. Il robusto gusto alpino incontra la delicata dolcezza mantovana Quale modo migliore di valorizzare al meglio il gusto leggermente affumicato dello speck Alto Adige IGP se non accostandolo al sapore dolcemente fragrante del Melone
Risotto allo speck con giardino di melone mantovano. La ricetta è di Manuel Astuto, chef de cuisine del ristorante Laurin di Bolzano.
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mantovano IGP e, volendo ottenere il massimo, consegnare i due prodotti nelle mani di due chef di talento? Questo è quello che hanno pensato e fatto i responsabili dei Consorzi di tutela dello speck Alto Adige IGP e del melone mantovano IGP, i quali hanno deciso di unire in un connubio tanto insolito quanto sfizioso due prodotti provenienti da territori differenti per conformazione geografica e tradizioni. La realizzazione di questo matrimonio d’amore è stata affidata a MANUEL ASTUTO, giovane chef de cuisine dell’Hotel Laurin di Bolzano, ed ELISABETTA ARCARI, chef e docente della scuola di cucina mantovana “Peccati di Gola”, i quali hanno saputo armonizzare i sapori dei due prodotti in una serie di ricette scaturite dalla loro creatività. Dal Risotto allo speck Alto Adige con giardino di melone alla sorprendente composizione di Sushi in foglia di speck, melone in purezza e crema di caprino con riduzione di melone, i due chef hanno proposto un utilizzo innovativo dei classici prodotti IGP che ne esaltano la qualità, con una ventata di freschezza. Lo speck Alto Adige Igp Alla base di un buon prodotto vi è una buona materia prima. Per questo per lo speck Alto Adige IGP sono utilizzate solo cosce suine magre, sode e provenienti da allevamenti riconosciuti e controllati dell’Unione Europea. Per la produzione dello speck altoatesino non si importa né bestiame né carne congelata. Lo speck Alto Adige IGP è: • tipicamente speziato: le baffe di speck vengono cosparse di sale e di una speciale miscela di aromi (sale, pepe, ginepro, rosmarino e alloro). Esse vengono salmistrate a secco in ambiente controllato per tre settimane e girate più volte per agevolare la penetrazione uniforme della salamoia. Ogni produttore ha una ricetta segretissima per miscelare il sale, il pepe, il ginepro, il rosmarino e l’alloro. Si deve però fare attenzione che il contenuto di sale nel prodotto finale non superi il 5%; • tipicamente affumicato: dopo la salmistratura, le baffe vengono
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La collaborazione tra lo speck Alto Adige e il melone mantovano evidenzia ciò che i buongustai sanno da tempo: speck e melone sono una coppia perfetta! Lo speck, leggermente affumicato e stagionato all’aria fresca di montagna, si sposa perfettamente con la dolcezza fruttata del melone.
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sottoposte per cinque giorni alternativamente alle fasi di affumicatura, leggera e con legna poco resinosa, e di asciugatura all’aria fresca delle valli altoatesine. La temperatura del fumo, inoltre, non può superare i 20°C. Solo così lo speck assume il suo inconfondibile aroma finemente speziato; tipicamente stagionato: in seguito all’affumicatura, le baffe restano appese in locali pervasi dall’aria fresca delle valli di montagna altoatesine, all’interno dei quali viene continuamente controllata la temperatura e l’umidità. La durata della stagionatura è in media di 22 settimane, durante le quali lo speck perde parte del suo peso iniziale, acquistando così la sua tipica consistenza solida. Solo nel caso in cui lo speck, dopo la stagionatura, rispetti i criteri prestabiliti e superi i numerosi controlli, gli può attribuire la denominazione di “Speck Alto Adige” dal suo luogo di origine.
Mercati e vendita I mercati principali per lo speck Alto Adige IGP sono il Nord Italia, la Germania meridionale e l’Austria. Acquistano sempre maggiore importanza la Germania settentrionale, l’Italia del
Sud, la Svizzera e altri mercati del centro ed est europei. Fuori dall’Europa sono in aumento le vendite negli Stati Uniti e in Giappone. Consigli su taglio e conservazione Se acquistato nella confezione sottovuoto, lo speck si conserva per alcuni mesi in frigo o in luogo fresco e non troppo esposto alla luce. Una volta aperto, si consiglia di lasciarlo a temperatura ambiente per qualche ora prima di consumarlo, affinché possa sviluppare il suo aroma. Tolto dalla confezione, lo speck può essere conservato per qualche settimana avvolgendolo in un panno umido o tra due piatti fondi. Più l’ambiente è umido e fresco, più morbido si conserva. Se invece l’ambiente è secco e caldo, lo speck si indurisce. La muffa che si può formare in superficie si può rimuovere senza problemi tagliando la prima fetta e non compromette la qualità del prodotto. Per essere gustato al meglio, lo speck andrebbe sempre tagliato contro-fibra. Nel tagliare lo speck, si dovrebbe cominciare dalle parti più esterne poiché si seccano per prime. Esistono diversi modi di tagliarlo — con o senza la crosta, a mano o con la macchina, elegante e delicato a fette sottili, cubetti o listarelle — e ognuno determina una sensazione diversa al palato.
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Burrata, vetro di melone mantovano, battuta di manzo e speck (Ricetta di Manuel Astuto, chef de cuisine, Ristorante Laurin, Bolzano) Ingredienti • 200 g di burrata campana Dop • 300 g di melone mantovano Igp • 50 g di filetto di manzo, battuto a crudo • 200 g di speck dell’Alto Adige Igp a fette sottili • 20 g di zucchero a velo • 50 g di albume • olio extravergine d’oliva • sale e pepe q.b. • insalatina mista a piacere Preparazione Frullare il melone con l’albume e lo zucchero a velo. Ricoprire una placca da forno con carta da forno e stenderci in modo uniforme il composto. Farlo asciugare nel forno a 50° per 2 ore. Nel frattempo condire la carne di manzo con olio, sale, pepe. Condire la burrata con olio, sale e pepe. Impiattare il tutto a piacere, guarnire con l’insalatina, il vetro di melone e lo speck.
Il melone mantovano liscio IGP Il melone mantovano liscio IGP, coltivato quasi esclusivamente nella zona di Mantova, è a maturazione tardiva. Disponibile da giugno a settembre, viene molto apprezzato per il suo retrogusto ricco di aromi e profumi. Il calibro è compreso tra gli 800 grammi e 1,8 kg e la conservabilità è di circa una settimana. Le principali varietà coltivate sono Honey Moon, Bacir e Saphir, che si distinguono da tutti gli altri meloni presenti sul mercato: il frutto, infatti, è esteticamente molto particolare, di forma tonda, la buccia è completamente liscia o parzialmente retata nell’area del picciolo. Il colore va dal grigio-verde chiaro al giallo paglierino-crema, secondo il grado di maturazione; in base alle varietà, anche nella piena maturazione si possono riscontrare alcuni raggi di colore verde più scuro che dipartono dal picciolo. La buccia è medio-spessa. La polpa, succosa e saporita, ha colore arancione chiaro, talora vira al color “salmone”. All’interno, i semi sono contenuti in uno spazio molto ridotto, per cui si può ricavare dal frutto una bella fetta corposa, che si presta alla preparazione di numerose ricette. >> Link: www.speck.it www.melonemantovano.it
Agricoltura, dalla UE via libera alla Dop per il salame Piemonte Lo scorso 16 luglio la Commissione europea ha approvato l’aggiunta del Salame Piemonte al registro delle Denominazioni di Origine Protetta. Il Salame Piemonte Dop è costituito dall’impasto di carne suina fresca marezzata che non ha subito processi di congelamento, ottenuta dai seguenti tagli: per la parte magra si utilizza la muscolatura striata proveniente coscia, spalla e pancetta; per la parte grassa si lavora il grasso nobile della pancetta, gola e lardo. Non possono essere utilizzate carni separate meccanicamente. Al taglio la fetta di colore rosso rubino si presenta compatta ed omogenea. Il pepe è presente in pezzi e/o in polvere. All’assaggio è dolce e delicato, leggermente speziato. La caratteristica principale del salame Piemonte è la presenza di vino rosso Piemonte Dop, prodotto unicamente da uve Nebbiolo, Barbera e Dolcetto. Questi vini locali danno al salame il gusto e l’aroma tipici che lo differenziano da altri prodotti simili sul mercato.
Aumenti a doppia cifra per i salumi piacentini Dop Il Consorzio dei Salumi Dop Piacentini ha reso noti i dati di produzione delle tre Dop, coppa, pancetta e salame. Dati che confermano un trend positivo con le tre produzioni a Denominazione di Origine Protetta tutte con il segno “più”. Il salame piacentino in particolare ha registrato un salto del 46% in termini di pezzi prodotti e che sana la leggera flessione registrata nel 2012 e 2013. Bene anche la coppa, con l’aumento del 12%, e la pancetta con un +1,5%. Entrando nel dettaglio, la produzione di salame piacentino, che nel 2000 contava 222.297 pezzi, nel 2014 invece ne ha registrati ben 1.581.835. Praticamente sette volte tanto. La pancetta piacentina si assestava sui 12.994 nel 2000; nel 2014, 129.142. Infine, la coppa piacentina: da 67.640 pezzi a 389.783 nel 2014. (Fonte: CremonaFiere, www.salumi-italiani.it)
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Sbarca in Cina la mortadella italiana: Felsineo primo produttore ammesso nel Sol Levante È arrivato a destinazione il primo carico di mortadella Felsineo destinato alla Cina, il paese che ha aperto le porte quest’anno ai salumi cotti provenienti dall’Italia, dopo un lungo iter di negoziazioni iniziato ormai nel lontano 2004. Felsineo è una delle aziende italiane che ha superato i controlli e le verifiche delle autorità cinesi, ricevendo il benestare all’export nel paese del Sol Levante. La società bolognese specializzata nella produzione di mortadella ha avviato le pratiche per il riconoscimento ben 11 anni fa, quando il Ministero della Salute italiano ha iniziato a raccogliere le prime adesioni da parte di aziende del nostro paese interessate ad esportare in Cina. Nell’agosto del 2006 gli ispettori cinesi si sono recati in azienda per effettuare gli audit e verificare gli standard italiani, non esattamente sovrapponibili a quelli cinesi dal punto di vista tecnico e igienico-sanitario. Felsineo si è adeguata alle richieste e ha firmato un protocollo d’intesa che solo nel 2015 ha portato all’apertura delle frontiere cinesi. «Dopo tanti anni di attesa è per noi motivo di grande soddisfazione essere stati i primi a portare la mortadella in Cina, un emblema della cucina italiana ed emiliana nel mondo» afferma ANDREA RAIMONDI, presidente della società. «Felsineo è organizzata per rispondere agli standard qualitativi più elevati e ha ottenuto negli anni le certificazioni internazionali per esportare in ogni parte del mondo. Così da oggi siamo presenti anche in Cina». Il 22 maggio scorso la prima fornitura di mortadella italiana ha superato la dogana cinese. Felsineo ha spedito il carico-test di 150 kg a Shanghai, che insieme a Pechino sarà uno dei due principali mercati di destinazione. I canali di vendita di Felsineo in Cina saranno due: HORECA, soprattutto i ristoranti e i grandi hotel frequentati dagli occidentali trasferitisi in Cina, e GDO, Metro, Carrefour e Auchan in primis. Felsineo ha messo a punto per l’occasione anche un logo in caratteri cinesi, ma sul mercato d’oriente la mortadella Felsineo uscirà con il nome italiano, a rafforzare l’origine made in Italy del prodotto. Nel corso di maggio, inoltre, Felsineo era presente all’interno dello spazio del Consorzio Mortadella Bologna Igp presso Eataly a Expo Milano 2015, nell’area denominata Saporèm. La partecipazione dell’azienda bolognese a Expo si rinnova anche per il mese di settembre. La Felsineo Spa, specializzata nella produzione e vendita di mortadella, è stata fondata dalla famiglia Raimondi nel 1963 e ha sede a Zola Predosa, in provincia di Bologna. Ancora oggi vanta una gestione famigliare e un forte legame con il territorio e la tradizione, pur essendo evoluta negli anni verso standard qualitativi internazionali e una moderna concezione dei mercati. I principali paesi verso cui esporta sono il mercato europeo, la Corea e Hong-Kong. Ha 120 dipendenti e un fatturato di 50 milioni di euro. >> Link: www.felsineo.com
Emanuela e Andrea Raimondi, amministratore delegato e presidente della società (photo © Raimondi Media).
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Consorzi Sostegno alla filiera, qualità, export: questi i focus del mandato
Prosciutto di Parma: Vittorio Capanna presidente
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l Consiglio di Amministrazione del Consorzio del Prosciutto di Parma, riunitosi nella sede di Largo Calamandrei lo scorso 18 aprile, ha nominato VITTORIO CAPANNA alla presidenza dell’organismo di tutela che raggruppa oggi 150 aziende produttrici di prosciutto di Parma. Capanna è dal 1994 amministratore e rappresentante legale della Capanna Alberto Srl, storica realtà che, giunta alla terza generazione, è specializzata nella produzione di prosciutto di Parma da oltre 50 anni. A fianco del fratello Alberto, dei figli e dei nipoti, Capanna ha assicurato sviluppo e dinamicità all’azienda di famiglia che ha visto crescere notevolmente le proprie dimensioni pur restando a carattere familiare. Capanna vanta una vasta conoscenza nel settore e del mondo consortile. La sua esperienza al Consorzio del Prosciutto di Parma lo vede consigliere dal 2009. Dal 2007 al 2009 è stato membro del Consiglio Direttivo di IPQ, Istituto Parma Qualità. Ha ricoperto inoltre ruoli di crescente responsabilità anche in altri ambiti molto diversi. Dal 1969 al 1974 è stato infatti funzionario nella direzione operativa presso la Chevron Oil Italiana Spa con sede a Roma e funzionario presso la Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza dal 1974 al 1994. Capanna guiderà un comparto che vale 1,7 miliardi di euro e una filiera produttiva imponente che comprende 4.200 allevamenti suinicoli, 130 macelli, 3.000 addetti alla lavorazione nella provincia di Parma e un totale di 50.000 persone che lavorano nel circuito tutelato. Lo affiancheranno in questo mandato due vicepresidenti, FEDERICO GALLONI e GIORGIO TANARA. L’assemblea ordinaria dei consorziati ha eletto anche gli altri componenti
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Vittorio Capanna, nuovo presidente del Consorzio del Prosciutto di Parma (photo © Alessandro Carra). del nuovo Consiglio di Amministrazione: ROBERTO ADORNI, LUCA BARATTA, NINO BARAZZONI, GIAN LUCA CANETTI, FRANCESCO CORBELLI, ELENA DALLA BONA, MARCO FERRARI, PIER ARNALDO FONTANA, PAOLO GRASSI, ROMEO GUALERZI, ELIO MARTELLI, EMILIO SASSI, SIMONE TROBBIANI, ALESSANDRO UTINI, PAOLO VESCOVI, nonché CARLO ANDREA SARTORI in rappresentanza degli allevatori, UGO SASSI in rappresentanza dei macellatori, ALBERTO BERETTA per i confezionatori e ha provveduto a nominare ENRICO CALESTANI alla presidenza del Collegio sindacale e MATTEO CHIARI e PAOLO UGOLOTTI come membri effettivi dello stesso Collegio. Esportazioni, Expo e confronto interprofessionale Dopo aver ringraziato tutti i produttori per la fiducia accordatagli, Vittorio Capanna ha esposto i punti chiave del suo mandato e le attività su cui si
concentrerà il Consorzio nei prossimi anni. «La particolare congiuntura economica che sta vivendo il nostro Paese — ha affermato Capanna — è sotto gli occhi di tutti. Una crisi che ha colpito anche il nostro comparto generando un significativo calo dei consumi. Abbiamo però tutti i numeri per poter contrastare adeguatamente anche questo momento di difficoltà: un prodotto con uno standard qualitativo d’eccellenza, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo; un brand solido, grazie al quale è stato possibile consolidare la nostra presenza nei mercati esteri tradizionali e che aiuterà il comparto anche a valutare con attenzione nuovi sbocchi commerciali puntando ai Paesi extraeuropei; e un modello economico senza pari, fatto di piccole e medie aziende riunite in un Consorzio. Tutti elementi che ci permetteranno di continuare a essere competitivi sul mercato».
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Capanna ha poi parlato della crescita all’estero costruita in questi anni principalmente attraverso la differenziazione dei mercati e l’espansione geografica, confermando che tutti gli sforzi e il know-how del Consorzio saranno volti ad agevolare il più possibile le esportazioni e ad impedire che possibili problematiche doganali possano danneggiare l’espansione e lo sviluppo internazionale del Prosciutto di Parma. «In questo senso ci auguriamo che la nostra partecipazione a Expo 2015, dove siamo presenti insieme ad altre eccellenze produttive italiane all’interno del padiglione CIBUSèITALIA, possa contribuire e giovare anche alle nostre esportazioni in tutto il mondo e a difenderci da fenomeni di Italian sounding che ci danneggiano agli occhi dei consumatori. Più in generale è un’opportunità unica per il nostro Paese, per crescere e confrontarsi con realtà diverse e a tutti i livelli, e ci auguriamo che possa essere la spinta propulsiva per una ripresa generale dell’Italia». Capanna ha poi concluso dicendo che punterà innanzitutto sulla condivisione di intenti all’interno del Consiglio di Amministrazione e sull’assicurare un clima di piena collaborazione tra le aziende nell’intero comparto. Collaborazione, questa, fondamentale anche rispetto al resto della filiera. L’obiettivo strategico dei progetti di lavoro del nuovo Consiglio di Amministrazione sarà la centralità del confronto interprofessionale a partire dagli allevatori. «In questo momento storico di difficoltà diffuse, abbiamo pensato di utilizzare gli strumenti oggi disponibili per proteggere con orgoglio e passione l’intero settore produttivo del prosciutto di Parma garantendo un futuro sostenibile a tutti gli anelli della filiera».
>> Link: www.prosciuttodiparma.com
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Sapori dal mondo
Club sandwich, bontà a più strati di Clara Scaglioni
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l panino è certamente una delle preparazioni culinarie più semplici e veloci, sempre perfetto per i picnic e le gite fuori porta, ma, visti i cambiamenti delle nostre abitudini alimentari, può essere un ottimo sostituto del pasto più tradizionalmente inteso o uno spuntino per occasioni speciali. I classici “pane e salame” o “pane e mortadella” sono tra i più gustosi e apprezzati, ma ovviamente esistono farciture di
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tutti i tipi, più o meno sostanziose, più o meno elaborate. Diciamo che qualsiasi ingrediente può diventare il ripieno di un panino. Oltre ai tradizionali salumi, affettati e formaggi, sono perfetti i prodotti gastronomici locali, le verdure, crude-cotte-grigliate, le frittate, le polpette, gli hamburger, le salse, e il pane, freddo-caldoabbrustolito, può essere la classica “michetta” o rosetta, o la ciabatta, oppure la piadina, la focaccia, la
bruschetta, il pancarré, la baguette tipica francese, o il pane arabo tipo pita… E qui mi fermo perché l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Comunque sia, si tratta sempre di un piatto gustoso, fragrante e sfizioso, noto in tutte le parti del mondo, anche se a livello internazionale è più conosciuto come sandwich, termine che, oltre al panino imbottito, include il classico “tramezzino”, consistente in due fette di pancarré farcite con di-
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versi ingredienti. Etimologicamente parlando, si definisce sandwich una preparazione composta da due fette di pane imburrate (di solito si usa il pancarré, ma può andare bene anche il pane di segale, l’integrale, all’olio o quello normale), che possono racchiudere, al loro interno, salumi affettati, formaggi vari, carne cotta fredda, maionese o altro. L’origine della preparazione è simpatica e vale la pena conoscerla, non prima però di aver fatto una piccola osservazione personale. Molti avranno certamente sentito parlare dei “ragazzi di via Panisperna”, il gruppo di giovanissimi fisici che nel 1934, proprio in questa via romana, collaborò con Enrico Fermi alla scoperta delle proprietà dei neutroni lenti, che dette l’avvio alla realizzazione del primo reattore nucleare e della bomba atomica. Via Panisperna, ubicata nel quartiere che corrisponde alla Suburra dell’antica Roma, secondo alcuni studiosi prenderebbe il nome dalla locuzione latina panis ac perna (= pane e prosciutto), presente su una lapide qui esistente, che faceva menzione di un prefetto Perpenna. Secondo COSTANTINO MAES (Curiosità romane, Roma, E. Perino, 1885) in questo luogo sorgeva il Tempio di Giove Fagutale, al quale si era soliti sacrificare un porco (da cui perna = prosciutto), i cui pezzi si mangiavano avidamente, celebrandone poi la festa con conviti popolari nei quali si dispensavano a profusione, a tutti i devoti, pane e prosciutto. Tradizione rimasta alle monache della chiesa di S. Lorenzo che distribuivano panis et perna ai poveri nel giorno della festa del santo. Da Lord sandwich al club sandwich Se già dai tempi dell’antica Roma si preparavano dei panini con carne di maiale, non si può pertanto affermare che sia stata una gran novità quella del panino imbottito ideato dal nobile JOHN MONTAGU, famoso quarto conte di Sandwich, vissuto in Inghilterra nel XVIII secolo. Giocatore incallito, si dice che, pur di non interrompere le partite, si facesse servire al tavolo da gioco dei panini imbottiti di carne fredda. L’idea piacque talmente che in onore del conte fu chiamato sandwich il panino realizzato con due fette di
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pane in mezzo a cui veniva inserito qualsivoglia ingrediente. Ad onor del vero va ricordata anche un’altra versione, legata al carattere di Lord Sandwich, grande lavoratore, talmente preso dagli affari da voler mangiare senza allontanarsi dalla sua scrivania. La storia del sandwich, però, non si ferma in Inghilterra, ma si trasferisce in America, dove, con l’aggiunta della parola Club, ottiene, coram populi, la piena incoronazione. Prima di darne una descrizione minuziosa, è doveroso ricordare che, ai primi del ‘900, in Francia fece la sua comparsa il Melba toast, servito con pancarré imburrato e uovo, creato dallo chef GEORGES AUGUSTE ESCOFFIER in onore del soprano australiano Nellie Melba. Il grande cuoco nutriva per lei una profonda ammirazione, tanto che all’epoca le aveva già dedicato il più noto e famoso dessert costituito da mezze pesche affogate in uno sciroppo di vaniglia, adagiate su un letto di gelato sempre alla vaniglia e velate da una crema di lamponi. Il tramezzino più famoso al mondo Il Club sandwich o Club house sandwich è un tramezzino tostato a più strati, i cui ingredienti sono introdotti (regola insindacabile!) secondo un ordine ben preciso e de-
finito. Si dice che WALLIS SIMPSON — per amore della quale Edoardo VIII rinunciò al trono d’Inghilterra — preparasse personalmente, con grande maestria, il Club sandwich per il marito, che lo voleva fatto solo da lei. La sua nascita risale al 1894 grazie a R ICHARD C ANFIELD , proprietario a New York del The Saratoga Club House, un club privato ed esclusivo di gioco d’azzardo. Si racconta che alcune signore, rimaste a giocare ai tavoli fino a tarda notte, poco prima di andarsene avessero chiesto a Mr. Canfield qualcosa da mangiare. Essendo la cucina ormai chiusa e senza personale (ma secondo un’altra versione della storia fu il cuoco DANNY MEARS ad improvvisare la cena inventando il sandwich più amato negli Stati Uniti), dopo avere dato un’occhiata alla dispensa, cercò di rimediare qualcosa con gli avanzi della cena e preparò dei sandwich che poi servì caldi. Le signore rimasero entusiaste e il giorno dopo decantarono la squisitezza di quanto gustato la sera prima a tutti i soci, che a loro volta ne ordinarono in grande quantità decretandone il successo. Fu così che il neonato Club house sandwich venne inserito nel menù ufficiale del locale. In sostanza, si tratta di un megapanino adatto ad essere servito
Tra le tante storie che hanno come protagonista il Club sandwich c’è quella che dice che fosse il piatto preferito di Edoardo VIII e della sua consorte Lady Wallis Simpson (photo © www.townandcountrymag.com).
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in particolare nei picnic eleganti perché non solo è buono ma anche scenografico. Tradizionalmente viene preparato con fettine di pollo cotto, bacon, pomodori, lattuga, maionese e fette di pane tostato. Per “comporre” un perfetto Club sandwich, però, occorre seguire una serie di passaggi importanti. Si incomincia dalle fette rettangolari di pancarré (facilmente reperibile nei supermercati), si tagliano dei triangoli abbastanza grandi, tenendo presente che per ogni panino ne occorrono almeno tre. Si mettono le fette in forno a tostare leggermente e si procede con la loro sovrapposizione. Si spalma la fetta di base con un poco di maionese, poi si inseriscono i vari elementi: fettine di bacon prima messe a sgrassare in forno o in padella, pomodoro tagliato a fettine sottili, sgrondato dal suo liquido, leggermente condito con pochissimo olio, foglie di insalata fresca, uova rassodate con il tuorlo ancora un po’ morbido, fettine di pollo cotto. Si prende poi una seconda fetta di pane tostato, la si sovrappone e si procede allo stesso modo ripetendo gli ingredienti nello stesso ordine.
Infine si chiude con la terza fetta di pane e si ferma questo “grattacielo” con due grossi spiedini di legno, per tenere uniti tutti gli ingredienti. Il Club sandwich è una vera delizia del palato per le innumerevoli, differenti sensazioni di sapore e di consistenze che si percepiscono mentre lo si mangia. Naturalmente nel corso degli anni, pur mantenendo la sua impostazione di mega-sandwich, ha subito delle variazioni per quanto riguarda la scelta degli ingredienti. Alcuni infatti preferiscono la fettina di tacchino al posto di quella di pollo, il salmone al posto del bacon o il prosciutto al posto della pancetta, e il cambiamento degli ingredienti, rispetto alla ricetta originale, è legato in parte alle tradizioni e ai gusti dei vari paesi che l’hanno inserito nella propria cucina. Nel 2009 la prestigiosa rivista inglese MONOCLE MAGAZINE ha pubblicato per la seconda volta una curiosa classifica, chiamata “Travel Top 50”, ovvero le migliori soluzioni e i dettagli per chi viaggia per affari o per vacanza. La classifica è stata stilata basandosi sull’opinione di attenti giudici, che
hanno valutato la qualità dei servizi e delle offerte gastronomiche delle varie tipologie di bar e tutte le comodità di alberghi, treni, aerei stazioni e aeroporti. Ebbene, in questa classifica l’Hotel Park Hyatt di Milano, con il suo Club sandwich, è stato dichiarato il migliore del mondo. Questo magnifico risultato non è sbalorditivo perché si tratta di un sandwich, ma perché è il piatto che ha il maggiore successo nel menù del lussuoso albergo. Ciò è dovuto alla grande ricercatezza degli ingredienti, di altissima qualità, e all’attenzione per i dettagli. Il pane viene leggermente tostato per due minuti, le fette farcite di uno speciale tacchino maschio di razza spagnola, mentre le uova vengono cotte per quattro minuti ad alta temperatura e la lattuga è del tipo iceberg, più croccante e delicata. Il tutto poi viene accompagnato da deliziose patatine fritte. Clara Scaglioni Nota A pagina 50, il Club sandwich classico con patate speziate del Park Hyatt Milano (photo © milan.park.hyatt.com).
Scamporella ovvero gustare i sapori di Romagna sotto gli ulivi Un magico picnic notturno, il profumo della lavanda, la musica nell’aria, vini locali e bevande bio, le tovaglie a quadretti, i palloncini bianchi e un cestino pieno di bontà preparato con cura dai padroni di casa, dal pane con salumi e formaggi alle pietanze più elaborate servite direttamente sotto il proprio ulivo durante la serata. Tutto questo, e molto di più, è Scamporella, una serie di eventi-cene organizzate presso l’azienda agricola biologica di Giunchi Enrico a Rio Marano di Cesena che si svolgerà per tutta l’estate fino a settembre nella sola serata del giovedì. «Il termine picnic, di derivazione anglosassone, si riferisce ad un evento frugale, al di fuori dei rigidi schemi dettati da un pranzo tradizionale e di regola composto da pochi e semplici cibi sottratti direttamente dalla cucina» racconta Andrea Cappelletti, uno degli ideatori di Scamporella, che quest’anno festeggia i due anni di vita. «Noi siamo andati molto oltre e, prendendo spunto dalla locuzione “andare in camporella”, ossia appartarsi in un campo per scambiarsi effusioni amorose, abbiamo aggiunto la mitica “esse” romagnola, inserito un cestino pieno di prelibatezze, tanti dettagli ricercati e le nostre suggestive colline di sera… Il risultato? Venite a vederlo voi stessi! Scamporella è qualcosa di unico nel suo genere, per ritrovare la voglia di divertirsi a contatto con la natura e assaggiare quanto di buono la terra ha da offrire, trasformato da abili mani». Il successo dell’iniziativa ad oggi è stato tale che prenotarsi è davvero un’impresa. Agli organizzatori va quindi un applauso e l’invito ad aggiungere presto altre date. >> Link: scamporella.it
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Trend
Indovina chi viene a cena L’home restaurant è l’ultima conseguenza dell’effetto MasterChef nel mondo. Inviti degli estranei a casa tua e a fine serata fai pagare loro il conto. Come se il soggiorno fosse la sala di un locale alla moda. Ma le regole? La sicurezza? L’igiene? Le tasse? Per ora nessuna certezza di Sebastiano Corona
L
a crisi economica degli ultimi anni ha minato il settore della ristorazione, compreso il consumo di pasti in strutture complementari come bar e tavole calde. Per far tornare i conti a fine mese sempre più spesso si fa una pausa pranzo con un pasto frugale portato da casa. Eppure, il mondo della somministrazione non finisce
mai di fare sorprese a chi vi opera e a chi ne fruisce. Le categorie che possono rispondere all’esigenza di mangiare fuori casa sono diverse ma, come spesso accade in Italia, esse sottostanno inspiegabilmente a regole diverse. Alla ristorazione classica si affiancano i bar, i circoli privati, gli agriturismi, le mense aziendali, ma anche gli artigiani e i commercianti.
Tutti stanno in cucina, ognuno lo fa a suo modo e con norme differenti Per poter avviare un ristorante degno di questo nome, il titolare deve vantare dei requisiti personali, non ultima l’iscrizione alla Camera di Commercio, al Rec, l’idoneità dei locali dal punto di vista igienico sanitario, il rispetto delle innumerevoli norme sull’ambiente e sulla
L’attuale crisi economica ha minato il settore della ristorazione. Non bastasse, ai luoghi tradizionali di consumo, oggi si è affiancata la moda degli home restaurant, una pratica che sta appassionando gli amanti della cucina homemade.
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sicurezza, compresa quella del personale, del prodotto somministrato e una serie infinita di altre stringenti regole. Si aggiunge un regime fiscale e contributivo rigido che non fa sconti a nessuno. Per fare un esempio, gli artigiani normalmente non possono effettuare la somministrazione del prodotto, pertanto, chi si serve da loro, deve fare da sé. Il bagno per i clienti inoltre non è obbligatorio. Per intenderci, se dentro una gastronomia o una pizzeria al taglio è permesso consumare un piatto al banco o anche seduti ad un tavolino, quel piatto verrà ritirato dal cliente alla vetrina, al pari di bicchieri, bevande ed eventuali posate. E, presumibilmente, quelle stoviglie che saranno usa e getta, dovranno essere buttate nella spazzatura dallo stesso cliente a fine pasto. In realtà i regolamenti locali e le Camere di commercio fanno spesso la differenza da zona a zona. Ma pur con dei distinguo, le imprese sottostanno ad indicazioni precise per le quali subiscono delle visite ispettive da organismi di controllo diversi. Nel mare magnum della ristorazione compaiono anche gli agriturismi e tutto ciò che ruota attorno all’agricoltura, compreso l’agricatering, le cui regole, da alcuni ritenute discutibili, non fanno che alimentare una polemica senza fine. Una simile frammentazione legislativa — probabilmente unica al mondo nel suo genere — dovrebbe far riflettere sull’urgenza di una riforma e sulla necessità, ormai non più rinviabile, di superare un sistema anacronistico. È improcrastinabile l’introduzione, in tutto il territorio nazionale, di un comparto produttivo unico senza inutili distinguo, che comporti l’applicazione di regole uguali per tutti coloro che producono e somministrano del cibo, a qualunque titolo lo facciano. Vista la delicatezza del caso, trattare prodotti alimentari e servirli al consumatore deve essere prerogativa di chi vanta professionalità o titoli di studio riconosciuti. Tutti, inoltre, devono rispettare allo stesso modo le norme fiscali, previdenziali e di igiene e sicurezza.
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Complici programmi come MasterChef, sono tanti oggi quelli che si sentono grandi cuochi quando invece, essere davvero un cuoco, comporta seria e profonda preparazione, sacrifici e grande impegno (photo © MasterChef Magazine). La moda dell’home restaurant Nel mercato c’è posto per tutti, purché ognuno lo faccia nel perimetro delle norme e ponendo la tutela del consumatore al centro del proprio lavoro. Sembrerebbero concetti scontati ed ovvi, ma non è così purtroppo. In un quadro normativo complesso e, nonostante tutto, lacunoso, si inseriscono anche fattispecie fortemente equivoche come la preparazione e somministrazione di pasti da parte di soggetti che non si possono considerare nemmeno imprese a tutti gli effetti. Le “attività” ai limiti della legalità, sulle quali il dibattito di operatori, istituzioni e consumatori si anima, sono sempre più numerose ed ecco all’orizzonte una novità che molto sta facendo discutere: l’home restaurant. L’ultima moda è quella di accogliere dei perfetti estranei in casa propria, servire il pasto e far pagare loro il conto a fine serata, come fosse un ristorante a tutti gli effetti. Decine di anni di La prova del cuoco o programmi di cucina di maggior effetto hanno lasciato il segno. Ora tutti si sentono grandi chef, critici di caratura internazionale, enogastronomi esperti. E cosa c’è di più intrigante di guadagnare da una passione e nel contempo riscuotere successi tra amici ed estranei?
Basterà entrare in uno degli innumerevoli portali che promuovono “i cuochi” mettendoli in contatto con i potenziali commensali, per capire che la cosa sta riscuotendo un consenso destinato a durare nel tempo. I siti — che non citeremo per evidenti motivi — fanno da punto di incontro tra domanda e offerta e riportano le ragguardevoli cifre degli aderenti. Cifre da far ricredere chi pensa che una concorrenza vera e propria nei confronti dei ristoratori non esista. Gli stessi portali on-line presentano dei vademecum su come i novelli chef possono operare senza timori di rappresaglie da parte della Guardia di Finanza, piuttosto che dell’Agenzia delle Entrate. Se non si supera la soglia dei 5.000 euro di introiti all’anno, infatti, non si è tenuti all’apertura di una partita IVA e questo basta ai più per sentirsi in pace con il mondo. Quando e se la cifra fatidica venga superata non è sempre dato sapere. È vero che per regola andrebbe rilasciata una ricevuta ad ogni cliente e quindi fare la somma degli introiti complessivi non dovrebbe essere difficile, ma chi può vigilare sul numero di cene private che una persona organizza a casa sua? Come farebbero gli organismi preposti al controllo a fare gli accertamenti?
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Un aspetto che attira moltissimo i nuovi frequentatori degli home restaurant è la possibilità di incontrare e conoscere altre persone tanto che si parla di social eating (photo © theshychef.wordpress.com). Un luogo privato, non pubblico Tutto questo è un mistero, ma non è certamente il più inquietante. Se i produttori alimentari, ristoratori compresi, si stanno ancora interrogando sulle modalità applicative del tanto discusso Regolamento UE 1169/2011, negli home restaurant questa non sembra una priorità. D’altronde, non si può pretendere che un privato cittadino applichi le norme sulla rintracciabilità nella propria dispensa, né che adotti un manuale HACCP nella cucina di casa, ma nemmeno che informi i commensali sugli allergeni presenti nei piatti serviti agli ignari clienti! Per loro non vige obbligo alcuno. O almeno così pare. Dell’applicazione delle norme sulla sicurezza, che pure in questo caso passano in secondo piano, come le uscite d’emergenza, la cassetta del pronto soccorso, la dotazione di estintori, ecc..., non è dato sapere. “Si tratta dell’appartamento di un privato, non di un luogo pubblico”: è dietro a questa affermazione che si trincera chi apre un home restaurant in casa sua.
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Ci troviamo di fronte ad un vuoto normativo. Il nostro legislatore, come spesso accade, non è al passo coi tempi, ma va comunque detto che la somministrazione, ancorché occasionale, di cibo e bevande, effettuata dietro corrispettivo, è sottoposta ad un complesso regime autorizzatorio in capo a più soggetti che non ammette molte deroghe e, di sicuro, non contempla questo caso. Verrebbe inoltre da chiedersi, in ragione di una questione di imparzialità di trattamento di tutti gli operatori economici, perché ai ristoratori dovrebbe essere richiesta una serie di requisiti severissimi se altri soggetti possono svolgere la stessa attività in barba a qualunque regola igienico sanitaria. I rischi che i clienti corrono non sono forse gli stessi? Perché avviare con grande sacrificio un ristorante, combattere e sopravvivere con la burocrazia, il diritto del lavoro dei dipendenti, gli innumerevoli organismi di controllo, gli enti autorizzatori, i costi sconsiderati, le imposte, le tasse e i contributi
se la stessa professione può essere esercitata tra le mura domestiche in totale libertà? Il danno e pure la beffa Gli ottimisti diranno che si tratta di un fenomeno limitato nei numeri e nell’impatto e che, in fondo, una vera e propria concorrenza sleale con i ristoratori non si crea. Probabilmente questa errata convinzione è quella che ancora ha impedito alle associazioni di categoria e a quelle dei consumatori di mettere in discussione questo genere di attività. Ma, a parte il fatto che chi gestisce un ristorante si deve attenere alla normativa che serva 4 pizze o che ne serva 4.000, non si creda che questa nuova modalità di lavoro sia confinata a pochi appassionati di cucina che si dilettano il fine settimana. A dare uno sguardo su internet, infatti, non si trovano solo innumerevoli hosting provider che supportano chi accoglie ospiti a casa a pagamento, ma ci si rende subito conto che i numeri sono da capogiro e che la moda — se così la vogliamo chiamare — è
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dilagante. È inoltre facile imbattersi in testimonianze di chi l’attività la svolge con continuità e con una preparazione sempre maggiore. Ciò che colpirà nel leggere alcune esperienze di vita non è solo la sicurezza e l’enfasi con cui l’offerta viene presentata al mercato, ma il fatto che alcuni organizzino periodicamente eventi per diverse centinaia di persone. In abitazioni che si sono sapute ben promuovere, ci sono liste d’attesa di migliaia di persone. Sono gli stessi padroni di casa a farne vanto sul web. Non bastasse, si sappia che una cena a casa di estranei non è affatto economica. Il menu è sempre fisso e i prezzi variano da una ventina di euro circa ad oltre un centinaio a testa. Non è improbabile la richiesta di € 150,00 per una cena home made, soprattutto se la serata è vista mare o sotto le stelle, con panorama da centro storico. Tra le dichiarazioni degli organizzatori che abbiamo appreso on-line, si legge in un passaggio: “vantiamo clienti di ogni nazionalità e abbiamo il merito di aver recuperato la fiducia di molti turisti reduci da disavventure con ristoratori disonesti”. Insomma, i cuochi, quelli veri, si mettano comodi e si dotino di pazienza perché qui, oltre a subire il danno, si patisce anche la beffa. Ad un’analisi attenta c’è inoltre un altro elemento degno di nota. Gli hosting provider non hanno infatti un ruolo secondario nel mettere in contatto padrone di casa e clienti e nemmeno nella transazione di denaro che ne segue per la quale spesso fungono da intermediari veri e propri. Promuovono gli eventi e spingono sempre più soggetti a realizzare un’attività che, esercitata con una certa continuità, non si può considerare forse professionale, ma nemmeno un hobby vero e proprio. Tra l’altro, a prescindere dal trattamento fiscale applicato, non è escluso che questo genere di comportamento non si possa ascrivere all’esercizio abusivo della professione, oltre alla violazione di un complesso sistema di norme amministrative e di igiene e sicurezza. Chi risponde di eventuali danni causati a terzi durante una cena pubblico/privata in casa?
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Chi risponde di eventuali problemi di intossicazione alimentare? Gli hosting provider possono considerarsi responsabili civilmente e penalmente da questo punto di vista oppure eventuali problemi rimarranno confinati in un rapporto tra privati? Se davvero l’attività esercitata dal padrone di casa, in assenza di una legislazione specifica, si potesse configurare come ristorazione abusiva, il provider non dovrebbe anch’egli essere chiamato a rispondere della condotta illecita del proprio utente? Non ci sono leggi, quindi non ci sono divieti. Ma è anche vero che nel nostro ordinamento, in mancanza di norme specifiche, per colmare eventuali lacune legislative si ricorre all’analogia, cioè si applica alla fattispecie una disciplina affine che in questo caso sarebbe, con tutta probabilità, quella della somministrazione di cibi e bevande. Sono tutte ipotesi naturalmente, perché al momento non esiste giurisprudenza in merito. C’è però da scommettere che, come spesso succede in Italia, dove la politica non sempre interviene tempestivamente a disciplinare le situazioni, saranno gli organismi di controllo prima, e la magistratura dopo, ad indicare la strada. Ciò che possiamo fare, in attesa che le istituzioni intervengano sulla questione, è dare un nome alle cose ed evitare di chiamare i figli dell’effetto MasterChef con il termine “cuochi”, come molti hosting provider usano fare. Quella del cuoco è una professione nobile che richiede tenacia, preparazione, talento ed impegno continuo. È un mestiere che implica una precisa scelta di vita che comporta rinunce, sacrifici e talvolta sofferenze. I cuochi hanno un compito importantissimo per il nostro Paese. In mano a loro passa buona parte della nostra economia e, soprattutto, è in mano loro la nostra salute e il nostro benessere. I veri cuochi fanno una vita dura, pagano le tasse, subiscono controlli e rispettano regole rigidissime. A questi soggetti dobbiamo profondo rispetto. Iniziamo a portargliene evitando di sciupare il loro titolo attribuendolo a chi non lo merita. Sebastiano Corona
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Locali di gusto
Nizzoli, il tempio delle lumache di Pier Giovanni Bracchi
S
e oggi, al solo nominare NIZZOLI, il pensiero subito corre alla cucina delle lumache, questo è frutto dell’impegno che da più di mezzo secolo (siamo ormai alla terza generazione) accompagna questi maestri non solo di cucina, ma anche di gentilezza e accoglienza nei confronti di chi arriva a Villastrada di Mantova. In modo particolare, maggio è senza dubbio un mese importante nella storia della famiglia Nizzoli: nel 1963, all’inizio di questo mese, prese il via la loro attività di ristorazione, che da allora non ha mai conosciuto soste. Sempre a maggio, inoltre, si svolge il Festival della Lumaca in Cucina, giunto quest’anno alla 30a edizione. Il ristorante Nizzoli è noto per la sua cucina tematica, legata alle
stagioni, con le manifestazioni dedicate di volta in volta al melone, alla zucca, alla rana, al maiale e, appunto, alla lumaca. Appena terminate le “Grandi maialate” di aprile, Villastrada diventa, infatti, il punto di attrazione enogastronomico per gli amanti di questo mollusco, che giungono dalle località più disparate della Penisola, pur di non perdere le prelibatezze preparate da ARNEO. Uno chef che, tra le innumerevoli doti, coltiva il bellissimo “vizio” della generosità, tanto da avere offerto un sontuoso menu a base di lumache ad un nutrito gruppo di commensali che ha riempito il suo ristorante lo scorso 22 maggio. Per la cena, Nizzoli ha dato sfogo a tutta la sua fantasia, con la presentazione di un menu che ha confermato
(se mai ce ne fosse stato bisogno) come in questo locale “l’innovazione, in definitiva, sia una tradizione ben riuscita!”. Per cominciare l’antipasto, il cosiddetto Arcobaleno di lumache, vale a dire lumache fritte, lumache all’olio, paté di lumache. A seguire, la Zuppa di lumache con profumo di tartufi, gli straordinari Spaghetti di lumache, e i Ravioli di ricotta al sugo di lumache. Dopo questi originalissimi primi, non potevano mancare, nei secondi, le Lumache alla mantovana, accompagnate successivamente da un gustosissimo Spiedino di lumache e Pomodoro di lumache. L’ultima portata è stata riservata alle Escargots à la Bourguignonne, che Arneo ha riproposto ovviamente alla sua maniera.
Lumache alla Bourguignonne.
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Prendete un compasso e puntatelo su Villastrada: l’equidistanza da Mantova, Parma e Modena è referenza gastronomica non da poco. Il Ristorante Nizzoli ha storia secolare, buona parte della quale sotto il segno della famiglia Nizzoli; una sorta di museo, con le pareti ricoperte da murales, fotografie e cimeli di visitatori illustri. Ogni stagione ha la sua specialità: il maiale, nei primi mesi dell’anno; le lumache in primavera e il melone in estate; rane e uva in autunno; la zucca e il tartufo bianco in inverno (www.buonricordo.com).
L’abbinamento dei vini della serata è stato curato con maestria nei minimi particolari dalla Cantina Gozzi di Fattoria Colombara di Monzambano (MN). A questo punto ci si chiede: che cos’è l’estro? È fantasia, rapidità di esecuzione e sorpresa, doti che da sempre accompagnano la famiglia Nizzoli. E a proposito di sorpresa, la Notte delle lumache non è finita qui. Ogni occasione d’incontro in questo ristorante si trasforma in una sorta di mini-convegno e, dal momento che gastronomia fa rima anche con farmacia… Le lumache sono da sempre conosciute per le loro proprietà terapeutiche e la farmacologia moderna, confermando le intuizioni di Ippocrate e Galeno, ha messo in luce in questi molluschi delle secrezioni capaci di favorire la cicatrizzazione delle ferite e il ripristino dei tessuti. Chi meglio allora di DONATELLA V ERONI , Biological Lab Director G.M.F. Medical Beauty Mantova, ospite d’onore della serata, avrebbe potuto coinvolgere tutti i presenti su questo argomento? La dottoressa Veroni ha accennato alle vicende che hanno portato alla scoperta delle proprietà della bava di lumaca presente in creme dermo-
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cosmetiche oggi in commercio in Italia. Tra le varie specie di chiocciole, ha spiegato la Veroni, la Helix aspersa muller si è dimostrata quella migliore per l’estrazione della bava. Questa operazione non è un gioco da ragazzi. Nelle normali condizioni di prelevamento, quando si impiegano metodi che “esaltano” il benessere del mollusco, si ottiene una bava utile per la cosmesi e la farmaceutica; solo così restano inalterate le varie componenti utili a curare o riparare, mentre, con stimolazioni costanti e violente, il secreto che si ottiene è chiaro e schiumoso, povero di ingredienti funzionali. «Comunque, per essere impiegata correttamente — ha concluso la dottoressa Veroni — la bava deve essere trattata in appositi laboratori che ne certificano la qualità per i preparati che verranno messi in commercio». Sapori ma anche saperi a conclusione della stupenda serata, organizzata da questa famiglia, che tanto ha dato all’enogastronomia, innovando e mai tradendo il legame con il territorio padano! Pier Giovanni Bracchi Dip. di Scienze Medico Veterinarie Pietro Giovanni Delprato Università di Parma
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Eventi Premio Antica Corte Pallavicina edizione 2015
Notte dei Culatelli: and the winner is… di Elena Benedetti
È
l’evento mondano in assoluto più “ambito” dell’estate, a cui tanti blogger e food addicted vorrebbero partecipare, desiderosi di quell’invito senza il quale non si accede. Il magico tramonto sul Po e la cena di gala nell’aia, nella cornice tanto semplice e autentica quanto unica di una calda serata di luglio: l’appuntamento che celebra la festa del Culatello di Zibello DOP nella sua terra, la Bassa Parmense, è tornato a far risplendere tutta Polesine Parmense. La famiglia
Spigaroli ha questa grande forza, la capacità di mettere insieme personaggi della gastronomia mondiale in un appuntamento che, anche quest’anno, ha sposato l’esclusività con la naturalezza. Quella della campagna, della vita in corte, la dimora storica della famiglia Spigaroli, un vero sogno tra orti rigogliosi, fagiani variopinti che scorrazzano indifferenti a tutto e tutti, e tavolate imbandite in ogni dove a due passi dal Grande Fiume. La Notte dei Culatelli è anche l’occasione per la consegna del “Premio Antica Corte
Pallavicina”, giunto alla sua decima edizione. «A suo tempo — ci dice Massimo Spigaroli — pensammo a questo premio per rafforzare il nostro legame profondo con il concetto di qualità, in tutti i settori e a tutti i livelli. Una qualità che contraddistingue l’immagine del nostro Paese in diversi campi, a cominciare da quello agroalimentare». L’obiettivo della famiglia Spigaroli è infatti quello di testimoniare, attraverso personalità significative della cultura, dell’economia e della politica, il rapporto vitale
Foto di gruppo a fine serata nella Notte dei Culatelli 2015, svoltasi lo scorso 23 luglio (photo © Canio Romaniello).
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1) Luciano e Massimo Spigaroli premiano lo chef rivoluzionario Gastón Acurio per la sua personalissima visione innovativa della cucina peruviana. 2) Edoardo Raspelli, storico conduttore di Melaverde, la trasmissione televisiva premiata per il continuo lavoro di promozione delle eccellenze agroalimentari del nostro Paese. 3) Luciano Spigaroli e Franco Maria Ricci, illustre editore e grafico parmense dallo stile inconfondibile. 4) Giuliano Molossi, direttore della Gazzetta di Parma, premiato per l’autorevolezza e l’originalità con la quale racconta il territorio di Parma e provincia (per tutte le immagini, photo © Canio Romaniello). tra innovazione e origine, tradizione e progresso che caratterizza anche la loro filosofia, personale e di business. I vincitori I quattro premiati sono nomi illustri, assai conosciuti sul mercato italiano ma anche personaggi di caratura internazionale. Gastón Acurio «Viviamo in un paese con tanti limiti e difetti. Ma tra le mani di questo signore, la nostra cucina diventa una delle più ricche del mondo. Nessuno ha fatto così tanto per il Perù». Così ha dichiarato il Nobel per la letteratura 2010 Mario Vargas Llosa a proposito dello chef stellato peruviano Gastón Acurio. Classe 1967, dopo
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un incipit universitario con gli studi in legge, Gastón decide di dare una svolta alla sua vita e va ad imparare i segreti della cucina francese nella scuola di formazione Cordon Bleu a Parigi. Rientrato in Perù con la sposa tedesca Astrid, apre Astrid Y Gastón, il primo di una serie di ristoranti di cucina peruviana. Da qui parte la virata autoctona per esplorare la varietà infinita di materie prime locali, dall’Oceano alle Ande, passando per le coltivazioni dell’Amazzonia. Da quel momento la cucina di Acurio è sempre stata ricerca, sperimentazione e contaminazione. A Polesine Acurio è stato premiato “per aver impresso una visione nuova della cucina nel suo Paese, grazie all’immenso lavoro di ricerca svolto in questi anni”.
Melaverde È il programma televisivo italiano nato da un’idea di Giacomo Tiraboschi, andato in onda su Rete 4 dal 1998 al 2012 e attualmente su Canale 5 ogni domenica con la conduzione di Edoardo Raspelli e Ellen Hidding. La famiglia Spigaroli ha consegnato a Raspelli il premio “sottolineando l’attenzione che, in oltre 500 puntate di trasmissione, Melaverde ha sempre dato al concetto di qualità alimentare italiana”. Franco Maria Ricci Editore e grafico parmense conosciuto in tutto il mondo, Franco Maria Ricci è stato premiato “per il suo stile, monito e insegnamento per molti, con cui ha nobilitato paesaggio,
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L’Antica Corte Pallavicina al Labirinto di Franco Maria Ricci Lo stile, i piatti e la filosofia dell’Antica Corte Pallavicina allietano i visitatori del labirinto più grande del mondo. I fratelli Spigaroli sono infatti i protagonisti del bistrot e del servizio caffetteria del Labirinto della Masone recentemente inaugurato a Fontanellato, un paesino a pochi chilometri da Parma. Progettato da Franco Maria Ricci, insieme agli architetti Pier Carlo Bontempi e Davide Dutto, la sua realizzazione è iniziata nel 2005 ed è terminata proprio quest’anno. All’interno del parco sono presenti, oltre ad una cappella cattolica, circa 5.000 m2 di spazi destinati alla cultura: un museo, che ospita la collezione permanente, una grande biblioteca e spazi per eventi e mostre temporanei. Il labirinto — che si estende per oltre tre chilometri — si trova all’interno di una grande tenuta, popolata da decine di migliaia di bambù e specie diverse e delimitata da imponenti filari di pioppi. Le diverse varietà di bambù sono state importate e coltivate a lungo, fino a risultare perfettamente acclimatate ed integrate nel paesaggio locale. La scelta del bambù è legata alla maggior velocità di accrescimento rispetto alla tradizionale essenza da labirinto, il bosso. Ogni corridoio del labirinto è largo tre metri. Gli edifici del labirinto sono stati costruiti attorno alla corte d’ingresso e alla corte centrale. La corte d’ingresso ospita l’ingresso al museo ed al labirinto, oltre ai servizi per i visitatori, mentre al centro del labirinto, accessibile anche da un grande viale, è stata costruita la grande corte centrale che ospita spazi espositivi, dedicati agli eventi ed una piramide. Il museo ospita la collezione d’arte di Franco Maria Ricci con 500 opere databili dal Sedicesimo al Ventesimo secolo ed una biblioteca che custodisce l’opera completa degli editori e tipografi Giambattista Bodoni e Alberto Tallone, oltre all’opera della casa editrice fondata da Ricci. Il bistrot del labirinto, gestito dai fratelli Spigaroli, è aperto dal lunedì al giovedì (solo pranzo dalle 12:00 alle 15:30), e dal venerdì alla domenica e giorni festivi (pranzo dalle 12:00 alle 15:30, cena dalle 19:00 alle 22:00). È richiesta la prenotazione. La caffetteria è aperta tutti i giorni dalle 10:30 alle 19:00. Il complesso del labirinto della Masone, compresi i servizi di ristorazione, è aperto ogni giorno dalle 10:30 alle 19:00. Chiuso il martedì (biglietto intero, € 18,00). >> Link: labirintodifrancomariaricci.it
Una veduta del labirinto (photo © Marco Campanini).
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1) Alfredo Antonaros, giornalista e scrittore, tra Edoardo Raspelli e Gastón Acurio, nel corso della conferenza stampa che ha anticipato la Notte dei Culatelli 2015. 2) Tra gli invitati anche il maestro Gualtiero Marchesi, amico di lunga data della famiglia Spigaroli. 3) Uno scorcio dell’Antica Corte Pallavicina, oggi Relais e ristorante. 4) Nella corte della famiglia Spigaroli non mancano mai gli esemplari di suino nero di Parma, a testimoniare l’aderenza al territorio, alle produzioni zootecniche autoctone e alla cultura della qualità gastronomica. arte, cultura ed estetica, riassunti magnificamente nel Labirinto della Masone”. Giuliano Molossi Direttore della GAZZETTA DI PARMA, Molossi ha ricevuto il Premio Antica Corte Pallavicina 2015 “per l’autorevolezza e la visione con cui
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interpreta la corretta informazione di un territorio che ha bisogno di essere raccontato sempre con originalità e chiarezza”. Un sostegno concreto a Slow Food Con questa edizione della Notte dei Culatelli si è voluto sostenere, attraverso un concreto aiuto economico,
il progetto dei “Mille orti in Africa”, lanciato nel 2010 a Torino da Slow Food per promuovere un’agricoltura locale e sostenibile in 25 Paesi africani. Il contributo raccolto nel corso della serata aiuterà diverse comunità (villaggi ma anche scuole) a realizzare orti buoni, puliti e giusti. Elena Benedetti
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Rassegne Un viaggio alle radici del gusto e della cultura locale
Il prosciutto di San Daniele tra musica e spettacoli
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n successo che va aldilà delle più rosee aspettative, un’ottima riuscita in termini di ritorno d’immagine, affluenza, qualità della proposta. «Possiamo a buon diritto affermare di aver raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissati, cioè strutturare un grande evento che coniugasse enogastronomia e cultura, ampliando la storica edizione di Aria di Festa e promuovendo il territorio regionale, focalizzando l’attenzione sulla fascia centrale coinvolgendo altri territori». È questo quanto ha sottolineato il
responsabile regionale del progetto Expo AGOSTINO MAIO che, chiusa l’edizione 0 di Aria di Friuli Venezia Giulia, traccia un primo bilancio della manifestazione. «Il risultato più soddisfacente — ha dichiarato
Maio — è l’aver conquistato una massa di turisti inedita, visitatori che, nelle precedenti edizioni della pur consolidata Aria di Festa, si recavano esclusivamente in giornata per l’aspetto enogastronomico dell’evento. Quest’anno, invece, sono stati letteralmente saturati gli alberghi da San Daniele a Udine. Abbiamo fatto crescere una manifestazione che è stata capace di calamitare turisti dall’Austria e da tutto il Nord-Est grazie all’innesto di un programma di spettacoli e cultura di primissimo livello».
Giuseppe Villani, presidente del Consorzio Prosciutto di San Daniele e AD della Villani Spa di Castelnuovo Rangone (MO), e Debora Serracchiani, presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
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I numeri raggiunti sono testimonianza che solo l’unione fa davvero la forza: +21% dei consumi con oltre 2.200.000 di fette di prosciutto tagliate nei 12 stand gestiti dal Consorzio e nelle 11 aziende aperte. Più di 20.000 persone presenti ai concerti di Lodovica Comello, Vinicio Capossela, Bob Dylan e Caparezza. In 4.500 hanno assistito agli incontri culturali nelle piazze principali, mentre il numero di coloro che hanno partecipato ad una visita guidata nei prosciuttifici aperti è stato di 10.000. Più di 1.000, infine, quelli che si sono lasciati tentare dalle degustazioni. «È stata sicuramente un’edizione straordinaria di Aria di Festa sotto diversi punti di vista — ha dichiarato MARIO CICHETTI, direttore generale del Consorzio del Prosciutto di San Daniele — non solo per i più che positivi risultati di presenze e di pubblico che abbiamo registrato in quattro giorni, ma soprattutto perché è stato definito un nuovo modello di promozione turistica del territorio e dell’agroalimentare regionali, avendo messo in campo un efficiente ed affiatato team composto dalla Regione, con Turismo FVG e il Consorzio del Prosciutto di San Daniele». Successo per i dieci itinerari organizzati nei 12 comuni coinvolti dalla festa. Grazie al coinvolgimento degli istituti alberghieri regionali, quasi una cinquantina di ragazzi provenienti dagli istituti Stringher di Udine, Flora di Pordenone e Linussio di Tolmezzo hanno prestato servizio e assistenza ai banchi di mescita e degustazione della manifestazione, oltre a dare informazioni turistiche ai visitatori. Con il progetto volontari, circa una trentina di persone hanno supportato le attività del Consorzio del Prosciutto di San Daniele e di Turismo FVG. Poi il progetto giovani: una sorta di Erasmus interregionale, con oltre quaranta band musicali e altrettanti fotografi e videomaker,tra i 18 e i 30 anni, provenienti da tutta Italia, che hanno animato le piazze, scattato fotografie, realizzato video e coinvolto bambini. In collaborazione con ERSA, sono state infine create le Vie del Vino, dove assaggiare numerosi vini regionali abbinati ai prodotti tradizionali.
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In alto: due eccellenze friulane Dop, il Prosciutto di San Daniele e il Montasio. Al centro: Stefano Accorsi. In basso: Caparezza in concerto.
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Vie affollate durante la festa. «Al di là del forte impegno che tutti gli enti in questione hanno sostenuto — ha concluso Cichetti — si è sperimentato un nuovo modello di progettazione ed esecuzione dei
grandi eventi regionali che ha dato i risultati positivi che sono sotto gli occhi di tutti. Solo la promozione in chiave sinergica di turismo, arte e cultura abbinati al nostro prodotto ha
consentito di fare di San Daniele una cittadina unica e inimitabile anche nel panorama nazionale». >>Link:www.ariadifriuliveneziagiulia.it
Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba 2015 È indiscutibilmente uno degli appuntamenti più attesi dell’anno: stiamo parlando della Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, giunta alla sua 85a edizione. Ogni sabato e domenica dal 10 ottobre al 16 novembre (09:00-20:00), tutti gli appassionati del “Tuber magnatum Pico” avranno la possibilità di vedere, toccare, annusare e acquistare tanti e tanti tartufi. Inoltre, enogastronomia, folclore, mostre, cultura, musica e sport. Già nel ‘700 il tartufo piemontese era considerato presso tutte le corti europee un cibo tra i più ghiotti. Il tartufo bianco di Alba, in particolare, quello che viene raccolto nei territori di Langhe, Roero e Monferrato, è sempre stato considerato in assoluto il più pregiato ed ha acquistato nel corso degli anni fama mondiale. I tartufi sono relativamente rari ed essendo commestibili e particolarmente apprezzati in gastronomia, arrivano a costare moltissimo. Raramente vengono commercializzati interi e freschi, a causa del costo stratosferico, della difficoltà nel trasporto e conservazione e della caratteristica attitudine del tartufo ad essere trasformato in modo creativo. È sufficiente infatti una quantità ridottissima di tartufo per insaporire un piatto o una salsa. >> Link: www.fieradeltartufo.org
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Parmigiano Reggiano, dopo Harrods con Massimo Bottura da Sotheby’s Dopo le vetrine di Harrods, nelle quali è stato esposto nel marzo scorso, il Parmigiano Reggiano continua a far parlare di sé a Londra, capitale di un Paese in cui è altissimo il posizionamento di quello che viene esplicitamente definito il “re dei formaggi” e che vale quasi 5.000 tonnellate in termini di esportazioni, collocandosi al quarto posto nella graduatoria mondiale dell’export di Parmigiano Reggiano. Lo chef stellato MASSIMO BOTTURA (nella foto a lato), infatti, proprio a Londra ha aperto per tre giorni il ristorante temporaneo “Osteria Francescana” (omonimo di quello di Modena, recentemente classificato come il secondo miglior ristorante al mondo), portando nella più prestigiosa casa d’aste del mondo, Sotheby’s, una degustazione di alcuni dei suoi piatti più famosi. Bottura (che all’indomani del terremoto che nel maggio 2012 devastò l’Emilia e il mantovano, aree di produzione del Parmigiano Reggiano, creò il risotto “cacio e pepe”, replicato in decine di migliaia di famiglie come simbolo di solidarietà) rappresenta un vero e proprio ambasciatore del Parmigiano Reggiano nel mondo, simbolo di quella collaborazione che in modo sempre più stretto lega la DOP all’alta cucina, con il moltiplicarsi di richieste di collaborazione al Consorzio da parte dei grandi chef di tutto il mondo, sia nella loro quotidiana attività che, a maggior ragione, in occasione di grandi eventi come quello londinese.
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Fiere
Summer Fancy Food Show 2015, Italia Paese partner e sponsor L’edizione appena conclusa ha contato oltre 300 imprese su una superficie di 2500 m2 di spazio espositivo di Elena Benedetti
L
a cucina italiana è sicuramente la più conosciuta ed apprezzata negli Stati Uniti ed il Summer Fancy Food Show è uno dei punti di riferimento che l’Italia ha per mettere in mostra le migliori produzioni tradizionali, specialità alimentari e le novità provenienti da gran parte delle regioni del Belpaese. Per il 2015, in particolare, gli organizzatori della manifestazio-
ne, la Specialty Food Association, hanno eletto l’Italia partner e sponsor dell’evento, che si conferma la più prestigiosa e rinomata vetrina internazionale del Nord America dedicata alle specialità alimentari e alle bevande. Dal 28 al 30 giugno scorsi il Jacob K. Javits Convention Center di New York ha accolto i visitatori che, per tre giornate di contatti commerciali, trattative e presentazioni, hanno
avuto modo di assaggiare prodotti agroalimentari di tutti i continenti. Italia primo Paese partner Fin dalla prima edizione, datata 1955, l’Italia è sempre stata la nazione più presente alla manifestazione. Quest’anno non è certo stata da meno, con 325 aziende italiane in rappresentanza praticamente di quasi tutte le regioni, su circa 2.500 m2 di
L’ingresso alla fiera all’interno del Jacob K. Javits Convention Center di New York. Organizzato dalla Specialty Food Association, il Summer Fancy Food è una delle manifestazioni fieristiche più importanti al mondo per l’agroalimentare.
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1) Taglio del prosciutto di Parma Dop nello stand del Consorzio di Tutela. 2) Anche il Prosciutto di San Daniele Dop tra le specialitĂ presenti al Summer Fancy Food. 3) Lo spazio dedicato alle 325 aziende italiane.
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1) Anche i formaggi del Caseificio Busti di Fauglia (Pisa) presenti nel parterre delle specialità del Belpaese. 2) Presenti nel mercato USA e in fiera i salumi Levoni di Castellucchio (MN). Nello stand, Nicola Levoni. 3) Ampio lo spazio dedicato al Grana Padano Dop nel Padiglione Italia con numerosi assaggi guidati dedicati ai visitatori. 4) Claudio Stefani Giusti, a capo del Gran Deposito Aceto Balsamico Giuseppe Giusti, tra le più datate e premiate acetaie modenesi. spazio espositivo. «Diamo il benvenuto all’Italia come nostro partner country sponsor» ha detto ANN DAW, presidente della Specialty Food Association. «Le produzioni alimentari italiane definiscono virtualmente la maestria, la cura e il piacere che questi veri e propri artigiani del cibo apportano al loro lavoro, dando vita a produzioni che si possono definire al top della qualità». «Siamo molto orgogliosi di essere stati scelti come primo Paese partner del Summer Fancy Food Show. Lo consideriamo come un prestigioso riconoscimento che va a premiare tutti gli sforzi che i produttori italiani compiono costantemente per portare i loro prodotti a livelli sempre più alti di qualità ed eccellenza» ha detto DONATO CINELLI, presidente della Universal Marketing, organizzatrice dei padiglioni italiani al Summer Fancy Food Show. L’Italia è al 7o posto nella classifica dei principali
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fornitori di prodotti agroalimentari verso gli USA. Nei primi 7 mesi del 2014 gli USA hanno importato generi alimentari e vini italiani per un valore di 2,4 miliardi di dollari. Tale cifra rappresenta un incremento dell’11,22% rispetto ai primi 7 mesi 2013, e la quota di mercato è salita al 3,12 % rispetto al 3,00% del 2013. I principali partner commerciali degli Stati Uniti rimangono il Canada, il Messico, e la Cina, tutti in ascesa rispetto al 2013 (fonte: ICE). Legends from Europe Il progetto Legends from Europe è stato costituito allo scopo di promuovere i prodotti dell’eccellenza gastronomica nazionale italiana quali Prosciutto di Parma DOP, Grana Padano DOP, Montasio DOP e Prosciutto di San Daniele DOP sul territorio americano. Il progetto, cofinanziato dall’Unione Europea e dal Governo italiano, prevede un intenso piano di attività di
comunicazione declinato su diversi canali, tra cui la collaborazione con alcuni famosi chef americani, la sponsorizzazione di programmi televisivi, annunci pubblicitari sulla stampa specializzata, un sito web, promozioni e degustazioni nei punti vendita, seminari formativi rivolti agli operatori. A questo ricco calendario di iniziative non potevano mancare appunto le fiere di settore. In questo senso, la presenza al Summer Fancy Food Show ha risposto ad una precisa scelta strategica del Consorzio del Prosciutto di Parma DOP: continuare a puntare e investire sugli USA, già primo mercato per le proprie esportazioni, che ha registrato nel 2014 una crescita del 12,5% grazie a 565.000 prosciutti esportati per un valore di circa 60 milioni di euro. Anche il preaffettato è cresciuto del 16,4% con 3.000.000 di vaschette vendute. «Se oggi di tutti i salumi italiani esportati verso gli Stati Uniti — ha
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dichiarato VITTORIO CAPANNA, neoeletto presidente del Consorzio — il Prosciutto di Parma DOP rappresenta più dei 2/3, lo dobbiamo agli sforzi e all’impegno dei nostri produttori e di tutti coloro che sono quotidianamente impegnati nel conferire e assicurare a questa grande eccellenza tutti quei requisiti di sicurezza e tracciabilità indispensabili per poter essere esportata in tutto il mondo. Ci auguriamo in futuro di poter consolidare la nostra presenza sul mercato, ma anche di espanderci verso nuovi territori ancora inesplorati». Parmigiano Reggiano DOP «Al Summer Fancy Food Sow di New York abbiamo avuto nuovamente modo di incontrare le più importanti catene distributive statunitensi, per rafforzare tutte le azioni che stiamo conducendo all’interno dei punti vendita allo scopo di promuovere la conoscenza e il consumo del Parmigiano Reggiano DOP» ha dichiarato RICCARDO DESERTI, presidente del Consorzio di Tutela. «Soprattutto
quest’anno il grande evento newyorchese non è solo stato una grande vetrina commerciale, avendo sullo sfondo le trattative per gli accordi TTIP tra UE e Stati Uniti». Il trend di export crescente del Parmigiano Reggiano DOP verso gli USA continua a non arrestarsi. «È un successo per le esportazioni, ma è un successo anche nella lotta al contrasto delle imitazioni». Il Consorzio di Tutela ha infatti raggiunto un accordo per il mercato degli Stati Uniti — Paese in cui è presente il maggior numero di imitazioni del nome della DOP — con uno dei colossi della distribuzione statunitense, la Whole Foods, che ha scelto il Parmigiano Reggiano DOP come prodotto di punta per qualificare l’intera offerta di formaggi della catena: un prodotto selezionato di almeno 24 mesi che viene porzionato nel punto vendita. «È un grande passo in avanti — ha sottolineato Deserti — non solo per rafforzare un trend di esportazioni in vertiginosa crescita nel primo trimestre 2015 (i dati ISTAT parlano di un +74%, ma il
Consorzio già nei giorni scorsi parlava di circostanze eccezionali, come il rapporto di cambio euro-dollaro e l’esaurimento delle scorte, che si attenueranno nei prossimi mesi, Ndr), ma soprattutto per rafforzare proprio il contrasto alle imitazioni, sul quale incideranno molto anche gli esiti dei negoziati TTIP. I dati in crescita e l’esperienza di questi anni confermano che la prima forma di contrasto alle imitazioni è proprio la conoscenza del prodotto originale, la cui presenza nelle catene distributive statunitensi, associata alle nostre azioni informative e a quelle effettuate dalle stesse catene, consente ai consumatori di prendere coscienza del massiccio ricorso a imitazioni ingannevoli cui è esposto. Grazie alle nostre attività di vigilanza stimiamo in circa 100.000 tonnellate all’anno i consumi di “parmesan” immesso sul mercato e venduto facendo presumere (con il ricorso a marchi, bollini, simboli che richiamano il tricolore) che abbia un’origine italiana». Elena Benedetti
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Dal 10 al 14 ottobre appuntamento a Colonia
Meno quantità e più qualità: il futuro del food è ad Anuga
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al 10 al 14 ottobre prossimi aprirà le sue porte Anuga edizione 2015 e sarà un importante luogo di incontro per oltre 150.000 leader di settore internazionali. Organizzata da Koelnmesse, la fiera del food & beverage più grande e importante al mondo non tradisce la formula del format consolidato “10 saloni sotto lo stesso tetto”, impegnando una superficie espositiva pari a 284.000 m2: già confermati 6.800 espositori provenienti da 100 Paesi e attesi oltre 150.000 visitatori. Un assetto vincente, quello di Anuga, che punta sulla qualità dell’offerta, promuovendo il grande produttore come la piccola azienda locale. Ad illustrare tematiche e i numeri di questa 33a edizione lo scorso giugno presso il Padiglione di Expo “CIBUSèITALIA”, LUIGI SCORDAMAGLIA, presidente di FEDERALIMENTARE, GERARD BÖSE, presidente di Fiera di Colonia, FRANZ-MARTIN RAUSCH della BVLH tedesca, e THOMAS ROSOLIA, managing director di Koelnmesse. Consumi alimentari: contesto globale e prospettive future La domanda di prodotti alimentari si differenzia a livello globale per qualità e quantità. Con l’aumento della popolazione mondiale e del benessere economico, cresce anche la domanda di prodotti alimentari. Tuttavia, il boom che ha caratterizzato gli scorsi anni si sta attenuando nei paesi sviluppati e nelle economie emergenti, ad eccezione dell’America latina. I trend globali mostrano un progressivo abbandono del semplice aumento “quantitativo” a favore di una concorrenza basata sulla “qualità”. L’aumento dell’urbanizzazio-
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ne, dei tassi di occupazione e delle entrate, nonché il miglioramento delle infrastrutture di vendita, stanno cambiando le condizioni di vita e i desideri dei consumatori. In questo contesto cresce la domanda di prodotti alimentari innovativi e sempre più adatti alle esigenze individuali. Ad influenzare ulteriormente l’offerta alimentare vi sono anche i cambiamenti climatici e le questioni legate alla distribuzione. Soprattutto nei mercati maturi e ad alto reddito cresce anche la consapevolezza relativa al consumo. I consumatori sono sempre più attenti ai cibi che mangiano, alle quantità e alla provenienza. Venire incontro alle esigenze del cliente, alle sue necessità in continua evoluzione, è dunque indispensabile per tutti i produttori di generi alimentari di tutti i continenti.
Aspetto, sapore, quantità delle porzioni, ecc… variano da mercato a mercato secondo le preferenze. Per i produttori di alimenti in tutto il mondo l’ingresso in nuovi mercati promette quindi un potenziale di sviluppo e di creazione di valore sempre nuovo. Le tendenze dell’UE Negli ultimi anni c’è stata un’intensificazione del commercio di prodotti alimentari. Se dieci anni fa si esportavano in tutto il mondo generi alimentari per un valore di 552 miliardi di dollari statunitensi, oggi si conta una quantità circa tre volte maggiore, pari a 1.457 miliardi di dollari statunitensi. Più in particolare, l’alto potere d’acquisto e gli elevati standard di vita di circa 507 milioni di consumatori, fanno dell’Unione Europea un mercato interessante
Gerard Böse, presidente di Fiera di Colonia, Franz-Martin Rausch della BVLH tedesca, e Thomas Rosolia, managing director di Koelnmesse, all’evento di presentazione della 33a edizione di Anuga in Expo.
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per i produttori di alimenti in tutto il mondo. La struttura del mercato, ricca di produttori di piccole e medie dimensioni e con un numero relativamente ridotto di grosse societĂ
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commerciali, fa sĂŹ che la concorrenza sia molto forte. Nel 2015 le prospettive congiunturali sono positive, sia in termini di crescita economica che di aumenti dei consumi a livello pri-
vato. Le buone aspettative di reddito, l’elevata propensione all’acquisto e i prezzi bassi ridestano la domanda complessiva dei consumatori europei, ma non nel settore alimentare.
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Il perdurare della stagnazione nel mercato dei prodotti alimentari accentua ulteriormente la concorrenza e impone per i produttori nuovi standard in tema di servizi, qualità, efficienza dei costi e innovazioni. Il calo della domanda quantitativa nel commercio al dettaglio in tutti i maggiori mercati dell’UE è frutto soprattutto delle nuove abitudini di consumo. I consumatori europei decidono di acquistare meno prodotti alimentari per evitare di doverli gettare via. Sempre più spesso i pasti vengono consumati fuori casa piuttosto che venire preparati autonomamente. Il cibo deve adattarsi allo stile di vita. Parallelamente, aumentano le esigenze in termini di salute e sostenibilità. Per i produttori di questo settore, le abitudini alimentari dei consumatori creano sfide ma anche opportunità! Focus sul mercato tedesco Con oltre 80 milioni di consumatori attenti al prezzo e alla qualità, la Germania è il maggiore mercato di prodotti alimentari in Europa e uno dei più competitivi al mondo. L’ampia varietà dell’offerta e le richieste esigenti dei consumatori rendono la Germania un mercato di riferimento per l’alimentare, dove, oltre alla concorrenza sempre più intensa a livello di qualità e convenienza, si fa più pressante una concorrenza “emotiva”, che mira cioè alla fidelizzazione del cliente. L’affidabilità e l’essere consumer oriented sono condizioni decisive per il successo delle aziende, poiché i consumatori acquistano solo i prodotti che soddisfano le loro esigenze. Il clima tedesco dei consumi è altamente positivo e nettamente sopra la media europea. I Tedeschi spendono il 10,5% del proprio reddito per l’acquisto di alimenti e bevande: un valore nettamente inferiore rispetto alla media dell’UE. È opportuno, però, considerare l’elevato livello di reddito della Germania rispetto alla media dell’UE. Si acquista con meno frequenza, in quantità inferiori, ma con una maggiore attenzione alla qualità. Oggigiorno l’offerta deve essere al contempo conveniente, gustosa, di qualità, sicura, varia, pratica e sostenibile. I produttori non possono
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Anuga meat edizione 2013 (photo © www.anuga.com). più concentrarsi su un’unica tendenza. Da qui la nascita e la crescita di nuovi o specifici segmenti di mercato come il functional food, i prodotti per vegetariani, vegani, senza glutine, senza lattosio, i prodotti dietetici e il convenience food, ma anche prodotti dove l’origine viene messa particolarmente in evidenza: prodotti regionali, sostenibili, equosolidali e bio, che nel mercato alimentare tedesco sono ormai sempre disponibili. Scambi commerciali di prodotti alimentari fra Italia e Germania L’Italia è uno dei principali partner commerciali della Germania: infatti, nella classifica dei partner commerciali per il 2014 in riferimento ai prodotti alimentari lavorati, l’Italia si piazza al terzo posto sia in termini di export che di import. Nel 2014 l’Italia ha fornito alla Germania beni alimentari lavorati per un valore di circa 4,2 miliardi di euro. Fra i principali prodotti forniti il vino, la frutta fresca e i prodotti da forno. Tuttavia, per la Germania l’Italia non è solo un importante mercato per l’acquisto di beni, ma costituisce altresì un significativo mercato di sbocco. Nel 2014 la Germania ha esportato in Italia beni alimentari lavorati per un valore pari a 5,0 miliardi di euro, con un calo dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Fra i prodotti più esportati, carne e preparati a base di carne, formaggi, latte e latticini.
BVE all’Anuga 2015 L’Associazione della distribuzione alimentare tedesca (BVE), che supporta Anuga, si presenta in occasione della Anuga Fine Food insieme al Ministero dell’alimentazione e dell’agricoltura sotto la sigla del governo federale “Made in Germany”. Altre novità in fiera Tra le novità dell’edizione 2015 non poteva mancare una sezione dedicata ai prodotti vegani e halal, trend in ascesa in tutto il mondo, e ai ready meals, ovvero i piatti pronti. Tra gli eventi collaterali segnaliamo Anuga Taste 15, il concorso dedicato alle innovazioni, Olive Oil Market, piattaforma dedicata alle aziende produttrici di olio d’oliva, Organic Market, dedicata ai prodotti bio destinati ai supermercati, e Wine Special. Da rimarcare un’importante presenza italiana ad Anuga e il consolidamento della già fruttuosa partnership tra Koelnmesse e Fiere di Parma, in particolare con CibusTec, la fiera dedicata alle tecnologie alimentari che si svolge proprio nella città ducale. La stretta collaborazione per gli eventi dedicati al food & beverage nei rispettivi paesi e all’estero si inserisce nell’ottica di conquistare nuovi mercati di sbocco a lungo termine per le aziende italiane e tedesche, proprio nel settore delle tecnologie alimentari. >> Link: www.anuga.com
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Week-end
Sapori di Maremma di Luciana Squadrilli
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e volete sapere quale possa essere l’esatto opposto delle terribili immagini di allevamenti intensivi che spesso compaiono sui social network e sui siti di informazione, ma anche se volete semplicemente ritagliarvi qualche giorno di completo relax e buon cibo, vi consigliamo di macinare qualche chilometro fino a perdervi nella verde campagna maremmana, inframmezzata di tanto in tanto dal rosa intenso degli alberi di Giuda, se ci si capita nel breve periodo della loro fioritura. Lasciatevi alle spalle Saturnia con le sue terme e le affascinanti cascatelle naturali, e gli antichi e pittoreschi borghi di Manciano e Montemerano, e prendete la strada provinciale per Usi. Quando pensate che non ci siano praticamente più tracce di insediamenti umani e siete quasi sul punto di tornare indietro, ecco spuntare il bel casale dell’Aia della Colonna. Qui, la famiglia Tistarelli alleva maiali di Cinta senese — trasformati in squisiti salumi — bovini di razza Maremmana e pecore dell’Amiata e delle Crete senesi, popolazione autoctona della Toscana centrale e meridionale che appartiene alla grande famiglia dell’Appenninica, molto diffusa in queste zone prima che si preferissero
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altre razze più redditizie. Non sorprendetevi di non vedere o sentire gli animali: le grandi vacche con le corna a lira sono nel bosco insieme ai loro vitellini, in attesa di trasferirsi nei pascoli estivi dove trovare erba fresca e tenera. Solo per l’ultimo mese, la loro alimentazione viene integrata con orzo e favino coltivati in proprio, per garantire la giusta percentuale di grasso che renderà la carne più tenera e saporita. Le pecore se ne stanno placide all’ombra degli alberi nelle colline vicine godendosi il panorama sulla campagna circostante e solo di notte vengono spostate in un recinto per proteggerle dagli attacchi dei lupi. I maiali hanno a disposizione un’intera collinetta dove grufolare in piena tranquillità, mentre le scrofe con i maialini sono al riparo sotto le tettoie ma ogni giorno vengono lasciati liberi di scorazzare. Insomma, se nulla potrà sottrarli al loro destino, vivranno comunque i loro giorni in serenità negli oltre 240 ettari, tra quelli di proprietà e quelli presi in affitto, seguiti dai Tistarelli. Qui la parola “biologico” — come sono tutte le carni e i salumi di Aia della Colonna — sembra non avere nemmeno senso, tanto tutto sembra
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A sinistra: sala di stagionatura. A destra: mazzafegato, altrimenti detto sambudello nella Valtiberina toscana. essere in armonia con la natura e i suoi ritmi. Roberto, che si occupa della fattoria insieme al padre Gerardo, ci racconta che la famiglia si è trasferita qui dalla vicina Usi negli anni ‘70. Il papà aveva acquistato nel 1968 il podere dove sorgevano un casale e le stalle ma, soprattutto, il terreno circostante, prezioso per l’agricoltura. Solo negli anni successivi — man mano che il valore delle proprietà immobiliari aumentava e quello della terra diminuiva sempre più — è venuta l’idea di rimettere a posto le strutture, prima per farne l’abitazione di famiglia, poi anche alloggi agrituristici per gli ospiti. Oggi Aia della Colonna — il nome c’era già e non è ben chiaro a cosa si riferisse — ha 3 belle camere, spaziose e accoglienti, oltre a 4 appartamenti indipendenti che possono ospitare da 2 a 6 persone. Poco più in là, verso il bosco, c’è anche il bel Podere Caprarecce, antico rustico toscano in pietra rimesso a nuovo con tanto di piscina, per chi vuole godersi la pace di questi luoghi in totale autonomia. Ma sarebbe un peccato perdersi l’atmosfera accogliente e calorosa dell’Aia della Colonna, gustando le deliziose prime colazioni e i saporiti piatti preparati per cena (su prenotazione) dalla mamma di Roberto a base dei prodotti della fattoria: zuppe di verdura, paste fatte in casa,
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sostanziosi contorni e naturalmente squisiti salumi e carni alla brace, accompagnati dall’ottimo Morellino di Scansano DOC di produzione propria. O magari fermandosi davanti al fuoco del grande camino a legna nella Sala delle Anelle, impreziosita dalle opere in ceramica artistica realizzate da Roberta, la sorella di Roberto, che prendono spesso ispirazione dalla natura. Suoi sono anche i bellissimi piatti in cui vengono servite le pietanze e chi vuole può approfittare della vacanza in agriturismo per apprendere da lei l’arte della ceramica con appositi corsi. Nel laboratorio sottostante, invece, nascono altri capolavori: prosciutti, lombi, capocolli, pancette, spalle e soppresse, come qui vengono chiamate le coppe di testa aromatizzate con spezie varie. Da assaggiare pure lo straordinario mazzafegato, insaccato molto particolare tipico dell’alta valle del Tevere tra Umbria e Toscana, dove a volte prende anche il nome di sambudello. Si tratta di una sorta di “salsiccia povera” che un tempo veniva realizzata con gli scarti di lavorazione degli altri salumi utilizzando quel che rimaneva sul banco: soprattutto carni rosse, più ricche di sangue, come fegato (che però Roberto preferisce non utilizzare), cuore, polmone e altri tagli avanzati da lavorazioni, tagliati a grana grossa e leggermente aromatizzati secondo la
ricetta che ogni famiglia custodisce. Qualcuno lo mangia cotto alla brace, ma è buonissimo anche da solo, magari “spalmandone” la polpa morbida e saporita su un pezzetto di pane. E poi ancora finocchione e salami. Tutto squisito, grazie alla saporitissime carni di Cinta e all’uso pressoché nullo di conservanti. Il salame, una volta aperto, va mangiato nel giro di pochi giorni, si raccomanda la signora Tistarelli, altrimenti potrebbe rovinarsi. Ma siamo sicuri che non correrà questo rischio. Luciana Squadrilli
Aia della Colonna Loc. Usi – 58050 Santa Caterina (GR) Telefono: 0564 986110 E-mail: info@aiacolonna.it Web: www.aiacolonna.it Nota A pagina 76 e 77 pecore al pascolo presso l’agriturismo; a pagina 77, salame artigianale.
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Una sera in cantina fra circo, teatro e lambrusco Sabato 30 maggio la Cantina Garuti, a Sorbara, Modena, ha ospitato la terza serata del “Rosso Rubino Wine Festival”. Promosso dal Comune di Bomporto (MO), con il patrocinio del Consorzio Marchio Storico dei Lambruschi Modenesi e delle Città del Vino, il Festival si inserisce nel circuito Expo della Regione Emilia Romagna e della Provincia di Modena. Musica, spettacolo, cena: questa la formula collaudata dell’evento che si è ripetuta anche a casa Garuti, con la presenza, per la parte artistica, del Bromos Circo, un mix di clown, giocoleria, musica ed equilibrismo, e l’intervento di Opperbacco, cantastorie al sapor di lambrusco. La parte gastronomica ha visto protagonista l’Agriturismo Garuti, ramo importante dell’azienda, con i piatti tipici della tradizione, le paste fatte a mano e i secondi conditi con l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, altra peculiarità aziendale. In degustazione, naturalmente, i vini di produzione della cantina, con la famiglia al completo ad accogliere gli ospiti in perfetto “stile Garuti”. Quello di fare vino è davvero per i Garuti un vizio di famiglia, tramandato di padre in figlio (e figlia) in un lembo di terra tra i più felici per il vitigno del lambrusco. La cantina è stata la prima a vinificare il Lambrusco di Sorbara da un solo vitigno, dando vita alle “Essenze in purezza”, una vera collezione che si distingue per la bottiglia dal design innovativo disegnata da Aldo Franco. L’assaggio dei vini Garuti è stata accompagnato dai prodotti del Caseificio Santa Lucia di Sestola e del Salumificio Guerzoni di Gorzano di Maranello.
>> Link: www.lambruscowinefestival.it
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Formaggio
Squacquerone, delizia Dop di Romagna di Nunzia Manicardi
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ifficilmente (ma bisognerebbe forse dire mai!) si va e si torna dalla Romagna senza aver gustato una piadina, farcita in uno dei mille modi che l’antica tradizione e l’inesauribile fantasia dei romagnoli hanno saputo inventare. Tra di essi, uno dei più tipici è l’abbinamento con lo squacquerone e la rucola, cioè con il candido, fresco, dolce e morbido formaggio locale a pasta molle e l’erbetta selvatica (oggi coltivata, e proprio in modo estensivo, in Romagna) dal sapore leggermente piccante e maliziosetto. Un mix gustativo prelibato indimenticabile, soprattutto se la sottostante piadina è preparata e cotta artigianalmente a regola d’arte (bella alta nella provincia di Ravenna e poi, via via, sempre più bassa fino a
farsi sottilissima a Rimini). Non molti, però, fuori dalla Romagna conoscono lo squacquerone (o squacquarone) ed è un vero peccato al quale cercheremo di porre rimedio. Questo formaggio è somigliante, tanto per intenderci, ad una crescenza ma la sua consistenza è molto più liquida, essendo composto per circa il 60% di acqua. Il suo nome, del resto, ce lo fa già capire: ha origine dal dialetto squaquaron, ad indicare proprio l’elevata “acquosità” che fa sì che si spalmi con estrema facilità (ma è talmente tenero che molti utilizzano il cucchiaio). Lo squacquerone è diffuso in tutta la Romagna ed è con la Romagna che viene identificato, anche se la maggior parte degli esperti lo accredita come originario delle colline al confine con il Bolognese.
Senza Romagna non c’è squacquerone Esistono notizie certe della sua preparazione nel XIX secolo. La tradizione popolare, tuttavia, fa risalire la sua origine addirittura al I secolo d.C. Attualmente si produce tutto l’anno; tradizionalmente, invece, veniva prodotto in inverno, quando era più facile conservarlo. Non potendo infatti, neanche volendo, essere stagionato, va consumato entro pochissimi giorni dalla produzione (3 o 4). E questo è uno dei motivi per cui è difficile commercializzarlo fuori zona. Dal 2012 può fregiarsi della denominazione di origine protetta (DOP) a patto, ovviamente, che non sia di produzione anonima ma che riporti il marchio “Squacquerone di Roma-
Ottimo sulla piadina calda, si consiglia di abbinarlo con il Colli Romagna centrale bianco o il Pagadebit di Romagna. 80
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gna” i cui requisiti sono stabiliti dal Reg. (CE) 510/2006 su cui si basa il disciplinare di produzione. Secondo questo disciplinare, lo squacquerone di Romagna DOP è un formaggio a pasta molle e a maturazione rapida, prodotto con latte vaccino, proveniente dall’area indicata nell’art. 3. Quest’area comprende le seguenti province della regione Emilia-Romagna: Ravenna, Forlì-Cesena, provincia di Rimini, provincia di Bologna e parte del territorio della provincia di Ferrara, delimitata a ovest dalla Strada Statale n. 64 (Porrettana) e a nord dal fiume Po. Al momento dell’immissione al consumo deve avere un peso variabile da 1 ettogrammo a 2 chilogrammi e pasta di colore bianco, madreperlaceo, senza crosta né buccia. La forma dipende dal contenitore in cui viene posto, poiché la sua consistenza molto cremosa non gli consente di presentarsi compatto. La parte grassa è compresa tra il 46 e il 55% (attenzione, quindi, a chi ha problemi di dieta perché, come si sa, i formaggi freschi e molli in genere appaiono magri, ma non lo sono). L’umidità, l’abbiamo già detto, è tra il 58 e il 65% mentre il pH risulta tra
il 4,95 e il 5,30%. Il sapore è gradevole, dolce, con una punta acidula: il salato è presente ma non in modo evidente. Anche l’aroma è delicato: sa di latte, con una nota erbacea. La consistenza della pasta viene tecnicamente definita “morbida, cremosa, adesiva, deliquescente, di elevata spalmabilità”. Produzione e commercializzazione Vediamo ora, dal disciplinare specifico, quali sono le fasi del processo di produzione, premettendo che ognuna di esse viene monitorata così da garantire la tracciabilità del prodotto. Quest’ultima è ottenuta anche attraverso l’iscrizione in appositi elenchi, gestiti dalla struttura di controllo, non solo degli allevatori, ma anche dei centri di raccolta del latte, dei produttori, dei confezionatori, nonché attraverso la dichiarazione tempestiva, alla struttura di controllo, delle quantità prodotte. Inoltre, tutte le persone, fisiche o giuridiche, iscritte nei relativi elenchi, sono assoggettate al controllo da parte della struttura a ciò deputata. Lo squacquerone di Romagna DOP è ottenuto esclusivamente con latte vaccino intero proveniente
dalla zona tipica designata. Le razze bovine qui allevate e appositamente utilizzate sono la Frisona italiana, la Bruna alpina e la Romagnola. Anche la maggior parte dell’alimentazione proviene dalla zona d’origine ed è composta da due grandi categorie: foraggi e insilati per almeno il 60%, integrati da mangimi. I foraggi sono costituiti da specie botaniche coltivate caratterizzate dalla ricchezza di fibra. Tra le numerose specie si deve sottolineare l’utilizzo dell’erba medica e, in particolare, delle varietà Pomposa, Classe, Garisenda, Delta e Prosementi. Per ottenere lo squacquerone di Romagna DOP con le caratteristiche indicate all’art. 2 del disciplinare è indispensabile che il latte non contenga conservanti. È inoltre vietato 1’uso di residui della lavorazione di cavoli e di barbabietola da foraggio. Il latte impiegato deve presentare un tenore di materia grassa non inferiore al 3,5% peso/volume, un tenore di materia proteica non inferiore al 3% peso/ volume e deve essere raccolto entro 48 ore dalla prima mungitura. Quando viene consegnato allo stabilimento di trasformazione deve avere una temperatura non superiore a 10°C; lì
Lo Squacquerone di Romagna DOP ha ottenuto la denominazione protetta il 25 luglio 2012. I produttori che possono vantare il bollino della DOP sono quelli iscritti all’Associazione Squacquerone di Romagna DOP. L’Associazione Squacquerone di Romagna DOP è presente anche su facebook: facebook.com/squacqueronedop
I caseifici Caseificio Comellini R. Spa Via Flavio Gioia, 6 40024 Castel San Pietro Terme (FC) Telefono: 051 941376 Web: www.caseificiocomellini.com
Caseificio Pascoli Srl Via Rubicone dx, 220 47039 Savignano sul Rubicone (FC) Telefono: 0541 945732 Web: www.caseificiopascoli.it
S.I.C.L.A. Srl Via Giuseppe Verdi, 27 48018 Faenza (RA) Telefono: 0546 22051 Web: www.caseificiosicla.it
Campagnola Srl Via Papa Giovanni XXIII, 14 40053 Valsamoggia (BO) Telefono: 051 969020 Web: www.caseificiocampagnola.it
Centrale del latte di Cesena Via Violone di Gattolino, 201 47020 Martorano di Cesena (FC) Telefono: 0547 380292 Web: www.centralelattecesena.it
San Patrignano (SpazioSanpa) Via San Patrignano, 66 47853 Coriano (RN) Telefono: 0541 362600 Web: www.spaziosanpa.com
Caseificio Mambelli Srl Via Ceredi, 1402 47032 S. Maria Nuova di Bertinoro (FC) Telefono: 0543 440936 Web: www.mambelli.com
Officine Gastronomiche Spadoni Srl Via Ravegnana, 746 48010 Coccolia (RA) Tel.: 0544 569056 Web: www.officinegastronomichespadoni.it
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è conservato ad una temperatura non superiore a 6°C. Prima della sua lavorazione è sottoposto a trattamento di pastorizzazione o termizzazione. Se necessario (cioè in presenza di una caratteristica ipoacida del latte manifestata da un pH superiore o uguale a 6,6), è consentita la pratica della prematurazione, che consiste nel conservarlo in stoccaggio a una temperatura compresa tra gli 8 e i 12°C per 12-24 ore, anche previo trattamento termico. La pastorizzazione del latte, per la produzione di un formaggio a brevissima maturazione come lo squacquerone di Romagna DOP, avviene secondo il metodo HTST, un trattamento termico in flusso continuo per 15 secondi a temperature di 71,7°C. Può anche essere applicato il metodo di pastorizzazione LTLT o trattamenti termici equivalenti. In alternativa alla pastorizzazione è consentito applicare la termizzazione (e, in tal caso, il saggio della fosfatasi darà reazione positiva). Il latte pastorizzato o termizzato va portato a una temperatura di coagulazione compresa tra 35° e 40°C. Per consentire la produzione e maturazione si aggiungono, sotto forma di innesti, batteri lattici autoctoni, anch’essi ottenuti
nell’area designata dal disciplinare e da lì provenienti. L’innesto naturale deve avere un’acidità non superiore a 16°SH su 50 ml ed essere utilizzato entro 4 giorni dalla sua preparazione. La specie batterica utilizzata è lo Streptococcus thermophilus. La coagulazione si ottiene utilizzando caglio di vitello con un contenuto minimo pari al 75% di chimosina. A coagulazione avvenuta si procede alla rottura della cagliata fino all’ottenimento di grumi della grossezza di circa una noce. Il coagulo deve essere in grado di incorporare nelle sue maglie una quantità di umidità in modo da conferire la tipica cremosità e spalmabilità. Dopo la rottura, la cagliata viene lasciata riposare per un tempo non inferiore ai 5 minuti, sempre a una temperatura compresa tra 35°-40°C; successivamente si procede ad agitazione fino a quando il valore del pH non si attesta tra 5,9 e 6,2. La fase successiva, quella della cosiddetta “formatura”, consiste nello scarico della cagliata all’interno di appositi stampi forati che vengono rivoltati almeno una volta nel corso delle 24 ore al fine di favorire la separazione del siero. Gli stampi vengono
lasciati a temperatura ambiente per un tempo massimo di 3 ore, dopodiché vengono posti in una cella a temperatura refrigerata non superiore ai 15°C. La salatura viene effettuata in salamoia al 16-24% di cloruro di sodio. La salamoia, durante il processo di salatura, deve essere mantenuta a una temperatura inferiore a 20°C. Il tempo di permanenza del formaggio in salamoia è compreso tra 10 e 40 minuti per 1 kg di prodotto. È ammessa, esclusivamente prima della fase di cagliatura, l’aggiunta di cloruro di sodio nella misura da 400 a 800 grammi per 100 litri di latte. La maturazione si compie in un intervallo di tempo compreso tra 1 e 4 giorni, in ambienti con temperature di 3-6°C. Anche il confezionamento dello squacquerone di Romagna DOP deve avvenire all’interno della zona indicata, in appositi contenitori di materiale plastico e/o con involucri protettivi di carta per alimenti. Sulla confezione deve essere riportata la corretta dicitura prevista dal disciplinare. Il controllo sulla conformità del prodotto al disciplinare è svolto conformemente a quanto stabilito dagli articoli 10 e 11 del Regolamento CE già citato. L’organismo di controllo
Le caratteristiche inimitabili del territorio di produzione e del latte L’area interessata alla produzione del formaggio squacquerone di Romagna DOP è caratterizzata da suoli posizionati in aree morfologicamente rilevate della pianura alluvionale, ad alterazione biochimica, con riorganizzazione interna dei carbonati. Sono suoli, da un punto di vista agricolo, adatti a cerealicoltura, foraggicoltura e colture specializzate intensive con elevate rese, senza la necessità di supporti energetici consistenti. È un terreno, quello romagnolo, già ricco e produttivo di suo, che non avrebbe bisogno di rilevanti aiuti chimici. Questo perché è piuttosto profondo, a tessitura fine e media, con buona disponibilità di ossigeno, calcareo o non calcareo in superficie e calcareo negli orizzonti profondi. Questi suoli si sono formati da sedimenti fluviali a tessitura media, solitamente organizzati in strati o con laminazioni. Rispetto agli stessi suoli originari, questi si sono differenziati per alterazione di tipo biochimico, incipiente o debolmente sviluppata a causa dell’epoca relativamente recente a cui risale la fine della deposizione dei sedimenti. Determinante, inoltre, è stata la riorganizzazione delle particelle di suolo per l’attività biologica ad opera di radici e animali scavatori. Il clima che caratterizza la zona di produzione prevede un regime termico temperato sub-continentale. Le temperature medie annuali diminuiscono dalla fascia costiera verso occidente da 14 a 12°C, mentre le precipitazioni tendono ad aumentare variando da 650 a 800 mm annui. Le piogge sono concentrate nel periodo autunno-primavera. L’alternarsi di stagioni piovose con periodi caldi e secchi favorisce anche la solubilizzazione e la mobilizzazione dei sali solubili e la riorganizzazione all’interno del suolo dei precipitati cartonatici sotto forma di cristalli, concrezioni, concentrazioni soffici. Il latte giusto Le caratteristiche del formaggio squacquerone, in particolare la sua cremosità ed elevata spalmabilità, sono una conseguenza del tipo di latte impiegato nella produzione del formaggio. Le qualità specifiche dei foraggi coltivati integralmente nella zona geografica di produzione, ricchi in zuccheri e in fibra altamente digeribile, determinano un regime alimentare caratteristico per le bovine, contraddistinto da un basso livello di apporti energetici provenienti da grassi ed amidi. In tal modo si ottiene un latte povero di proteine e grassi che determina la tipica mancanza di nervo del formaggio.
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è CERMET Soc. Cons. di Cadriano di Granarolo Emilia (BO). Il formaggio ottenuto dall’applicazione del disciplinare deve recare sulla confezione la dicitura “Squacquerone di Romagna – Denominazione d’Origine Protetta” o “Squacquerone di Romagna – DOP”, accompagnata dal logo comunitario. L’etichetta deve inoltre riportare il nome, la ragione sociale e l’indirizzo dell’azienda produttrice/confezionatrice. Il prodotto va conservato ad una temperatura compresa tra 0°C e +6°C (la temperatura massima di conservazione va indicata in etichetta). Pure il marchio, riportato sull’involucro esterno protettivo del formaggio, deve corrispondere alla de no minazione. Il disciplinare è molto preciso anche a questo riguardo specificando che “Squacquerone di Romagna” deve essere scritto in caratteri Sari Extra Bold Inclinato con colori blu pantone 2747 e bianco di dimensioni proporzionali alla confezione. Sull’involucro è vietata l’aggiunta di qualsiasi qualificazione non espressamente prevista. L’ambiente e l’unicità del prodotto La Romagna, fin dai tempi più lontani, ha visto la presenza di aziende agricole dedite alle produzioni vegetali e all’allevamento di pochi capi con duplice funzione di produzione di latte e da lavoro. Il latte usato per il consumo umano veniva in parte trasformato in squacquerone di Romagna per consentirne una maggiore conservabilità nel tempo e aveva la funzione di integrare, attraverso lo scambio di prodotti, il reddito dell’agricoltore. Le prime tracce documentate della produzione di squacquerone risalgono al 1800, come dimostra la corrispondenza inviata dal vescovo di Cesena cardinale Bellisomi al vicario generale della diocesi cesenate (15 febbraio 1800), nella quale si chiedono informazioni su una partita di squacquerone proveniente dalla Romagna. Gli studi inerenti a questo formaggio iniziarono però soltanto nel 1999, quando vennero approfondite le ricerche sulla microflora lattica che lo caratterizza. Furono prelevati campioni di latte, cagliata, innesti naturali e formaggio durante
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la lavorazione e in un arco di tempo di alcuni mesi. Lo scopo era quello di verificare eventuali differenze stagionali. Dopo aver sottoposto i campioni a numerose analisi chimico-fisiche e batteriologiche fu possibile definire un quadro abbastanza preciso delle caratteristiche salienti del latte, della tecnologia di lavorazione e, soprattutto, della composizione quali-quantitativa dei migliori innesti naturali utilizzati. Quest’ultimo punto fu di fondamentale importanza, perché si poté stabilire scientificamente che le specie batteriche presenti sono uniformi e che questa uniformità è dovuta al legame con l’ambiente della zona tipica di produzione. Dal punto di vista tassonomico la specie riscontrata in tutti gli innesti naturali studiati, che quindi caratterizza la microflora lattica tipica del formaggio squacquerone di Romagna DOP, è lo Streptococcus thermophilus. Ma non uno Streptococcus thermophilus qualsiasi… I vari biotipi isolati hanno rivelato, infatti, di possedere delle peculiari caratteristiche fisiologiche e biochimiche che non sono sovrapponibili a quelle dei ceppi selezionati delle collezioni internazionali. Ciò ha dimostrato, se mai ce ne fosse bisogno, che ogni area geografica — in questo caso la Romagna — ha collezioni batteriche proprie. L’analisi del territorio conferma infatti la colonizzazione di poche e ben definite specie con caratteristiche genotipiche e fenotipiche particolari. I biotipi autoctoni di Streptococcus thermophilus dotati di caratteristiche e attitudini per lo squacquerone di Romagna DOP sono quindi autoctoni e costituiscono nel loro insieme l’associazione microbica tipica che la selezione sia naturale che operata dall’uomo hanno indotto nella particolare nicchia ecologica che caratterizza questi territori.
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di implementazione Con i fichi Altra preparazione tipica del territorio da provare è l’abbinamento dello squacquerone con i fichi caramellati. Si possono entrambi mettere nella piadina, ma io li preferisco al cucchiaio, incurante per una volta tanto di calorie e zuccheri. Ne vale la pena! Nunzia Manicardi
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Il Graukäse della Valle Aurina di Raffaele Bertolini
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uesta è la storia di un formaggio che reca in sé impronte femminili. La storia di un formaggio che nasce in un ambiente aspro, montano, lontano dalla furtività cittadina. Lontano anche da quelle mani vellutate che ti ricevono negli ambienti domestici della pianura; un ambiente in cui il lavoro manuale quotidiano ti porta a nascondere la ruvida epidermide nel grembiule. Non si tratta certamente di un ambiente fiabesco, da cui il progresso tecnologico è rimasto estraneo; talvolta le difficoltà hanno portato ad acuire il proprio senso pratico, abbracciando migliorie tecniche all’avanguardia.
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Non si sa per certo se il Graukäse sia una scoperta femminile, ma certamente se non ci fossero state le donne a preservarne la tradizione della preparazione, del culto e del consumo, questo formaggio, figlio della fame e della prodigalità tipica di un’epoca e di un paesaggio, non sarebbe arrivato sino a noi. Non esiste un’unica ricetta di preparazione; in ogni dove se ne produce uno particolare. La versione originale del Graukäse si può trovare in Val Pusteria, e nella fattispecie nella Valle Aurina. Viene prodotto in maniera totalmente artigianale, sia in alpeggio che in valle. Origina da una cagliata acida di latte scremato.
Da sempre ritenuto un sottoprodotto della lavorazione del burro, non è mai riuscito ad imporsi sulle tavole dei nobili. Soltanto da qualche anno il suo valore e la sua identità sono stati valorizzati adeguatamente contribuendo alla sua popolarità. Essendo da sempre un prodotto casalingo, risente nelle sue forme e sapori del carattere e delle inclinazioni del suo creatore. Nella parte alta della Inntal, ad esempio, lo si preferisce di pasta piuttosto cedevole, mentre nella regione meridionale, la cosiddetta Zillertal, si è imposta la versione più robusta. Nella parte occidentale del Sud Tirolo, il Graukäse non è conosciuto. Probabilmente
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perché in questi luoghi le comunità montane utilizzano da sempre i coadiuvanti fermentativi per la produzione casearia. Il formaggio, sia quello prodotto nelle malghe occidentali, in cui gli animali venivano fatti pascolare su pascoli comuni ed erano seguiti dalla comunità, sia quello prodotto sui possedimenti privati delle malghe orientali, per secoli fu anche merce di scambio. Per questo motivo si fece più frequente l’uso del caglio per ottenere un prodotto più durevole. Le vacche sostituirono capre e pecore, dacché il formaggio ottenuto da coagulazione presamica abbisogna di quantitativi di latte ingenti. Per dare un’idea del traffico di beni commestibili usati come moneta, si pensi che nei primi anni del 1300 i funzionari del principato tirolese ricevettero come decima la quantità di 110.000 caciotte, del peso complessivo di 100 tonnellate. La diocesi di Bressanone ricevette circa 12.000 forme, mentre la diocesi di Neustift ricevette la decima di 400 villaggi. Tutto questo formaggio serviva per pagare i manovali e i funzionari feudali o ecclesiastici, il resto finiva sul mercato. Non è un caso che alcune tra le date più importanti per il pagamento dei censi coincidessero con il calendario dei mercati (il 24 agosto San Bartolomeo, il 29 settembre San Michele, l’11 novembre San Martino). Con l’aumentare degli scambi aumentò anche il traffico veicolare e nel 1544 alcuni contadini dei villaggi di Mair nel Ridnaun (Racines) lamentarono ai funzionari ecclesiastici di Merano, che avevano ricevuto 100 forme di formaggio, il fatto che i pascoli concessi alle loro vacche si stessero esaurendo per colpa dei sempre più numerosi cavalli utilizzati come mezzo di trazione per il trasporto delle decime. Parallelamente al commercio di formaggio “magro”, esisteva un commercio di casei boni, vale a dire di formaggio prodotto con latte intero. Questo formaggio ovviamente era più desiderato e più costoso. Quando il principe Meinhard II (morto nel 1295) mandò dei formaggi in regalo all’amico Alberto della Scala, si deve essere trattato molto presumibilmente di
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La preparazione casalinga del Graukäse (photo © fxcuisine.com).
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formaggio “buono”. D’altra parte, con l’aumentata produzione di formaggio grasso, si era ridotta la disponibilità di burro. Il governo locale dovette allora intervenire impedendo, come attestano alcuni documenti della Zillertal, ad esempio, di vendere burro alle città vicine. La produzione odierna di Graukäse si aggira tra i 5.000 e i 7.000 kg annui nella Valle Aurina e circondario. Il formaggio si produce solamente in 22 delle 912 malghe della valle. È interessante sapere che in Norvegia si produce un formaggio simile, chiamato Pult Ust. La differenza sta nel fatto che non viene messo in una fascera, ma fatto riposare in una scodella, nella quale viene più volte sbriciolato per 5 giorni, per poi essere lasciato maturare per un anno. Processo di lavorazione Una centrifuga separa la parte magra da quella grassa del latte; il latte scremato viene mantenuto in un ambiente piuttosto caldo per facilitarne l’acidificazione. I batteri necessari all’acidificazione provengono in parte dal latte stesso, in parte dall’ambiente di lavorazione. Batteri lattici fermentativi vengono aggiunti solamente in condizioni di scarsa acidificazione. Nel giro di un giorno o due il latte acidifica. La massa caseosa viene tagliata con un mestolo o con una frusta e riscaldata lentamente, per lo più in una calderone di rame, per circa un’ora e mezza o due. Durante questa fase la cagliata viene mescolata continuamente. Più la si mescola, più la temperatura viene innalzata e più la consistenza del Graukäse si fa asciutta. La temperatura normalmente utilizzata è tra i 40 e i 55°C, e solitamente non si utilizza nemmeno il termometro per il controllo, piuttosto il gomito. Raggiunta la consistenza adeguata, la cagliata viene estratta e fatta riposare in un telo, dove drena e si raffredda. Con le mani si procede a sgretolare la massa. La salatura avviene a secco e in pasta. A volte si aggiunge pepe. Altre spezie esotiche vengono aggiunte nelle valli confinanti, ma in Valle Aurina si preferisce essere puristi. Si procede con l’inserimento della
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La pressatura durante la messa in forma determina la consistenza più o meno morbida del formaggio (photo © fxcuisine.com). cagliata nel contenitore di legno, dove viene leggermente pressata per lo spurgo. Se la pressatura è molto leggera si otterranno forme dalla consistenza morbida; al contrario, se è pesante le forme avranno una consistenza più decisa, con maturazione centripeta. Con l’intervento dei lieviti, presenti naturalmente negli ambienti di lavorazione e stagionatura, e con la presenza di aria, la massa caseosa vira la propria acidità verso una maggiore dolcezza e la parte proteica diventa più cedevole. Dopo alcuni giorni il Graukäse viene tolto dalla fascera e procede la maturazione su una semplice asse di legno, a temperatura ambiente. Il giusto grado di stagionatura dipende molto dai gusti personali. Si parte dalle due settimane per la versione
che si vuole più morbida, fino a qualche mese per le altre. Nello stadio “acerbo” si presenta fragile e dalla pasta friabile, nello stadio maturo piuttosto cedevole. Raffaele Bertolini
Nota A pagina 84 Castel Tures, Valle Aurina (photo © turistipercaso.it).
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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com
Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.
Olio
L’albero più rappresentativo del creato di Angelo Valentini
I
l mistero della natura e le bellezze del creato, date da nostra madre Terra, Francesco d’Assisi le aveva comprese a suo tempo e Francesco Papa ce le ripropone in chiave moderna. La sua ultima enci-
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clica Laudato si’ è riferita alla terra in cui viviamo, dalla quale proviene tutto ciò che ci circonda, dal cibo alle vestimenta: «Laudato si’, mi’ Signore», cantava San Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci
ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
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Comune di San Felice sul Panaro (MO) la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». Ricordo che GINO VERONELLI mi raccontò questa bella storia, vera. Una casa editrice gli aveva commissionato un libro, lasciandolo libero sul tema. Dopo alcuni mesi Veronelli si presentò all’editore con una stesura di circa duecento pagine, in ognuna delle quali aveva scritto la parola Terra. Cercarono di contestarglielo, ma lo scrittore sostenne che la Terra produce tutto, per cui il lettore, meditando sulla parola ricorrente, poteva immaginare qualsiasi specie, sia del mondo vegetale che di quello animale. Lo stesso CARLIN PETRINI, fondatore di Slow Food, ha capovolto la frase del Santo Francesco, chiamando il suo progetto Terra Madre, ma il concetto è lo stesso. La mia riflessione è qui rivolta alla pianta millenaria per eccellenza, l’ulivo. “Sediamoci sotto un olivo, scrutiamo le sue rughe che sanno di misteri lontanissimi. Amiamo, accarezziamo i suoi nodi così stretti e bruschi, così ghignanti e ridenti, così solidi e stretti. Vi sono alberi che ricordano l’uomo nei suoi movimenti, nella sua statura, nelle sue gesticolazioni (…). L’olivo è lo stesso volto dell’uomo nelle sue lunghe cicatrici, nello svariare dei colori, dal verde al cinerino sia della foglia sia del legno, ogni volto d’uomo trova qualcosa di sé. Trova le sue età passate e future, la maturità possibile, la vecchiaia inevitabilmente giusta (…). Trova i suoi anni di zingaro e di randagio nel sole di bellezza fiorita. E trova le radici del suo destino, la terrestrità nutriente e potente, la capacità di resistere ai venti, come sa fare l’olivo che in ogni ramo sembra che sia reduce da battaglie millenarie. Si è sempre adattato, ma scavando dentro di sé gli umori, dovremmo dire gli spiriti, per non abbattersi. Il tormento visivo che c’è in un olivo è il nostro. Nessun altro può uguagliarlo. Può rispondergli con insolenza e superbia, ma non possiede tali doti di guerriero fiaccato e solo contro tutti. Si può amare un albero come si ama un fiore e si può prediligere questo anziché quell’altro albero, ma l’olivo non basta amarlo, lui necessita di rispetto, ultima for-
ma umana che dovrebbe derivare dall’arcaica adorazione. È l’ulivo che ha spigato noi e i nostri bisogni, mutandoli, facendosi portatore di messaggi, accendendosi per darci luce. Si è lasciato mangiare di minuscoli occhi verdi e neri le nostre notti. Temiamo a guardarlo, come si misura un sogno, come se vedessimo ripetuto migliaia di volte il nostro volto, con tutte le sue vite vissute, interiori ed esteriori, e tocchiamolo appena con una mano come si fa con una cosa cara ed eterna, che è stata, è, e ancora testimonierà per noi” (GIOVANNI ARPINO, da: NAPO MASTRANGELO, L’Olivo, 1982). Quante analogie con l’uomo! Ogni volta che rileggo queste frasi vedo gli uomini e gli ulivi ubicati nel proprio territorio e noto somiglianze. Gli ulivi umbri della mia terra sono miti, bassi di statura, coi rami rivolti verso il cielo come tante mani oranti; il loro olio è fine, delicato, liturgico, dalle spiccate qualità salutari. Gli ulivi toscani sono leggiadri, nobili, eleganti, fanno da cornice ai tanti castelli, borghi e ville patrizie; il taglio della chioma è fatto a regola d’arte, ordinato, tipico della potatura cosiddetta alla “Roventini”; l’olio ha sapore di mirto, leggermente pungente, con piacevoli sensazioni di alloro, capace di deliziare una bistecca, la classica ribollita e la fettunta. In Emilia-Romagna gli ulivi non sono molti, sono frontalieri a causa del microclima, le piante sono giulive come tutta la popolazione romagnola. Noto l’olio di Brisighella, leggermente piccante e piacevolmente amarognolo. In Friuli sta resuscitando un olivicoltura già presente in epoca romana, come testimoniano i reperti oleari dell’antico porto di Aquileia. Oleis, piccolo paese alle falde del Collio orientale del Friuli, è diventato centro studi in materia olivicola. Esistono ulivi centenari alla Rocca Bernarda di proprietà del Sovrano Militare Ordine di Malta, si ricava un olio fine, delicato, oserei dire azzimato e cosmetico, adatto alla loro cucina di origine mitteleuropea. Faccio ritorno in Centro Italia per descrivervi quelli laziali: hanno ampie chiome, raggiungono altezze di oltre cinque metri, sembrano dei Vatussi; l’olio è ricco, denso. Emble-
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L’antico ulivo di Pano Vouves, i cui rami hanno incoronato i vincitori delle maratone di Atene e di Pechino (photo © Andrea Pellati). matici quelli di Canino, nel Viterbese. Sia l’Abruzzo che il Molise vantano un’olivicoltura di tutto rispetto, protesa verso il mare Adriatico e protetta dal massiccio del Gran Sasso, le piante sono forti e ben chiomate, come gli abruzzesi; l’olio speziato e sapido, condito dai venti marini. Gli ulivi calabresi, assembrati in veri e propri boschi, sono vetusti, callosi, decani del mondo vegetale; alcuni paiono minuscole cattedrali, ben piantati e radicati nella madre Terra; le chiome a mantello grigioverde si toccano oscurando il sole; l’olio è forte, robusto, virile, un condimento la cui sacralità è corrotta dal mefistofelico e profano peperoncino, altro elemento gastronomico tradizionale della regione.
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Campania e Basilicata: gli ulivi hanno le stesse sembianze, rigogliosi, soprattutto quelli della zona che si affaccia sulla penisola sorrentina, offrono una vista di incomparabile bellezza; gli alberi sono felici, garruli, le foglie sempre in movimento per la brezza marina, cantano canzoni d’amore, che solo agli eletti è concessa la grazia di ascoltare. L’olio risente della salinità del mare e della vicinanza dei giardini coltivati a limoni, che si pavoneggiano con la piccola drupa, che da verde smeraldo cangia il suo colore con riflessi bruni come l’onice, al momento della sua raccolta. In Sicilia l’ulivo è presente più o meno in tutta l’isola e risente fortemente le tradizioni della cultura ateniese. Le piante sono aristocratiche,
riservate, direi omertose, entro le cinte murarie dei feudi gattopardeschi. L’olio che ne scaturisce è saggio, distinto, profumato alla zagara, è lo stesso unguento che usavano i Romani negli ozi di Piazza Armerina. In recenti concorsi oleari l’olio siciliano si è classificato ai primissimi posti per la sua finezza. Giunto in Sardegna, noto piante e uomini condizionati da un ecosistema tutto particolare, che varia da zona a zona. Sono spagnoleschi e guasconi gli olivi dell’Algherese, mentre quelli dell’entroterra sono più chiusi, contadini, polverosi, ma danno un olio ricco di essenze di macchia mediterranea e possente di sapore. Concludo con la raccolta e l’arrivo al frantoio, dove ogni molino vanta i propri pregi, o per la sua tecnologia o per essere rimasto umile pietra di roccia trainata da un mansueto asino bendato. L’olio che sgorga non so se definirlo pianto o riso di gioia, per la felicità di chi amorevolmente lo ha seguito durante l’anno “dialogando” con lui. Come cristiano ho sempre considerato con profonda venerazione l’olio, tanto da definirlo l’Alfa e l’Omega. Attraverso il rito del battesimo, il sacerdote, con l’olio consacrato, sanziona l’entrata di un nuovo fratello nella Chiesa. Raggiunta l’età della ragione, con la cresima il vescovo unge la nostra fronte del Sacro Crisma, nominandoci soldati di Gesù Cristo, e alla fine del nostro percorso terreno, attraverso l’estrema unzione, il sacerdote ci segna con l’olio santo affinché possiamo godere della gloria celeste. L’olio è nostro compagno nel quotidiano, alimento, condimento, lenimento, cosmetico per la bellezza e la protezione dell’epidermide; viene utilizzato nei colori, per dipingere, e nell’alimentazione delle lampade. Milioni di lampade nel mondo ardono accanto ai tabernacoli; la loro flebile fiammella indica un segno di preghiera affinché gli uomini abbraccino rami di ulivo, messaggeri di pace. Angelo Valentini Nota A pagina 88, il millenario ulivo di Pano Vouves, Creta (photo © Andrea Pellati).
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Vino
L’uva del dragone Viaggio in Cina con tappa nello Xinjiang, dove le viti crescono insieme ai gelsi e il vino è di casa da molto prima dell’arrivo di Marco Polo di Riccardo Lagorio
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el maggio 1928 venne celebrata a Torino l’Esposizione Universale per onorare il quarto centenario della nascita di Emanuele Filiberto di Savoia. Si racconta che al presidente del Consiglio Benito Mussolini, visitando
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il padiglione ungherese, venne offerto un bicchiere di Tokaj. Al commiato gli fu regalato anche un volume dedicato alla storia vitivinicola magiara e, per non essere da meno, egli salutò dicendo che, attraverso l’ambasciatore a Roma, avrebbe fatto avere all’omolo-
go ungherese un volume della Storia della viticoltura italiana. Piccato, il duce venne a sapere di lì a poco che l’opera non esisteva, se non in maniera frammentaria. La lacuna venne colmata nel 1931 ad opera di ARTURO MARESCALCHI e GIOVANNI DALMASSO,
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Pergolato di viti presso l’azienda Château Tuoling, tra i maggiori produttori di vino della regione cinese dello Xinjiang.
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Degustazione in cantina. con la collaborazione delle Regie Università di Torino e Firenze: che non si potesse mai dire che un’altra terra fosse consacrata alla vite quanto la penisola italica, l’Enotria tellus. Del resto, le scoperte archeologiche che fanno risalire la produzione di vino in Cina a 4.600 anni fa, nell’area di Rizhao, sarebbero state rese pubbliche solo sessant’anni più tardi, ad opera di spedizioni sinoamericane. La vitivinicoltura ebbe grande impulso 1.400 anni prima dell’arrivo di Marco Polo grazie alle spedizioni di Chang-Ch’ien, emissario dell’im-
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peratore Han Wu Ti, che raggiunse Samarcanda e si spinse sino alla Battria ed alla Sogdiana, porte dell’impero persiano. Gli storici propendono a pensare che da lì Chang-Ch’ien, tracciando per la prima volta la Via della seta, introdusse nell’impero orientale uva ben più adatta alla vinificazione e, soprattutto, metodi di fermentazione idonei allo sviluppo del vino. Tuttavia, per secoli la viticoltura fu praticata ancora in maniera marginale e confinata ad una ristretta fascia di popolazione, sino alla dinastia Tang (che s’instaurò a partire dal VII d.C.).
Nel X secolo l’opera enciclopedica TAIPING YULAN riporta chiaramente i presupposti storici della odierna viticoltura nello Xinjiang, la parte più occidentale del paese-continente, che si insinua tra la Mongolia, alcuni paesi ex sovietici come Kirghizistan, Kazakistan e Tagikistan, e Pakistan: “inizialmente il vino veniva ceduto come omaggio, almeno sino alla conquista di Turpan, quando i semi dell’uva a capezzolo di cavalla fu piantata nei giardini imperiali. Cambiò anche il metodo di produzione del vino e persino l’imperatore iniziò a farselo per sé. Se ne otteneva vino di 8 colori, dai profumi persistenti ed alcuni mantenevano il gusto di mosto. Le migliori bottiglie venivano regalate agli alti ufficiali e così la gente della capitale iniziò ad apprezzare il vino”. Con la citazione dell’uva a capezzolo di cavalla, dall’acino dalla forma allungata, iniziava ufficialmente la lunga marcia della viticoltura cinese. Accanto ad essa, l’uva perla vegetale del dragone, dalla forma sferica, altrettanto ambita per la produzione di vino. Ovviamente anche la letteratura ricorda quella epopea. Grazie al poeta LIU YU-HSI, attivo nel IX secolo: “Ora che la vite è piantata / si arrampica sui pali di legno / forma una ragnatela che dà ombra all’erba / e crea una terrazza che è di piacevole riparo”. Arrivati a Turpan, al centro di una imponente depressione, immaginatevi in un lussureggiante giardino pergolato di viti e gelsi. Un ruscello farfuglia nelle vicinanze e la brezza leggera filtra attraverso il rigoglioso pergolato di viti. Gli uccelli svolazzano tra le vigne e forniscono la colonna sonora migliore per il vostro soggiorno. Zampettano su un tappeto di seta tessuta di rosso e bianco che copre lunghe panche di legno dipinte di turchese brillante. Dopo qualche ora di piacere, davanti ad un buon bicchiere di vino locale, avrete dimenticato le dure condizioni che avete visto attraversando il deserto del Taklamakan per arrivare sin qui. Sulle montagne circostanti la temperatura estiva raggiunge gli 80°C. L’incredibile fertilità dell’oasi,
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A sinistra: barriques. A destra: un vino dell’azienda Château Tuoling. dove le temperature variano tra i –20°C d’inverno e i +50°C d’estate, è invece resa possibile grazie ad una serie di canali sotterranei e pozzi di superficie, chiamati kariz. Il kariz è un sistema di irrigazione d’origine persiana escogitato nel I millennio a.C. che si è diffuso in tutti i paesi o regioni desertiche vicine nei secoli successivi. Il kariz di Turpan è stato costruito durante la dinastia Han (che ha retto le sorti dal 206 a.C. al 24 d.C.) ed è tuttora parzialmente in uso, alimentato da acque sotterranee e dallo scioglimento della neve dalle montagne Tien Shan. Secondo uno studio dell’UNESCO, un singolo kariz può sostenere 9.000 persone e fornire acqua per 200 ettari di terreni agricoli. Questo immane sistema di canalizzazione ha permesso lo sviluppo di oltre 50 varietà autoctone nello Xinjiang e centinaia sono state introdotte negli ultimi decenni, molte adatte all’avvizzimento in quanto la maggior parte dell’uva raccolta è utilizzata per diventare uva passa, conforme all’alimentazione della maggioranza della popolazione di etnia Uigura, di fede musulmana e lingua appartenente al ceppo turco-iranico. L’essiccazione ha luogo in caratteristiche costruzioni dove si favorisce la ventilazione naturale, le chunie. Appena fuori Turpan, l’azienda Château Tuoling (tuoling si può tradurre con carovana) è uno
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dei maggiori produttori di vino della regione. ZHANG LEI, la direttrice dell’impianto, durante la passeggiata con cui accoglie i visitatori, racconta con l’aiuto di pannelli e plastici la storia della viticoltura nello Xinjiang, dove ultimamente sono state piantate varietà internazionali come Cabernet Sauvignon, Pinot nero, Merlot e Cabernet franc. Le barriques sono in rovere francese; anche lo stile del risultato finale tende ai vini d’Oltralpe, ma vuole sempre di più avvicinarsi alle esigenze ed alle richieste del consumatore internazionale. Il vino è destinato al mercato interno e solo il 2% parte per Singapore, la Tailandia o la Malesia. Il Cabernet Sauvignon del 2011 affinato in botte rivela colore rubino intenso, naso alcolico, bocca rotonda e complessa, sottilmente erbacea e di tabacco. Insolito e difficilmente inquadrabile negli usuali parametri il vino bianco da uva a capezzolo di cavalla, senza semi, del 2013. Occhio paglierino brillante ad alto contenuto di glicerina, colpisce per i profumi di glicine e pesca, e l’intensa alcolicità. L’introduttivo fruttato del bicchiere cede ben presto ad affabili volute amarognole, persistenti e appaganti. Altrettanto sconosciuto il rapporto con un vino rosso dolce, da uve di varietà Tuo Xian e Beichun (entrambi incroci tra Vitis vinifera e Vitis amu-
rensis) parzialmente appassite nelle chunie, che hanno fermentato per una settimana sulle bucce. Versato in bicchiere si manifesta con colore rubino chiaro, bouquet assai alcolico e un poco ossidato ma piacevole e sostenuto in bocca con tracce sensoriali di lampone e mango. Sul fronte prezzo arrivano le note dolenti: al cambio attuale nessuna delle tre pur avvincenti bottiglie si acquista a meno di € 35,00 in cantina. A diverso titolo i tre vini si combinano assai bene con la carne locale di montone, cucinata con generosa quantità di spezie, ma anche con il cibo da strada di qui: una sorta di tigella ripiena di carne ovina macinata (con indiscreto apporto di cipolla). Manca invece un’opera, accessibile agli occidentali, che possa descrivere il considerevole patrimonio vitivinicolo cinese, probabilmente in grado di competere con quello italiano, riportato nel monumentale rapporto del 1931. In attesa che la lacuna venga colmata, ci diletteremo leggendo i nostrani VARRONE e COLUMELLA, sorseggiando Sangiovese e Nebbioli. Riccardo Lagorio Nota A pagina 92 una delle caratteristiche chunie, costruzioni per l’essiccazione dell’uva che favoriscono la ventilazione naturale.
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Restaurant man, giudice di MasterChef e Ambassador per Expo 2015
Joe Bastianich, ritorno alle origini del gusto di Tania Mauri
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oseph Bastianich è un personaggio diventato molto famoso nel nostro Paese grazie alla trasmissione televisiva MasterChef Italia (celebre la sua frase “vuoi che muoro?”). Non tutti sanno però che Joe non è un cuoco ma un imprenditore, o meglio, per citare il suo libro, un restaurant man. Nato nel Queens e figlio di ristoratori di origine istriana — la madre Lidia, chef e oggi celebrità internazionale, e il padre Felice, «un restaurant man duro e puro» — da sempre si nutre di enogastronomia. Dopo la scuola va a fare i compiti al ristorante o trascorre qualche ora dalla nonna Erminia, che «girava in giardino in reggiseno innaffiando le piante di pomodori gridando in italiano». Curioso e intraprendente, sin da bambino non lo spaventa il lavoro: accompagna il padre al mercato, fa l’aiuto cameriere, consegna i giornali, impara a fare i bagels… Ma il suo pensiero fisso è “come fare i soldi”. La famiglia Bastianich non è povera — Joe studia nelle scuole migliori — ma lui si sente diverso, un emigrato, un bambino che mangia cose italiane invece di hot dog e patatine fritte. Vuole emergere e allontanarsi dalle sue origini. Inoltre, ogni estate è “costretto” ad andare in Italia spostandosi ogni giorno, da Nord a Sud, per visitare locali e aziende vinicole, mentre lui vuole stare al mare in Istria e divertirsi. A quei tempi Joe odia quei viaggi estenuanti poi, col tempo, impara a capirli, ambendo a diventare come le persone che incontra: abitano in posti stupendi, hanno un sacco di amici, producono ottimi vini e “cucinano una grande cucina”.
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Joe Bastianich in concerto davanti all’Enoteca Meregalli di Monza. Proprio il ricordo di quelle estati, però, è una delle molle che trasforma Joe Bastianich da business man di Wall Street in ristoratore, quando, ad un certo punto della sua vita, si rende conto che deve riprendere in mano il suo destino. E ritornare “alle origini”.
Dopo il college infatti Joe molla tutto e compra un biglietto di sola andata per l’Italia dove starà per un anno e mezzo. Grazie a questo viaggio sabbatico “ritrova se stesso”, lavora nei ristoranti e nei vigneti, conosce gente felice, riempie quel vuoto che aveva
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Friuli Colli Orientali Friulano Vigne Orsone di Bastianich Winery. Un un vino tipico, che esprime la storia e il terroir del Friuli. lasciato a New York e riassapora la vita vera, la voglia di vivere e amare ciò che si fa, nel suo caso dedicarsi al cibo e al vino. Il resto è storia: torna a New York e apre Becco con la madre Lidia, poi inizia la sua partnership con MARIO BATALI e con lui apre alcuni tra i migliori ristoranti di New York, tra cui Babbo Ristorante ed Enoteca e Del Posto. Diventa protagonista, prima per l’edizione americana e poi per quella italiana, di MasterChef, collabora con Oscar Farinetti per le aperture di Eataly in America, a New York e Chicago (a breve quella di San Paolo). La famiglia Bastianich produce vino in Friuli — distribuito in Italia in esclusiva dal Gruppo Meregalli (www.meregalli. com) — e sui propri vigneti, alle porte di Cividale del Friuli, ha da poco aperto Orsone, ristorante, taverna e B&B, il loro unico progetto in Europa. Joe Bastianich è anche Ambassador per Expo 2015. Facciamoci raccontare qualcosa di più dallo stesso Bastianich, sempre molto disponibile e gentile, diverso forse da come uno se lo immagina, perché nella realtà è ironico e divertente. Che rapporto hai con il territorio dove la tua famiglia coltiva e produce vino? «Il Friuli rappresenta il luogo da dove arriva la mia famiglia, è la nostra
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storia. Dopo 20 anni qui mi sento a casa. Ho un forte legame con questa zona di confine che per anni è stata la porta per l’Europa dell’Est». Durante l’Università a Boston, lontano da tutto quello che ti ricordava le tue origini, hai vissuto un periodo di assoluta libertà, “meraviglioso, senza nessuna responsabilità vera e al centro di tutto”, che ha influenzato i tuoi gusti musicali. Oggi hai una band… «Sì, canto e suono la chitarra nel gruppo The Ramps. Facciamo musica American country rock, sono un ex hippy. La musica è sempre stata una delle mie passioni. Mi piace suonare e comporre, mi rilasso, magari bevendo un buon bicchiere di vino e fumando. E, quando posso, mi esibisco con la band, ci piace molto». In passato hai avuto problemi di peso. Oggi come fai a mantenerti in forma? «Nuoto tutte le mattine quando non sono in volo. E poi corro e vado in bici, quando posso tra le colline del Friuli, dove i paesaggi mozzano il fiato. Sono un maratoneta e triatleta. Ho partecipato all’Ironman, la competizione più dura del triath-
lon. Mens sana in corpore sano, la fatica mi aiuta ad essere lucido, a concentrarmi». Quando trovi il tempo di scrivere? «In aereo. Oggi vivo tra New York, Los Angeles e l’Italia. Quando mi annoio parto. E scrivo. Mi piace scrivere». Dopo cinque anni hai lasciato MasterChef USA, come mai? «Voglio concentrarmi su altro, sullo sviluppo di Eataly in America per esempio. E poi continuerò con MasterChef Italia con i miei amici e giudici Porcospino/Cracco e Gufo/ Barbieri». Sappiamo che non sei un cuoco ma ti piace dilettarti in cucina. Cosa cucineresti ad un tuo ospite? «A me piace molto cucinare, soprattutto per gli amici. Per te farei delle linguine alle vongole, una fiorentina con patate in tecia e un goloso tiramisù al limone. In abbinamento il mio Friulano, del Brunello di Montalcino e del limoncello». Volete conoscere la ricetta delle linguine e della fiorentina? Stay tuned, presto su EUROCARNI e IL PESCE. Tania Mauri
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I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: di Laura
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ono tanti i turisti italiani e non che decidono di passare le vacanze estive nella regione istriana, approfittando delle splendide acque che la lambiscono. I posti da visitare non mancano, come non manca l’arte, la cultura, la gustosa cucina. Tradizioni diverse e diverse culture si sono mescolate, dando origine ad
una tradizione gastronomica unica e particolare, complici anche le materie prime del territorio, come l’olio d’oliva, le spezie, le erbe aromatiche, i frutti di mare… Anche sul fronte vinicolo la regione regala prodotti d’eccellenza che ben si abbinano ai piatti tradizionali e le tante cantine sparse su tutto il territorio meritano una visita.
Malavazija Festigia Vižinada Agrolaguna
Malvazija Istarska Bomarchese Degrassi
Malvazija Istarska Ritoša Vina
Siamo a Parenzo con questa bella realtà che vanta 1200 ettari di vigneto e una gestione sapiente e pignola dei lavori in vigna come della produzione in cantina. La struttura ospita anche un’ampia sala degustazione ed un punto vendita dove è possibile acquistare pure l’olio e i formaggi sempre prodotti dall’azienda. Le uve di questo calice beneficiano sia dalle influenze calde del clima mediterraneo che della fresca brezza delle Alpi meridionali. Il calice di Malavazija Festigia Vižinada è tipico nei profumi di pesche e note verdi, menta e leggera balsamicità, armonico al palato, buone le note sapide e fresche. Adattissimo a ricchi piatti di frutti di mare e grigliate miste. Da provare anche con foglie di salvia fritte, abbinamento gustosissimo.
Moreno Degrassi gestisce con passione i suoi venticinque ettari di vigneto situati nel Buiese e caratterizzati sia da terreni bianchi che rossi, mentre la cantina di produzione è situata ad Umago, dove è possibile effettuare anche degustazioni guidate ed acquistare i vini aziendali. Parte delle uve pigiate di questo calice sono sottoposte a criomacerazione e, in seguito ad una leggera pressatura, lasciate fermentare separatamente a una temperatura compresa tra i 14 e i 16°C. Il vino matura poi su lieviti fini in contenitori di acciaio inox fino a primavera, quando viene imbottigliato. La Malvazija è caratterizzata da una grande armonia tra tutte le parti, buona la nota minerale e la sapidità, che lo rende un’ottima alleata delle fritture di pesce e di affettati misti. Al naso il vino è complesso e fine, elegante di fiori, miele di tarassaco e frutta, pesche bianche soprattutto.
Una bella cantina situata a Parenzo, dove la famiglia Ritosa ha da tempo deciso di unire alla produzione vinicola un’offerta di ospitalità turistica, grazie alla presenza di un B&B. I vigneti dell’azienda si trovano nelle vicinanze del villaggio di Radmani, non lontano da Poreč. Il clima in quest’area è caratterizzato da inverni miti, piogge copiose e da lunghe e caldi estati. È brillante il calice di questa malvasia istriana, che si apre subito al naso con un’olfattiva intensa e ricca. Sono note eleganti e pulite di fiori, con frutta bianca fresca e erbe aromatiche a completamento. In bocca la sorsata è piena ed armonica, equilibrata, intensa, grande bevibilità. Assolutamente adatta alle grigliate estive, di pesce e di carne, da provare anche in abbinamento a tortelloni ricotta e spinaci, conditi con burro fuso e salvia.
Agrolaguna d.d. Mate Vlasica 34 52440 Poreč (Croazia) Telefono: +385 52453179 agrolaguna@agrolaguna.hr
Degrassi d.o.o. Bašanija – Podrumarska 3 52475 Savudrija (Croazia) Telefono: +385 52759250 info@degrassi.hr
Ritoša Vina Ive Lole Ribara 3 52440 Poreč (Croazia) Telefono: +385 52432069 info@vina-ritosa.hr
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Premiata Salumeria Italiana, 4/15
vini d’Istria Franchini
La regione è organizzata secondo Strade del vino, particolarmente pittoresche e suggestive. Due sono i suoli dominanti nella coltivazione della vite: la terra rossa e quella ricoperta di marna, la terra bianca. La prima è particolarmente vocata per la coltivazione di vitigni rossi, mentre la seconda è più adatta alla bacca bianca.
I principali vitigni sono la Malvasia istriana, il Terrano e il Refosco, tra gli autoctoni, ma non mancano vitigni internazionali come il Pinot bianco, il Pinot grigio, lo Chardonnay, il Merlot e il Cabernet Sauvignon. Il Moscato di Momiano e il Moscato di Parenzo sono invece ideali per la produzione di vini dolci.
Muškat Momjanski Kabola
Refošk Radovan
Teran Benvenuti
Un calice dolce, per una volta, adatto ai fine pasto come ai dessert, alle preparazioni lievitate, ai panettoni e ai pandori. La cantina che produce questo vino si trova nella parte nordoccidentale della penisola istriana, intorno ai 275 metri sul livello del mare, dove lo sguardo spazia delle Alpi da una parte, e si posa sulla rigogliosa area boschiva ed il mare dall’altra. I vigneti si trovano sulla collina denominata Stanzia presso la tenuta Kanedolo, vicino a Momiano. Al naso il calice si apre generoso con note intense di frutta, fichi maturi e albicocche, leggera mineralità a contorno. Armonico, fresco, dolce ma non stucchevole, è decisamente equilibrato, intenso, lungo senza eccessi e con raffinatezza, vellutato.
Siamo con questa cantina nel paese di Visignano, Višnjan, nel Parentino, più precisamente nella frazione di Radovani, località che porta lo stesso nome del titolare, Franko Radovan. Dal carattere schivo e riservato, Franko lascia parlare i suoi vini. E la lingua che parlano (oltre ai numerosi riconoscimenti che ottengono), parla di tradizione, tipicità e rispetto del vitigno. Autoctono il calice di Refošk, intenso e fruttato con note minerali e balsamiche a completamento. Palato che seduce con morbidezza e classe, non manca di spigolature virili e decise, che lo rendo versatile e decisamente affascinante. Persistente e fresco è assolutamente armonico. Se ne consiglia l’abbinamento con salumi, salame in particolare, e piatti di carne anche strutturati. Sarà perfetto con una fiorentina alla griglia o come compagno di una grigliata estiva con gli amici.
La cantina Benvenuti è orientata decisamente alla produzione di vini da vigneti autoctoni, prediligendo quindi la tipicità del territorio. Situata nel villaggio di Kaldir, poco distante da Montona, Motovun, la cantina possiede pochi ettari di vigneto, ma in luoghi particolarmente fortunati. Dove il sole batte forte ma la brezza marina rinfresca e aiuta l’ottimale sviluppo. Il calice di questo Terlano risulta decisamente intenso e corposo, ma non per questo manca di eleganza e raffinatezza. Intrigante la degustazione olfattiva, fruttata di frutta scura e con una bella speziatura a contorno, note pepate in particolare. La sorsata è morbida e lunga, vellutata ma con tinte croccanti e lunghe, bello e deciso l’equilibrio, giusto tenore alcolico, bella la trama fresca e la leggera sapidità, in armonia.
Kabola Kanedolo 90 52462 Momjan (Croazia) Telefono: +385 52779208 info@kabola.hr
Radovan vina Radovani 14 52463 Višnjan (Croazia) Telefono: +385 52462166 vina.radovan@pu.t-com.hr
Benvenuti Vina Kaldir 7 52424 Motovun (Croazia) Telefono: +385 981975651 info@benvenutivina.com
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Birra
Gli Italiani fanno anche la birra. E la fanno ottima È ufficiale: abbiamo imparato a fare bene un prodotto che non rientra né nella nostra storia, né nella nostra identità. Il segreto è quello di mutare l’arte del buon cibo anche a questa meravigliosa bevanda. E il risultato è assicurato: un settore in ascesa, un aiuto all’economia e molti riconoscimenti internazionali di Sebastiano Corona
A
bbiamo il primato dei prodotti alimentari di qualità certificati dall’Unione Europea ma, in fatto di birra — è il caso di ammetterlo —, in Italia non c’è mai stata tradizione alcuna. Eppure, forti delle nostre competenze ed inclinazioni a fare cose buone, abbiamo compreso immediatamente come produrre un’ottima birra, meglio se artigianale o agricola. È stato così che, in poco tempo, il numero dei birrifici nel Belpaese si è incrementato
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con percentuali di aumento a due cifre e, di pari passo, è andata la quantità di bevanda prodotta, i fatturati e gli addetti. Ma la cosa più sorprendente è l’unanime riconoscimento internazionale della qualità ed il crescente prestigio internazionale della birra italiana. Quella che inizialmente era infatti la capacità di pochi, è ben presto divenuta un’arte diffusa, Isole comprese. La birra artigianale nazionale, in qualche anno, ha raggiunto la vetta delle
più grandi ed ora è considerata talmente pregiata che anche gli Statunitensi, da sempre maestri in quest’arte, per voce del NEW YORK TIMES, l’hanno incoronata come la migliore del mondo. Nata alla fine degli anni ‘90, la birra artigianale tricolore ha saputo reinterpretare gli stili delle birre straniere, aggiungendo quel tocco di nazionalità che ci contraddistingue. Il patrimonio genetico di produttori di eccellenze alimentari, unito alla passione degli innumerevoli piccoli
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imprenditori del settore, ha dato un risultato che è oggi sono sotto gli occhi di tutti. Nelle competizioni nazionali ed internazionali sono sempre di più i premi assegnati ai birrifici italiani, al pari delle produzioni di Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Belgio, che, però — non è nemmeno il caso di sottolinearlo —, al contrario di noi, vantano una tradizione e un consumo secolari. Secondo i dati raccolti da UNIONBIRRAI, ad oggi in Italia si producono circa 350.000 ettolitri di birra artigianale. Il consumo nazionale è pari al 2% del consumo totale di birra, che nel 2014 è stato di 17,5 milioni di ettolitri. Il consumo pro capite locale è di 30 litri annui a persona, contro una media europea ben superiore. Dall’anno 2010 la birra può inoltre essere considerata, nel nostro Paese, un prodotto agricolo, perché la sua produzione è strettamente legata al primario e non meno di vino, formaggi e molto altro ancora. Il decreto ministeriale che lo ha previsto ha anche introdotto il concetto di birrificio agricolo inteso come quella struttura che produce direttamente almeno il 51% dell’orzo impiegato nella trasformazione. La birra agricola è, quindi, quella prodotta ed imbottigliata dallo stesso soggetto che ne coltiva anche la maggioranza dell’orzo impiegato per la trasformazione e, quindi, colui che ha in mano tutta o buona parte della filiera produttiva. Si tende spesso a confondere la birra agricola con quella artigianale ma in realtà sono d’obbligo delle precisazioni. Se per artigianale si intende prodotta da impresa artigiana (iscritta all’albo delle imprese artigiane), le due cose non possono coincidere, perché un’impresa o è una cosa o è l’altra. Ma, se il termine artigianale è utilizzato nel senso comune della parola, e quindi in riferimento ad un certo apporto manuale nel processo produttivo, alle quantità inferiori realizzate rispetto a quelle industriali e ad un contesto meno strutturato di quello delle grandi imprese, beh, allora, una birra artigianale potrebbe nel contempo essere considerata anche agricola.
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Il momento della spillatura ad un festival dedicato alle birre artigianali (photo © birranotizie.blogspot.it). I birrifici agricoli garantiscono al prodotto e al consumatore un indubbio valore aggiunto, ovvero l’assenza di passaggi si mano di materia prima e prodotto finito. Soddisfano, inoltre, l’esigenza per cui sono nati: sostenere l’agricoltura in una fase delicata come quella attuale. Se questo era lo scopo, si può dire che l’obiettivo è stato ampiamente raggiunto, visto che la produzione di birra agricola ha registrato negli ultimi anni una notevole espansione, a dispetto della crisi in atto. Tuttavia, corre l’obbligo di dire che, grazie ad un regime fiscale piuttosto favorevole, i birrifici agricoli possono praticare prezzi di gran lunga inferiori a quelli delle imprese di mera trasformazione e questo fatto, pur avendo una sua nobile ragion d’essere, non manca di generare malumori tra le imprese. Si presenta, infatti, un problema molto simile a quello che mette in competizione agriturismi e alberghi o agriturismi e ristoranti e la polemica su questi aspetti non si placa, anzi si rinnova periodicamente. I birrifici artigianali si possono ricondurre principalmente a tre categorie: 1. i microbirrifici (45% del totale), cioè quelli che producono e vendono all’ingrosso; 2. i Brew Pub (45%), cioè quelli che fanno produzione con mescita
annessa; 3. il più recente fenomeno delle Beer firm, marchi privati che si affidano ad altri per la produzione, occupandosi solo della commercializzazione (10% del totale). Tutti si differenziano dalla produzione industriale per le piccole dimensioni dell’impresa, per l’assenza di pastorizzazione e la grande attenzione alle materie prime, oltre ad una caratterizzazione molto forte nel gusto e negli aromi. Piccolo è bello, buono e piace sempre di più Negli ultimi anni il trend di crescita del settore è stato esponenziale. Se nel 2008 esistevano meno di 200 produttori, nel 2014 il numero è quadruplicato, arrivando a quota 800 imprese iscritte. Si tratta soprattutto di piccole realtà, che in totale, considerando l’indotto, occupano circa 4.000 persone in tutt’Italia. Può apparire una cifra modesta, ma la forza della birra italiana è proprio la sua artigianalità, che si traduce in quantità modeste per un prodotto di elevatissima qualità. Insomma, in questo caso più che mai, piccolo è bello. Ma la peculiarità della birra locale non sta solo nelle modalità di produzione. Risiede soprattutto nel leggendario estro degli Italiani. Negli ultimi decenni sono, infatti,
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Degustazione di birre artigianali (photo © www.blog.go2rome.com). nate birre ormai considerate tipiche locali come quella alle castagne e una serie di altre piacevolissime varianti frutto di accostamenti audaci e contaminazioni che generano prodotti eccellenti. Una delle ultime è quella con la più grande tradizione nazionale, il vino. Le ultime tendenze, infatti, sono blend tra mosti di vino e mosti di birra, birre invecchiate in botti di vino o birre realizzate con l’utilizzo delle vinacce nella produzione del mosto di birra. Nell’offerta complessiva non mancano birre di malto d’orzo ad alta fermentazione, così come di fave di cacao, di carrube, d’avena, di riso, solo per fare alcuni esempi. Per il futuro le previsioni parlano di un settore ancora in crescita, sempre più attento alla ricerca e alle tecnologie, capace di dare grandi soddisfazioni a chi produce e, soprattutto, a chi consuma. Birra tricolore Al di là dell’artigianalità e l’estro impiegati, come è fatta una buona birra italiana? E perché ha tanto successo? I
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segreti non sono molti. Il primo è l’alta fermentazione, una pratica di origini antichissime e scelta dalla maggior parte degli artigiani. Il secondo è la birra cruda, senza conservanti. L’ultimo, ma forse il più importante, è quello della scelta di ingredienti di qualità. Pertanto malto, luppolo, acqua e lievito devono essere eccellenti. A tutto questo si aggiunge il fatto che i piccoli produttori ampliano la gamma delle loro birre con altri ingredienti. Il resto lo fa il processo di trasformazione che forse non tutti sanno essere una prassi molto antica la cui storia ha inizio diversi millenni fa. Da alcune fonti sembra infatti che la nota bevanda sia stata prodotta già circa 5 millenni addietro, in Asia ad opera dei Sumeri. Nella giungla delle offerte la scelta si fa complicata Scegliere una birra può essere facile, ma per chi vuole avere un approccio consapevole, la cosa si complica, tanto più che oggi l’offerta è notevole. Ci si può far guidare dal colore, scegliendo una bionda o una rossa o
una scura, ma nemmeno questo dice tutto su quanto si sta per bere. Nulla dice sul grado alcolico, per esempio, che potrebbe essere molto elevato o molto ridotto anche nella stessa colorazione. Se, invece, la scelta fosse dettata dai valori nutrizionali, si sappia che la leggenda secondo cui la birra sarebbe fortemente calorica è infondata. Alcune birre infatti — come la pils — apportano mediamente le calorie di un succo di frutta e pur sempre meno della metà di un qualunque superalcolico. Nella meravigliosa giungla delle birre, che offre ad ognuno quella più adatta al suo palato, sarebbe bene degustarne diverse e, solo dopo averne provato in quantità, scegliere quella che incontra maggiormente i propri gusti. La migliore tradizione italiana vuole che la birra accompagni la pizza ma, poiché non tutte le pizze sono uguali, così come non lo sono tutte le birre, sperimentare è necessario anche per trovare il miglior abbinamento possibile. Ed è un sacrificio che si può sopportare. Sebastiano Corona
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Prosciuttificio IL CONTE S.r.l. Via Sant’Ambrogio, 4 – Fraz. Bazzano 43024 Neviano degli Arduini (PR)
Tecnologie
Etichettatura alimenti e gestione valori nutrizionali: tutti i dati direttamente dal sistema Il CSB-System rappresenta la soluzione intelligente per tutte quelle aziende del settore alimentare alla ricerca di un software con un’elevata capacità di innovazione e un efficiente adeguamento agli obblighi legislativi in continuo cambiamento
L
a legge europea entrata in vi gore nel dicembre 2011 relativa alle informazioni ai consumatori sugli alimenti regolamenta in tutta Europa etichette uniformi per gli alimenti e i valori nutrizionali. Entro dicembre 2016 l’indicazione dei valori nutrizionali dei prodotti in etichetta sarà obbligatoria. Le aziende che già oggi mettono in etichetta i valori nutrizionali dei loro prodotti devono attenersi alle nuove norme di etichettatura presenti nel regolamento (nelle tabelle in basso un riassunto degli obblighi legislativi più importanti in tema di rintraccia-
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bilità e sicurezza alimentare). Quindi, perché aspettare? Rintracciabilità completa con CSB Traceability Rintracciabilità e garanzia di provenienza sono da anni competenze centrali del CSB-System, software gestionale completo ed integrato fornito dall’omonima azienda veronese, che da oltre 35 anni fornisce soluzioni specifiche per le industrie alimentari. Il CSB-System offre tutti gli strumenti necessari per ottemperare facilmente e con sicurezza a leggi, direttive e norme UE.
Il CSB Traceability consente di gestire, documentare e controllare il flusso dei prodotti in modo preciso fino al lotto, lungo l’intera catena logistica: dagli acquisti delle materie prime, per tutti i livelli di lavorazione e gestione qualità, fino all’etichettatura completa di ogni prodotto. In questo modo si è sempre in grado di stabilire e provare quando, dove e da chi è stata ricevuta, elaborata, immagazzinata, trasportata, consumata e smaltita la merce prodotta. Tutti i dati sulla provenienza e la lavorazione vengono inseriti e trasmessi ai clienti ed a banche dati esterne come, ad esem-
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pio, fTRACE o mynetfair. In questo modo i consumatori finali possono ricercare rapidamente e facilmente tramite smartphone o computer le informazioni sulla rintracciabilità dei prodotti. Vantaggi • Trasparenza dei flussi di merce aziendali e della logistica interna; • rafforzamento della fiducia dei consumatori; • sicurezza giuridica e limitazione dei rischi; • gestione competente delle situazioni di crisi; • rispetto di leggi, direttive e norme; • rappresentazione trasparente di upstream e downstream. Calcolo valori nutrizionali ed etichettatura con il CSB-System Con il modulo di Gestione Valori Nutrizionali del CSB-System già oggi è possibile calcolare, indicare in etichetta e gestire tutti gli ingredienti, i valori nutrizionali, gli allergeni e gli organismi geneticamente modificati (OGM) presenti in un prodotto, in modo trasparente ed efficiente secondo la legislazione vigente. A tal fine, gli ingredienti dei prodotti vengono collegati alle materie prime. Nella creazione delle ricette, tutti gli ingredienti rilevanti sono direttamente connessi agli articoli. Mediante la distinta base di un articolo e le relative varianti di produzione, per ogni articolo vengono indicati gli ingredienti, i valori nutrizionali, gli allergeni o gli OGM. Il calcolo degli ingredienti inizializza automaticamente le etichette degli articoli e le specifiche di produzione per i prodotti. Si tiene conto sia delle perdite che delle aggiunte in produzione. Gli elementi dell’etichetta (ingredienti, valori nutrizionali, allergeni, OGM) possono essere generati in più lingue; per ogni prodotto e lingua si possono rappresentare contemporaneamente fino a sei differenti unità. Si possono, inoltre, integrare in modo rapido e agevole le banche dati nazionali ed internazionali dei componenti e dei valori nutrizionali. Sfruttando a pieno la Gestione Valori Nutrizionali integrata del CSB-System si ottiene massima
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Sfruttando a pieno la Gestione Valori Nutrizionali integrata del CSB-System si ottiene massima trasparenza nell’etichettatura dei prodotti. Inoltre, gli elementi dell’etichetta (ingredienti, valori nutrizionali, allergeni, OGM) possono essere generati in più lingue. trasparenza nell’etichettatura dei prodotti, assicurandosi così oltre alla fiducia dei consumatori anche vantaggi competitivi a lungo termine. Vantaggi • Integrazione completa dei processi; • possibilità di rappresentare fino a sei unità contemporaneamente per prodotto e per lingua; • integrazione confortevole di tutte le banche dati nazionali ed internazionali dei componenti e dei valori nutrizionali; • formule di calcolo liberamente definibili; • considerazione delle perdite e delle aggiunte in produzione; • inizializzazione automatica delle etichette articolo e delle specifiche prodotto. Innovazione dinamica Per concludere, il CSB-System rappresenta la soluzione intelligente per tutte quelle aziende del settore
alimentare alla ricerca di un software con un’elevata capacità di innovazione e un efficiente adeguamento agli obblighi legislativi in continuo cambiamento. Soddisfare rapidamente e con successo queste esigenze è fattore determinante per operare sul mercato e mantenere una buona posizione competitiva.
Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com
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Testo 270 per oli di frittura: ogni goccia è preziosa
I
l tester per oli di frittura TESTO 270 misura il contenuto di “Materiali polari totali” (TPM) presente nell’olio, che rappresenta un indicatore sicuro della qualità dell’olio stesso. Ecco perché i materiali polari non possono superare un certo limite, a seconda del Paese: in Italia è il 25% come chiaramente indicato dalle normative vigenti (rif. Art. 5 lett. d e 6 della Legge 30 aprile 1962 n. 283 e circolare del Ministero della Sanità n. 1 dell’11 gennaio 1991). Il mancato rispetto della normativa può comportare sanzioni sia amministrative che penali. Costi significativamente ridotti L’olio di frittura sviluppa il suo massimo potenziale tra il 14% e il 20% di TPM, quindi è opportuno sfruttarlo al massimo. Sostituendo l’olio troppo frequentemente, si rischia di sprecare risorse ancora sfruttabili. Viceversa, se l’olio è troppo usato, il
valore di TPM è superiore al limite e gli alimenti fritti risultano essere tossici. Tutto questo si può evitare effettuando regolari misure con Testo 270: una pratica che, dalla dimostrazione di prove pratiche effettuate da parte degli ingegneri Testo, riduce il consumo di olio di frittura fino al 20% Con un consumo di 1.000 litri al mese e ipotizzando un prezzo di € 0,70 al litro, questo permette un risparmio annuo di € 1.680. Sicurezza nell’uso quotidiano La robustezza del tubo sonda è stata notevolmente migliorata rispetto al modello precedente. Inoltre, il nuovo tester ha collegamenti più robusti tra la custodia, il tubo sonda e il sensore. Poiché lo strumento di misura appartiene alla classe di protezione IP65, anche senza una custodia protettiva aggiuntiva, non c’è nessun problema se lo si lava con acqua corrente, ideale per l’utilizzo nei self-service. Tutta-
via, la caratteristica più evidente è il suo design ergonomico: il vantaggio risiede nel fatto che l’utente non è più direttamente esposto al calore dalla friggitrice quando deve rilevare la misura e questo gli permette di lavorare in modo più sicuro. Più intuitivo grazie al “principio del semaforo” Il display del tester, più grande dell’86%, semplifica notevolmente la lettura dei valori di temperatura e di TPM. Gli allarmi inequivocabili, visibili grazie al display a colori retroilluminato, facilitano ancora di più la valutazione della qualità dell’olio di frittura: verde indica che il contenuto di TPM è inferiore al valore limite impostato, arancione indica che è borderline e, quando il display diventa rosso, significa che il valore limite è stato superato. >> Link: www.testo.it
L’utilizzo di Testo 270 assicura la qualità degli alimenti fritti e ottimizza il consumo dell’olio con risparmi fino al 20%.
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Haripro, leader in Italia nella produzione di proteine e aromi naturali, fornisce le piĂš importanti aziende produttrici di ingredienti per la salumeria. Haripro grazie ad una continua ricerca, ha sviluppato negl'anni prodotti sempre piĂš all'avanguardia, come proteine funzionali ed aromi naturali anallergici ad alto valore nutrizionale. Haripro is a leading producer of proteins and natural flavours in Italy. It supplies the most important Companies which blend ingredients for the meat industry. Haripro, thanks to a continuous research, had developed through years more advanced products like functional proteins and hypoallergenic natural flavours with high nutritional value.
spa
41057 Spilamberto (Modena) - Italy - via Ghiarole, 72 - Tel. +39 059 78 41 11 - Fax +39 059 78 37 47 www.haripro.it e-mail info@haripro.it
Laser e prosciutti di Elena Benedetti
L
a tecnologia cambia il mondo. È sempre stato così. Basti pensare a cosa ha fatto l’era digitale nella quale siamo tutti cascati dentro con i nostri inseparabili tablet e smartphone. Ci sono persone, però, che hanno la capacità applicare questa tecnologia prima di altri per modificare processi e operazioni. Uno di questi è SILVANO GAMBUZZI, titolare della A.S.C. Automatic System Control, ditta specializzata nella progettazione di schede elettroniche per macchine automatiche. Parliamo di marchiatura di prodotti agroalimentari, in particolare carni e salumi, con la tecnologia del
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laser. Una tecnica fino ad oggi pressoché non considerata su cui la A.S.C. ha invece concentrato investimenti e anni di studio, mettendo a punto una macchina in grado di marchiare in 2-6 secondi una superficie piana, sconnessa, curvilinea, poco importa. Il laser è molto versatile e permette di tracciare lettere, marchi, numeri su legno, cartone, formaggi, cotenna, carne cotta e cruda, indipendentemente dalla non uniformità della loro superficie. Il prodotto marchiato a laser resta stabile, completamente sterile (il fascio di luce ad elevata temperatura produce un solco di 2 decimi di millimetro) e la temperatura
dell’ambiente è invariata. Ciò che ha dato la vera svolta all’attività di ricerca, iniziata 5 anni fa e concretizzatasi con il deposito di due brevetti di tecnologia Laser Mark, uno in Italia e l’altro in Europa, è stata la collaborazione con un’azienda statunitense la quale, mettendo a disposizione una sorgente giusta, ha consentito alla A.S.C. di abbassare i tempi di marchiatura, diventando interessante come alternativa a quella a fuoco. Forte della propria esperienza nel campo delle automazioni e della progettazione, A.S.C. ha messo a punto una macchina che gestisce non solo la marchiatura a laser ma anche un
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Caratteristiche della marcatrice selezionatrice Laser Mark 2000 • • •
• • • • •
software gestionale che consente di lavorare fino a 12 tipologie di prodotto e peso differenti, con loghi/scritte/ marchi diversi. Utilizzo per le Dop di salumeria Questa tecnologia, ideale per la scrittura dei marchi DOP e IGP, è stata messa a punto dell’azienda modenese per la realizzazione dei bolli CEE che, in questo modo, restano ben visibili sul prodotto, anche nel corso del tempo. Durante il processo di scrittura a laser (data la velocità di un paio di secondi non è quasi percepito dall’occhio), il prodotto rimane totalmente sterile e il marchio è impresso in
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Il marchio viene eseguito in tempo reale Il marchio è realizzato attraverso un file in formato “.dxf” La marcatrice Laser Mark 2000 dispone di 10 marchi che possono essere eseguiti alle classi di peso in modo automatico nella confederazione di selezione automatica dei pezzi Si possono marcare prodotti congelati Non è previsto alcun sistema di riscaldamento Non c’è contatto con il prodotto La produzione varia da 300 a 900 pezzi/ora sulla base della potenza del raggio laser e di ciò che si deve scrivere È possibile un servizio di noleggio
modo uniforme anche se la superficie è irregolare. I vantaggi del laser Sono parecchi i vantaggi del laser rispetto alla marcatura a fuoco: nel caso delle cosce fresche destinate al circuito dei prosciutti DOP, il marchio a laser non scompare durante la salatura e stagionatura in quanto la cotenna viene incisa e non bruciata. Da non sottovalutare anche la maggior salubrità di questa tecnologia per il personale preposto alla marchiatura (basti pensare alle scottature e ai fumi inalati dagli operatori addetti all’uso degli stampi a caldo). La durata del
laser è pari a 10.000 ore alla massima potenza e 20.000 ore con una riduzione del 10%. Elena Benedetti
A.S.C. – Automatic System Control Via Cavour 376 – 41032 Ponte Motta Cavezzo (MO) Tel.: 0535 53025 – Cell.: 340 4709614 E-mail: gambuzzi.silv@tin.it Web: www.asc-mo.com
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Statistiche
La produzione di salumi nel 2014
S
e condo dati diffusi da ASS.I.CA., nel 2014 la produzione italiana di salumi è calata dell’1,2% in quantità e dell’1,5% in termini di valore. Il prosciutto crudo e il prosciutto cotto, prodotti che insieme rappresentano
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oltre la metà della produzione totale di salumi, hanno registrato un calo delle quantità prodotte rispettivamente del 2,1% e dello 0,8%. Il calo ha interessato anche la mortadella e il salame, mentre lo speck e la pancetta registrano un trend in aumento, sia
per le quantità prodotte che per il valore della produzione. (Fonte: Osservatorio Anas www.anas.it) Nota Photo © www.realfoodtraveler.com
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Quantità (t) Salume
2012
Diff. % 2012/2011
Diff. % 2013/2012
2013
2014
Diff. % 2014/2013
Prosciutto crudo
297.000
– 3,7
291.300
–1,9
285.200
–2,1
Prosciutto cotto
286.300
– 0,6
283.800
– 0,9
281.500
– 0,8
Mortadella
174.300
–1,5
170.800
–2,0
167.400
–2,0
Salame
111.000
0,5
109.000
–1,8
108.100
– 0,8
Würstel
69.200
3,0
69.900
1,0
70.000
0,1
Pancetta
53.800
1,7
52.200
– 3,0
52.600
0,8
Coppa
42.900
0,5
42.000
–2,1
41.800
– 0,5
Speck
29.500
– 3,6
29.000
–1,7
31.600
9,0
117.000
–1,7
115.800
–1,0
111.700
– 3,5
1.181.000
–1,3
1.163.800
–1,5
1.149.800
–1,2
Altri prodotti (*) Totale
Quantità – Quota % 2014
Valore – Quota % 2014
Altri prodotti 9,7%
Altri prodotti 10,4%
Speck 2,7%
Speck 4,2%
Coppa 3,6%
Prosciutto crudo 24,8%
Coppa 4,3%
Pancetta 4,6%
Prosciutto crudo 28,5%
Pancetta 3,2%
Würstel 6,1%
Würstel 3,2%
Salame 12,0%
Salame 9,4% Prosciutto cotto 24,5%
Prosciutto cotto 25,3%
Mortadella 14,6%
Mortadella 9,0%
Valore (milioni di €) Salume
2012
Diff. % 2012/2011
2013
Diff. % 2013/2012
2014
Diff. % 2014/2013
Prosciutto crudo
2.243,7
– 0,6
2.222,6
– 0,9
2.154,2
– 3,1
Prosciutto cotto
1.939,7
0,3
1.943,4
0,2
1.918,2
–1,3
Mortadella
682,9
0,2
675,3
–1,1
670,4
– 0,7
Salame
935,2
2,2
925,7
–1,0
910,9
–1,6
Würstel
242,1
3,2
244,8
1,1
245,4
0,2
Pancetta
248,2
2,2
241,3
–2,8
243,7
1,0
Coppa
321,8
4,5
321,0
– 0,2
323,0
0,6
Speck
296,8
–2,6
293,9
–1,0
318,4
8,3
Altri prodotti (*)
819,0
– 0,2
817,3
– 0,2
784,1
– 4,1
7.729,4
0,4
7.685,3
– 0,6
7.568,3
–1,5
Totale
(*) Il dato non include la bresaola. Fonte: elaborazione ANAS su dati ASS.I.CA.
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Storia e cultura
Grassi animali alimentari Come cambiano gli usi dei grassi nel tempo: la sugna, ad esempio, era un lubrificante per le ruote dei carri, l’oleum lardinum e il lardo di Quaresima non infrangevano il divieto di mangiar carne durante i periodi di astinenza e il grasso bovino serviva soprattutto per le candele di Giovanni Ballarini
N
el passato molti erano gli utilizzi dei grassi: religiosi, medicamentosi, cosmetici, tecnologici e alimentari. Per ogni destinazione d’uso vi era il grasso adatto. Solo quelli vegetali e di ben determinate piante, come l’ulivo, servivano per scopi religiosi (consacrazione dei sacerdoti e dei re) e come materia sacramentale. Diversi
erano gli oli usati in medicina da quelli che alimentavano le lampade d’illuminazione e anche per l’alimentazione si facevano nette distinzioni, oggi in buona parte dimenticate, con conseguenti a volte inutili diatribe, come quella se, in una certa ricetta, guanciale di maiale e pancetta dello stesso animale sono intercambiabili. Anche in uno stesso animale, i grassi
che si ricavano dalle diverse parti hanno caratteri differenti. Grassi dei diversi animali Molti sono gli animali dai quali l’uomo ricava grassi, la cui differente composizione bisogna conoscere per determinare la loro utilità e la loro appropriatezza nella preparazione degli alimenti.
Guanciale (photo © www.gola.it).
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Grasso di maiale Contiene circa il 40% di grassi saturi, il 48% di monoinsaturi (tra cui piccole quantità di acido palmitoleico dotato di attività antimicrobiche) e il 12% di polinsaturi; il suo più importante rappresentante è il grasso di fusione o strutto. Come il grasso di altri animali, la quantità di acidi grassi Omega-6 e Omega-3 varia nello strutto a seconda di come sono stati alimentati i maiali. Ai tropici il lardo può essere anche una fonte di acido laurico, se i suini hanno mangiato noci di cocco. Inoltre, è una buona fonte di vitamina D, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo dove gli altri cibi animali sono costosi. Anche chi ritiene che il consumo eccessivo di carne di maiale, in quanto “rossa”, possa essere legato all’aumento del rischio di cancro al colon-retto, stima che il grasso di questo animale, sotto forma di lardo, sia sicuro e sano. Lo strutto è un grasso molto stabile e può essere utilizzato per la frittura. Grasso bovino e di montone È costituito dal 50-55% di grassi saturi, circa il 40% di monoinsaturi e contiene piccole quantità di acidi grassi polinsaturi, di solito meno del 3%. Il sego bovino, grasso interno dell’animale, è costituito per il 7080% di grassi saturi. Il sego, come lo strutto suino, costituisce una buona fonte di acido palmitoleico antimicrobico.
Erbazzone emiliano (photo © mangiarebuono.it).
Strutto (valori per 100 g di prodotto) Energia
890 kcal 3.720 kJ
Proteine
0,30 g
Saturi
42,47g
Monoinsaturi Acido oleico
43,11 g 39,06 g
Grassi totali
97,28 g
Carboidrati
0,00 g
Colesterolo
0,95 g
Acqua
0,50 g
GRASSI Polinsaturi Acido linoleico Acido linolenico
11,70 g 8,95 g 0,92 g
VITAMINE Vit. B6
2,00 mg
Vit. D
2,00 mg
Vit. B9 (ac. folico)
2,00 mg
Vit. E
1,00 mg
Fosforo
3,00 mg
Sodio
2,00 mg
Potassio
1,00 mg
Zinco
2,00 mg
Selenio
2,00 mg
MINERALI
COMPOSIZIONE IN ACIDI GRASSI Grasso di oche e anatre Questi grassi sono semisolidi a temperatura ambiente, contengono circa il 35% di grassi saturi, il 52% di grassi monoinsaturi (tra i quali piccole quantità di acido palmitoleico antimicrobico) e circa il 13% di grassi polinsaturi. La proporzione di acidi grassi Omega-6 e Omega-3 dipende da ciò che gli animali hanno mangiato. Il grasso d’anatra e quello d’oca sono abbastanza stabili e sono molto apprezzati per friggere. Grasso di pollo Contiene circa il 31% di grassi saturi, il 49% di monoinsaturi, tra i quali una moderata quantità di acido palmitoleico antimicrobico, e il 20% di polinsaturi, per la maggior parte acido
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Acido laurico
tracce
Acido esadecenoico
0,5-3%
Acido miristico
1-3%
Acido oleico
41-58%
Acido palmitico
26-30%
Acido linoleico
3-14%
11-18%
Acido stearico
Acido linolenico
0,1-0,6%
Acido arachidico
tracce-0,5%
Acido arachidonico
0,1-0,4%
Acido tetradecenoico
0,1-0,4%
Altri acidi C20-C22 insaturi
0,5-1% (*)
Indice di rifrazione (40°C)
1,45861,4607
DATI CHIMICO-FISICI
Peso specifico a 15°C Punto di fusione Punto di solidificazione
0,931-0,938 g/ml 28-49°C 22-32°C
Titolo (punto di solidificazione acidi grassi) N. di iodio
34-40°C 46-66
N. di saponificazione
195-200
Insaponificabile
0,2-0,4%
N. di acidi grassi fissi
95-96
N. di solfocianogeno
44,2 circa (*)
(*) MARTINENGHI G.B. (1963), Tecnologia chimica industriale degli oli, grassi e derivati, 3a edizione, Ulrico Hoepli Editore, Milano.
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Lardo stagionato delle Apuane (photo © gola.it). linoleico Omega-6, anche se la quantità di Omega-3 può essere più elevata a seconda se l’alimentazione dei polli è costituita da semi di lino o farina di pesce, o se mangiano una vasta gamma d’insetti. Anche se ampiamente utilizzato per friggere nella cucina kosher, è inferiore al grasso d’anatra e d’oca, tradizionalmente preferito al grasso di pollo nella cucina ebraica. Grasso di cavallo A differenza della gran parte dei grassi animali, ha un alto contenuto di acidi grassi insaturi, tra il 60% e il 65%, il che lo rende molto simile a quei grassi vegetali (ad esempio l’olio d’oliva) dotati di un alto potere antiossidante. Solo raramente è usato in alimentazione, anche se gli sono attribuite attività nutraceutiche, soprattutto dalla medicina giapponese. Grasso di pesce Il più noto, durante il Medioevo, era il lard de Carême o lardo di Quaresima, ottenuto dalla balena. Poiché era ritenuta un pesce, era consentito
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mangiarlo anche nei periodi di astinenza dalle carni. Grassi suini Il tessuto adiposo suino, a grandi linee, è di due tipi. C’è il grasso dorsale e generalmente tutto il grasso sottocutaneo con cotenna che ha una buona percentuale di tessuto fibroso; la parte dorsale può essere sottoposta a salagione e stagionatura e trasformata in lardo. Analoghe caratteristiche di stagionalità, dopo la salagione, sono presenti anche nella pancetta e nel guanciale. Poi c’è il tessuto adiposo surrenale, interno e senza cotenna, poverissimo di tessuto fibroso e con pochissima consistenza, chiamato più propriamente sugna, che ha molte declinazioni dialettali: assunza in sardo, ’nzogna in napoletano, saìmi in siciliano e calabrese, sunza in ferrarese e in alcuni dialetti lombardi, toscani e calabresi, sonza nel dialetto trentino e triestino, assogna e simili nei dialetti abruzzesi. Sugna, un tempo anche sógna e sóngia, è un
termine che deriva dal latino axŭngia, composto dei temi di axis (asse) e ungĕre (ungere), e identificava l’unto applicato come lubrificante sull’asse e sul mozzo delle ruote dei carri e delle carrozze. La sugna era usata anche per impermeabilizzare e rendere più morbido il cuoio degli scarponi. La sugna migliore era quella ottenuta dal grasso perirenale del maiale o, in alternativa, da altri animali, quando molto più di oggi si conoscevano tutte le più fini caratteristiche dei grassi animali e vegetali, in rapporto anche ai loro molteplici usi. Grande importanza ha il grasso di fusione che, dopo filtrazione e colatura, dà origine allo strutto, che merita una considerazione a parte, e quelli che si ricavano dai seguenti tagli: • testa; • gola: è la parte di grasso che va dalla testa alla spalla, nota anche come guanciale, che i Francesi chiamano gorge, ed è molto pregiata. Molto usato in cucina, in salumeria viene impiegato per il salame crudo di migliore qualità. Poiché tiene bene la cottura, è utilizzato anche per fare cotechino e zampone; • spallotto di lardo: proseguimento della gola, è il grasso di copertura che si trova sulla scapola. Da questa parte pregiata, spessa quattro o più centimetri, dopo salatura e speziatura, si ottiene il lardo della vena; • lardello: grasso che copre la schiena e che, ridotto in piccolissimi cubetti, entra nell’impasto di salami e mortadella; • pancetta: parte anteriore del costato, ha una parte magra e una parte grassa. Acconciata, salata e arrotolata, dà origine al prodotto omonimo nelle sue varie presentazioni. La parte grassa si utilizza in alcuni tipi di salame; • lardo: questa denominazione sarebbe da attribuire solo al prodotto stagionato, mentre sarebbe corretto chiamare grasso fresco il taglio di carne grassa da cui il lardo si produce, per distinguere i due prodotti, il che non sempre avviene. La parola lardo deriva dal latino làrdum o làrinum e dal greco larinòs, λαρινός, ossia “in-
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Mortadella del salumificio Mec Palmieri di San Prospero (photo © lucianopignataro.it).
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grassato” (ben coperto o pingue); rete: nell’omento, parte del peritoneo, il grasso si deposita lungo i vasi, costituendo una rete di colore bianco lucente e da qui la denominazione; particolarmente adatta per avvolgere il fegato in diverse preparazioni gastronomiche; oleum lardinum: nel Medioevo era ottenuto dalla spremitura a freddo delle parti più tenere dei tessuti grassi del maiale e, in
quanto liquido, ritenuto simile all’olio, quindi cibo “magro”, del quale era permesso l’uso in Quaresima e in altri giorni di astinenza dalle carni. Sugna e sugnatura Il grasso delle parti di maiale senza cotenna, o sugna, può essere mescolato con quello più consistente per produrre strutto, oppure può essere macinato, mescolato con sale, pepe e
talvolta con farine fini di cereali, e usato nella stagionatura dei prosciutti. La sugnatura è un procedimento con il quale, durante la stagionatura del prosciutto, si ricopre a mano la sua parte magra esposta all’aria, al fine di rallentare l’essiccazione e conferire nello stesso tempo alla carne superficiale, a contatto con la sugna, un grado di essiccazione simile a quella più interna del prosciutto. Questo accorgimento porta a una migliore
La margarina nasce come mezzo di utilizzazione del grasso bovino o sego. La sua invenzione è attribuita al farmacista francese HIPPOLYTE MÈGE-MOURIÈS che le diede anche il nome di oleomargarina, con riferimento all’acido margarico scoperto da MICHEL EUGÈNE CHEVREUL. La denominazione “margarico” deriva dal greco antico margarìtes o márgaron, cioè “perla”, per la lucentezza dell’acido dopo l’idrolizzazione del grasso. L’invenzione fu fatta per il concorso, istituito da Napoleone III nel 1869, per fornire alla marina un sostituto del burro, più economico, che potesse conservarsi per lungo tempo senza irrancidire. La prima margarina fu prodotta per cristallizzazione di un miscuglio di grassi animali, soprattutto sego bovino, e latte acido. Per renderla più simile al burro gli industriali degli Stati Uniti utilizzarono un colorante alimentare che le diede un colore giallo pallido. Ora prevalgono le margarine preparate con grassi d’origine vegetale.
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Lo strutto è un ingrediente di molte ricette tradizionali italiane, come la piadina romagnola e marchigiana, la schiacciatina mantovana, l’erbazzone reggiano, le crescentine modenese, “il” gnocco fritto modenese e la torta fritta parmigiana, le seadas e le pardulas sarde, le brioche, i cannoli siciliani e molti altri dolci regionali. Lo strutto entra nella produzione della coppia ferrarese IGP e in molti altri tipi di pane. Dall’industria e dall’artigianato, lo strutto è impiegato per la produzione di prodotti da forno (pane, pizza, taralli, ecc…) perché rende l’impasto più friabile, ne aumenta il volume rallentando le perdite di umidità, dando sapore e fragranza. Nei prodotti di panificazione, per questa funzione, lo strutto svolge un’azione di miglioramento. In pasticceria è usato per dolci locali e regionali per dare una buona friabilità al prodotto finito, per la frittura e nella preparazione delle sfoglie per dolci (paste e soprattutto creme). L’elevato punto di fumo (circa 250°C) rende lo strutto ideale per la frittura dei cibi, in particolare per lo gnocco e le crescentine, le frappe (o chiacchiere di carnevale) e altre preparazioni (photo © Alessandro Guerani, foodografia.com).
qualità del prosciutto che, al taglio, presenta una fetta omogenea in tutta la sua superficie. Con la sugnatura si prevengono anche screpolature del muscolo, che porterebbero a un irrancidimento precoce e all’eventuale entrata nella carne di parassiti.
Prosciutti pronti per la sugnatura (photo © delizieitineranti.files.wordpress.com).
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Strutto Lo strutto è ricavato dalla fusione dei grassi presenti nel tessuto adiposo del maiale e viene utilizzato per la frittura, per apportare grassi negli impasti e nella panificazione, oppure come condimento. Sembra che lo strutto sia un’invenzione degli Spagnoli durante la loro dominazione in Sicilia, ma è un’opinione molto restrittiva, derivante dal fatto che lo chiamavano saim; il nome divenne col tempo saìmi, termine rimasto nel dialetto palermitano. A quell’epoca lo strutto era prodotto in grandi quantità nel mattatoio di Palermo, per essere destinato non soltanto al mercato locale, ma anche esportato in tutti i paesi sotto la dominazione spagnola. Lo strutto ha l’aspetto di una pasta compatta di colore bianco. A freddo è in sostanza inodore, a caldo emana un aroma tenue, ma caratteristico. Il sapore a caldo è tipico. A temperature fino a circa 40-42°C lo strutto è pastoso e di colore bianco, a temperature superiori fonde, assume una consistenza oleosa e diviene trasparente. Nella produzione casalinga tradizionale, dopo avere rimosso la cotenna dal grasso, si taglia quest’ultimo a piccoli pezzi, insieme alla sugna e agli
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Pizza con lardo e castagne (photo © limonestracciatella.blogspot.it). altri ritagli di grasso di recupero dal maiale, poi si mette il tutto a cuocere a fuoco lento per fondere il grasso e consentire l’evaporazione della poca acqua contenuta. Durante la cottura, i pezzetti di grasso rilasciano lo strutto che, a poco a poco, viene rimosso e
deposto ancora caldo nei contenitori di conservazione. Dopo alcune ore, quando i pezzettini di grasso hanno acquistato colore, vengono levati dallo strutto fuso, conditi con sale ed eventualmente altre spezie o aromi, che variano secondo le tradizioni
Le candele di sego iniziarono ad essere di uso comune fin dal 1400. Si preparavano con grasso di bue o di montone. Molli, molto grasse al tatto, davano una fiamma fuligginosa. Il loro lucignolo era molto grosso per facilitare la combustione. Erano preparate appendendo ad un bastone, in fila, a distanza uguale, 16-18 lucignoli e immergendo 10-12 bastoni prima in sego molto caldo, successivamente in vasche contenenti sego al punto di solidificazione. Quando le candele raggiungevano lo spessore desiderato, si tornava a immergerle in sego portato a una temperatura più alta del suo punto di fusione, per dar loro lo strato superficiale omogeneo e lucido. Ora sono abbandonate per il cattivo odore e il rapido consumo.
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locali, e spremuti con un torchio. Lo strutto colato è recuperato, ma tenuto separato dal precedente, in quanto già condito. Dopo la cottura e la pressatura, i pezzetti di grasso costituiti prevalentemente dalla frazione fibrosa del tessuto adiposo prendono il nome di ciccioli. Nella produzione artigianale e industriale, come fonte di calore si utilizza il vapore ad alta temperatura. A volte, allo strutto, per una migliore conservazione, si aggiungono antiossidanti e/o sale. Lo strutto può essere conservato anche per diversi mesi, in frigorifero o in congelatore, ma sempre con un confezionamento che lo protegga dall’aria. La composizione dello strutto dipende anche dall’alimentazione dei maiali. Un tempo aveva un’alta percentuale di acidi grassi saturi, mentre oggi, con i moderni metodi di allevamento dei suini, alimentati con soia e soprattutto mais, hanno prevalenza gli acidi grassi insaturi (circa il 50% di acido oleico). Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
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Libri The perfect shape + The perfect sauce =
The Geometry of Pasta
L
a pasta è nel DNA di noi Italiani. Fa parte della nostra cultura gastronomica da sempre ed è fatta di forme e linee infinite. L’editore americano Quirk ne ha fatto un libro interessante nei contenuti e molto bello alla lettura, soprattutto per il lettore particolarmente attratto dalla cura della grafica e dello stile. È nato così il progetto editoriale (The perfect shape + The perfect sauce =) The Geometry of Pasta, che racconta delle oltre 300 forme di pasta italiana, ciascuna con la sua storia da raccontare in termini di realizzazione, materie prime e utilizzo in cucina per dar vita a piatti straordinari della nostra tradizione. Un omaggio ai nostri primi piatti, con una rilettura moderna e stilistica non indifferente. Disponibile in lingua inglese anche su Amazon (goo.gl/vIheGf), The
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Geometry of Pasta raccoglie oltre 100 ricette dello chef internazionale JACOB KENEDY. Molto bella la grafica in bianco e nero della designer CAZ HILDEBRAND. Aspettiamo con ansia la versione in lingua italiana! Gli autori Jacob Kenedy è uno chef di formazione accademica, classe 1980, nato a Londra e figlio di due artisti. Il suo amore per il cibo lo ha portato “nell’angolo più buio di Soho” dove nel 2008 ha aperto il suo ristorante “Bocca di Lupo”. Pluripremiata graphic designer e art director, Caz Hildebrand combina testo e immagine per la produzione di soluzioni progettuali per il branding, packaging, libri e stampa con l’intento di creare col suo lavoro autentiche esperienze culturali.
KENEDY J., HILDEBRAND C. The Geometry of Pasta Quirk Books Philadelphia $ 24,95 (prezzo di copertina) € 21,25 (Amazon)
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Food Book
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opo Blank Book e Tattoo Book, è venuto il momento di disegnare profumati primi, deliziosi secondi e succulenti dessert nel nuovo libro di MARTÍ GUIXÉ: Food Book! Ogni pagina è un saporito suggerimento grafico da completare a cura di ogni commensale, dall’antipasto al caffè, assecondando le voglie del momento o preparando un elaborato menu studiato ad arte. Che siate amanti della cucina tradizionale o attirati dagli accostamenti più esotici e azzardati, Food Book è un banchetto su carta con le vostre portate preferite, oltre che il modo giusto per sperimentare senza rischi… Food Book è un volume di grande formato, per adulti e bambini, divertente e ironico nella sua semplicità e leggerezza. Non un libro “da leggere” ma un libro
“da fare”. Compito di chi sfoglia è infatti preparare ogni volta un menu diverso, riempiendo piatti e bicchieri di forme e colori seguendo le regole della propria personale originalità. L’autore Martí Guixé è nato a Barcellona nel 1964, dove ha studiato Interior design, prima di approfondire anche Industrial design al Politecnico di Milano. Vive e lavora “su materia vivente” tra Barcellona e Berlino dedicandosi all’invenzione di “brillanti e semplici idee di una curiosa serietà”; si definisce “ex-designer” e lavora per aziende come Camper, Chupa-Chups, Desigual, Droog Design, Saporiti e Watx. Ha esposto al MoMA di New York, al Design Museum di Londra, al MACBA di Barcellona e al Centre Pompidou di Parigi.
GUIXÉ M. Food Book Corraini Edizioni, Mantova 32 pp. – € 16,00 www.corraini.com
Maiali si nasce, salami si diventa
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a millenni il maiale ci nutre e ci appaga, ma anziché essergli grati ne facciamo oggetto di ogni sorta di ingiuria e vituperio. Disprezzato da vivo, onorato da morto. Questo piccolo libro — scritto a quattro mani dal noto giornalista Gabriele Cremonini e dal noto salsamentario Giovanni Tamburini (la sua storica salumeria in pieno centro storico, a due passi da Piazza Maggiore, è considerata una mecca per gli appassionati di Salami & Co.) — racconta storie intorno al maiale e ai suoi leggendari derivati, delizie del palato. Ben lungi dall’essere un trattato, è piuttosto un atto d’amore e di gratitudine, ma anche di giustizia, verso un animale che per certi versi rappresenta un po’ il nostro “doppio”. Un gioco per invitare a vedere il maiale anche sotto un’altra luce, a opera di due bolognesi consa-
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pevoli di quanto questo animale, oltre a essere sommamente gustoso per gli innumerevoli estimatori, sia stato e sia importante per la loro città. Si legge d’un fiato, possibilmente sbocconcellando un panino al prosciutto crudo o una michetta alla mortadella.
CREMONINI GABRIELE TAMBURINI GIOVANNI Maiali si nasce salami si diventa 2010, Pendragon (collana Varia) 189 pp. – € 13,00
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Il profumo della tradizione, il gusto della qualitĂ .
Bacio della Luna Spumanti s.r.l. Via Rovede, 36 31020 Colbertaldo di Vidor TREVISO info@baciodellaluna.it www.baciodellaluna.it Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Millesimato
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