1 minute read
Dialogo con i MODELLI Pulvis et umbra: dai tragici greci a Catullo Le FORME dell’ESPRESSIONE Misura classica e armonia compositiva
Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas 10 interitura, simul pomifer autumnus fruges effuderit, et mox bruma recurrit iners.
Damna tamen celeres reparant caelestia lunae: nos ubi decidimus 15 quo pater Aeneas, quo Tullus dives et Ancus, pulvis et umbra sumus.
Il freddo si mitiga agli Zefiri, la primavera 10 cede all’estate che morrà appena il fruttuoso autunno avrà effuso i frutti, e presto torna l’inerte inverno.
Il danno del cielo tuttavia riparano veloci lune; noi, come cademmo 15 dov’è il padre Enea, e dove il ricco Tullo e Anco, polvere e ombra siamo.
9. Zephyris: venti tiepidi che giungono da occidente e annunciano la primavera. 15. Tullus... Ancus: Tullo Ostilio e Anco Marzio, re di Roma, noti il primo per la sua ricchezza (dives), il secondo per la mitezza dell’animo.
Dialogo con i MODELLI
Pulvis et umbra: dai tragici greci a Catullo
L’espressione pulvis et umbra sumus (v. 16) richiama un motivo tradizionale della poesia classica, sviluppato con immagini molto affini già dai poeti tragici: «noi non siamo che parvenza e vana ombra» (Sofocle, Aiace 152); «invece della persona diletta cenere e vana ombra» (Sofocle, Elettra 1158-59); «ogni uomo, una volta che sia morto, è terra ed ombra» (Euripide, fr. 536 N). E anche in Asclepiade: «nell’Acheronte giaceremo ossa e polvere» (Antologia Palatina V, 85). Rispetto alle sue fonti, Orazio isola e rafforza l’immagine, che diventa il vero centro lirico del componimento. Ma la fonte più esplicita dell’ode sono tre versi di un famoso carme di Catullo (5, 4-6):
Soles occidere et redire possunt: nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda.
Orazio riecheggia il passo di Catullo in due luoghi diversi: al v. 14 (nos ubi decidimus) e al v. 21 (Cum semel occideris), proponendo una clausola monosillabica di analoga intensità e suggestione fonica al v. 11 (mox). Va infine considerato che l’intero componimento è un’evidente ripresa, con significative variazioni, di un’altra ode oraziana (I, 4): secondo una consuetudine tipica della poesia ellenistica Orazio, a dieci anni di distanza dalla precedente raccolta, istituisce un confronto diretto con se stesso.