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Alessandro Balducci

A ottobre sarà tutto finito. Conviveremo con il virus per anni.

La pandemia cambierà tutto nella città e nella società. Tornerà tutto come prima.

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Incrociando queste due variabili (quanto durerà e che impatto potrà avere sul nostro modello di organizzazione economica e sociale) possiamo collocare tutte le posizioni che emergono nel frenetico dibattito corrente. Quelli che militano per un rapido ritorno al business as usual, se sarà breve dovranno occuparsi solo delle ferite lasciate dalle perdite di vite umane e dalla crisi economica; e se invece durerà molto saranno attori di un fallimento collettivo. Quelli che considerano la crisi l’occasione per profonde modificazioni del modello di sviluppo, se a ottobre sarà tutto finito dovranno lottare duramente per ottenere almeno qualche cambiamento, e se durerà molto avranno qualche ragione in più per promuoverlo, ma in mezzo a mille difficoltà.

Insomma, siamo in una situazione di incertezza radicale. E non abbiamo molti strumenti nella cultura dell’Occidente per trattarla.

In mezzo a tutto questo c’è lo spazio della città e dell’architettura con la sua resistenza fisica anche a cambiamenti di portata meno epocale.

In mezzo a tutto questo c’è il progetto che richiede per definizione una qualche stabilità. Ciò che l’incertezza radicale ha fatto perdere irrimediabilmente.

Mi viene in mente il trattato sull’efficacia in Cina e in Occidente di François Jullien; ci dice che von Clausewitz nel suo trattato Della Guerra definisce la strategia come relazione fini-mezzi riferita sempre ad un modello ideale. Per Sun Tzu, nell’Arte della Guerra, la strategia non ha invece modelli, muove solo dal “potenziale della situazione”, dal lavorare a partire dalle circostanze. Non aggredisce il nemico frontalmente ma cerca addirittura di utilizzare la sua forza per batterlo.

Una postura molto simile a quella del “possibilismo” di Albert Hirschman, che nelle situazioni di crisi invita ad abbandonare ogni teoria formalizzata e a ricercare razionalità implicite e interpretazioni che a prima vista possono sembrare contro-intuitive.

Quello che possiamo fare oggi, in una situazione di incertezza radicale, mi sembra sia lavorare sul poten-

ziale della situazione, letta attraverso lo spazio fisico. Sul possibile piuttosto che sul probabile. Dobbiamo osservare e riflettere senza facili scorciatoie: non andremo ad abitare tutti in campagna ma certamente il salto quantico del telelavoro apre delle opportunità per una residenzialità più flessibile. Siamo stati costretti a limitare il nostro spazio prima alla casa, poi a 200 metri, poi al comune e alla regione di appartenenza, e in ognuna di queste scale abbiamo scoperto valori, necessità e potenzialità di cambiamento che possono allo stesso tempo consentirci di essere preparati ad altri shock e di migliorarne la qualità. La casa diventata luogo di lavoro, di studio e di loisir; il condominio i cui spazi comuni chiedono di diventare altro da luoghi di passaggio frettoloso; il quartiere dove la strada è tornata per un tempo sospeso ad essere vitale ma che chiede di tornare ad utilizzare i piani terra più intensamente, riportando quei servizi pubblici e di commercio stritolati dalla competizione e dalla razionalizzazione. La necessità del distanziamento fisico spinge a rioccupare in modo più flessibile lo spazio aperto ma forse anche quei grandi contenitori che abbiamo imparato ad usare nelle settimane del mobile o della moda, e che potrebbero oggi consentirci di ospitare grandi eventi culturali in condizioni di sicurezza.

La città densa non finirà per tante ragioni, ma può cambiare anche profondamente. D’altro canto non è stata la densità di per sé a consentire la diffusione del virus, come mostrano le analisi più accurate, ma la densità unita a povertà, degrado ambientale e capacità dei servizi territoriali.

L’agenda è ampia e scritta dalle circostanze.

Alessandro Balducci è professore ordinario di Pianificazione e Politiche urbane al Politecnico di Milano.

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