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Silvano Petrosino

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Richard Ingersoll

Richard Ingersoll

Metafisica della sicurezza e architettura. L’ideologia dell’eccellenza si è intrecciata in questo ultimo periodo con l’ideologia della sicurezza. La prima ha sollecitato la seconda generando un assioma che viene imposto come l’indiscutibile premessa di ogni possibile futuro ragionamento: “l’eccellenza esige la sicurezza”, il che vuole soprattutto dire: “se si mira all’eccellenza bisogna imporre la sicurezza”, “niente eccellenza senza sicurezza”. Siamo nel campo del delirio, laddove è difficile avanzare visto che i deliranti sono divorati da allucinazioni, visive ed acustiche, che li portano (vedono e sentono ovunque conferme delle loro elucubrazioni) precisamente laddove il loro stesso delirio li conduce. In effetti già l’elogio dell’eccellenza, in vigore da alcuni anni, era il sintomo di un malessere e/o di una malafede del soggetto: solo i mediocri si trastullano con l’eccellenza, solo i truffatori si servono dello specchio dell’eccellenza, spesso incorniciato con l’enfasi sul talento, per giustificare l’esclusione e lo sfruttamento de

gli altri. In questo periodo, senza mai perdere di vista il fantasma dell’eccellenza, si sta dunque delineando una “metafisica della sicurezza” che, come tutte le metafisiche degne di questo nome, non potrà che compiersi in quel “sorvegliare e punire” acutamente evidenziato da Foucault qualche decennio fa.

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Ecco il copione della recita. Atto primo: bisogna vivere per l’eccellenza, bisogna essere i migliori, bisogna esseri i primi perché arrivare secondi o terzi non serve a nulla, se non si raggiunge l’eccellenza allora si è dei falliti, o tutto o niente poiché fermarsi al semplice qualcosa significa accontentarsi del niente; atto secondo: l’epidemia ha dimostrato che siamo tutti fragili, deboli, abbattuti, altro che eccellenti, siamo tutti in balia delle circostanze, bisognosi gli uni degli altri (pantomima dei buoni sentimenti, ostentazione delle lacrime e della sofferenza diffusa, elogio del “noi” al posto dell’“io”); atto terzo: non appena la curva dei contagi ha iniziato a declinare, ecco subito rientrare in gioco i “valori forti” del “ritorneremo come prima” (arroganti e sicuri come prima), anzi meglio di prima, ecco riapparire il fantasma dell’eccellenza (la deprimente gara tra i governatori a chi ha fatto prima degli altri, meglio degli altri, ecc.), che tuttavia, come anticipavo, questa volta, a differenza di quanto accadeva nel primo atto, è rientrato in scena accompagnato dal fantasma della

sicurezza. È la nuova litania: “bisogna mettere (tutto e tutti) in sicurezza”, espressione che non è più solo la manifestazione di una necessità pratica, essendo piuttosto l’attestazione di un’autentica visione metafisica e di conseguenza di un indiscutibile imperativo morale.

Le principali “filosofie seconde” che derivano dalla “filosofia prima” in quanto “metafisica della sicurezza” sono: la medicina e l’architettura. Un breve accenno solo a quest’ultima. Non ci sono dubbi: non si può vivere nell’insicurezza, non si può vivere all’interno di un edificio che non sia stato “messo in sicurezza”, e la progettazione/realizzazione di una simile costruzione è compito dell’architettura e dell’ingegneria. Ma il pericolo che personalmente scorgo all’orizzonte riguarda – chiedo venia per il modo un po’ semplicistico con il quale qui mi esprimo – la pretesa di “mettere in sicurezza” non solo la house ma anche la home: la sicurezza da urgenza pratica si trasforma in un’autentica necessità metafisica precisamente nel momento in cui, cadendo vittima della “pulsione all’eccellenza”, essa osa avanzare pretese non solo nei confronti della house ma anche nei confronti della home.

La tentazione è nota ed è presente in ogni momento della storia umana: separare definitivamente il male dal bene allo scopo di eliminare, o magari anche solo controllare, la violenza dal mondo e costruire una

“città degli uomini” dove si possa finalmente abitare in totale sicurezza. Anche questo, purtroppo, è noto: tale pretesa, invece di costruire il paradiso in terra ha puntualmente generato l’inferno. Il “bene” non può essere imposto, così come l’abitare dell’uomo non può essere “messo in sicurezza” una volta per tutte; la scena umana è quella di un dramma vivente all’interno del quale l’edificazione del bene è legata al filo fragile e al tempo stesso tenacissimo della libertà e della responsabilità dell’uomo.

Mi permetto di suggerire a tale riguardo – a riguardo della messa in sicurezza del conflitto tra il bene e il male, e della costruzione di una casa/società assolutamente sicura – tre letture: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (Stevenson); La tana (Kafka); Arancia meccanica (Burgess); quest’ultimo ha affermato: “Imponete a un individuo la possibilità di essere solo e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del bene presunto della stabilità sociale. La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente – scelta come atto volontario – a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo”.

Silvano Petrosino, filosofo, è professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Teorie della comunicazione e Antropologia religiosa e media.

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