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Introduzione
Introduzione Nina Bassoli
Il 23 gennaio 2020, con l’obiettivo di isolare il primo focolaio di diffusione del nuovo virus Covid-19, il governo centrale cinese ha imposto un blocco nella città di Wuhan, la più popolosa dell’Hubei e la settima della Cina, con circa undici milioni di abitanti. Al primo blocco, sono presto seguiti quelli analoghi delle altre città della regione e poi di diverse città della Cina.
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Nel mese di marzo, la prima nazione ad adottare misure di chiusura generale è stata l’Italia, seguita in breve, dopo un primo momento di sconcerto generale, con misure più o meno restrittive, da tutti gli stati europei e via via anche dalle diverse nazioni degli Stati Uniti, dell’America Latina e dell’Asia, inclusa l’India, con i suoi 1.38 miliardi di abitanti. All’inizio di aprile, più della metà della popolazione mondiale è confinata in casa: oltre quattro miliardi di persone. In oltre centocinquanta Paesi o territori del pianeta, per un periodo variabile di diverse settimane, i cittadini
sono stati costretti o incoraggiati dalle autorità a non uscire per limitare i rischi di diffusione del Covid-19.
Con le sue diverse declinazioni normative, spesso in continua evoluzione, il blocco assume forme e nomi che rimandano a diversi aspetti della vita degli esseri umani e della loro condizione sociale.
La parola quarantena, forma veneta per quarantina, fa riferimento a un periodo di segregazione di quaranta giorni al quale venivano sottoposte persone, animali e cose ritenute in grado di portare con sé o trattenere i germi di malattie infettive, in particolare a chi proveniva dal mare. In questo caso, sui velieri e sulle navi sottoposte a quarantena a causa di malattie come la peste, nel XIV secolo veniva issata una bandiera gialla, da cui il colore di copertina, scelto per questa pubblicazione da Pierluigi Cerri. La quarantena dunque tenderebbe a sottolineare una durata temporale, un periodo determinato di sospensione, un limbo.
Il termine lockdown è un sostantivo statunitense di origine più recente, originato dal phrasal verb to lock down, utilizzato in particolare a partire dagli anni settanta per indicare un prolungato stato di isolamento per i detenuti nelle carceri o negli ospedali psichiatrici, e in seguito ogni periodo di isolamento forzato per ragioni di sicurezza. Trae origine dal lemma germani-
co lock, lucchetto o barriera o meccanismo di fissaggio, da cui costruzioni come lock in, rinchiudere, ad esempio una persona in una stanza, o lock up, la stanza di reclusione stessa o la porta o grata di chiusura, in uso fin dal XV secolo. È dunque in questo caso l’aspetto meccanico di blocco o chiusura a prevalere semanticamente. Nell’America del XIX secolo, con lock-down era indicato il tassello ligneo di fissaggio delle zattere per trasporti fluviali. Come ha osservato l’etimologo inglese Steven Poole, è quindi un’ironia malinconica che la condizione di recente isolamento prenda il nome da un meccanismo che una volta garantiva l’affidabilità del viaggio in grandi spazi aperti.
Infine il confinement francese, dal latino cum-finis, con lo stesso limite, tende a indicare una zona, un’area solidale che distingue tra un dentro e un fuori, e rimanda chiaramente agli aspetti più strettamente spaziali dell’area interessata dal fenomeno.
È in questo momento di isolamento, intorno alla fine di aprile, che decidiamo di sollecitare un certo numero di architetti e intellettuali in qualche modo vicini alla ricerca di “Lotus” per comprendere come stiano vivendo questo periodo eccezionale. Chiediamo di raccontarci cosa stia accadendo intorno a loro, in parti del mondo molto diverse, dall’Europa alla Cina, dall’America Latina al Canada, dagli Stati Uniti
al Giappone, e se pensano che questo avrà un effetto sul pensiero dell’architettura. Noi stessi, attraversati ogni giorno da nuovi dubbi e pensieri, in bilico tra una sospensione che assomiglia a una pausa e la sensazione di essere sulla soglia di un cambiamento epocale, sentiamo l’urgenza di consultare le persone che, a vario titolo, sono state vicine alle riflessioni della rivista negli ultimi anni. La risposta è entusiastica, sembra che la voglia di un confronto, o forse di appartenere a una comunità, per quanto senza prossimità fisica, sia particolarmente forte. Può darsi che l’opportunità di osservare l’architettura dall’interno di un momento di sospensione, quasi di congelamento, possa offrire una prospettiva privilegiata per indagare “le ragioni stesse dell’architettura”. Per dirla con le parole di Jean-Christophe Bailly:
“La speranza di vita dell’architettura si tende su un arco che va dal cantiere alla rovina. Se si tende ancora quell’arco si ha, prima del cantiere, tutto lo spazio di ideazione e, oltre la rovina, quello della scomparsa. Ora, con la crisi che ha scosso il mondo intero, questa dilatazione continua del periodo di esistenza dell’architettura ha appena subito una significativa interruzione. (…) Forse questa esperienza della città immobilizzata, al di là di quello che ha potuto avere di spaventoso o di affascinante, potrebbe diventare
uno spunto di riflessione che indaghi sulle ragioni stesse dell’architettura?”.
Da questa prospettiva irreale, il desiderio condiviso sembra essere quello di un riavvicinamento da parte dell’architettura ai problemi del mondo, di ristabilire il nesso necessario tra architettura e società, architettura e città, architettura e ambiente, di ritrovare, grazie a un momento di crisi, le risorse di senso di cui abbiamo bisogno.
Tra le righe dei brevi testi, raccolti tutti in poche settimane tra il mese di maggio e l’inizio di giugno 2020, ricorrono preoccupazioni comuni. Accanto a una generale stanchezza nei confronti degli eccessi della società dei consumi e del “sistema ricattatorio dell’economia neoliberale” (Herreros), oltre a una certa inquietudine rispetto alla fiducia nelle tecnologie e nell’illusorio efficientismo che ne deriverebbe, le preoccupazioni che sembrano assumere maggiore rilievo sono rivolte principalmente alla città e all’ambiente. La prima, sollecitata dall’apparente “svolta antiurbana che la pandemia sembra suggerire nel rivendicare un movimento di de-densificazione” (Hutton) e dai temi di prossemica e “distanziamento” al centro del discorso della cosiddetta “fase 2”, apre a interessanti riflessioni sui temi della densità architettonica e urbana, come quelle contenute nei testi di Ezquiaga,
Herreros, Maltzan, Wang Shu, Holl, tra gli altri.
La seconda è caratterizzata da una visione ecologica di ampio respiro, che, con posizioni più o meno radicali (da Zardini a Davidson, da Kuma a Mosbach, a Mazzanti e Holl fino a Ponte e Baracco+Wright), tende a includere l’architettura, e l’operato dell’essere umano in generale, all’interno di ecosistemi in cui “la flora, la fauna, gli oceani, l’atmosfera e l’umanità sono una forza vitale interconnessa e co-dipendente” (Holl); “un’architettura in cui il valore non stia solo in se stessa, ma anche in ciò che può essere in grado di promuovere in termini di interazioni sociali, nuovi tipi di rapporti e comportamenti, nella quale l’umano non prevalga sulla totalità degli agenti che abitano e occupano il mondo” (Mazzanti).
Forse a causa dell’isolamento forzato, e del profondo senso di frustrazione dato dalla sospensione degli spostamenti e delle attività, in molti hanno parlato dell’incremento riscontrato da alcuni linguisti nell’uso del pronome “noi” rispetto a “io” nel periodo di lockdown nei social media e negli altri mezzi di comunicazione. Tuttavia è interessante anche riscontrare come di fronte a temi di tale portata, all’interno dei testi raccolti si senta emergere con altrettanta forza una certa dimensione intimista, più personale, concentrata sul qui e ora più che proiettata nel futuro
con eroiche promesse, tesa ad osservare le condizioni reali più che a immaginare nuovi mondi. “Quello che possiamo fare oggi, in una situazione di incertezza radicale, mi sembra sia lavorare sul potenziale della situazione, letta attraverso lo spazio fisico. Sul possibile piuttosto che sul probabile”(Balducci).
Ecco allora affiorare, accanto alle grandi preoccupazioni sul futuro dell’umanità, un rinnovato interesse per la dimensione locale, “maggiore consapevolezza del locale: un locale specifico. Perché siamo stati così indifferenti verso questa condizione di prossimità?” (Mehrotra); per la dimensione del domestico, “tema decisamente negletto negli ultimi decenni in favore di concetti più astratti come residenza o tipologia”, Ciorra); il tema dello specifico contro il generico (e di conseguenza specialistico, Bunge); fino ad arrivare a una riscoperta della dimensione dei sentimenti e della felicità e a una rivendicazione di una dimensione personale in contrasto con quella astratta e quasi “metafisica” della normativa e degli standard, o dei paradigmi culturali dominanti (Petrosino).
In questo quadro, se non è possibile trovare rimedi a problemi che non siamo ancora certi di avere, come illustra con arguzia e ironia Jeffrey Schnapp, rimane il dubbio sull’investimento che l’architettura debba fare, per sua intrinseca natura, sul futuro. Se il “tono”
prevalente della raccolta, questo tono intimo, di generale attenzione al piccolo, al domestico, al presente, al reale, rappresenti una pausa, la fase terminale di un ciclo, oppure l’inizio di una nuova era, ancora non possiamo saperlo.
Caro/a,
Ti scriviamo per chiederti una riflessione sulla condizione dell’architettura in un periodo dominato dalla clamorosa epidemia mondiale del Covid-19, iniziata nella città di Wuhan e attualmente diffusa in più di 210 nazioni del mondo. Ti scriviamo principalmente per chiederti come stai, come vivi questo periodo sospeso e se ritieni che questo inciderà, in futuro, sulla tua attività o sul tuo pensiero sull’architettura.
Se da un lato la sospensione sembra offrire un’opportunità per la riflessione e la concentrazione, dall’altro l’incertezza per la durata di questo periodo e per l’effettiva natura di quello che seguirà non ci consente di radicarci a fondo nel momento che stiamo vivendo. In altre parole, non siamo ancora in grado di stabilire se si tratti di una augmented reality o di una diminuzione della realtà, mediata dalla pervasività del virtuale.
Sappiamo che come fenomeno locale e globale l’architettura è coinvolta diversamente da questi fatti a seconda delle situazioni in cui ciascuno di noi si trova a vivere e a operare. Proprio per questo stiamo chiedendo ad alcuni architetti e intellettuali collegati con la rivista di scrivere un breve testo (una pagina di circa 3.000 caratteri) in un modo molto libero che potrà di volta in volta essere una confessione, una riflessione, un ragionamento oppure uno sfogo personale o una previsione sulle possibili trasformazioni dell’attività professionale e, perché no, anche una riflessione sulle sorti del tuo paese o dell’umanità.
In definitiva lo stato eccezionale della pandemia ci tiene svegli e inquieti e apre in noi continue domande. Proprio per questo vorremmo indagare tra le persone più vicine alla nostra ricerca quali forme questa condizione sospesa stia assumendo, e a quali riflessioni stia aprendo la strada.
Il tuo contributo sarà raccolto in una pubblicazione della serie “Lotus Booklet”, la piccola collana di “Lotus International”, che sarà stampata e distribuita a fine emergenza.
Un caro saluto, Pierluigi Nicolin