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Le FORME dell’ESPRESSIONE Il linguaggio dell’interiorità

magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis: omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. [3] Dum differtur, vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis

la morte davanti a noi: gran parte di essa è già passata; tutto il tempo che sta dietro di noi, lo tiene in possesso la morte. Fa’ dunque, o mio Lucilio, quello che già scrivi di fare: abbraccia ogni [tua] ora; così avverrà che tu dipenda meno dal domani, se ti sarai impadronito dell’oggi.

Quem: pronome interrogativo, oggetto del verbo dabis. – qui... ponat, qui... aestimet, qui intellegat: tre proposizioni relative improprie con valore consecutivo, enfatizzate dall’anafora del soggetto qui. – se cotidie mori: proposizione infinitiva oggettiva retta da intellegat; sentenza-cardine dell’epistola. – In hoc enim fallimur: con funzione prolettica della proposizione dichiarativa che segue (quod mortem prospicimus). – prospicimus: il verbo prospicio (spexi, spectum, e ˘ re), composto di pro e specio, ha qui il significato di «guardare dinanzi a noi», «vedere in lontananza». – eius = mortis. – praeterit = praeteriit. – aetatis: genitivo partitivo. – tenet: tenere, in contesti bellici, significa «occupare» (città, castelli, postazioni). Il ricorso a una metafora della lingua militare evidenzia il dominio pieno della morte sulla vita dell’uomo. – Fac ergo, mi Lucili: si noti la variatio della proposizione-incipit (Ita fac, mi Lucili), con artificioso effetto chiastico dei membri iniziali (Ita fac... Fac ergo). – omnes horas complectere: proposizione infinitiva epesegetica di quod facere te scribis. La metafora dello stringere e dell’abbracciare prepara e rafforza l’immagine successiva del manum inicere sul presente. – crastino... hodierno: aggettivi sostantivati (crastinum da cras = domani, hodiernum da hodie = oggi).

[3] Mentre si rinvia, la vita se ne va. Tutte le cose, o Lucilio, non ci appartengono, soltanto il tempo è nostro; la natura ci ha messo in possesso di questo solo bene effimero e labile, dal quale ci caccia chiunque lo voglia. E tanta è la stoltezza dei mortali, da riconoscersi

Le FORME dell’ESPRESSIONE

Il linguaggio dell’interiorità

Seneca evita il ricorso al lessico tecnico della filosofia: in molti casi fa uso di espressioni prelevate dai linguaggi settoriali (del diritto, della finanza e del commercio, della medicina e della fisiologia [T10], dell’agricoltura [T10], dello sport e dei giochi, della vita militare [T10] ecc.) e di forme che riguardano aspetti della vita pratica e quotidiana [T13 ONLINE], ma ne sposta il significato sul piano morale, costruendo così il suo peculiare «linguaggio dell’interiorità» (Traina). In questa prima epistola si segnalano in particolare, oltre alle ricorrenti immagini di quotidiana concretezza, i termini del linguaggio giuridico e finanziario. ▰ Dal linguaggio giuridico: vindica te tibi

(1, 1) Vindicare è un verbo del linguaggio giuridico romano, utilizzato originariamente nel senso di «rivendicare il possesso di qualcosa», e in seguito nell’espressione – relativa all’affrancamento degli schiavi – vindicare aliquem in libertatem («affrancare qualcuno, metterlo in libertà»). Ma Seneca sposta il significato del termine dall’ambito giuridico alla sfera morale, esortando il discepolo a riappropriarsi della propria vita, a rendersi padrone di se stesso. È un esempio di quel linguaggio dell’interiorità caratteristico della prosa senecana. ▰ Dal linguaggio finanziario Nei paragrafi

successivi si riscontrano poi diverse espressioni, trasposte in senso metaforico, che provengono dal linguaggio finanziario, commerciale e della contabilità, quali pretium tempori ponat... diem aestimet (1, 2): pretium ponere significa «fissare il prezzo», aestimare «fare una stima»; inputari sibi (1, 3): inputare aliquid alicui «mettere qualcosa a debito di qualcuno»; ratio mihi constat impensae (1, 4): letteralmente «il conto (ratio) della spesa (impensae) mi torna giusto». Seneca sta parlando del tempo, un bene prezioso da amministrare oculatamente, proprio come fa un contabile o un commerciante diligente. ▰ Dal linguaggio della vita quotidiana Nella

chiusa dell’epistola troviamo infine una frase di stampo proverbiale, un ammonimento di saggezza pratica ereditato dai «nostri avi»: sera parsimonia in fundo est (1, 5); «tardivo è il risparmio [fatto] sul fondo». Il fondo è quello di una botte o di un orcio, in cui si conservavano vino od olio; e sul fondo «non resta solo la parte più scarsa (minimum), ma la peggiore (pessimum)», ossia la feccia. Il senso è chiaro: bisogna cominciare a non sprecare il tempo fin dall’inizio, e non quando è stato ormai dilapidato. Una sentenza analoga è già in Esiodo (Opere e giorni, v. 369): «il risparmio, quando si è giunti alla fine dell’orcio, non serve a nulla». La conclusione affidata a una massima di sapore concreto e popolare svela il carattere pedagogico della lettera, costruita sul potere di immagini proprie della vita quotidiana (la botte, l’orcio, il vino) e di immediata comprensione.

ac lubrı˘cae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, inputari sibi cum impetravere patiantur; nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. [4] Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. [5] Quid ergo est? Non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, «sera parsimonia in fundo est»; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale.

debitori, quando le abbiano ottenute, di cose che sono di minima importanza e di scarsissimo valore, comunque recuperabili; nessuno [invece], che abbia ricevuto [in dono] del tempo, ritiene di essere debitore di qualcosa, mentre intanto questa è l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.

Omnia... aliena sunt: era tradizionale, nell’ambito della dottrina stoica, la distinzione tra ciò che è soggetto al nostro potere, e ciò che non lo è. Epitteto, nato intorno al 50 d.C., inizia il proprio Manuale proprio sottolineando tale concetto: possiamo esercitare la nostra libertà solo su ciò che dipende da noi, non da altri. La sofferenza nasce proprio dalla pretesa di considerare nostre le cose che non ci appartengono per natura. – in... possessionem: complemento di fine. – ex qua = ex qua possessione. Ablativo di allontanamento. – Et tanta stultitia... reddere: costruisci Et tanta est stultitia mortalium, ut patiantur imputari sibi, cum impetravere, [ea] quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia; nemo qui tempus accepit iudicet se quicquam debere cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. Si noti la complessità del lungo periodo, in contrasto con le proposizioni precedenti. – expellit: sott. nos. – mortalium: termine poetico per hominum, genitivo soggettivo. – ut... patiantur... iudicet: proposizioni consecutive coordinate per asindeto. – minima et vilissima: superlativi assoluti. – reparabilia: in antitesi con il tradizionale concetto del tempo che scorre inreparabile, come in Georgiche III, 284 (Sed fugit interea, fugit inreparabile tempus) o in Eneide X, 467-68 (breve et inreparabile tempus/ omnibus est vitae). – cum impetravere (= impetraverunt): proposizione temporale. – quicquam: pronome indefinito, accusativo. – cum: introduce una proposizione temporale con valore avversativo. – gratus: aggettivo sostantivato.

[4] Chiederai forse che cosa faccio io, che ti do questi consigli. Te lo dirò schiettamente: quello che succede a uno che spende molto ma che è diligente [nell’amministrare]: faccio tornare i conti. Non posso dire di non perdere nulla, ma potrei dire che cosa perdo, perché e in che modo: potrei spiegare le cause della mia indigenza. Ma a me succede quello che [capita] alla maggior parte di coloro che si sono ridotti in miseria non per colpa loro: tutti li scusano, nessuno li aiuta.

Interrogabis... fatebor: formule consuete del linguaggio diatribico: si immagina che l’interlocutore-ascoltatore interrompa il fluire del discorso ponendo un’obiezione cui il maestro si incarica di rispondere. – quid ego faciam: proposizione interrogativa indiretta dipendente da Interrogabis. – qui... praecipio: proposizione relativa. Ista è un neutro plurale; praecipio («insegno») è verbo molto frequente nelle Epistulae, fondate sullo stretto rapporto fra maestro e discepolo. – luxuriosum: chi vive nella luxuria, ovvero nel lusso. Si tratta di un aggettivo sostantivato. Qui è in antitesi con il successivo diligentem, con il quale va a formare quasi una coppia di valore ossimorico. – evenit: sott. mihi. – nihil... quid: sott. temporis. – perdere (sott. me): nel senso di «dilapidare», «scialacquare». – quid perdam: ancora una proposizione interrogativa indiretta, qui dipendente dal congiuntivo potenziale dicam. Si noti la costruzione chiastica dell’espressione perdam et quare et quemadmodum dicam. – dicam... reddam: congiuntivi potenziali, non futuri. – suo vitio: ablativo causale. – omnes... nemo: significativa l’antitesi, che dà energia alla sentenza conclusiva del paragrafo.

[5] Qual è la conclusione? Non considero povero colui al quale basta quel poco, benché poco, che gli resta; quanto a te, tuttavia, preferisco che conservi i tuoi beni, e comincerai [a farlo] in tempo utile. Infatti, come ammoniscono i nostri avi, «tardivo è il risparmio quando si è giunti al fondo»; sul fondo infatti non resta solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore. Addio.

Quid ergo est?: locuzione della lingua familiare (comunemente usata anche con l’ellissi del verbo): introduce la parte conclusiva di un discorso. – pauperem: predicativo dell’oggetto sottinteso eum: non puto pauperem [eum], cui. L’ellissi del pronome dimostrativo, specie se in correlazione con un pronome relativo, è tratto linguistico frequente nella prosa di Seneca. – sat: forma abbreviata dell’aggettivo indeclinabile satis, frequente nella lingua poetica. – tu tamen... tua: l’allitterazione, così come la presenza della congiunzione avversativa, enfatizza il concetto. – malo: regge il congiuntivo esortativo serves. Dopo i verbi di volontà, si omette generalmente la congiunzione ut. – sera parsimonia in fundo est: massima tradizionale: il «fondo» è quello di una botte, o di un orcio, nei quali si conservavano vino od olio. – pessimum: sul fondo, continuando la similitudine con la botte, non resta solo poco vino, ma la feccia.

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