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Educazione CIVICA Salus, valetudo, humanitas

Educazione CIVICA

Salus, valetudo, humanitas

▰ La tutela della salute Attualmente il diritto

alla salute è riconosciiuto da una serie di trattati internazionali, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che all’articolo 25 sancisce che «ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia». Sempre nel 1948 l’Organizzazione Mondiale della Sanità elaborò una definizione della salute rimasta canonica: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia o infermità». Nello stesso anno la Costituzione italiana, all’articolo 32, definiva con chiarezza i termini e i limiti del diritto alla salute: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Da sottolineare come i costituenti abbiano avvertito la necessità di un equilibrio tra «diritto dell’individuo» (quindi espressione della sua libera autodeterminazione) e «interesse della collettività» (interesse generale, che in uno stato di emergenza può prevalere sulla libertà individuale) e abbiano tutelato la libertà individuale da abusi illegali, anche in tema di salute. ▰ Salus e Valetudo

Nell’antica Roma naturalmente non esisteva un simile “diritto alla salute”, così come non esistevano ospedali veri e propri, ma piuttosto ambulatori (tabernae medicae) in tutto simili a laboratori artigianali: tale era la «domus del chirurgo» ritrovata a Rimini negli scavi condotti a partire dal 1989. Tuttavia era fortemente percepita l’importanza dell’igiene pubblica: in particolare si prestava attenzione alla qualità delle acque, come è testimoniato dalla cura per gli acquedotti e dalla diffusione degli stabilimenti termali. D’altra parte la cura per la salute incrociava uno dei temi prediletti della cultura romana: la vita rustica, con le sue fatiche e la sua paupertas, era spesso lodata perché più salutare di quella urbana, insidiata da mille fastidi e pericoli, fonte di malattia fisica e di turbamento psichico. Un famoso denarius del 49 a.C., coniato da un certo Manio Acilio Glabrio, presenta sul recto la testa della dea Salus e sul verso la figura intera della Valetudo che, appoggiata a una colonna, osserva un serpente. A un serpente è associato anche l’arrivo a Roma del dio Asclepio (il greco Esculapio), nel 293 a.C., a seguito di un’epidemia devastante. La dea Valetudo corrisponderebbe alla greca Igea, figlia di Esculapio: il nome valetudo in realtà è vox media che, a seconda dell’aggettivo che l’accompagna o del contesto in cui è inserito, può indicare tanto la buona salute quanto la malattia. Valetudinaria erano chiamati sia delle specie di infermerie domestiche destinate al ricovero degli schiavi, sia degli “ospedali da campo” annessi agli accampamenti militari.

▰ Medici dalla Grecia

Incardinata nelle istituzioni romane, la salus era concetto di interesse pubblico e privato, e in quanto tale cura delle autorità, perciò, nelle singole famiglie, appannaggio del paterfamilias, che vi provvedeva attraverso pratiche rituali e antichi rimedi della tradizione popolare etrusca e centro-italica. Quando, secondo il racconto di Plinio il Vecchio, nel 219 a.C. arrivò a Roma il primo medico greco, un certo Arcagato, inevitabilmente si scatenò la reazione dei conservatori, che, dopo averlo accolto con entusiasmo, lo definirono carnifex e lo esiliarono. Catone il Vecchio parlò di una vera «congiura» dei greci attraverso i medici; la sua diffidenza riecheggia ancora nel libro XXIX della Naturalis historia, in cui Plinio traccia una sintetica e assai faziosa storia della medicina in Grecia e a Roma: Discunt periculis nostris et experimenta per mortes agunt, medicoque tantum hominem occidisse inpunitas summa est, «Imparano a nostro rischio e conducono esperimenti attraverso la morte, e soltanto per il medico l’aver ucciso un uomo è motivo di assoluta impunità» (Nat. hist. XXIX, 18). Complottismo e diffidenza “anti-scientifica” trovarono terreno fertile nella vena antiellenica che percorre a lungo la storia di Roma, anche quando ormai la cultura greca vi si era ampiamente diffusa. Tuttavia, in epoca imperiale la medicina si impose come ars, «tecnica», appresa peraltro attraverso testi specialistici e praticantato, senza un percorso di studi definito: perciò non mancavano di certo i ciarlatani, su cui ironizza Marziale (notissimo l’Epigramma I, 47 [T9b, cap. 8]). ▰ Tecnica e humanitas In Celso e in Scribonio Largo compare il tema dell’humanitas, dell’amicizia e della vicinanza tra medico e paziente, secondo una prospettiva tuttora assai feconda: al volto tecnico e oggettivo della medicina si affianca quello empatico e compassionevole del medico, alla pura registrazione dei sintomi si accosta l’ascolto del paziente. Atteggiamento ben descritto proprio da Celso: cum par scientia sit, utiliorem tamen medicum esse amicum quam extraneum, «a parità di competenze, è più efficace un medico che sia amico, piuttosto che estraneo» (De medicina, Proemio, 73) e ben sintetizzato da Seneca Figlio: quamvis in morbo aeger sit, non tamen idem est aeger et morbus, «benché il malato abbia una malattia, malato e malattia non sono la stessa cosa» (De beneficiis, 6, 2, 1).

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