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Renzo Piano

Ho passato la quarantena nella mia casa di Parigi, due mesi e mezzo di confinement, praticamente chiuso in casa, come tutti. Guardavo fuori dalla finestra e vedevo una città vuota, ferita. Dalla mia finestra si vede il Beaubourg, che naturalmente era vuoto. La mia carriera al 90% è fatta di edifici pubblici: ho costruito scuole, biblioteche, musei, teatri, sale da concerto, università… pensavo a tutti questi edifici, alla Fondazione Beyeler a Basilea, al Whitney di New York, a tutti questi edifici pubblici vuoti, una tristezza enorme. E inoltre vedevo anche che la città stessa era vuota. Io credo nella città, credo nel valore della città, nella città come luogo di incontro. I luoghi iconici della città sono le piazze, le strade, i ponti. Da casa mia intravvedevo i ponti, ma anche i ponti di Parigi erano vuoti. Questo virus, così cattivo, così diabolico, così perverso, riesce in una cosa che è esattamente l’opposto di quello che noi come architetti cerchiamo di fare: fare incontrare la gente. Proprio

quello che il virus impedisce. Sebbene noi tutti siamo certamente dei privilegiati e stavamo lì senza grandi problemi, vedere un mondo di persone separate, che il virus obbliga a stare lontane le une dalle altre, è stata una forma di sofferenza.

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L’architettura lavora contro il virus perché è una macchina che spinge all’incontro.

Gli edifici pubblici sono luoghi fatti apposta perché la gente si incontri e condivida dei valori. Un teatro, una biblioteca, una scuola: sono luoghi che veicolano dei valori condivisi, luoghi di convivenza. E così è la città. Vedere le piazze, i ponti, le strade di una città vuoti fa malinconia, e ci fa pensare che non si deve cedere.

L’11 settembre del 2001 ero a New York, con tutta la famiglia. Subito dopo quello che è successo alle Torri Gemelle, l’imperativo corrente era rappresentato da una domanda costante: cosa si deve fare nella città perché questo non accada più? Io ho pensato immediatamente che questa domanda fosse profondamente sbagliata. Per l’amor del cielo, non inventiamoci una città a prova di terrorismo, creeremmo dei mostri: dobbiamo agire all’opposto! Ebbi la fortuna di avere un grande cliente, che erano i Sulzberger del “New York Times”. Il 14 settembre, tre giorni dopo l’attacco delle Torri, era il mio compleanno, e mi ave-

vano invitato a cena con mia moglie. Fu una cena un po’ triste perché erano passati pochi giorni da quello che era successo. Ma loro mi guardarono e mi dissero: “Andiamo avanti”. E io risposi: “Bene. Ma andiamo avanti con un edificio ancora più trasparente. Facciamo il piano terra ancora più permeabile, perché la trasparenza è più sicura dell’opacità”.

Quello che voglio dire è che adesso non dobbiamo metterci in testa di difenderci dal virus facendo delle città divise. Non mettiamoci in testa di difenderci dal terrorismo, o dalla guerra nucleare facendo dei bunker, come fecero in Svizzera negli anni sessanta e settanta construendo un bunker antiatomico per ogni casa: una follia. Il nostro mestiere, all’opposto, consiste, ancora di più di fronte a un pericolo, nel costruire luoghi affinché la gente possa incontrarsi. Sono la scienza e la politica, intesa nel senso più bello e nobile della parola, che devono risolvere questo problema. Non gli architetti, costruendo delle città a prova di virus.

Il testo è una trascrizione della conversazione fra Renzo Piano e Pierluigi Nicolin del 3 giugno 2020.

Renzo Piano è titolare del Renzo Piano Building Workshop, studio di architettura con sedi a Genova, Parigi e New York.

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