2 minute read
fontivisive Memento mori
non si dimostra nulla, ma si enunciano in uno stile immaginoso auree sentenze di vita» (La Penna). Sentimento del tempo e carpe diem Aequus animus, equilibrio, modus definiscono un ideale di saggezza che il poeta sente tuttavia costantemente insidiato: il disagio esistenziale, il sentimento del tempo, il pensiero della morte costituiscono dunque l’altro polo, il più malinconico e struggente, della lirica oraziana. Dum loquimur, fugerit invida / aetas (I, 11, 7-8 [T11]), leggiamo in uno dei carmi più noti. Molti prima di Orazio avevano parlato del tempo che passa e della brevità della vita umana, ma in Orazio c’è qualcosa di più: la temporalità rappresenta la condizione essenziale dell’uomo; la coscienza del tempo che fluisce e inesorabilmente si perde, il senso della finitudine segnano ogni gesto umano, anche il più piacevole. Non a caso gli aggettivi brevis e fugax, i verbi rapere, fugere e labi restano tra le occorrenze più memorabili delle Odi; sul tema della morte, della fugacità della vita e sul sentimento del tempo sono composti i carmi più intensi e profondi di tutta la poesia classica [T16; T17; T20].
Ma proprio la coscienza del limite e la fuga del tempo determinano l’esigenza di cogliere l’attimo che fugge: carpe diem (I, 11, 8 [T11]), espressione che ha goduto anch’essa di grande fama nei secoli, fino quasi a determinare un motivo poetico a sé stante all’interno del sistema letterario occidentale. Carpere è la risposta a rapere: se il tempo fugge e rapisce la nostra vita, all’uomo non resta che «strappare» la felicità effimera che gli è volta per volta concessa. Il motivo del carpe diem è dunque figlio dell’angoscia temporale e del pensiero della fine, con il quale costituisce un unico nodo poetico e tematico. Sottrarsi al sentimento ansioso del tempo significa salvarsi dal domani, scacciare il pensiero del futuro, un monito che il poeta ripete spesso con accenti vigorosamente sentenziosi (oltre a I, 11 [T11], cfr. in particolare I, 9, vv. 13-15 [T10]).
visive fonti Memento mori La morte, simboleggiata da teschi o scheletri, è un soggetto spesso usato per suppellettili di uso conviviale, come invito a godere, per contrasto, delle gioie della vita. Originariamente il mosaico era collocato sul piano di un tavolo tricliniare estivo, allestito nel portico di una casa pompeiana con annessa una bottega di conceria. Una squadra triangolare dalla quale pende un filo a piombo (una livella nel gergo comune) si trova collocata sopra il teschio, a indicare che la morte eguaglia il destino dei potenti (ai quali alludono la porpora e lo scettro regale raffigurati sulla sinistra) e degli umili (simboleggiati dal mantello da viaggio con bisaccia e bastone sulla destra). Sotto il teschio, in equilibrio sulla ruota della Fortuna, una farfalla, simbolo dell’anima immortale.
Allegoria della morte, mosaico proveniente dall’Officina Coriariorum in Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.