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Cenerentola – Charles Perrault

Fiabe classiche

Cenerentola

Charles Perrault

C’era una volta un ricco mercante che viveva con la moglie Diamantina e la figlia Albarosa in una bellissima casa. Nelle stanze piene di sole c’erano lampadari di cristallo, grandi tappeti fatti venire dall’Oriente e morbidi divani di seta dai colori vivaci. Un nido caldo e confortevole in cui la famiglia viveva serenamente, condividendo ogni giorno l’affetto e la gioia di stare insieme. Una vita felice in cui tutto sembrava andare per il meglio, fino al giorno in cui l’adorata moglie si ammalò.

Immediatamente il mercante mandò a chiamare i migliori medici del regno e consultò indovini di ogni tipo. Vennero dottori, sapienti, farmacisti e astronomi, vennero persino maghi, saltimbanchi, e addirittura cantastorie, ma nessuno riuscì a trovare un rimedio che potesse guarire la donna.

Ognuno dei sapienti provò a prescrivere la sua specialità: chi pillole, chi unguenti, chi infusi d’erbe, chi panni caldi e chi persino aria di montagna. Qualcuno lesse storie antiche e racconti allegri, qualcuno danzò nella stanza, qualcuno fece fluttuare fumi colorati da vasi e alambicchi. Tutto inutile! La salute di Diamantina peggiorava di giorno in giorno e quando la poveretta capì di essere vicina alla fine, parlò così alla figlia:

“Continua ad essere buona e obbediente come sei sempre stata, bambina mia, e fa’ tutto quello che tuo padre ti dirà. Con lui accanto non dovrai temere nulla e io ti guarderò dal cielo.”

Poi la donna chiuse gli occhi e lasciò il mondo dei vivi.

In quel momento Albarosa pensò di morire, abbracciò la mamma e si abbandonò a un pianto dirotto. Si sentiva così sola e disperata!

Passarono i giorni, i mesi, un anno, la vita continuava. Albarosa faceva le cose di sempre, cercando di farle al meglio, ricacciava indietro le lacrime, cercava di non cedere allo sconforto, e quando ripensava alle parole della madre, capiva di non essere sola e la tristezza si sollevava dal suo cuore addolorato.

Non così per il padre che non si dava pace, e nonostante volesse molto bene alla sua bambina, si sentiva triste e disperato. Un giorno, dopo tutti quei mesi di solitudine, gli capitò di incontrare a una festa la giovane e bellissima vedova Torvalda. Si fermò a conversare con lei e la invitò a ballare. In quel momento sentì riaccendersi nel cuore una fiammella di speranza, lo interpretò come un messaggio del destino e prese la decisione di sposarsi nuovamente. Da buon padre, preparò la sua bambina con un discorso attento e amorevole.

“Va bene, padre mio – commentò Albarosa non senza un certo tremito nella voce – quello che vuoi tu lo voglio anch’io. Ti auguro felicità.”– e non aggiunse altro.

La nuova moglie era molto bella, ma egoista, superba, sfacciatamente ambiziosa e cattiva d’animo. Disposta a tutto pur di primeggiare, non esitava a schiacciare chi le stava di fronte. Assai brutte e cattive erano le sue due figlie, Ezzeria e Griselda. Talmente cattive che quando adocchiarono la figlia del mercante, leggiadra e vestita con buon gusto, divorate dall’ invidia, strinsero tra loro un patto malvagio. Decisero che ne avrebbero fatto la loro serva. Giurarono persino. Inizialmente, poiché il mercante vigilava attentamente sulla sua bambina, che amava come la sua stessa vita, si dovettero accontentare di dispetti, risatine e prese in giro. “Non abbiamo fretta” – si dissero. Una volta che l’uomo avesse allentato la sorveglianza, avrebbero mostrato a quella chi comandava veramente nella casa.

L’occasione propizia si presentò quando il mercante dovette partire per un viaggio d’affari.

L’uomo riunì tutta la famiglia in salotto e raccomandò di restare uniti durante la sua assenza.

“In particolare – disse – vi chiedo comprensione e solidarietà nei confronti di Albarosa che ancora soffre per la perdita della sua cara mamma e si ritrova, anche se temporaneamente, senza suo padre.”

Le due sorellastre si scambiarono un’occhiata di perfida intesa e, non appena il mercante si fu allontanato, misero in atto il loro terribile piano.

“Ehi tu, qui in salotto sul divano non puoi stare – gridò Ezzeria – c’è molto da fare in casa. Prendi questi stracci da lavoro, indossali e datti da fare.”

Albarosa non credeva alle sue orecchie. Pensava dapprima che la sorellastra non dicesse sul serio ma si accorse presto che quella diceva la verità quando l’altra aggiunse: “Non guardarci in quel modo! Hai capito benissimo, sarai la nostra serva d’ora in poi e vivrai in cucina, accanto al fuoco. È inteso che ti rivolgerai a nostra madre e a noi e chiamandoci signora e signorine. Chiaro? E ora, vattene, esci di qui!”

Torvalda non aggiunse nulla, ma si limitò a ridacchiare. “Vai, bambina cara, vai…”

Ricacciando indietro le lacrime e a capo chino, Albarosa lasciò la stanza. Cominciava per lei una vita difficile, fatta di fatiche, umiliazioni e tanti pianti in solitudine tra la cenere del camino. Lei che di quella bella casa era la reginetta, di colpo ne era diventata la serva.

Si alzava prima che il gallo cantasse per prendere l’acqua dal pozzo, accendere il fuoco e cucinare per le nuove padrone, le quali – sfaticate! – dormivano fino a tarda ora.

Non passava giorno che le tre non la rimproverassero o non la prendessero in giro: “Ragazza, dove sei, dormi? – urlava Ezzeria – Presto, aiutami a scendere dal letto che oggi sono stanchissima! Prestoooo.”

“Serva – la scherniva Griselda – dov’è il mio abito rosa? Ti avevo detto di prepararmelo per questa mattina! Buona a nulla!”

“Ma, signorina… – provava a dire la povera bambina – me l’avete dato solo ieri sera…”

“E allora? Dovevi stirarlo di notte! Sei una buona a nulla! Lo voglio subito, ora, qui!”

La ragazza volava via e si affrettava a eseguire l’ordine con il cuore che le batteva forte forte. A volte la matrigna fingeva di preoccuparsi per lei, ma voleva solo deriderla.

“Ehi, come hai trascorso la notte nella tua bella stanza camino? Bene, vero?”

“No, male, malissimo” – avrebbe voluto risponderle poiché non c’era più nulla di bene, di buono e di bello da quando nella sua vita erano capitate loro.

Solo giorni faticosi e tristi, lavoro, cenere e lacrime. Eppure lei era paziente e sopportava tutto in silenzio, forte del fatto che l’arrivo di suo padre avrebbe sistemato ogni cosa. Era questione di mesi ormai, forse di settimane… non rimaneva che attendere, poi tutto sarebbe cambiato.

Quando era tanto triste si accoccolava vicino al fuoco e pensava; i pensieri la portavano al sorriso di sua madre e a quello di suo padre che era in viaggio verso di lei. Allora si sentiva meglio.

Vicino al fuoco c’era una tana di topolini bianchi che le si erano affezionati. In cambio della loro presenza affettuosa, lei portava briciole e pezzetti di formaggio.

Una sera, poiché fuori il vento fischiava rabbioso e il freddo si faceva tanto sentire, Albarosa divenne ancora più triste, mise tanta legna sul fuoco, si fece più vicina al camino e pianse. In quel momento la fiamma si alzò, si agitò scoppiettando, e sulla parete di mattoni apparve un viso sorridente. La fanciulla indietreggiò.

“Non aver paura, piccola, sono la tua fata madrina e sono qui per aiutarti. La tua vita non è stata facile, lo so, ma io ti aiuterò e verrò da te ogni volta che ne avrai bisogno.”

Poi il viso sparì e Albarosa, in quel bel calduccio accogliente, si addormentò.

Il mattino dopo si sentiva straordinariamente tranquilla, e riuscì persino a sorridere alle sorellastre quando le incontrò per la colazione.

“La donna di cenere!” – sghignazzò Griselda.

“Ma quanto sei brutta stamattina? – rincarò Ezzeria – Hai dormito nel carbone?”

Albarosa non capiva, ma le bastò specchiarsi di sfuggita nell’acqua del secchiello di legno per capire: aveva le guance e il collo completamente sporchi di cenere! Provò a sorridere, ma quelle la zittirono in malo modo. “Cosa c’è da ridere? – l’aggredì Ezzeria – Sei un mostro!”

E Griselda non fu da meno: “Ridi ridi, sciocca! Da oggi in poi tu sarai Cenerentola, sì, ti chiamerai così, perché la cenere è il tuo regno triste e buio e lì tu devi restare!”

“Pensatela un po’ come vi pare” – mormorò tra sé la fanciulla alla quale la visione della fata madrina aveva donato straordinaria contentezza – “io non mi sento certo di cenere, e nemmeno triste e buia!”

Il destino però aveva conservato per Albarosa un altro duro colpo. Il padre, mentre si trovava ancora in viaggio, sì ammalò gravemente e in poco tempo morì senza aver potuto rivedere l’adorata figlia. La matrigna, da donna senza cuore qual era, diede la notizia alla bambina senza curarsi di trovare parole pietose e delicate, le sbatté in faccia la dolorosa realtà passando di sfuggita dalla porta della cucina. “Ehi, tuo padre è morto.”

Le sorellastre, dal canto loro, si guardarono bene dal consolarla. Anzi, già l’indomani, sapendola ormai sola, si accanirono ancor più contro di lei, e presero a ordinarle lavori più lunghi e faticosi.

Quella stessa notte, però, la buona madrina si materializzò ancora vicino al camino, e consolò la poveretta.

“Non piangere, cara, nonostante tutto, tu non sei sola. Da oggi io sarò sempre con te, in qualsiasi momento.”

E anche questa volta Albarosa si addormentò più leggera.

I giorni passavano faticosi e sempre uguali per lei, mentre le sorellastre poltrivano sui divani e comandavano a bacchetta.

“Cenerentola, portami i nastri!”

“Cenerentola, il profumo!”

“Lo specchio è impolverato!”

“Sul pavimento c’è una goccia d’acqua!”

“E sul mio comò c’è un capello!”

“Cenerentolaaaaa!”

“Cenerentolaaaaa!”

Albarosa correva da una stanza all’altra più veloce di una trottola: annodava, lisciava, pettinava, spolverava, cucinava e puliva, puliva, puliva. Mai un attimo di pace, mai una parola che non fosse un ordine, mai una gentilezza!

Un bel giorno il figlio del Re diede un gran ballo al quale invitò tutte le persone importanti. La famiglia del ricco mercante, essendo stato lui una persona che contava, fu invitata. Quando il messaggero reale portò l’invito, le figlie della matrigna lanciarono gridolini di gioia. Per giorni e giorni si affaccendarono in preparativi. Correvano da una stanza all’altra agitatissime. L’abito, i capelli, le scarpe, i profumi, tutto doveva essere perfetto! Cenerentola dovette faticare non poco per star dietro ai loro capricci. Niente sembrava andasse bene!

Fecero aprire armadi e bauli, ordinarono di lavare e stirare sei abiti a testa, e sottogonne, e nastri e fazzoletti, e borse e borsettine. Ogni giorno la scena si ripeteva. Non c’era angolo della casa che non fosse occupato da abiti, piume, fiocchi, cappelli, guanti e profumi. Una baraonda da non credere e tutti quei preparativi sfinirono la povera bambina che assunse un’aria stanchissima, quasi ammalata.

“Guardati! Certo non potresti mai venire al ballo” – ridacchiò un mattino Ezzeria.

“Ultimamente hai una faccia da far spavento” – rincarò Griselda.

“Magari tu l’avresti anche sperato, vero?” – la stuzzicò la matrigna.

Cenerentola taceva e pensava che anche a lei sarebbe tanto piaciuto andare alla festa, ma al momento non osò dire nulla. Solo la sera, prima che la matrigna si ritirasse nella sua stanza, prese coraggio e si decise a parlarle.

“Scusate signora madre – cominciò lei con gentilezza – questa mattina avete detto il vero. Anch’io ho sperato di venire al ballo.”

La matrigna sgranò gli occhi.

Cenerentola si affrettò a precisare: “Non che io osi pensare di sposare il re, questo no, mai, solo mi piacerebbe partecipare al ballo.”

“Al ballo? Tu? No, assolutamente no! Non hai un abito adatto e… ci faresti sfigurare.”

“Signora madre – riprese lei con straordinario coraggio – ho quello che mi ha lasciato la mia cara mamma, lo tengo in soffitta…”

“Ah davvero? Lo tieni nascosto, quindi…”

“No no… voi mi avete detto di far sparire tutta la mia roba.”

“Non rispondere così, sfacciata! Tu l’hai nascosto, lo so! Fatica sprecata, comunque, perché sarà stato mangiato dalle tarme! Sarà impresentabile, quindi non verrai! Non verrai e basta!”

Cenerentola cominciò a piangere sommessamente: “No, no, non è mangiato dalle tarme, io lo guardo ogni giorno e lo spazzolo per togliere la polvere, vi prego, vi prego, signora madre…”

“Ah che noiosa! Che lagna insopportabile! – si stizzì la matrigna – Purché tu ti tolga di torno voglio darti una possibilità. Seguimi in cucina!”

Albarosa la seguì. Torvalda prese un grosso sacco di lenticchie e le scagliò nella cenere.

“Se per domani mattina le avrai raccolte tutte, verrai al ballo. Tutte, non una di meno!”

“Grazie grazie – trillò la fanciulla mentre si asciugava le lacrime – entrerò nel salone dopo che voi sarete passate, cercherò di starvi lontana, non vi farò sfigurare, vedrete!”

Risatina gelida della matrigna: “Pensa a raccogliere le lenticchie ora. Buonanotte…”

Rimasta sola Cenerentola cominciò il lavoro. Si chinò tra la cenere e ne raccolse moltissime, ma più ne raccoglieva e più quelle sembravano aumentare, e quando sentì che l’orologio della torre stava battendo il primo colpo della mezzanotte, cominciò a dubitare della riuscita.

Al terzo colpo era sfinita e dolorante, con la cenere in gola e le mani che le bruciavano da non dire.

Lasciò il lavoro, si sedette sconsolata sui mattoni e cominciò a piangere.

Fu in quel momento che la fata madrina arrivò.

“Le tue lacrime mi hanno chiamata, Albarosa, vieni, alzati, non piangere più.”

Con un tocco della sua bacchetta aprì una finestra e chiamò a raccolta colombi e tortorelle che in un tempo rapidissimo pic pic pic raccolsero fino all’ultima lenticchia.”

Alla piccola non sembrava vero. “Grazie, grazie mia buona madrina!”

“Ora siediti qua e riposa per qualche ora, non puoi andare al ballo con questi occhietti stanchi.”

“Al ballo?” Cenerentola non credeva alle sue orecchie, ma si fidò della madrina. Si accoccolò al calduccio del focolare e si addormentò serena.

Il gallo non aveva ancora cantato che matrigna e sorellastre si alzarono. La piccola, pur così assonnata, fu costretta a seguirle nei loro agitati preparativi, tra urla di rabbia e pianti nervosi.

“Calmatevi, bambine – provò a dire la madre preoccupata per quelle scene isteriche – vi verranno gli occhi rossi e l’aria sciupata!”

Niente da fare! Le due continuarono a urlare rabbiose, lanciandosi l’un l’altra insulti e oggetti.

Finalmente, dopo un tempo che a Cenerentola sembrò interminabile, le tre furono pronte. Fuori in giardino c’era una carrozza lussuosa fatta venire per l’occasione. Certo non avevano badato a spese quelle! Ad una ad una le gonne fruscianti presero posto sui sedili di broccato e le scarpette di fine raso variopinto sparirono all’interno della vettura. Poi via, nella notte di sogno! Cenerentola rimase a guardare incantata, finché il rumore delle ruote non si perse nella notte. Allora si sentì invadere da una tristezza profonda e rientrò in casa. Lì le sorellastre avevano lasciato una baraonda incredibile, tutto era sottosopra. Come avrebbe potuto

fare a sistemare? Raggiunse il camino, raccolse il viso tra le mani e cominciò a piangere. Si sentiva sola, tanto sola!

Pensava a sua madre, a suo padre, alla sua condizione di serva, e i singhiozzi la soffocavano quasi, quando un tocco gentile venne a sfiorarla. Sussultò. Cos’era stato?

“Voi? Voi… siete qui, cara madrina” – sussurrò la piccola sorridendo.

“Sorridi, brava! Non devi disperarti, ma chiamarmi con il pensiero quando sei in difficoltà e io verrò da te. Ti senti tradita, vero? La matrigna si è presa gioco di te e tu vorresti andare al ballo?”

“Sì” – rispose la piccola.

“Per prima cosa basta lacrime.”

Albarosa alzò il viso.

“Bene, ora fa’ come ti dico e in quattro e quattr’otto sarai scintillante, pronta per il ballo.”

“Per il ballo?”

“Sì, ora però datti da fare. Vai nell’orto e portami una zucca matura, la più bella che trovi, poi chiama quei topini bianchi con i quali giocherelli la sera. In giardino, dietro alla fontanella, troverai un topo più grosso, sembra minaccioso ma non devi aver paura, è innocuo. Porta anche lui. Invita anche sei lucertole, le troverai vicino all’aiuola delle fragole, sempre in giardino. Presto, corri!”

Cenerentola volò davvero e tornò di lì a poco con tutto quello che le era stato chiesto; non era stato facile convincere il grosso sorcio a seguirla in cucina, ma ci era riuscita e ora quello era lì, tutto impettito, con tanto di baffoni e lunga coda. La madrina allora fece volteggiare nell’aria la sua bacchetta, e la grossa zucca divenne un’elegante carrozza dorata, tutta foderata di seta arancione e sormontata da una corona di cristallo verde. I sei topini vennero tramutati in altrettanti cavalli bianchi, le lucertole in valletti seri ed elegantemente vestiti di verde e il topone si ritrovò cocchiere alla guida della carrozza, agghindato di tutto punto, con panciotto e cappello a cilindro.

Albarosa non credeva ai suoi occhi, ringraziava e ringraziava la madrina a ogni trasformazione.

“Il meglio deve ancora venire, bambina mia. Chiudi gli occhi, cara!”

La fata prese la bacchetta e nell’aria disegnò un fiore. L’aria si mosse un pochino e Cenerentola avvertì come un frullio d’ali sul capo, poi una musica delicata che la avvolgeva.

“Puoi aprire gli occhi, ora.”

“Ohhh…!” – La bambina era senza parole! I suoi abiti non erano più i vecchi stracci da sguattera che le avevano gettato addosso le sorellastre, no! Ora lei riluceva in un gonfio abito tutto dorato, stretto in vita da una cintura di diamanti, arricchito da fiocchi rosa sulla gonna e da perle lucenti sul corpetto. Ai piedi scintillavano delicate scarpine di purissimo cristallo! Un abbigliamento così ricco e così raffinato non s’era mai visto!

Albarosa abbracciò la madrina, la donna sorrise, la bacchetta parlò:

Albarosa, mia cara bambina Ti attende ora la notte turchina Sei buona e bella, tu non sei fatta per il camino e la pignatta Presto, cocchiere, sprona i cavalli Porta la piccola ai lieti balli Sarai guardata, ammirata e invidiata Sarà una notte per te fatata.

“Bene, bambina mia – sorrise la fata – puoi chiudere la bocca ora.”

Cenerentola eseguì.

“Ecco, sei pronta per andare al ballo, ricordati però che prima che l’orologio della torre rintocchi il dodicesimo colpo della notte, dovrai essere qua. Non scordartene, cara, perché a mezzanotte in punto l’incantesimo finirà e tu ti ritroverai con i soliti stracci sporchi di cenere. Siamo intesi?”

“Sì, intesi” – soffiò lei baciando e abbracciando la madrina, poi

raggiunse il giardino. La splendida carrozza l’accolse e lei volò via nella notte azzurra, seguita da una coda lucente di stelle e stelline.

La corsa si fermò davanti all’ingresso del castello, illuminato come fosse giorno.

I valletti lucertola accorsero. Non appena Cenerentola mise il piedino fuori dalla carrozza una pioggia scintillante riempì l’aria. A qualcuno sembrò di udire un tintinnio di cristallo. Chi si trovava ancora fuori s’incantò per lo stupore. I paggi del re accorsero in ammirazione e scortarono Albarosa su per lo scalone fino alla grande sala delle danze. Quando entrò, tutti si voltarono, i musicanti smisero di suonare, i balli si interruppero, sorellastre e matrigna ammutolirono. Un brusio di meraviglia riempì il locale. Il vecchio re sgranò gli occhi. Il principe, che si trovava in fondo al salone, la scorse da lontano, la raggiunse in un baleno, e ne rimase esterrefatto.

“Voi… voi siete… chi siete? Volete… potete farmi l’onore di danzare con me?”

“Sì” – rispose Cenerentola in un soffio.

Il principe sembrava confuso. “Sì? Avete detto sì?”

“Sì” – ripeté lei.

Allora la prese per mano.

Danzarono ininterrottamente per tutta la sera. Il figlio del re non aveva occhi che per la fanciulla. Nessun altro cavaliere osò avvicinarsi alla bellissima dama che tutti credevano una principessa. Lei si sentiva straordinariamente felice, e pensava che niente al mondo avrebbe potuto turbarla.

Ma l’orologio della torre cominciò a battere i suoi rintocchi e la voce della madrina le bisbigliò dolcemente all’orecchio:

Bambina, presto lascia ora i balli Fuori ti attendono cocchio e cavalli Prima che i colpi al campanile Siano dodici, devi fuggire…

Questo era il patto, non ti scordare Tra fuoco e cenere devi tornare. Non esser triste, non c’è ragione Comincia per te una nuova canzone Di vita nuova, libera e piena Di tempo felice, di aria serena Con me al tuo fianco sarai sicura Matrigna e sorelle? Niente paura! Non chiedere altro, non posso dire Ascolta la torre, devi fuggire…

E in quel momento, proprio in quel momento, l’orologio della torre batté il primo dei dodici rintocchi. “Oh, no! – Cenerentola si sentì morire! – E ora che mi accadrà? Sono perduta!”

Di colpo lasciò la mano del suo cavaliere, e via, più veloce del vento! Fuggì così precipitosamente che una delle meravigliose scarpette di cristallo le sgusciò da un piede e rimase lì, luminosa e solitaria, sullo scalone d’entrata. Sembrava una stella! La fanciulla si girò appena, ma non si curò di tornare a raccoglierla, temeva la fine dell’incantesimo…

La raccolse invece il principe che non si era capacitato della fuga della sua ballerina. Si era precipitato immediatamente dietro a lei, ma invano, e già si sentiva perduto per la sua assenza.

“Perché è fuggita? Dov’è? Dov’è? Non posso vivere senza di lei…”

In lontananza vide la carrozza che, in fondo al viale, usciva di gran carriera dai giardini del castello, cercò di seguirla con gli occhi ma quella sparì. Allora provò una tristezza profonda, dolorosa. La scarpetta lucente era lì nelle sue mani, ma la meravigliosa fanciulla che l’aveva calzata fino a poco prima non c’era più. Si sentì perduto, come avrebbe fatto senza di lei? Nei giorni seguenti girava e rigirava per le stanze del castello in preda a un’inquietudine profonda, niente gli dava pace. Né i magnifici fiori che

ornavano i giardini reali, né le fontanelle d’acqua purissima che chiocciavano tra le aiuole, né il melodioso canto degli uccelletti che svolazzavano tra limoni e mandarini. Nulla.

Solo la vista della scarpetta scintillante, che lui custodiva gelosamente, lo rasserenava in parte. La guardava, la accarezzava, e sospirava. Si domandava il perché di quella fuga precipitosa, ma non trovava risposta.

Un giorno ebbe un’idea!

“Userò la scarpina per… Ma certo, come ho fatto a non pensarci prima?”

Andò dal re. “Padre, questa scarpina appartiene alla fanciulla che avete visto ballare con me e io non avrò pace fino a quando non l’avrò ritrovata.”

“Capisco… Quella creatura incantevole… Dove si trova ora?”

Il principe abbassò il capo. “Non lo so, non ne ho idea, ma io non posso vivere senza di lei, la devo trovare. A tutti i costi!”

Il re ci pensò un po’. “Farò portare la scarpina in tutte le case del regno. Troveremo sicuramente la fanciulla.”

Così avvenne. Per giorni e giorni i messaggeri del re portarono la scarpetta di cristallo nelle abitazioni dei sudditi, ma della bellissima dama sembrava non esserci traccia.

Accadde però che in una delle ultime abitazioni i paggi del re intravidero, nel fondo di una stanza, una figuretta che trafficava svelta vicino al camino. Appariva nera di fumo e spettinata, ma si muoveva con gentilezza ed era pur sempre una fanciulla.

“E quella chi è? – s’informò il paggio – Si direbbe una giovane donna…”

“Ma chi? – ridacchiò Ezzeria – La regina della cenere?”

“Forse un tempo era una giovane donna – rincarò Griselda – ora è un mucchietto di stracci, una povera Cenerentola…”

Ma il paggio fu categorico: “Chiamatela, ditele di venire qua.”

“Una stracciona così, vi prego! Ci farà sfigurare!”

“Ora basta! – incalzò quello – Il re è stato chiaro! Tutte le ragazze devono provare la scarpetta. Tutte senza esclusione!”

E così fu. Non appena il paggio porse alla leggiadra fanciulla la scarpetta, il piedino gentile entrò senza difficoltà.

“Evviva, le ricerche sono finite!” – si rallegrò il paggio più anziano.

“Dunque la principessa fuggita a mezzanotte era proprio lei! – constatò l’altro – Non ci posso credere che la bellissima dama e questa povera servetta relegata tra la cenere siano la stessa persona!”

Allo stesso modo incredule erano matrigna e sorellastre.

“Infatti non lo sono!” – strillò la matrigna con la voce arrochita dalla rabbia. Avanzò verso Cenerentola facendo l’atto di prenderla per un braccio.

“Ferma dove siete! – intimò il paggio anziano – Non sfioratela nemmeno! Cenerentola verrà con noi!”

“In qualità di madre e per il bene della mia bambina, mi oppongo.”

Il paggio non si scompose. “Seguitemi, cara fanciulla, ho l’ordine di condurvi alla reggia, siete rimasta anche troppo con questa gentaglia.” “Un momento! – tentò di imporsi la donna – Non avete sentito quello che ho detto. Mia figlia resta qui! Non avete sentito? Ehi…”

Ma in quel momento, come in un sogno, il principe arrivò. Scese da cavallo, entrò nella casa e rimase immobile. Con aria sognante guardava la fanciulla senza riuscire a proferir parola.

Era profondamente incantato.

Alla vista del suo compagno di ballo, anche Albarosa rimase muta, ma sorrise. Poi guardò le sorelle e la matrigna e quasi si dispiacque per loro. Erano sconvolte e avevano espressioni tragiche.

Il principe pareva una statua. Intervenne allora la buona madrina che con una pioggia di stelline tolse il velo di incantamento dagli occhi del principe. Lui si riebbe.

“Voi… siete voi… sì, vi ho ritrovata finalmente, mia magnifica dama! Ora non vi lascerò più, mai più!”

La prese gentilmente per mano e le sussurrò: “Resterete sem-

pre con me, luce della mia vita, sempre con me! Seguitemi…”

La matrigna fece un passo avanti e provò ad aprir bocca, ma il paggio anziano la fulminò con lo sguardo.

“Zitta ora! Non una parola! La vostra volontà non conta più, ormai. Fatevi in là, per favore, lasciate passare sua maestà.”

La donna si morse il labbro, fulminò la figliastra con lo sguardo ma obbedì.

Così Cenerentola, tutta avvolta di luce, salì sul cavallo bianco del principe e, come in un sogno, volò con lui verso la reggia.

Mentre si lasciava trasportare dal magnifico destriero, andò con il pensiero alla sua adorata mamma e al caro padre che non era più tornato dal lungo viaggio, ma fu un pensiero breve, perché in un batter di ciglia l’agile cavallo era giunto alla reggia. A un suo nitrito, i servitori accorsero e già si stavano chiedendo chi fosse quella fanciulla, magnifica sì, ma vestita di stracci e quasi scalza, quando il principe disse loro: “Lasciate, faccio io.”

Ed ecco che Cenerentola, la mano in quella del suo principe, entrò nella reggia.

Il vecchio re quando vide la ragazza pensò che suo figlio doveva essere ammattito per condurre a palazzo una povera servetta di quella specie, ma non appena nella sala comparve il paggio che su un cuscino reggeva la scarpetta di cristallo tutto gli fu chiaro.

Allora il sovrano si fece incontro alla coppia e sorridendo disse loro: “Tutto è bene quel che finisce bene, cari figli. Oggi per il mio regno è un gran giorno. I miei sudditi avranno una nuova principessa e la discendenza reale sarà assicurata.”

Cenerentola ringraziò, fece un inchino al re e guardò il suo principe. Lui la circondò con un amorevole abbraccio.

“Sei felice, Albarosa?”

“Tanto, tantissimo” – bisbigliò lei.

“Presto! – disse allora il sovrano – Si organizzino i festeggiamenti! Presto, si programmi ogni cosa, al più presto celebreremo le nozze! Siete contenti? Ehi, dico a voi… Mi sentite?”

No, i due giovani non lo sentivano, se ne stavano abbracciati, persi nel loro magnifico mondo d’affetti in cui non c’era più posto per il dolore, la tristezza, le prepotenze e le umiliazioni. Sorridevano e non pensavano ad altro.

Il vecchio re si sistemò la corona sul capo e brontolò: “Valli a capire i giovani! Ah, benedetta gioventù, ai miei tempi sì che…”

Poi si interruppe perché la corona sembrava volergli scivolare nuovamente dal capo.

Se la risistemò ancora una volta.

“Ohi ohi, anche la corona non vuol più stare al suo posto…”

Il principe e Albarosa sorrisero, il re li guardò.

“Forse è venuto il momento di passarla a qualcun altro. A qualcuno che non si trova molto lontano… Cosa ne pensate?”

E ancora una volta i due giovani innamorati sorrisero.

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