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Nomi e parole degli antichi Monumentum, situs, Libitina

Non omnis moriar, multaque pars mei vitabit Libitinam: usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine pontifex. 10 Dicar, qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium

[6-9] Non morirò del tutto, e la più gran parte di me sfuggirà a Libitina: io crescerò continuamente rinnovato nella lode dei posteri, finché salirà al Campidoglio il pontefice con la tacita vergine.

Non omnis moriar: lett. «non morirò tutto»; omnis, predicativo del soggetto sottinteso (ego), si può tradurre con un avverbio («interamente», «del tutto»); moriar è futuro di morior, mori, deponente. – multaque pars mei: l’enclitica -que ha valore avversativo («anzi»); pars è soggetto di vitabit (futuro di vito, a ˉ re; lett. «eviterà»); mei è genitivo del pronome di I persona singolare. – Libitı ˉ nam: accusativo oggetto di vitabit, è metonimia per «morte». – usque: avverbio da unire sia al futuro crescam, sia all’aggettivo recens. – postera... laude: ablativo di valore causale-strumentale («grazie alla», «per la lode»), dove l’aggettivo postera = posterorum. – recens: «recente» nel senso di «sempre nuovo», «fresco»,

NOMI e PAROLE degli ANTICHI

Monumentum: il sostantivo neutro monumentum, -i (dalla stessa radice di moneo, memini, mens, memoria) in accezione più ampia di «monumento» nell’italiano corrente, designa tutto ciò che vale a «ricordare», a conservare la memoria di quanto è ritenuto degno di essere tramandato ai posteri, oltre gli angusti termini della vita individuale e delle singole generazioni. In particolare, l’esordio dell’ode ricalca il linguaggio degli artefici (scultori, architetti, ceramisti...) che, terminata la loro opera, ossia un «monumento» artistico, ne rivendicano il merito e vi appongono la sphraghís (in greco, «sigillo»; la «firma»). Formule del tutto analoghe compaiono

«giovane»; predicativo del soggetto ego, di norma sottinteso, qui espresso in funzione enfatica. – dum... pontifex: costruisci dum pontifex scandet Capitolium cum tacita virgine; proposizione temporale dipendente da crescam.

[10-14] E di me si dirà, là dove violento strepita l’Aufido, e dove Dauno povero d’acqua regnò su popoli agresti, che da umili natali divenuto illustre per primo ho trasferito il canto eolio nei ritmi italici.

Dicar qua... populorum: mediante due perifrasi atte a designare l’Apulia, ove sorge Venosa, Orazio ricorda qui la terra natale, immaginando che partecipi della gloria conseguita dal figlio. Il motivo ricorre fra gli altri in Virgilio, Properzio e Ovidio. – Dicar: lett. «io sarò detto» = «si dirà di me»; costruzione personale dei verba dicendi con l’infinito (deduxisse). – qua... obstrepit... et qua regnavit: due proposizioni relative introdotte da qua, avverbio di moto per luogo in anafora, dipendenti da Dicar. – violens... Aufidus: l’Ofanto, fiume a regime torrentizio, e perciò detto violens («violento», «impetuoso») nei periodi di piena, scorre in Apulia, attraversando anche Venosa. Il predicato obstrepit (da obstre ˘ po, e ˘ re, «strepitare», «rumoreggiare») evoca il fragore delle acque; l’aggettivo violens è predicativo del soggetto (Aufidus). – Daunus: re leggendario di una parte della regione àpula, detta Apulia Daunia; secondo il racconto mitico, padre o progenitore di Turno re dei Rùtuli (personaggio di spicco nell’Eneide) e suocero dell’eroe omerico Diomede. A tutt’oggi una parte della Puglia conserva la denominazione di Daunia. – pauper aquae: Dauno è detto «povero d’acqua» in quanto regnava su una terra che altrove Orazio stesso definisce siticulosa («assetata», «sitibonda»; Epodi III, 16). – agrestium... populorum: genitivo plurale retto da regnavit, secondo la costruzione dei verba imperandi in

anche nelle iscrizioni di carattere politico-militare, dove magistrati e uomini di guerra affidano il ricordo della propria grandezza alla dichiarazione delle imprese compiute. Situs: tra i vari significati del sostantivo maschile situs, -ūs della IV declinazione («sito», «situazione», «posizione», «regione») vi è anche «edificio», «costruzione», che nel contesto dell’ode è appropriata consuetudine tradurre «mole»; altri preferiscono intendere «decrepitezza», «squallore», «disfacimento»; o addirittura «muffa», «ruggine», tutti significati pure attestati, che si sviluppano da quello di «posizione stabile», «immobile». Va detto peraltro che qui il confronto con qualcosa che cade in rovina appare inopportuno; altius evoca un’immagine imponente e grandiosa, così che il paragone assume il valore di un superlativo: «l’alta e immobile mole concreta l’impressione della perenne resistenza al tempo» (A. La Penna). Libitīna: Libitina, nome di origine etrusca, era la dea romana dei funerali. Al suo tempio, situato in un bosco sacro presso l’Aventino, dove erano custoditi gli apparati e gli addobbi che servivano alla celebrazione delle esequie, si versava fin dall’età regia un obolo per ogni cerimonia; libitinarii erano detti gli impresari delle pompe funebri.

regnavit populorum, ex humili potens, princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam 15 quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam.

greco (ad es. basiléuein). – ex humili potens: sott. factus; lett. «da umile [divenuto] grande», «famoso». Il participio-aggettivo potens (da possum) assume qui il valore di clarus atque magnus, in quanto si riferisce alla grandezza poetica e al prestigio che ne deriva. Non è l’unico luogo dell’opera oraziana in cui il poeta rivendica con orgoglio il riscatto dalle sue umili origini; il motivo ricorre in un altro celebre componimento di commiato (Epistulae I, 20, 20-22 [T24 ONLINE]). Ma già parecchi anni prima, nell’ancor più famosa satira sesta del I libro, ne riconosceva il merito, prima che a se stesso, a suo padre e all’educazione che gli aveva impartito (Sermones I, 6, 65-88). – princeps... modos: costruisci (Dicar...) princeps deduxisse Aeolium carmen ad modos Italos. – princeps: predicativo del soggetto, da connettere direttamente a deduxisse. Da Lucrezio ai poeti augustei, ricorre insistente nella poesia latina l’aspirazione alla gloria dell’inventor (da invenio, «trovare»; traduce esattamente il greco euretés), ossia dell’«iniziatore», del «fondatore» di un genere nuovo nella letteratura di Roma, mediante la composizione di un’opera degna di emulare i modelli greci. Il motivo del “primato” compare in Lucrezio (I, 922-934), Virgilio (Georgiche II, 173-176 [T7, cap. 2], Properzio (III, 1, 3-4). – Aeolium carmen: accusativo oggetto di deduxisse. – ad Italos... modos: moto a luogo figurato. «I modi (ritmi, metri) possono dirsi italici (qui latini) solo nel senso che sono ricreati in parole latine, con le loro quantità sillabiche: giacché i metri (indicati altrove anche con numeri) sono greci» (A. La Penna). In ogni caso, è indiscutibile che Orazio abbia operato non un semplice “trapianto” della lirica greca nella lingua latina, ma una ricreazione originale di impronta autenticamente romana; e tuttavia non è fuori luogo aggiungere che almeno per certi aspetti – non secondari – è lecito dire lo stesso della poesia di Catullo. – deduxisse: infinito perfetto di deduco, e ˘ re (de + duco; «trasportare», «trasferire», «trapiantare»). Secondo altri deducere va inteso nell’accezione di «elaborare con cura» (immagine connessa in origine alla filatura della lana), significato attestato in due luoghi dell’opera oraziana (Sermones II, 1, 4; Epistulae II, 1, 125).

[14-16] Prenditi l’orgoglio conquistato con i meriti, e propizia cingimi la chioma, o Melpomene, con il lauro delfico.

Sume superbiam: «assumi», «prendi il [giusto] orgoglio»; cioè «siine orgogliosa» (= puoi esserlo, l’hai meritato). Il poeta rivolge l’invito alla Musa che ha ispirato il suo canto per evitare un’autocelebrazione troppo diretta, ma è ovvio che queste parole sono riferite in realtà a se stesso. Sume (= assume), imperativo che si lega enfaticamente in sequenza allitterante con l’oggetto in accusativo superbiam. – quaesitam meritis: participio congiunto (da quaero, e ˘ re, «cercare», «chiedere»; quindi «procurarsi», «ottenere»), e ablativo strumentale (meritis): il sintagma vale «meritato». Così il sostantivo superbia, in latino vox media, assume qui il significato pienamente positivo di «giustificata fierezza». – Delphica/ lauro: ablativo strumentale in enjambement di forte spicco; metonimia per la corona d’alloro, premio e simbolo della gloria poetica, detta Delphica in quanto il lauro o alloro era sacro ad Apollo, dio della poesia e della musica. A Delfi nella Focide sorgeva il più celebre santuario dedicato al suo culto. – volens: predicativo del soggetto, il participio-aggettivo volens (da volo, velle; lett. «volente») è termine del linguaggio cultuale che ricorre nelle formule di invocazione alla divinità, cui si chiede di mostrarsi «benigna», «propizia». – Melpomene: qui genericamente Musa della poesia; soltanto nella tradizione posteriore Melpomene verrà associata alla tragedia.

LETTURA e INTERPRETAZIONE

Emblemi della grandezza e dell’eternità di Roma

Dum Capitolium/ scandet cum tacita virgine pontifex (vv. 8-9): nel breve spazio di questa frase Orazio ha concentrato i tre più eminenti simboli della grandezza e dell’eternità di Roma: il Pontifex Maximus, il collegio delle Vestali custodi del fuoco sacro, il colle capitolino con il tempio di Giove eretto dai Tarquinii, detto da Livio arcem... imperii caputque rerum («la rocca dell’impero e il capo del mondo»; Ab urbe condita I, 55, 6); a questi potenti emblemi di perennità associa e affida la sopravvivenza della sua opera e di una «gran parte» di sé.

Una processione rituale

Ma di quale cerimonia sacra si tratta? È probabile che si alluda qui genericamente alle solenni processioni rituali cui partecipavano i pontefici e le

vergini Vestali (in questo caso virgo, come pontifex, sarebbe un singolare collettivo). D’altra parte non è escluso che Orazio faccia riferimento a una cerimonia particolare, che secondo una tarda testimonianza erudita si svolgeva ogni anno alle Idi di marzo, quando la Virgo o Vestalis Maxima (la Vestale più anziana) saliva al tempio di Giove sul Campidoglio ad implorare dagli dèi la prosperità di Roma; non è certo tuttavia se fosse o meno accompagnata dal pontefice massimo (o comunque da un pontefice).

Potenza evocativa di un verbo

Scandĕre è voce poetica ed elevata per ascendĕre; dalla Via Sacra, donde muovevano i cortei rituali, al tempio di Giove Capitolino la strada saliva in ripido pendìo. La potenza evocativa di questo verbo, atto a raffigurare un’ascesa ritmata («scandita», appunto) da un passo lento e solenne, viene rafforzata dalla collocazione in enjambement, che lo isola in fortissimo rilievo, ma ancor più dall’aggettivo tacita, che pervade tutta la scena di un silenzio ieratico.

Aeolium carmen

Il «carme» o «canto eolio» (v. 13) designa la lirica dei poeti eolici; dell’Eolia, regione dell’Asia Minore, faceva parte l’isola di Lesbo, dove erano nati Saffo e Alceo e dove era fiorita la loro poesia. In senso stretto, l’espressione potrebbe riferirsi ai sistemi metrici dei poeti di Lesbo: tuttavia, se è vero che prima di Orazio nessun poeta latino aveva usato la strofe alcaica, è pure noto che già Catullo, nei carmi 11 e 51, aveva riprodotto il sistema saffico minore; anche se nel Liber catulliano si tratta di esperimenti isolati, il vanto di Orazio può suonare esagerato. Ma l’affermazione va intesa in un senso molto più esteso e impegnativo, che trascende l’ambito delle forme metriche: Orazio rivendica il merito di aver composto per primo, nel genere lirico, un’opera organica e di ampio respiro (un monumentum) «trasferendo» nella lingua e nella cultura di Roma anche e soprattutto i grandi modelli della lirica greca classica, non solo Saffo e Alceo ma anche, fra gli altri, Pindaro e Anacreonte, senza concentrarsi prevalentemente sulla poesia di età ellenistica come avevano invece fatto Catullo e i neóteroi.

Analizzare il testo

1. L’ode, che conclude e congeda i primi tre libri dei Carmina, riveste particolare importanza nell’ambito della raccolta, verosimilmente considerata in quel momento definitiva dall’autore. Ripercorri il testo individuando i concetti fondamentali enunciati dal poeta in merito al significato dell’opera compiuta e della propria esperienza di poeta lirico, sottolineando i termini e le espressioni più rilevanti in tal senso. Dividi poi, per maggiore chiarezza, il testo in sequenze, apponendo a ognuna una breve didascalia esplicativa. 2. In quest’ode, dove Orazio esprime l’ormai raggiunta consapevolezza dell’immortalità della propria opera, occorre soffermarsi in particolare sui vocaboli e sulle immagini che esprimono perennità e durata: quali sono? Come si configura e come dobbiamo interpretare, in riferimento alla visione epicurea dell’autore, l’immortalità, ossia la vittoria sul tempo fugace e sulla morte, di cui qui si parla? 3. È lecito affermare che anche in questo componimento Orazio tocchi il tema civile?

Dove, precisamente, e secondo quali modalità? 4. Analizza parola per parola, spiegandone l’esatto significato, la dichiarazione espressa nei vv. 13-14: princeps Aeolium carmen ad Italos/ deduxisse modos. 5. Ricerca nel testo gli aggettivi che rivestono funzione predicativa. 6. Secondo quale costruzione sintattica è impiegato il verbo Dicar (v. 10)? E come si spiega il genitivo agrestium... populorum in dipendenza da regnavit?

Confrontare i testi

7. Confronta l’ode che hai appena letto con altri due componimenti oraziani in cui il poeta affronta il tema della poesia, in modo esplicito o in chiave simbolica: il congedo del primo libro dei Carmina (I, 38) [T14] e l’ode alla fonte di Bandusia (III, 13) [T18], avendo cura di evidenziare i motivi dominanti e le dichiarazioni più significative in ciascuno di essi, non senza rilevare analogie e differenze.

T 20

Carmina IV, 7 LATINO ITALIANO

LETTURA ESPRESSIVA IN LINGUA ITALIANA

Pulvis et umbra sumus

La lirica si apre serenamente su immagini di vitalità e di rinascita: ritorna la primavera (vv. 1-4), accompagnata dal luminoso quadretto mitologico delle Grazie danzanti (vv. 5-6). Ma il grave ammonimento dei versi successivi richiama improvvisamente l’idea del trascorrere del tempo (v. 8) e dell’inesorabilità della morte (v. 7). Al ciclico avvicendarsi delle stagioni (vv. 9-13) corrisponde infatti, in malinconica antitesi, il tempo, lineare e finito, della vita umana (vv. 14-16). Anche il motivo del carpe diem (vv. 17-20), che di solito nella poesia oraziana contrappone un’intensa carica di vitalità al pensiero del tempo e della morte, appare qui solo accennato in pochi e desolati versi. Il ricorso agli exempla illustria, storici e mitologici, ribadisce l’irreversibile caducità della vita umana: Enea, Tullo Ostilio e Anco Marzio (v. 15) non hanno potuto, benché re o eroi, sottrarsi al destino di morte; Diana e Teseo (vv. 25-28), benché solleciti o coraggiosi, non hanno potuto salvare i loro protetti dalla fine; il genus, la facundia e la pietas (vv. 23-24) non restituiranno a Torquato la vita, quando gli occorrerà discendere per i cammini dell’Ade.

Danzatrice o baccante, affresco dalla Casa del Cicerone a Pompei, I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nota metrica:

sistema archilocheo secondo, composto di esametri dattilici alternati a trimetri dattilici catalettici in syllabam. Diffugere nives, redeunt iam gramina campis arboribusque comae; mutat terra vices, et decrescentia ripas flumina praetereunt.

5 Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet ducere nuda choros.

Immortalia ne speres, monet annus et almum quae rapit hora diem.

Svanirono le nevi, tornano già le erbe nei campi, agli alberi le chiome; la terra muta vicenda, e i fiumi decrescendo scorrono fra le rive;

5 la Grazia, con le Ninfe e le sue gemine sorelle, osa guidare ignuda le danze.

Ma l’anno e l’ora che rapisce i fecondi giorni, ti ammoniscono a non nutrire speranze immortali.

5. Gratia... sororibus: le tre Grazie (Aglaia, Eufròsine, Talía), dee della bellezza e della gioia serena, compagne di Afrodite. Abitavano, come le Muse, in Olimpo.

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