AVANTI TUTTA
Kiton, Paul & Shark, Fedeli verso nuove frontiere
UN PASSO OLTRE
David Schneider racconta la svolta di Zalando
SOTTOSOPRA
Marchi, retailer, showroom, fiere in un mercato senza certezze
Kiton, Paul & Shark, Fedeli verso nuove frontiere
David Schneider racconta la svolta di Zalando
Marchi, retailer, showroom, fiere in un mercato senza certezze
Da ceo ad azionista di controllo del più grande gruppo italiano del tessile: l'ascesa di Davide Favrin fra retroscena e piani futuri
In copertina
Davide Favrin, azionista di maggioranza e ceo del Gruppo Marzotto, è il protagonista della cover story di questo numero Ph: Alberto Bernasconi
9 ANTONIO DE MATTEIS
«È il momento d’oro di Kiton: i numeri sono importanti ma per noi viene prima la qualità»
14 ANDREA DINI
«Missione elevation per Paul & Shark: siamo solo a metà del fiume ma nella direzione giusta»
21 LUIGI FEDELI
«I nuovi partner sono la leva per vincere le sfide del futuro»
27 BUYERS’ SURVEY UOMO SS24
Meno caos, più fair play: solo così si può svoltare
41 PREVIEW PRIMAVERA-ESTATE 2025
Stile libero
56 DIBATTITO SULLE STAGIONI
L’enigma delle vendite full price: la Spring-Summer è la nuova Fall-Winter?
60 OLTRE L’ATHLEISURE
Stile senza tempo e durabilità sono i segreti del quiet sportswear per conquistare il cliente del lusso
INNOVAZIONE
65 DIGITAL BUSINESS
David Schneider: «La crescita tornerà grazie alle emozioni dei clienti e ai servizi B2B, aperti anche ai brand fuori da Zalando»
72 METAVERSO
Meno clamore, ma la moda continua a crederci
79 CEO ROUNDTABLE
Scenari inediti, sfide pressanti: l’alleanza tra made in Italy e tech fa la differenza
FILIERA
98 COVER STORY
Davide Favrin (Gruppo Marzotto): «Il capitale non basta, ci vuole l’imprenditore»
107 I CAMBIAMENTI NELLA FILIERA
Supply chain, così i brand si riorganizzano: serve flessibilità e il fattore reputazione orienta le scelte
111 LA SFIDA ETICA
DI MICAELA LE DIVELEC
«L’imprenditoria sociale? Può salvare la filiera e il vero lusso made in Italy»
NUOVI TALENTI
119 UNIVERSO SNEAKER
Da startup a scaleup: Hidn-Ander accelera la distribuzione
113 BRAND TO WATCH
Quira, Le Twins, Olivia Nausner, Cavia, Autentica 504
116 NEWCOMERS
Marcello Pipitone: «La vera sfida inizia ora con la produzione su ampia scala»
MERCATI
123 NUOVE FASHION DESTINATION
L’Arabia Saudita evolve: per lo shopping meglio Neom o Riyad?
RUBRICHE
7 L’EDITORIALE
Tutto cambia. Anche noi
88 CONTROCORRENTE
Carrera come la Nutella: piace sempre
95 OLTRE IL SOFFITO DI CRISTALLO
Sabine Brunner: «Poche donne nei ruoli che contano? Non spetta a noi rispondere. Sono gli uomini a doversi fare questa domanda»
130 LIFESTYLE
Buccellati alla prova della quarta generazione: «Aperti al futuro, ma restando sempre noi stessi»
Direttore Editoriale
Tobias Bayer t.bayer@fashionmagazine.it
hiunque cerchi su Internet citazioni sul cambiamento e la trasformazione sarà sommerso dai risultati e avrà l'imbarazzo della scelta.
Che ne pensate di Eraclito, che disse: «Tutto scorre. Nulla è durevole quanto il cambiamento». I più scettici possono prendere spunto da Lev Tolstoj: «Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiare se stesso».
L'ironia della sorte vuole che la pletora di aforismi, disponibili con un semplice clic, non ci aiuti a padroneggiare il “cambiamento” di cui si parla continuamente. Ecco perché in questo numero ci siamo posti l’obiettivo di raccontare come si può cambiare con successo.
La nostra storia di copertina è dedicata alla più grande azienda tessile italiana: il Gruppo Marzotto. Con quasi 190 anni di storia, è oggi controllato dalla famiglia di Davide Favrin e dimostra come le crisi - in questo caso la pandemia e un dissidio tra i principali azionisti - possano servire da catalizzatori del cambiamento.
Tre aziende del made in Italy - Kiton, Paul & Shark e Fedeli - ci spiegano come rimanere se stesse pur trasformandosi. Kiton sta investendo nella filiera. Paul & Shark si sta posizionando più in alto e riqualificando la distribuzione. Il marchio di lusso Fedeli, che festeggia il 90esimo compleanno, ha portato a bordo due nuovi azionisti, Prada e Zegna, che dovranno dare la spinta per raggiungere nuovi ambiziosi traguardi.
A volte il cambiamento è caotico. Il clima sempre più caldo e un Black Friday che è ormai diventato una Black Week hanno fatto sì che la stagione primaverile si sia allungata e quella invernale accorciata. Abbiamo chiesto agli addetti ai lavori come le aziende e i rivenditori di moda stanno affrontando questa situazione un po’ confusa.
Tuttavia, a volte è consigliabile non esagerare con i cambiamenti. Ce lo insegna Carrera, i cui jeans sono i più venduti in Italia perché sono sempre rimasti invariati negli anni. E in certi casi per il cambiamento occorre anche pazienza, come dimostrano le due analisi sul metaverso e l’Arabia Saudita. Il metaverso arriverà, anche se non si sa quando. Invece l'Arabia Saudita è un mercato del futuro che ha ancora bisogno di tempo. Anche la nostra rivista sta cambiando. Abbiamo modificato il mix di argomenti e l'impaginazione, introdotto nuove sezioni come “Controcorrente” e “Oltre il soffitto di cristallo” e cambiato il look della copertina, pur mantenendo un fil rouge con il nostro passato. Come sostiene Barack Obama: «Noi siamo il cambiamento che cerchiamo».
L'azienda di Arzano cresce a doppia cifra, nonostante il rallentamento del lusso, e ora punta ad alzare l'asticella, muovendosi tra due poli: la fedeltà alla sua tradizione napoletana di alta sartoria e la spinta all'innovazione, grazie a un modello produttivo verticalizzato. Il ceo racconta i nuovi investimenti, i progetti in cantiere e la visione della Kiton del futuro, nel solco degli insegnamenti di Ciro Paone
DI ANGELA TOVAZZI
Quando entriamo nell'elegante Palazzo Kiton in via Pontaccio a Milano, Antonio De Matteis, per tutti Totò, ci accoglie con la consueta cordialità di stampo napoletano, vestito con un impeccabile completo (ovviamente) Kiton, ma leggermente zoppicante a causa di una scarpa ortopedica: «Un banale incidente, mi sono fatto male praticamente da fermo», racconta. Un inconveniente nel bel mezzo della campagna vendita, con l’andirivieni dei clienti internazionali: «I buyer vengono tutti qui, ne abbiamo in visita dai 10 ai 20 al giorno», dice l'imprenditore, ceo dell’azienda dal 2007 e, quando libero da impedimenti fisici, globetrotter per vocazione. Gli piace ricordare il fatto che nel maggio 2020, dopo il primo lockdown, fece 60mila chilometri in lungo e in largo per l’Italia, visitan-
Antonio De Matteis, per tutti Totò, classe 1964, inizia la sua carriera nel 1986 con lo zio Ciro Paone (scomparso nel 2021), fondatore della Kiton, dal nome della toga degli aristocratici greci. Dopo aver ricoperto varie cariche a livello dirigenziale nella vendita e nel marketing, nel 2007 viene promosso a ceo
do di persona oltre 150 negozi, circa il 70% dei quali non ancora clienti. «Mio zio Ciro Paone diceva “Non ho mai visto una valigia viaggiare da sola, ci vuole sempre chi la porta”», giusto per rendere l’idea di quanto siano importanti le relazioni dirette per Kiton che, portando avanti l’imprinting del suo carismatico fondatore, sin dal 1968 ha costruito la propria fortuna su valori immateriali come la coesione familiare, la cura del capitale umano, il savoir-faire in tutte le sue accezioni. Sul sito della casa di moda la mission aziendale è messa nero su bianco: «Essere il brand preferito dai sofisticati intenditori di ogni generazione». Ad Arzano, alle porte di Napoli, i sarti confezionano ancora tutti i capi rigorosamente a mano, assemblando pezzo dopo pezzo, cucitura dopo cucitura. Qui l’eleganza è espressione di cultura, la perfezione maniacale della manifattura il termometro dell'eccellenza. Indossare un capo Kiton deve essere in primis un’experience, per usare il gergo di oggi. «Negli ultimi tre anni l’azienda è raddoppiata, nonostante le incertezze geopolitiche e la perdita di un mercato fondamentale per noi come la Russia - racconta De Matteis -. Nel 2023 abbiamo superato i 205 milioni di euro, con un incremento del 26%, e nel primo trimestre di quest’anno abbiamo conquistato un +16%. Tanto da poter ipotizzare un +10% per l’intero 2024». Un momento d’oro per l’azienda partenopea, anche se a gareggiare nella stessa arena del menswear haut-de-gamme ci sono nomi del calibro di Ermenegildo Zegna (1,3 miliardi il fatturato 2023 del segmento Zegna) e Brunello Cucinelli (1,1 miliardi), oltre alle griffe più blasonate, con i capitali e le spalle coperte dai colossi del lusso. «Noi rispetto a questi siamo un marchio di nicchia, anzi di supernicchia - risponde De Matteis -. Naturalmente vogliamo continuare a cresce-
1. Foto di gruppo (by Danilo Scarpati) con la seconda e la terza generazione della famiglia: in piedi da sinistra, Silverio Paone, Antonio Paone, Antonio De Matteis, Mariano De Matteis e Adelaide Alfano; seduti da sinistra, Margherita Alfano, Walter De Matteis, Martina Klain, Maria Giovanna Paone, Ulderico Klain e Raffaella Paone 2. Un'immagine della scuola di alta sartoria, inaugurata da Ciro Paone nel 2000 con l'obiettivo di tutelare le tradizioni e garantire la continuità dell'arte sartoriale di Kiton
re, però non solo nei numeri. I numeri sono importanti, ma in primis ci interessa migliorare in qualità, innovazione e relazioni, pilastri della nostra storia imprenditoriale». La ricetta della crescita ha tanti ingredienti, come spiega l’imprenditore, che parla a più riprese di «sperimentazione, formazione, qualità senza compromessi». Belle parole che dalla Kiton hanno trovato la loro concretezza grazie alla progressiva costruzione di un modello produttivo verticalizzato: «Negli ultimi tempi si è parlato molto di crisi della supply chain. Noi la supply chain ce la siamo creata in casa. Le aziende che lavorano per noi sono
«Noi la supply chain ce la siamo costruita in casa: questo ci garantisce alti standard qualitativi e soprattutto la possibilità di sperimentare»
tutte di nostra proprietà e questo ci garantisce l’altissimo standard qualitativo dei manufatti, la possibilità di sperimentare, che è sempre più importante, e di consegnare bene ai nostri clienti». Anche i tessuti provengono per la maggior parte dal Lanificio Carlo Barbera, acquisito nel 2008, dove si studiano tipologie e disegnature esclusive: «Siamo l’unico marchio della moda che ha costruito una filiera con un processo inverso rispetto ad altri player, partendo dal prodotto finito per arrivare alla materia prima».
Un network manifatturiero che a breve si amplierà con una nuova struttura nel Nord Italia, dedicata esclusivamente alla produzione di borse. Top secret ancora il nome: «Abbiamo già stipulato un accordo per l’acquisizio-
ne, che dovrebbe concludersi entro i prossimi due anni. Un’operazione che, anche in questo caso, ci permetterà di sperimentare e metterci alla prova su nuovi modelli e soluzioni». Attualmente il business degli accessori (che include, oltre alle borse, le scarpe e la piccola pelletteria) vale l’8-9% del fatturato, ma sta crescendo. Come del resto sta accelerando a grandi passi anche il segmento donna, «un altro piccolo miracolo», secondo De Matteis. «Grazie al lavoro fatto da mia cugina Maria Giovanna Paone, presidente e direttrice creativa del womenswear, negli ultimi cinque anni la collezione femminile ha continuato a conquistare posizioni, fino a generare il 20% del fatturato e ora l’obiettivo per il prossimo quinquennio è di farla arrivare fino al 50%». Una sorta di “par condicio” espressa anche con i negozi, visto che tutte le ultime aperture hanno previsto un piano dedicato all’uomo e uno per la donna: «Idea vincente, perché ci siamo accorti che spesso le consumatrici, quando entrano nelle nostre boutique, comprano per se stesse e contemporaneamente per i loro mariti e fidanzati».
La scommessa dei prossimi anni coinvolgerà naturalmente anche il menswear, core business di Kiton, in quanto la sfida più difficile, per chi fa capi maschili di matrice sartoriale, è proprio risultare innovativi. «Per essere all’avanguardia - tiene a sottolineare l’imprenditore - abbiamo trasformato le nostre aziende. Oggi a essere diversi sono i tessuti, le modellistiche, le lavorazioni, i dettagli. Tra le camicie che si vendevano dieci anni fa e quelle che si vendono oggi c’è un abisso. Lo dico sempre: se un’impresa si ferma e non investe in innovazione, ha gli anni contati».
Camminando in mezzo ai circa 1.200 pezzi della nuova collezione in bella vista nella showroom milanese, De Matteis mostra i
nuovi completi in colorazioni inedite come l’arancio salmone, i giubbini in nylon giapponese foderati di cashmere, i raffinati pull in seta e cashmere prodotti dal loro lanificio e, tra le novità di stagione, i jeans strappati che invece strappati non sono: «Lo strappo è solo stampato, una specie di illusione ottica. Questa si chiama ricerca. Ecco perché vogliamo disporre di aziende di nostra proprietà per la produzione». La Kiton non è certo conosciuta per il jeanswear, ma i consumatori apprezzano: «Mentre i buyer tendono a essere conservatori, preoccupati prima del budget, i clienti finali sono più ricettivi e aperti alle novità». Del resto si tratta di un cluster di consumatori - i cosiddetti true-luxury - che non si fanno certo spaventare dal prezzo: dai 7mila euro in su per un abito, dai 3-4mila euro per un giubbino, dagli 800 ai 1.000 euro per un paio di pantaloni, fra i 700 e gli 800 euro per una camicia. Fino ad arrivare ai 50mila euro per il capo più caro, il cappotto nella pregiatissima vicuña, di solito disegnato su misura per il singolo acquiren-
te. «Sul fronte dei listini siamo al top della piramide, tra le aziende più costose ma, glielo assicuro - ribadisce l'a.d. - abbiamo la qualità più bella del mercato. E quando parlo di qualità non parlo di stile. Lo stile è soggettivo, la qualità no».
Il termine “qualità” ha un significato molto ampio nella testa di De Matteis e include valori intangibili come “relazioni”, “cortesia”, “servizio”: «Oggi si parla tanto di servizio, ma noi è da 30 anni che portiamo avanti questa filosofia, ce l’abbiamo nel dna. Andiamo a casa dal cliente, gli mandiamo il sarto, lo coccoliamo quando viene a trovarci a Napoli, portandolo in barca o nei veri ristoranti tipici, perché, come diceva mio zio, “Tutto parte dallo stomaco”». Un trattamento di riguardo, riservato non solo ai facoltosi avventori dei negozi Kiton ma anche ai dipendenti, che «abbiamo pagato sempre di più dei nostri concorrenti», dice senza girarci intorno. Come informa De Matteis, se la paga media nel mondo delle aziende manufatturiere è tra i 23mila e i 27mila euro l’an-
1. Uno scorcio del laboratorio dedicato al womenswear 2. Ago, filo e gesso sono ancora gli strumenti principali per dare vita alle collezioni Kiton, realizzate a mano da sarti artigiani 3. Uno scatto del salone riservato ai tessuti. Principale fornitore di Kiton è il Lanificio Carlo Barbera, acquisito nel 2008, dove si studiano tipologie e disegnature esclusive. Recentemente la società partenopea ha comprato anche un terreno di 30mila metri quadri ad Arzano, da destinarsi a uno stabilimento per la logistica e per l'espansione di alcune categorie merceologiche
«KNT è il nostro laboratorio di sperimentazione»
Nata su idea dei gemelli Mariano e Walter De Matteis (figli di Antonio De Matteis), la collezione KNT (acronimo di Kiton New Textures) con la SS2024 dà il via a un nuovo corso, con un focus sullo sport. Si parte con il tennis, attraverso una capsule che sta facendo tappa nei circuiti e tornei più importanti, partendo da Roma al Foro Italico, passando per Parigi al Roland Garros, per proseguire sulla Costiera Amalfitana e a Capri e concludersi con Wimbledon a Londra. «Si tratta di capi di ispirazione anni Settanta, non di matrice tecnica, ma pensati per chi ama e segue questa discipina. Abbiamo iniziato con il tennis, con l'obiettivo in futuro di spaziare in altri sport, come la vela o il golf». In pole position T-shirt e polo in piquet, blazer sfoderati in fresco di lana, gilet con trecce, cardigan e bermuda. Segni particolari, altissima qualità dei materiali, eccellenza nella manifattura e prezzi in linea con Kiton. «Il marchio Knt - precisa l'a.d. - non è una seconda linea ma un laboratorio di sperimentazione, per capire fino a dove ci possiamo spingere. Se Kiton oggi è dov'è, è perché nel 2018 abbiamo lanciato KNT».
no, ad Arzano oscilla tra i 43mila e i 45mila. «Se si moltiplica questa differenza per 850, il numero dei nostri addetti, come risultato si hanno circa 10-15 milioni di ebitda che la nostra azienda distribuisce a tutti i suoi collaboratori. Non faremo il 30% di ebitda, questo è sicuro, ma quando andiamo a dormire, dormiamo sonni tranquilli, perché chi lavora da noi sta bene». Un altro baluardo di sostenibilità sociale e welfare ante litteram, introdotto a suo tempo già da Ciro Paone, fermamente convinto che i dipendenti dovessero avere la «capa fresca», come si dice in napoletano, ossia la testa libera da preoccupazioni, soprattutto economiche. È per questo che, negli anni Duemila, quando il fondatore della Kiton ebbe l’intuizione di creare una scuola di alta sartoria interna per formare i nuovi artigiani, capì subito che non solo doveva essere gratuita, ma anzi che gli allievi dovevano essere incoraggiati con un salario minimo: «È stato il più importante investimento che potessimo fare. 25 anni fa fu faticoso radunare dieci ragazzi per far partire il progetto, ma per l’ultimo corso siamo stati sommersi da oltre 150 domande per 25 posti». Il passaparola ha fatto molto, aggiunge De Matteis, che ricorda come dei 200 allievi formati fino a oggi, tutti abbiano trovato una collocazione: 160 da Kiton, 37 in realtà napoletane e tre in una sartoria creata in proprio. «Ma non siamo gelosi, anzi». Ciò che importa è mettere in sicurezza il know-how di oltre mezzo secolo di storia, mantenendo le posizioni acquisite. Anche sul fronte della governance.
1. e 2. Lo stile Kiton, uomo e donna, per la FW 2024/2025 3. I jeans con gli strappi stampati, una "chicca" di Kiton per la primavera-estate 2025. 4. Una borsa della prossima collezione autunnoinverno: oggi il business degli accessori vale circa l'8-9% del fatturato ed è guidato da Ulderico Klain, uno dei figli di Maria Giovanna Paone
«L'espansione distributiva passa dal retail»
Oggi in azienda, accanto ai cinque soci - oltre a Totò De Matteis e Maria Giovanna Paone, Raffaella Paone (responsabile risorse umane), Antonio Paone (presidente Kiton Corp.) e
Silverio Paone (responsabile delle produzioni) - sono già sei gli eredi scesi in campo a rappresentanza della terza generazione: i gemelli Walter e Mariano De Matteis, designer della collezione KNT, i fratelli Martina (women's sales) e Ulderico Klain (Accessories Brand manager and Sales) e le sorelle Margherita (Communications department) e Adelaide Alfano (Retail department): «Hanno voglia di fare e sono convinto che trasformeranno l’azienda, come a suo tempo abbiamo fatto noi». Tra le sfide ci saranno quella di prolungare il momento d'oro di Kiton, anche quando (e se) tramonterà la stella del quiet luxury, e di valorizzare la narrazione del brand, partendo in primis dalla sua napoletanità. Alla domanda se in futuro possa essere contemplata la quotazione, De Matteis dribbla con un «Ci pensiamo sì, ma non è una cosa da fare domani mattina». «Ai nostri figli - conclude - vogliamo lasciare una società strutturata e c’è da tenere presente che il più grande ha 32 anni e il più piccolo 12, c’è un grande divario d’età. Chissà se tutti vorranno lavorare in azienda. La Borsa potrebbe essere un modo per essere più liberi e garantire libertà a tutti».
Situata nella rinomata Goethestraße, la nuova boutique di Francoforte (nella foto in basso) è l'ultima in ordine di tempo aperta da Kiton, che negli ultimi trequattro anni, come racconta il ceo Antonio De Matteis, ha investito con convinzione nel retail. «Abbiamo inaugurato sei negozi internazionali in cinque mesi - informa - e ora siamo al lavoro per aprire un monomarca a Tokyo, nel quartiere di Ginza. Il Giappone è un mercato che sta rispondendo bene, che ora puntiamo a presidiare in maniera diretta». Arrivata a un totale di 67 monomarca, di cui 40 diretti, l'azienda partenopea vende per l'85% i suoi prodotti all'estero, con gli Usa che coprono circa il 28% dei ricavi. Il resto è ripartito fra Far East ed Europa, tra cui l'Italia, che contribuisce al fatturato per il 15%. «Abbiamo dovuto rinunciare alla Russia, che rappresentava il nostro secondo mercato - precisa l'imprenditore - ma nonostante questo l'azienda è riuscita a crescere. Continueremo a investire nel retail nei Paesi dove siamo presenti. Anche in Cina, perché penso che nonostante il momento critico possa darci delle soddisfazioni». Il marchio è distribuito anche in 250 multimarca e su portali come Mr. Porter e Mytheresa. «Sul canale online alcuni prodotti come giubbini, pantaloni e maglie funzionano. Decisamente più difficile vendere un abito... Sull'e-commerce continueremo a investire, consapevoli però che nel post pandemia il digitale è diventato soprattutto un grandissimo strumento per portare i clienti finali nei negozi fisici».
Da qualche stagione a questa parte Andrea Dini, terza generazione della famiglia, sta riposizionando il brand, con lo scopo di fargli fare un altro salto di qualità e portarlo in quel territorio «dalle grandi potenzialità» che si colloca tra il premium e il luxury: un upgrading (non sempre indolore) a livello di prodotto, distribuzione e comunicazione. Gli abbiamo chiesto a che punto è, quali i risultati finora raggiunti, gli obiettivi e le sfide. E come immagina la Paul & Shark del futuro
DI ANGELA TOVAZZINella pagina accanto, un ritratto di Andrea Dini, ceo della Dama, proprietaria del brand Paul & Shark, e terza generazione della famiglia. Capostipite fu Gian Ludovico Dini: il 4 marzo 1957 il Maglificio Dacò, fondato nel 1921, riprese le attività grazie al suo intervento. Nei primi anni Settanta Paolo Dini, il figlio maggiore di Gian Ludovico, durante un suo viaggio nel Maine si trovò per caso nel cortile di un velificio e il suo sguardo cadde su una vecchia vela da lavoro, che riportava la scritta "Paul & Shark". Da lì ebbe inizio l'avventura. In questa pagina, due immagini della collezione Riviera di Paul & Shark per la Fall-Winter 2024/2025
Andrea Dini, pur avendo base a Varese, ama il mare. Ce l’ha nel sangue. Impressa nella sua memoria c’è la figura del nonno Gian Ludovico, toscano di nascita, che in inverno amava sostare sulle spiagge deserte di Viareggio e in silenzio guardare le onde, ascoltare il vento e con ossequioso rispetto spingere lo sguardo fino all’orizzonte. In questo fotogramma, con l’immaginario valoriale che rappresenta, c’è tutta la Paul & Shark, come ci racconta l’imprenditore, ceo dell’azienda dal 2000: «Il mare è più forte di noi, contro il mare non si vince mai». Come diceva Ernest Hemingway in quel capolavoro che si chiama Il vecchio e il mare: «Lo conosco quasi a memoria. Quando non sappiamo che decisioni prendere, rileggiamo qualche pagina». E allora partiamo da qui: da una decisione presa qualche stagione fa di alzare l’asticella, ridefinendo e riposizionando la propria identità verso l’alto, e adeguare tutte le espressioni del marchio (dal prodotto alla distribuzione, fino alla comunicazione) a quello che Paul & Shark stava diventando e voleva diventare. Partendo in primis dal nome.
Paul & Shark ha perso la parola Yachting, che lo caratterizzava sin dal 1976. È già una dichiarazione d’intenti?
Ci sono più motivi all’origine di questa scelta. Da un lato la volontà di semplificazione, sulla scia di quello che hanno fatto altri marchi, anche perché il mercato nel frattempo se n'era già dimenticato della parola "Yachting". Dall’altro di ribadire la nostra brand identity di leisurewear legato non tanto all’universo della vela, come ci hanno spesso classificato, ma al mondo del mare e ai suoi valori. Le radici della mia famiglia sono toscane, come ricorda bene il nostro cognome. Paul & Shark è partito dall'amore per il mare e a quell'ispirazione vogliamo restare fedeli.
Il mare è il vostro elemento naturale e rappresenta l’heritage, ma siete nel bel mezzo di un importante cambiamento. In che direzione state andando? Verso l’alto. Puntiamo a collocarci in quel territorio, a mio avviso ancora poco esplorato, che collega il premium e il luxury. Attenzione: non vogliamo trasformare Paul &
Shark in un marchio del lusso nel senso stretto della parola, ci sono già dei big in questa arena. Intendiamo invece portarlo in un ambito ancora poco popolato, puntando su un prodotto che mi permetto di definire favoloso, ma con un prezzo appealing rispetto a quello proposto dalle griffe del lusso, molte delle quali entrate in una spirale di inarrestabile aumento dei listini. Ci sono molti consumatori con disponibilità di spesa che per tante ragioni non hanno più voglia o addirittura si sentono a disagio nello spendere cifre esorbitanti. Ecco, noi ci rivolgiamo a loro. Con la promessa di un prodotto al top di gamma.
Questo upgrading come lo state traducendo a livello di prodotto?
In passato avevamo una strategia piuttosto market-oriented e le collezioni venivano strutturate pensando in primis ai mercati a cui erano destinate. Oggi non è più così: l’offerta è ancorata ai nostri valori fondanti, quelli legati a mio nonno e al mare, e si sviluppa in modo coerente. Tutto ciò che non era in linea, parlo del 30-35% dei
capi, è stato sfrondato. I pillar sono sempre gli stessi: giubbotteria, maglieria, camiceria e pantaloni, ma sono cambiate le dimensioni. Le collezioni sono più piccole e mirate. Il logo è meno enfatico e quasi impercettibile. In quanto azienda manufatturiera abbiamo sempre fatto e continuiamo a fare una grande ricerca sul fronte dei tessuti, ma anche in questo caso abbiamo puntato su un'elevation. Cito solo un esempio: la nostra tecnologia Typhoon, una membrana ultra-soft dalle alte performance, che è stata abbinata, oltre a tessuti di nylon, anche a materiali nobili come cashmere, lino e seta.
Dal punto di vista della distribuzione questa operazione di trading up non sarà stata indolore…
Da qualche stagione a questa parte la nostra parola d’ordine è “riqualificazione”, soprattutto del mercato europeo, quello che presidiamo da più tempo, mentre aree come Middle East e Asia, approcciate più di recente, erano già ben impostate. Abbiamo sospeso partnership commerciali con il 35% dei clienti multimarca in Europa: persone perbene, amici e perfetti pagatori, ma che non erano più coerenti con il nuovo corso di Paul & Shark. Con molto dispiacere e rispetto, non via e-mail, ma andandoli a trovare di persona, abbiamo spiegato loro le nostre nuove strategie. Ci siamo capiti e lasciati nel migliore dei modi. Lo stesso vale per le catene distributive: alcune sono state abbandonate perché non avevano più il brand mix che reputavamo in linea con il nostro marchio o non erano disposte a spostarci nelle aree considerate da noi più adatte. Anche in questo caso abbiamo preso strade diverse in maniera pacifica, con la promessa di rincontrarci in futuro, se e quando i tempi saranno maturi.
Quali sono stati i mercati europei maggiormente coinvolti in questa operazione di “bonifica”?
Sicuramente Germania e Inghilterra. In totale abbiamo terminato la collaborazione con un centinaio di multimarca e più della metà erano in Germania. Oggi nel Vecchio Continente, che genera il 50% del nostro giro d’affari, contiamo circa 400 clienti su un totale di circa 1.500 a livello internazionale. Per noi il wholesale riveste un’importanza cruciale. Crediamo sia la palestra migliore per misurare e mettere alla prova le strategie di un’azienda.
Ora a che punto siete di questo percorso di riposizionamento?
Al mio entourage dico che siamo a metà del fiume. In piena corrente. E non tocchiamo. Ma siamo convinti di stare andando nella giusta direzione per traghettare l’Europa dall’altra parte del guado. Naturalmente certe scelte sono state penalizzanti dal punto di vista del fatturato e dunque abbiamo cercato di bilanciare accelerando in altri mercati, come Middle East, Sud-Est asiatico, India, Africa, in modo da assicurare all’azienda la giusta dose di benzina per crescere. Guarda caso abbiamo in cantiere nuove aperture di negozi monomarca, che si aggiungeranno agli attuali 150: a breve apriremo un paio di store in Cina e sbarcheremo a Lisbona, Riyad, Luanda in
Alcune immagini del nuovo flagship store londinese, aperto da Paul & Shark lo scorso settembre in Regent street: uno spazio di 240 metri su due piani, con l'oltre 80% dei materiali utilizzati riciclati. Il marchio distribuisce le proprie collezioni per il 90% all'estero in una ottantina di Paesi attraverso 150 monobrand, di cui 15 a gestione diretta, circa 1.500 multimarca e mediante l'ecommerce, che genera il 7,5% del fatturato
Angola, Marassi in Egitto, oltre ad ampliare il negozio di New Dehli.
Quindi che prospettive di fatturato avete per il 2024?
Abbiamo chiuso il 2023 con circa 150 milioni di euro di ricavi, in aumento del 6-7% rispetto all’anno precedente. Nei primi quattro mesi di quest’anno l’incremento è stato intorno al 4-5%. Mi sento abbastanza tranquillo nell’affermare che verrà confermato il trend dell’anno scorso, ma preferisco non sbilanciarmi: come sappiamo, le condizioni geo-politiche non sono favorevoli e le turbolenze proseguono. Sono comunque ottimista: Middle East e Nord America stanno andando molto bene, in India abbiamo un business eccellente, seppur non enorme, e continuiamo a credere nell’Africa. Questo continente è un mio “pallino”. È un’area con un miliardo di persone, grandi risorse naturali, una classe media che si sta formando e che ha voglia di spendere. Stiamo espandendo la nostra presenza, oltre che in Sudafrica e nei Paesi affacciati sul Mediterraneo, in Angola, Congo, Costa D'Avorio, Nigeria. Tutte aree promettenti. Quanto all’Europa, credo ci vorranno ancora due-tre anni per completare l’opera di riqualificazione
che abbiamo iniziato e poi sono sicuro riprenderemo a crescere anche lì.
Negli ultimi anni Paul & Shark ha lavorato molto sul fronte dell’ecosostenibilità. I vostri tessuti sono per la maggior parte riciclati, vi siete impegnati nella riduzione del consumo di acqua ed elettricità. Ora su cosa vi state concentrando?
Quello legato alla sostenibilità è un percorso infinito. Ci sono tantissime azioni che si possono intraprendere, mattoncino su mattoncino, per migliorarsi sotto questo aspetto. Credo che il nodo più difficile da sciogliere sia ancora quello legato al trasporto, responsabile di una parte significativa della nostra carbon footprint. Non possiamo essere sostenibili senza una logistica più sostenibile. Noi per esempio stiamo utilizzando il treno per il trasporto dei tessuti tecnici, che prendiamo in Giappone e in Corea. Li portiamo a Shanghai e da lì viaggiano sulla Transiberiana. In circa due settimane arrivano ad Amburgo. È sicura-
Il brand ha "vestito" il locale, dalla mise en place alle sedute, dai cuscini di cotone alla bandiera di ingresso
mente un mezzo meno inquinante rispetto alle navi porta-container con motori Diesel.
Parliamo del futuro. Quello di Paul & Shark resterà un business di famiglia o siete interessati ad aprire il capitale?
Io non aprirò mai ai fondi. Sono consapevole che il mercato è dominato dai colossi e che con risorse esterne la crescita sarebbe più veloce ma i fondi, per loro natura, dopo un po’ rivendono e per guadagnare devono spingere sui fatturati, contenere i costi, magari tagliare risorse. E poi, me lo dice il mondo del wholesale, i clienti hanno ancora piacere nel lavorare con un’azienda di famiglia, che non impone budget e che se hai un problema ti viene incontro.
Insomma, non fa per voi… Non fa per me. Io non sono eterno. In azienda sono entrati recentemente i miei figli Alessandro e Francesca. In futuro saranno loro a decidere. Ma quello sarà un altro capitolo della storia.
ANCHE L'IMMAGINE È IMPORTANTE Da Pierce Brosnan al ristorante di Formentera, ecco la nuova Paul & Shark
La famiglia e il rapporto tra generazioni, il mare e i suoi valori come bene da promuovere e tutelare: anche nella comunicazione il brand dello squalo alza l'asticella e punta tutto sull'experience
C'è un filo rosso nella "saga" di Paul & Shark: un’eredità di valori e knowhow, ma anche, come dice Andrea Dini, una «promessa» del brand verso il suo pubblico, che va avanti da oltre mezzo secolo. Sottolineare questo "testimone" passato attraverso le quattro generazioni della famiglia è stata l'ispirazione per le campagne delle ultime stagioni, con testimonial come Mark Vanderloo e Mark Vanderloo Jr., oppure Pierce Brosnan e suo figlio Paris. «Un parallelismo con la famiglia Dini – spiega il ceo – che ha coinciso con la volontà di elevare l’immagine del marchio, ma anche di allargare il nostro bacino di consumatori con i più giovani». Alla domanda se tornerà ancora questa formula comunicativa (messa in pausa per la prossima stagione) Dini risponde che sì, crede molto in questo filone di padre-figlio, ma «è fondamentale trovare la coppia giusta». Nel frattempo prosegue invece con un altro capitolo (il terzo) il progetto di customizzazione di location turistiche. Dopo Sestri Levante e Cortina, lo squalo è appena approdato a Formentera, per “vestire” il ristorante Juvia per tutta la stagione estiva 2024. «Si tratta di un veicolo per comunicare con efficacia e velocità il nostro cambiamento», spiega l’a.d., sottolineando che anche questa volta si tratta di un’iniziativa legata a doppio filo con un progetto di sostenibilità, in collaborazione con Vellmarì, associazione locale che si occupa di ricerca e protezione della natura e dell'ecosistema marino: «Noi dobbiamo tutto al mare - conclude Dini - e quindi abbiamo contribuito a ripopolare la zona con 700 esemplari di posidonia, una pianta acquatica tipica dell'isola messa a repentaglio dall'ancoraggio delle barche».
Pad. M I sTand 43
Nel 2024 Fedeli Cashmere festeggia 90 anni di attività. Un anniversario che coincide con un buon momento per il marchio di abbigliamento di lusso basato a Monza. Dall’ingresso nel capitale di Prada e Zegna al successo negli Stati Uniti, l’imprenditore racconta la storia dell’azienda, giunta alla terza generazione. Tra aneddoti su come ha imparato a creare buoni rapporti con i clienti multimarca e un po' di nostalgia per i tempi in cui lavorava come venditore in un negozio a Monaco di Baviera
DI TOBIAS BAYERSe si vuole incontrare il capo azienda, bisogna prima attraversare l'intera fabbrica. Si passa davanti a rocche di filati, macchine per maglieria e tavoli da taglio. In una stanza è in corso un fitting. Una modella cammina su e giù davanti a un gruppo di persone. In fondo a questo labirinto si entra finalmente nel regno di Luigi Fedeli
Il suo ufficio non si trova sopra né accanto, ma letteralmente nel cuore della fabbrica, adiacente alla stazione ferroviaria di Monza, a Nord di Milano. Luigi Fedeli, nipote del fondatore di Fedeli Cashmere, ha dedicato tutta la sua vita all'attività di famiglia. Ha cominciato poco più che ventenne e oggi, che si avvicina ai 70 anni, è ancora coinvolto in ogni dettaglio. «Sono entrato in azienda quando avevo 21 anni. In un certo senso ero troppo giovane. Se potessi tornare indietro, farei qualcos’altro prima. Quando inizi a lavorare, la tua vita cambia rispetto alla dimensione dello studente, che è più spensierata. Come imprenditore invece hai tanti pensieri. Il lavoro ti coinvolge al 100%», racconta Fedeli, che ha seguito le orme professionali del nonno e del padre.
Il senso del dovere delle tre generazioni di famiglia è uno dei motivi per cui Fedeli Cashmere è riuscita a resistere nel difficile mercato della moda e nel 2024 festeggerà il suo 90esimo anniversario. Il nonno, che si chiamava a sua volta Luigi,
1. Un outfit di Fedeli per la Spring-Summer 2024. I costumi da bagno sono il best seller della stagione estiva 2. Un look FW24 incentrato sulla maglieria di cashmere, altro punto di forza del marchio
«Abbiamo uno showroom a New York dal 2019 e, nonostante il Covid, gli Usa sono diventati il nostro primo mercato. Nessun investimemto in pubblicità: il successo è grazie al prodotto»
iniziò a produrre cappelli nel 1934. Nel 1946, Fedeli Senior avviò il negozio di moda Red and Blue in via Montenapoleone a Milano, che rimase aperto fino al 2019. Quando l'era del cappello finì, Fedeli fu uno dei primi negli anni Sessanta in Italia a passare ai prodotti in cashmere.
Una decisione che ha assicurato il futuro dell'azienda. Il marchio si è affermato nel corso dei decenni. Ha negozi propri a Milano, Portofino e St. Tropez e conta tra i 400 e i 500 clienti multimarca in tutto il mondo. Nel 2023 ha raggiunto un fatturato di 27 milioni di euro. Per quest’anno prevede una crescita del 10%.
Fedeli Cashmere gode di un'ottima considerazione sul mercato per i suoi blazer di alta qualità, le maglie, le polo e le camicie in jersey. I costumi da bagno sono un importante pilastro a livello commerciale: rappresentano, infatti, circa il 10% di tutte le vendite primaverili. Il marchio si colloca nello stesso segmento di specialisti come Orlebar Brown, Vilebrequin e Frescobol Carioca.
Grazie a questa expertise di prodotto, i grandi marchi hanno tenuto sotto osservazione Fedeli, a partire da Prada e Zegna che dallo scorso anno detengono il 30% del capitale. «Da parte mia c’era la volontà di avere nuovi partner che potessero creare con noi interessanti sinergie e facessero da sprone per nuove sfide», spiega Luigi Fedeli. Un’area del mondo dove l’aiuto di Zegna potrà essere utile sono gli Stati
1. Luigi Fedeli è a capo dell'azienda di famiglia
2 4 5 Fedeli è stata fondata nel 1934 a Monza, inizialmente come realtà produttrice di cappelli, ma a partire dagli anni Sessanta è diventata un’eccellenza della maglieria made in Italy in filati di pregio. 3 Un total look del marchio per la FW24
Uniti. Fedeli ha aperto uno showroom a New York nel 2019. «In un momento difficilissimo. L’anno dopo è arrivato il Covid e abbiamo dovuto tenerlo chiuso per un anno», racconta l’imprenditore. Nonostante la pandemia, gli Usa sono diventati il primo mercato. Fedeli conta oggi 70 clienti multimarca, tra cui department store come Bergdorf Goodman e Neiman Marcus, ma anche negozi indipendenti, tra cui Mitchell. E tutto senza investimenti pubblicitari. «Abbiamo successo grazie al prodotto, che vende bene in negozio. Per questo i buyer ci comprano», è la spiegazione di Fedeli.
Creare rapporti con i clienti multimarca è stata una delle prime lezioni per Luigi Fedeli. Quando entrò in azienda, il padre lo indirizzò a Monaco di Baviera per imparare il tedesco, cosa che fece lavorando come venditore nel negozio di moda della famiglia di Fritz Unützer, all'epoca il primo cliente di Fedeli in Germania. «È stato anche il primo che mi ha pagato uno stipendio», confida l'imprenditore. Con il tempo, si era creato un rapporto affettivo. Unützer aveva quattro figli «e si può dire che io sia stato quasi il suo quinto». Uno di questi, Peter Unützer, si ricorda bene di Luigi Fedeli, per tutti "Gigi". Insieme andavano a sciare. Quando il tempo era bello, indossavano un doppiopetto in flanella e cravatta sulla pista. «Facevamo tanti scherzi», rivela Peter. Ma nella vita dell'imprenditore non c'era spazio solo per il lavoro? Certo, ma anche per un po’ di divertimento.
Quasi un secolo di savoir-faire e arte al servizio di calzature e pelletteria di alta gamma per il marchio italiano del lusso. E un nuovo servizio all’insegna della personalizzazione, a partire da questo mese di giugno
Testoni, brand italiano del lusso specializzato in calzature e pelletteria, festeggia 95 anni di storia e alta qualità, celebrando l’essenza artigianale del proprio heritage e lanciando una novità. Dal 14 giugno, infatti, nella boutique Testoni di Milano in Via Gesù 11 sarà disponibile il nuovo servizio made to order. Il cliente potrà confezionare la scarpa che preferisce - precisa Enzo Vaccari, Responsabile Prodotto, COO e rappresentante legale di Testoni Italia – realizzandola secondo i propri desideri: potrà scegliere il pellame della tomaia, spaziando tra innumerevoli varianti, tra cui coccodrillo e struzzo, selezionare la costruzione e i dettagli e applicare le proprie iniziali, così da avere una scarpa veramente unica. Un’esperienza dedicata, con il nostro personale pronto a soddisfare ogni richiesta, in un ambiente del negozio dedicato e riservato. Nato nel 1929 dal laboratorio di Amedeo Testoni – che impara l’arte del mestiere nelle più importanti botteghe di Bologna –, da quasi un secolo Testoni incarna i valori della maestria e del Made in Italy, divenendo sinonimo di design senza tempo. Modelli iconici che prendono forma dalle mani di abili artigiani, un’espressione di eleganza e raffinatezza che pone le sue radici all’interno della storia
della cultura italiana. La bellezza dell’arte italiana diventa infatti il fil rouge della nuova campagna “Timeless Elegance”: Carrara e le sue illustri sculture in marmo fanno da cornice ai modelli che hanno scandito la storia del brand, creando una perfetta sinergia tra il mondo dell’arte scultorea e quello dell’arte calzaturiera. «La costruzione Piuma Rapid rappresenta il fiore all’occhiello di Testoni - spiega Vaccari - ed è stata brevettata dal fondatore molti anni fa. Questa tecnica, che richiede quasi 200 passaggi manuali, permette di creare calzature leggerissime, che proteggono chi le indossa da caldo, freddo e umidità. È presente all’interno delle nostre collezioni sia nelle calzature formali che informali, tra cui i mocassini». Questo metodo garantisce comfort, leggerezza e qualità utilizzando le pelli più pregiate, da quella di vitello e capretto a pellame esotico come il coccodrillo. «L’assenza di cuciture interne - conclude Enzo Vaccari - garantisce un plantare liscio e impeccabile, mentre la scarpa si adatta al piede di chi la indossa, offrendo una flessibilità senza pari e la sensazione di camminare sul velluto. Proprio a testimoniare la leggerezza che la contraddistingue, la suola è personalizzata con l’incisione di una piuma.
Si chiude una stagione più complessa della SS23. Best seller Stone Island, Tagliatore, Moncler, Autry e, tra gli stili, lo sportivo, anche se c'è chi indica una leggera risalita del formale. Ma, al di là dei trend, la sfida è motivare il consumatore: l'overdose di prodotti e il proliferare delle svendite midseason generano confusione
DI ALESSANDRA BIGOTTA
Più lunga rispetto alla Fall-Winter, ma condizionata da fattori climatici anomali, la Spring-Summer 2024 si chiuderà di fatto a inizio luglio, con l'arrivo dei saldi. Si può tuttavia già avere il polso della situazione grazie alla testimonianza di 40 top retailer italiani, che hanno risposto come di consueto al nostro sondaggio sulle vendite stagionali, stavolta del menswear. Facendo un raffronto con i risultati di un anno fa, si nota che questa stagione ha stentato a ingranare la marcia: se, infatti, alla domanda sull'andamento del sell out l'anno scorso i retailer avevano risposto «in crescita sulla
COME SONO ANDATE LE VENDITE UOMO DELLA SPRING-SUMMER 2024?
SS22» nel 30% dei casi (contro il 46% che indicava una stabilità e il 24% un calo), stavolta si assiste a una parità (42%) tra chi denuncia una riduzione del business e chi lo ha mantenuto sugli stessi livelli dell'analoga stagione 2023, mentre solo il 16% ha registrato un aumento. Ai negozianti abbiamo anche chiesto come prevedono di chiudere la stagione e ancora una volta gli ottimisti sono stati una minoranza (il 13%), prevaricati dal 27% di pessimisti e da un 60% che punta a restare in linea con i risultati attuali. Ma il clima più instabile del solito, soprattutto in certe zone, quanto ha influito sul business, nel male ma forse anche nel bene? «La stagione di fatto deve ancora partirerisponde Gino Cuccuini di Cuccuini -. Però le condizioni meteo particolari hanno incentivato il sell out di capi mid-season, come la giubbotteria». Per il 36% del panel il meteo avverso è servito a svuotare parzialmente i magazzini ancora ben riforniti dell'invernale. Secondo Beppe Angiolini, titolare di Sugar ad Arezzo, non è comunque il caso di fossilizzarsi troppo sul discorso clima: «Penso che chi segue la moda non stia a guardare se c'è il sole o piove - afferma
-. Per questo faccio anche fatica a dire cosa sia andato di più o di meno. Ho venduto bene giacche formali ma anche sportive, tante camicie, il denim, le sneaker e persino qualche abito in più, sempre considerando che i cicli di cambiamento dell'uomo sono più lenti di quelli della donna». Una tendenza crescente e trasversale «è quella della contaminazione, mischiando magari marchi classici del made in Italy con il jeanswear e qualche tocco fashion. Più di tutto, noto che è cambiato l'atteggiamento
del consumatore: in ogni fascia di età c'è una maggiore attenzione alla qualità, a oggetti meno legati all'impulso del momento e all'occasione effimera. Non si spende di meno, ma con più oculatezza e la firma funziona se c'è anche un contenuto». In sintesi, come si è già evidenziato nelle stagioni precedenti, non è più così prevedibile che i clienti accettino senza battere ciglio aumenti di prezzo da parte delle griffe nell'ordine del 20%-30%. Il loro scontrino medio resta stabile (dai 500 ai 1.000 euro nella stragrande maggioranza dei casi), ma non è detto che acquistino di più a livello quantitativo. Qualcosa però sta cambiando: «Noto che i brand prestano più attenzione ai listini, anche con ribassi importanti - osserva Cuccuini -. Certo, questo discorso non riguarda il lusso estremo, ma per chi è altospendente, o di più, il prezzo non è un deterrente». Fermo restando che ci si trova di fronte a un mercato variegato, instabile e a tratti indecifrabile, abbiamo cercato con gli intervistati di stilare una graduatoria sulle tendenze vincenti del momento: in pole position troviamo lo stile sportivo e il contemporary, che rubano lo scettro al quiet
PAOLO MANTOVANI
Titolare dei negozi Mantovani in Toscana
Complessa è l'aggettivo più ricorrente per descrivere questa stagione: lei che sensazioni ha?
Noi, per quanto ci riguarda, ci impegniamo ad avere bel negozio, un bel prodotto, personale perfetto e strategie di comunicazione mirate. Siamo però anche consapevoli che i problemi attuali non stanno in un anello della catena, ma in un intero sistema.
Cosa intende dire?
Che non si può puntare l'indice solo sugli outlet o sullo stesso e-commerce. Ci troviamo di fronte a un mercato che ha bisogno di depurarsi nella sua interezza e di riscrivere le proprie regole.
In che modo?
Ci potrebbero essere tante risposte, ma quella che mi viene in mente di primo acchito è che ci sono in giro troppi prodotti e che il cliente è tentato dalle svendite a tutti i livelli, anche nell'alto di gamma. Bisogna difendere il settore in cui lavoriamo.
Dopo la pandemia in Italia è esploso il turismo e la Toscana è una delle mete più ambite: un vantaggio per lei, che opera in questa regione...
Certo, ma non pensiamo ad acquisti sconsiderati. Un museo come gli Uffizi si trova solo a Firenze, ma se si parla di un prodotto moda il discorso è diverso. Occorre dare un valore in più, un'esperienza d'acquisto unica e speciale.
luxury, in terza posizione. In questo filone si inseriscono anche le risposte alla domanda sulle categorie merceologiche best seller: nonostante le temperature penalizzanti, al primo posto troviamo le T-shirt e al secondo le calzature sporty, in particolare le sneaker (da notare a questo proposito che, ancora una volta, il brand best seller tra gli accessori è Autry, il marchio recentemente acquisito da Style Capital di Roberta Benaglia, protagonista di un'escalation in soli due anni, da 30 milioni di ricavi nel 2021 ai 110 milioni del 2023). Al terzo e al quarto giacche e pantaloni sportivi, al quinto la maglieria e solo sesti gli abiti, anche se qualche negoziante segnala una piccola ripresa della cerimonia. In declino, invece, i completi formali per il lavoro.
Al di là di tutto questo, come dice Paolo Mantovani di Mantovani nel box in queste pagine, la sensazione è che ci sia una «overproduction», troppe proposte in circolazione che non aiutano il consumatore ad avere chiarezza nelle sue scelte: «Vedo tanta
QUAL È STATO IL MARCHIO BEST SELLER SS24 DI MENSWEAR?
1 STONE ISLAND
2 TAGLIATORE
3 MONCLER
1 STONE ISLAND
2 MONCLER E IL BRAND CHE HA VENDUTO MEGLIO ONLINE SEMPRE PER L’UOMO?
3 AUTRY
fame di fatturato - afferma -. Mi piacerebbe invece trovare più chiarezza e focalizzazione. E non dimentichiamo che l'uomo, al pari della donna, ha bisogno di novità». Quindi vanno bene anche capsule e, soprattutto nel caso della moda femminile, cruise e resort? «Di base possono essere utili - risponde il retailer - perché tengono alta l'attenzione sul marchio. In pratica, però, non sono convinto che facciano vendere di più. Diciamo che si tratta di operazioni da fare perché viviamo immersi in un mondo dominato dalla comunicazione, dove lo stesso e-commerce ci ha "insegnato" a comprare con modalità e tempistiche diverse da quelle a cui eravamo abituati». Una delle domande del nostro sondaggio è un'appendice dell'articolo di approfondimento pubblicato in questo numero, che parte da un interrogativo che può suonare provocatorio: «La Spring-Summer sempre più lunga può diventare la nuova Fall-Winter a livello di fatturato?»: Marco Inzerillo di Michele Inzerillo a Palermo
1 AUTRY
2 GOLDEN GOOSE ORCIANI
3 DIOR, HOGAN
Autryillustra già il suo punto di vista nell'articolo dedicato, dicendo in sostanza che bisognerebbe scardinare il concetto tradizionale di stagionalità, con un'uscita unica scandita da due capsule, una invernale e una estiva e, in generale, collezioni più semplici e veloci. Nel linguaggio delle statistiche, i "no" sull'argomento prevalgono, seppure sul filo di lana (52% contro 48% del panel), sui "sì", anche perché molto dipende dalla collocazione geografica dei singoli punti vendita. «In teoria ne beneficiamo - spiega Didi Corbetta di Valtellini in Franciacortama in pratica, finché esisteranno le canoniche date di inizio saldi (fisici, perché online queste date sono saltate completamente), le stagioni non avranno senso e non si potranno sfruttare del tutto». Secondo Corbetta «è assurdo pensare come la nostra stessa cate-
GIULIO FELLONI
Titolare di Felloni a Ferrara e presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio
Come può un dettagliante indipendente fare fronte alla concorrenza dell'online e a un consumatore smaliziato?
Puntando sull'emozionalità, dalle vetrine fatte a regola d'arte, alla consulenza del personale in negozio, fino agli eventi in store. Quanto al prodotto, penso a qualcosa di portabile ma di ricerca, che non si ha già nell'armadio. Solo così si può contrastare l'acquisto fatto con un clic.
Quanto conta la collaborazione con i brand?
E' tutto. Non esiste che le aziende fornitrici ci facciano concorrenza e invece accade. I marchi devono incentivare i consumatori a entrare nei nostri negozi anche promuovendoci nell'online,, che è il terreno più fertile per svendite e sconti di tutti i tipi. Recentemente Federazione Moda ItaliaConfcommercio ha lanciato un allarme: in quattro anni sono stati chiusi 17mila negozi nel Paese. Cosa chiedete al governo?
La riduzione dell'Iva su abbigliamento e gli accessori, incentivi analoghi a quelli applicati all'arredo, l'applicazione della cedolare secca per gli affitti degli immobili, un credito d'imposta sulle locazioni. E un allineamento delle regole tra e-commerce e negozi fisici, nettamente sbilanciate a favore dei primi.
goria abbia permesso il ribaltamento delle leggi di mercato più basilari, come quella della domanda e dell'offerta. Noi ovviamente non ci possiamo sognare di mettere in saldo già nella prima settimana di luglio merceologie come T-shirt, short e costumi da bagno». «Agosto sarebbe il mese giusto per le vendite ribassate», aggiunge Francesco Guarini di Guarini a Pescara. La parola "saldi" scatena come sempre tante reazioni: sul banco degli imputati ci sono le piattaforme online, molti brand e anche realtà multimarca. Un mix esplosivo che, a detta di Marco Solieri di Sir Andrew's a Carpi, «è una vera calamità naturale». «Non si fa che parlare di promozioni e questo non fa bene ai brand, oltre ad abituare male il cliente», osserva Mantovani e, in effetti, la nostra Buyers' Survey qualche campanello
d'allarme lo suona. Alla domanda «Cosa chiede la clientela maschile?» dal punto di vista del servizio, si impongono la consulenza personalizzata, le riparazioni e i servizi su misura e l'assortimento taglie, da non sottovalutare in quanto non sempre chi ha una fisicità importante riesce a trovare da parte dei brand la misura giusta. A quel punto non c'è marchio o trend che tenga, resta solo una grande frustrazione per il cliente e, per il dettagliante, una mancata vendita. Ma spicca quel non trascurabile 37% del campione che ammette come la clientela sia sensibile a promozioni e svendite, anche in stagione, che riesce come si diceva a trovare in grande quantità, online e sempre più frequentemente anche offline (in questi mesi si sono visti ribassi nel canale fisico anche del 70%). Seguono in classifica gli eventi in store e, forse inaspettatamente, i servizi omnichannel, fanalino di coda dopo l'esplosione nel periodo pandemico e post-pandemico. Inutile ribadire che il tema prezzi è molto sentito da parte dei consumatori, a caccia di un corretto value for money. Non a caso, quando si chiede ai retailer che tipo di marchi sono più ricercati in store, a battere le griffe top di gamma sono altre
Le promozioni diffuse nuocciono ai brand e abituano
male il cliente finale
tipologie di brand, da quelli contemporary ai «non griffati ma di alta qualità», fino ai paladini del made in Italy. A questo punto viene spontaneo domandarsi quale sia in questo momento lo stato d'animo dei dettaglianti indipendenti: ci si aspetterebbe un diffuso pessimismo, non solo per le difficoltà riscontrate sul mercato interno, ma anche a livello internazionale. «Chi come noi opera nella multicanalità - osserva un intervistato - deve fare i conti con le incertezze legate a guerre, crisi asiatica, Cina non più trainante come prima e America al rallenty, senza contare che Russia e Paesi limitrofi sono ancora fermi». Ma i multimarca resistono: è vero che di ottimisti "senza se e senza ma", su 40 realtà interpellate, non ce ne sono e che sui budget della Spring-Summer 2025 al maschile solo il 12% indica una crescita. Ma il
31% si dichiara moderatamente ottimista, il 58% è attendista e solo l'11% vede nero. In tanti sono alle prese con nuovi progetti in cantiere, dal restyling dei punti vendita fisici alla definizione di una shopping experience omnicanale più coinvolgente, fino alla crescita delle proprie private label, come nel caso del brand Hindustrie dell'associazione di retailer Histores o del marchio di Clan Upstairs a Milano. «Sì, sono ottimista, soprattutto lato retail - dice Giuseppe Nugnes di Nugnes 1920 a Trani -. Raccolgo i frutti di un lavoro di anni da parte del mio staff nella fidelizzazione del cliente, che oggi più che mai desidera vivere l'esperienza della vendita in prima persona, nello spazio reale della boutique». «Ci si siede sulla riva del fiume e si aspetta - conclude Gino Cuccuini -. I brand si stanno riorganizzando e ho grandi aspettative, per esempio, su Valentino con la direzione artistica di Alessandro Michele. Anche Gucci nel nuovo corso con Sabato De Sarno non sta tradendo le attese. Non dimentichiamo che nel secolo scorso, in tempo di guerra, la moda c'era e continuerà a esserci anche adesso. Bisogna solo avere pazienza».
* Risposte multiple
10 Corso Como Milano
Agnetti Macerata
Bernardelli Mantova
Biffi Boutiques Milano, Bergamo
Bonvicini Fashion Gallery & Stores Montecatini Terme (Pt)
Boutique Stella Asiago (Vi)
Clan Upstairs Milano
Colognese 1882 Montebelluna (Tv)
Cuccuini Livorno, Forte dei Marmi (Lu), Punta Ala (Gr), Porto Cervo (Ss) e Madrid
Deflorio dal 1948 Noicattaro (Ba)
Divo Boutique Santa Maria a Monte (Pi) e Pontedera (Pi)
Edward Uomo Trani (Bt)
Felloni Uomo Ferrara
Filippo Marchesani Cupello (Ch)
Galiano Napoli e Sorrento (Na)
Giglio Palermo
Giordano Boutique Pompei (Na)
Guarini Pescara
Guarino Boutique Roma e Porto Cervo (Ss)
L’Incontro Modena
Leam Roma
Mantovani San Giovanni Valdarno (Ar), Castiglione della Pescaia (Gr), Greve in Chianti (Fi)
Marcos Mondovì (Cn)
Michele Inzerillo Palermo
Modamica Vimodrone (Mi)
Modes Milano, Portofino (Ge), Forte dei Marmi (Lu), Porto Cervo (Ss), Forte Village-Santa Margherita di Pula (Ca), Cagliari, Trapani, Favignana (Tp), St. Moritz, Gstaad, Parigi
Moras Intimiano (Co)
Noha Brindisi
Nugnes 1920 Trani (Bt)
Paolo Pessina Monza
Papillon Corigliano Calabro (Cs)
Peter Ci Como
Porrini Moda e Casa Besozzo (Va)
Raffaele Panarelli L’Aquila
Sir Andrew’s Carpi (Mo)
Sugar Arezzo
Tiziana Fausti Bergamo
Tufano Moda Pompei (Na) e Scafati (Sa)
Valtellini Rovato in Franciacorta (Bs)
Vinicio Legnano (Mi)
La giacca che si destruttura, l'outerwear dove la sostenibilità è l'altra faccia della funzionalità, la maglieria che si affina e, non ultima, la camicia, più colorata e versatile che mai. E ancora, i pantaloni tra echi vintage e ritocchi alle vestibilità, le sneaker da portare H24 e gli orologi, sempre più terra di conquista per i brand di moda e lusso in vena di brand extension. Protagonista di queste pagine è l'uomo della Spring-Summer 2025, attraverso una carrellata fotografica a tutto tondo e le testimonianze di imprenditori e direttori creativi.
DI ALESSANDRA BIGOTTA1. TOMBOLINI
2. PAOLONI
3. L.B.M.1911
4. MANZONI 24
5. JOHN RICHMOND
6. LARDINI
Anche per la SS25 è la collezione Zero Gravity uno dei cavalli di battaglia di Tombolini. «Da dieci anni è portavoce dell’idea di leggerezza
SILVIO CALVIGIONI
TOMBOLINI
SOCIO E DIRETTORE MARKETING, COMUNICAZIONE E COMMERCIALE DI TOMBOLINI
quest’ambito sono protagonisti capispalla che utilizzano una minore quantità di acqua e di CO2, sia nella produzione che nel lavaggio, che può essere in lavatrice a 30 gradi». Un abito Zero Gravity va in vendita al pubblico tra i 1.000 e i 1.500 euro e una giacca tra i 750 e i 1.000 euro. L’azienda sta completando il rinnovamento della sede di Urbisaglia (Mc): 10mila metri quadri studiati in ottica green.
PINO LERARIO DIRETTORE CREATIVO DI TAGLIATORE
Nonostante guerre, inflazione e concorrenza, «il 2023 è stato per Tagliatore l’anno migliore - spiega il direttore creativo Pino Lerario - all’insegna di una sana crescita e con una chiusura a 40 milioni di euro di ricavi. Per l’anno in corso, in cui la Spring-Summer è stata una stagione positiva, ci aspettiamo di confermare questi numeri». La collezione primavera-estate 2025 (nella foto a destra) «stringe l’obiettivo sui nuovi volumi dei capispalla - sottolinea Lerario -. Pur mantenendo il nostro tratto distintivo, ossia la sciancratura del punto vita, abbiamo lavorato su un fit rilassato e disinvolto. Parlando in particolare di abiti, le giacche si fanno più lunghe, in armonia con pantaloni ampi, talvolta con pince, per assecondare anche i mercati internazionali: oltre all’Italia, le aree di riferimento sono Giappone, Europa, Canada e Turchia. Abbiamo intenzione di consolidarci ulteriormente all’estero». Parlando di prezzi, il direttore creativo precisa: «I listini variano sempre in base ai materiali scelti. Posso dire che ci sono variazioni in base ai tessuti scelti. Comunque per i prezzi sell out il nostro range va dai 240 euro della maglieria, fino ai 1.200 euro degli abiti».
Classico e high tech, maschile e femminile, discrezione e audacia: Plan C, il marchio che Carolina Castiglioni ha pensato per la donna, ora ha anche una controparte uomo, al debutto con un’installazione a Pitti, curata da Duccio Maria Gambi. Si parte con dieci look (più accessori) in pieno stile Plan C, pensati per durare, che abbattono i confini tra sartorialità e utility. «Questa è l’evoluzione naturale di Plan C - dice Castiglioni -. Un brand impegnato a proporre collezioni individuali, in nome di un’idea moderna di tailoring». Fra i tessuti spiccano cotoni (popeline, testurizzati e grezzi) e lane leggere, ma anche materiali tecnici, come una stoffa spalmata resistente all’acqua, con effetto liquido. A destra, un’anteprima dell’uomo Plan C e Carolina Castiglioni, che indossa a sua volta un modello della nuova collezione.
DIRETTRICE CREATIVA DI PLAN C
Multiforme, multioccasione, sempre
l’ OUTERWEAR diventa più versatile per affrontare situazioni e climi imprevedibili
«Con la nuova collezione riannodiamo i fili della nostra
La SS25 segna un ritorno alle origini per People of Shibuya. «Siamo partiti da una revisione del logo, con il rispettivo idioma e il nuovo colore avio, rappresentativo del brandracconta Alberto Premi, direttore creativo del marchio -. La labeling è stata completamente rinnovata e applicata in modo uniforme su tutti i modelli. In questo modo il capo, una volta aperto, ha una nuova storia da raccontare. È da qui che partiamo, con l’obiettivo di presentare con la prossima FallWinter numerosi (e ambiziosi) progetti, per ora top secret». Per la nuova stagione si è scelto di mantenere il 25% di modelli carry over, «best seller rivisitati nella labeling, come accennavo,
e reinterpretati nei tessuti e nei dettagli».
A fare da bussola i colori: blu navy per le novità, gesso per la traveler, avio per le proposte “ibride”, verde militare e sabbia per i capi più estivi. «Per i capispalla, in particolare, restiamo legati al concetto di urban travel - spiega Premi -. Un concentrato di dinamismo, massimo comfort e funzionalità multitasking». Nella SS24 la crescita dei ricavi è stata di circa il 30%. Quanto ai prezzi sell in, vanno da 70-80 euro a circa 150 euro. Il direttore creativo guarda al futuro con ottimismo: «Vogliamo mantenere una crescita coerente rispetto al passato, di circa il 10-15%, sviluppando diversi mercati esteri tra cui l’area Dach, Scandinavia, Francia, Olanda e Regno Unito». L’Italia resta il primo mercato di riferimento, dove viene realizzato un 85-88% del business.
FABIO GATTO
DIRETTORE CREATIVO DI BALLANTYNE
La collezione Ballantyne si fa sempre più completa. «Il maggiore punto di forza della linea uomo è che si sta completando con tutte le categorie di prodotto, come la donna - spiega il direttore creativo Fabio Gatto -. Proseguendo il concetto di club, iniziato con la SS24, abbiamo arricchito la parte leisurewear e introdotto il beachwear». La PE 2024 ha dato soddisfazioni in Italia (+20%) e in Giappone è stata avviata un’intesa con un nuovo partner.
ANDREA LORENZONI
CEO DEL MAGLIFICIO LILIANA (LORENZONI)
«Per la nuova stagione di Lorenzoni ci affidiamo a effetti opachi e increspati che richiamano materie argillose, filati in seta nelle nuance del rosa antico, miste di cotone e lino dalle superfici scompigliate, fatte anche di fiammati e trame fluide e fresche, a volte traforate, ardite ma raffinate»: parole di Andrea Lorenzoni, ceo del Maglificio Liliana che produce il brand, i cui prezzi sell in per quanto riguarda in specifico la maglieria oscillano tra i 40 e i 70 euro. «Il mercato - sottolinea l’imprenditore - cerca più che mai sicurezza e valori reali: noi glieli garantiamo».
NO-NAME.FR NONAMESHOES
1. XACUS
2. ALTEA
3. TINTORIA MATTEI
4. ETON
5. ALESSANDRO GHERARDI
PAOLO XOCCATO
CEO DI XACUS
«La camicia, un classico che sa ancora riservare sorprese»
«L’elemento chiave delle nuove camicie Xacus? Il giusto mix tra ricerca, innovazione sostenibile e tradizione», dice Paolo Xoccato, amministratore delegato di Xacus. «Il consumatore - osserva - è ogni giorno sempre più esigente, quindi il prodotto deve essere performante, confortevole e contemporaneo. In quest’ottica stiamo affinando tutti i plus che rendono un capo unico nel suo genere: qualità, vestibilità, traspirabilità e leggerezza, senza tralasciare il valore della costruzione perfetta di una camicia e, appunto, la sostenibilità». Massima anche l’attenzione al rapporto qualitàprezzo: «Il nostro - dice Xoccato - è un prodotto trasversale. Partiamo da una media di circa 50-65
euro sell in, per arrivare al top di gamma intorno agli 80100 euro, sempre sell in». Il prodotto di punta è anche per la SS25 Active, sinonimo di un easywear ad alte prestazioni, che rafforza la sua identità di sottogiacca, «all’insegna di un look dal percepito classico e dal savoir-faire rivisitato in chiave contemporanea, con nuove disegnature che esprimono tridimensionalità, colli riletti e dettagli sottolineati». Xoccato segnala poi la camicia polo manica corta, «abbinata a un nuovo tessuto effetto spugna, proposto in tantissime varianti colore». «Vogliamo continuare a crescere, coerenti con il percorso di innovazione e qualità che guida le nostre scelte - conclude -. Il tutto con un’ottica estremamente attenta a una sostenibilità misurata, documentata e certificata».
AR AND J.
MARCO LANOWY
MANAGING DIRECTOR DI ALBERTO
ROY ROGER’SROCCO TERRA
L’intelligenza applicata al tessuto: un esempio sono i modelli del brand Alberto per la SS25, tra cui i chino tinti con i pigmenti in lino/twill ultralight e i Super Stretch Satin Chinos in cotone/Tencel. «E che dire di Revolutional, elastico, idrorepellente, traspirabile e di rapida asciugatura, e di Coolmax Superlight, che regola anche la temperatura corporea?», dice Marco Lanowy. Interessanti i prezzi retail della collezione, sempre più sostenibile e tecnologicamente avanzata: da 119 a 159 euro.
DIRETTORE CREATIVO DI CAMOUFLAGE AR AND J I clienti cercano performance al top
Il denim che sorprende somiglia alla couture
«Qualità, affidabilità, sostenibilità e responsabilità: su queste leve costruiamo una relazione solida con i clienti, ai quali garantiamo un mark up del 2,8». Così Rocco Terra, alla guida con il fratello Gianluca di Camouflage Ar and J., marchio made in Italy che per la SS25 punta su artigianalità e sartorialità. Grande rilievo viene dato al denim, con diversi lavaggi e tele. «La versione più preziosa - spiega Rocco Terra - è una limited edition in denim e seta, con bottoni gioiello in vera madreperla».
NO-NAME
ALEXANDER SMITH
ANDREA DE PAOLI
BRAND MANAGER DI ALEXANDER SMITH
Scarpa sportiva o mocassino? Sempre più spesso l’uomo sceglie la prima
Le sneaker sono ormai per il consumatore una valida alternativa alla scarpa classica fondo cuoio: un trend che sta favorendo realtà come Alexander Smith, i cui ricavi del 2023 sono saliti del 60%, portandosi a 10 milioni di euro e proiettandosi verso un +30% nel 2024. «Fra i modelli trainanti della SS25 c’è Liverpool, una sneaker sportiva ma senza compromettere lo stile o la ricercatezza dei dettagli - dice il brand manager Andrea De Paoli - mentre Soho lo definirei elegante e versatile, per la quotidianità. Abbiamo inoltre destrutturato Bond, un punto fermo delle nostre collezioni maschili, lavorando sulla leggerezza e morbidezza dei materiali per elevare la performance». «Il nostro impegno - conclude - è proporre sneaker di alta qualità a un prezzo accessibile al dettaglio, da 190 a 210 euro».
VALSPORT
SIRO TONIOLO
PRESIDENTE DI REWIND (VALSPORT)
Per la generazione Z pianta più larga e nuovi materiali di riciclo
Tournament, Super, Olimpia. Ma anche Magic, Start, Hype, Big e la nuova Davis, ispirata al tennis. Sono solo alcuni dei modelli chiave di Valsport, marchio che ha trovato una sua collocazione del competitivo mondo delle sneaker «investendo su un’italianità al 100%, dai materiali utilizzati - afferma Siro Toniolo, presidente di Rewind che produce il brand - all’artigianalità garantita da una rete di laboratori». Competitivo il rapporto qualità-prezzo (da 90 a 130 euro sell in) e approfondito lo studio sulla calzata. «La Gen Z vuole, per esempio, una pianta più larga», spiega Toniolo, che proprio pensando ai giovani lancia con la SS25 una serie di modelli fatti interamente con materiali di riciclo.
«Il successo non arriva in automatico. Occorrono pianificazione, organizzazione, preparazione, studio dei mercati e dei competitor»: Philipp Plein, visionario con i piedi per terra, ha applicato questa regola anche agli orologi, scegliendo il gruppo americano Timex come partner e arrivando in poco tempo a una distribuzione in 45 Paesi, «un ottimo traguardo, dovendo competere con marchi consolidati nel settore». Alla linea Philipp Plein
Watches si è aggiunta nel 2023 Philipp Plein Swiss Made, con l’obiettivo di interpretare “alla Philipp Plein” gli orologi di lusso, con prezzi da 2mila a 50mila euro. In Italia Philipp Plein Swiss Made si trova esclusivamente nei monomarca della griffe.
Venduto a 650 euro e distribuito nel nostro Paese da Timeway Italy, l’orologio Plein
Chrono Royal 46 mm presenta una cassa dal design geometrico personalizzata dai simboli della maison, tra cui il motivo micro-esagonale sul quadrante e le viti a forma di esagono
Questo il DNA del brand di proprietà di Enzo Fusco: design pulito, senza tempo, versatile per outfit che raccontano uno stile di vita unico che punta alla sostanza
Come suggerisce l’acronimo, Ten c (The Emperor’s New Clothes) –brand del Gruppo FGF di proprietà di Enzo Fusco – si ispira al tradizionale racconto popolare danese che stigmatizza la vanità e la superbia. La fiaba originale di Hans Christian Andersen da cui prende vita il marchio invita ad andare oltre le apparenze, superando l’omologazione, a concentrarsi sull’essenza delle cose e a esprimere la propria individualità anche attraverso lo stile. Gli abiti firmati Ten c parlano da soli e, a differenza di quelli dell’Imperatore, non necessitano dell’approvazione di nessuno, grazie anche alla superlativa capacità di guardare oltre le mode e le tendenze. Questo il DNA di Ten c: un design pulito, senza tempo, versatile per outfit che vanno al di là del qui e ora, attraversando gli anni e raccontando uno stile di vita unico che punta alla sostanza. La produzione è Made in Italy, ma le silhouette subiscono l’influenza dall’artigianato giapponese. Anche gran parte dei tessuti impiegati provengono dal Paese del Sol Levante. Tessuto icona del brand è l’OJJ (Original Japanese Jersey), la cui caratteristica tintura in capo si trasforma con il tempo, diventando sempre più confortevole a mano a mano che, quasi impercettibilmente, si modella sulla figura di chi lo indossa. Per questo i capi Ten c sono paragonabili al paio di jeans di cui non si può più fare a meno, amato e utilizzato da sempre. Artigianalità, massima qualità come sinonimo di durabilità, etica e sostenibilità in ottica zero waste costituiscono l’universo valoriale in cui si muove Ten c, perfettamente incarnato dalle proposte per la SS 2025, che si distingue per la capacità di fondere l’ispirazione militare con un’eleganza contemporanea caratterizzata da dettagli
curati e artigianali.Alessandro Pungetti, designer del marchio, per la nuova collezione si ispira principalmente alle divise e alla loro funzionalità, approfondendo la ricerca svolta con la FW 24/25. Il mondo militare e le uniformi, che si distinguono per resistenza e durabilità, sono il punto di partenza per una collezione che esplora mondi alternativi, unendo elementi pratici e funzionali a un’estetica sofisticata e urbana. Prosegue la ricerca del brand attraverso l’introduzione di nuovi materiali all’avanguardia, come il lino resinato water repellent tono su tono e il gabardine di nylon tinto capo con effetto metallico, che conferiscono ai capi tecnicità senza comprometterne lo stile. I nuovi tessuti si affiancano ai classici di
Ten c, come l’OJJ, il nylon tactel e il cotone/ nylon tre strati termosaldato.La cura dei dettagli resta una costante nello stile Ten c, così come l’approfondimento di trattamenti speciali, quali il natural wax e il natural old dyed applicato all’OJJ, che conferiscono a ogni capo un carattere unico, oltre al caratteristico aspetto used. Jeans jacket, fly jacket, woodland jacket, anorak e dress jacket: questi i cinque pezzi della collezione che esprimono al meglio la versatilità dei trattamenti citati e lo spirito del brand. Si aggiunge lo shadow dyed spray, trattamento che assicura ulteriori sfumature di colore e conferisce personalità grazie all’effetto trompe-l’oeil impiegato trasversalmente su differenti materiali, sinonimo di unicità. La palette colori, coerente con l’essenza del brand, contempla tonalità dal marrone cioccolata al khaki lavoro, dal blu marino al grigio asfalto. Non mancano tocchi neutri che spaziano fino al bianco ghiaccio e tagli di colore acquamarina/azzurro ottenuti tramite tinture minerali. I primi drop della collezione FW 24/25, sono previsti dall’inizio di luglio in 200 negozi multibrand selezionati nel mondo, il 90% dei quali si trovano oltre confine. Tra le novità di stagione: oltre i capispalla e gli imbottiti, il nuovo modello di scarponcino tecnico da utilizzare anche in città.
Inverni troppi caldi e scanditi da massicci sconti - vedi Black Friday dilatato a un mesefanno rivalutare la stagione estiva, in passato la meno importante in termini di margini, ma da qualche tempo quella che sembra offrire più garanzie, grazie a vendite full price più lunghe e a un’offerta più ampia (t-shirt, ma anche pantaloni, maglieria e outerwear in tessuti a-stagionali). Tuttavia, ha senso trascurare la stagione invernale, che fa lievitare il singolo scontrino? Tra l’altro, anche la Spring-Summer non è nella norma, visti gli sbalzi di temperatura del 2024. Con esponenti di marchi, negozi, showroom e fiere cerchiamo di capire se è possibile trovare una quadra
DI ALESSANDRA BIGOTTA, ANDREA BIGOZZI, ELISABETTA FABBRI
OLIVIA LABELLA Herno«Siamo consapevoli che dal punto di vista dei clienti wholesale la stagione invernale ha molte insidie legate a fattori esterni (trend, mercati, clima). Per questo siamo andati loro incontro offrendo diverse alternative al tradizionale capospalla, puntando su più capi trans-stagionali come il trench, che è parte del dna del brand. Eppure, i retailer continuano a chiederci principalmente capispalla, convinti che se il cliente finale deve destinare un budget importante a un unico capo, sceglie quello che ritiene di indossare di più. Al momento, il capospalla è ancora percepito come una necessità lungo tutta la stagione. Ci vorrà un po’ di tempo, ma lo scenario cambierà: il consumatore indosserà talmente più spesso capi come trench, cappottini double e short jacket, che desidererà rinnovarli più volte nel suo guardaroba. Parallelamente a questo cambiamento esogeno, ce n’è anche uno endogeno: da varie stagioni Herno sta potenziando commercialmente la stagione calda. In questo momento il cliente multimarca ha più possibilità di fare business con noi durante la Spring-Summer, perché gli viene offerta una gamma di prodotti, maglieria e pantaloni in primis, molto vendibili prima dell’inizio dei saldi. Storicamente l’incidenza dell’invernale sui nostri ricavi è sempre stata del 70%, ora è scesa intorno al 65%. Non penso che le due stagioni arriveranno a equipararsi, perché il marchio resta fedele al suo dna di specialista del capospalla, che si usa più d’inverno. A mio parere, la ripartizione delle vendite tra stagioni potrà arrivare a un 60%-40%, anche perché l’espansione nelle nuove categorie avviene anche sull’inverno. Se guardiamo i dati delle ultime campagne vendite, le nuove categorie di prodotto sono quelle con percentuali di crescita maggiori. Stiamo mettendo le basi per essere un brand più flessibile».
GIOVANNI BIANCHI
Lubiam
«La Primavera-Estate per la nostra azienda è sempre stata molto importante, ma ha acquisito ancora più peso negli ultimi anni. Il cambiamento climatico incide, ma nel nostro caso lo sbilanciamento tra PE e AI è più legato a un tema di occasione d’uso. La PE include, infatti, due collezioni dedicate alle cerimonie e agli eventi, Luigi Bianchi Cerimonia e Luigi Bianchi Flirt. L’aumento della richiesta di capi più formali - soprattutto abiti - nella bella stagione incide anche nelle collezioni Luigi Bianchi Sartoria e LBM1911. Di fatto la PE è arrivata a rappresentare il 60% del fatturato, mentre anni fa il gap con l’AI era più contenuto. La gestione di questa incidenza della PE è sfidante. Noi cerchiamo di rispondere anticipando l’attacco di stagione, per guadagnare tempo da dedicare alle attività produttive e aumentare la capacità relativa alla PE. Fortunatamente in collezione abbiamo un ottimo mix di proposte e, anche in inverno, presentiamo alternative formali che vanno a compensare, almeno in parte, una minore domanda di abiti. La FallWinter resta comunque un momento fondamentale, che presidiamo puntando - ad esempio - sul cappotto. Secondo noi è un capo iconico che, insieme all’abito, esprime al massimo il valore della sartorialità».
Pitti Immagine
«Per me non c’è sostituzione: Primavera-Estate e AutunnoInverno rimangono due stagioni distinte, che non sono destinate né a sovrapporsi, né a conquistare una il primato sull’altra. Certo, c’è l’aspetto delle condizioni climatiche che si è fatto sentire nelle ultime stagioni, ma non sarà per sempre e soprattutto è una variabile che non si può prevedere né pianificare, visti anche i tempi delle produzioni. In questo settore si lavora in base alle necessità del consumatore, ma per soddisfare queste esigenze bisogna consegnare il prodotto, che deve essere nei negozi. Le tempistiche della
moda non possono farsi condizionare da aspetti climatici.
Piuttosto è possibile prevenire certe situazioni attraverso la gestione del magazzino e il ricorso in negozio a capi continuativi. Anche nelle materie prime non credo ci saranno riassetti nell’incidenza delle stagioni: sul fronte filati abbiamo alcune aziende che fanno solo estivo e altre che fanno solo l’invernale. Se la valutazione della rilevanza commerciale delle stagioni fosse fatta sulla base dell’attrattività delle edizioni di Pitti Uomo, direi che quella invernale continua, come in passato, a catalizzare il maggior numero di richieste di partecipazione».
(A.L.) «In passato l’ago della bilancia pendeva leggermente in favore delle vendite invernali, ma nel tempo la crescente importanza della collezione estiva ha fatto sì che le vendite delle due stagioni si siano equiparate: oramai la PE vale un 50% dei nostri ricavi, come l’AI. Un fenomeno condizionato dal calendario: durante la PE ci sono più giorni di vendita full price. Inoltre, in mercati come l’Italia, si sono consolidati momenti di vendita importanti, come le cerimonie, in coincidenza con il periodo di vendita a prezzo pieno. La questione climatica non va sottovalutata: le nostre collezioni si sono già adattate a questo genere di cambiamenti e l’offerta Lardini di total look si è ribilanciata. Un cambiamento importante questo riallineamento dell’incidenza lo ha portato: sulla qualità e l’innovazione, perché la ricerca sui tessuti leggeri si è potenziata rispetto al passato». (L.L.) «Anche se con l’estivo vendiamo più pezzi, l’invernale, pur generando volumi inferiori, recupera sui prezzi medi, che sono più alti per via del costo maggiore delle materie prime e delle lavorazioni. Proprio i listini, in un momento come questo con i prezzi saliti alle stelle, possono condizionare gli equilibri delle stagioni: con la Primavera-Estate il clientealmeno quello medio, che condiziona il mercato - si sente più libero di acquistare a prezzo pieno. Ma d’inverno, a meno che non ci sia una necessità, i prezzi stratosferici quasi impongono ai consumatori di rimandare lo shopping ai saldi e alle promozioni speciali».
Csm - Camera Showroom Milano
«Mentre le stagionalità cambiano, i tempi di consegna sono ancora legati alle vecchie scadenze, soprattutto per la Fall-Winter in consegna a luglio, quando fa ancora caldo. Ma il punto è anche un altro, ossia che i prodotti, soprattutto sull’online, vanno già in saldo quando la stagione è appena iniziata e questa è una regola che vale 12 mesi l’anno: non è così vero che la Spring-Summer, essendo più lunga, produce più fatturato, innanzitutto perché vengono venduti capi meno costosi di quelli invernali, e poi perché le svendite ci sono anche nei mesi caldi, con percentuali di ribasso fino al 70%. Purtroppo l’abitudine americana alle mid-season sale ha attecchito anche da noi. Le aziende dovrebbero monitorare meglio i saldi, vendendo meno nell’online, aprendo meno outlet e contingentando le vendite private, che tanto private non sono. Il sistema è inquinato: il mercato dovrebbe essere ripulito dall’overdose di merce, con la consapevolezza che il consumatore cerca sì di risparmiare, ma sa anche riconoscere le realtà serie. Altrimenti come si spiega che noi abbiamo in showroom brand che, per scelta, non fanno né e-commerce né saldi, eppure funzionano lo stesso?».
RoyRoger’s
«Di sicuro un ribilanciamento delle stagioni è in corso e riguarda soprattutto i marchi di capispalla pesanti. Ma se la stagione invernale sta perdendo incidenza a livello di fatturato non è colpa del Black Friday, che talvolta può anche risultare un booster per le vendite: in quei giorni, grazie agli sconti, è più facile vendere capi importanti. Molto più determinate è l’aspetto climatico: ormai il freddo vero arriva a gennaio, quindi a saldi avviati e questo certamente condiziona le strategie commerciali dei brand, che sempre più puntano su un’offerta total look. L’arma migliore per non risentire del meteo, sempre più imprevedibile, non è tanto puntare commercialmente su una stagione piuttosto che un’altra, ma orchestrare le collezioni con un’offerta ampia, in grado di soddisfare esigenze diverse, a livello di funzione d’uso ma anche di situazione climatica. Quando andiamo a impostare un collezione prevediamo sempre più T-shirt e felperia, per non parlare della giubbotteria in pelle, una nostra specialità che commercialmente funziona sempre meglio, per merito della sua cross-stagionalità. Anche il fatto di essere specialisti del denim ci aiuta: si tratta di un capo che si indossa praticamente 12 mesi all’anno, perché d’estate va bene anche di sera. Con questo non intendo dire che chi fa piumini deve concentrarsi solo sui pesi leggeri. Il nostro settore vive di desiderio, non di necessità: quindi nei giorni in cui arriva il freddo il cliente vorrà capi pesanti (spesso anche costosi) ed è sensato che li trovi in negozio È un peccato che da un paio d’anni il freddo arrivi, come dicevo, solo con la prima settimana di saldi ma non è detto che sia sempre così».
Duno
«La nostra collezione Spring-Summer sta acquistando sicuramente più peso a livello commerciale nel mondo del capospalla, rispetto alle passate stagioni, perché copre un periodo più lungo di vendita, senza scontistiche in piena stagione tipo Black Friday. Strategia commerciale che noi sui nostri canali diretti non attuiamo. La crescita anche nella stagione “meno” importante per il segmento outerwear, nel nostro caso non è legata al cambiamento climatico ma connessa al fatto che Duno sta accelerando worldwide. Attualmente la PE è arrivata a incidere un 20% in più rispetto al passato e, alla luce di questo incremento, la nostra offerta stagionale è più variegata: non solo capispalla ma anche abbigliamento realizzato con tessuti ultralight, naturali e traspiranti.
La Fall-Winter rimane il core business del brand, ma se la situazione dovesse cambiare nelle operations saranno attuate delle strategie mirate. Per l’invernale stiamo ricercando e studiando nuovi progetti, che mettono al centro i capi realizzati con tessuti tecnici dalle caratteristiche performanti, water resistant e ultra comfort».
Malo
«L’allungamento della stagione estiva, con l’inverno che si concentra in pochissimo tempo, porta in effetti noi imprenditori a rivedere le nostre strategie e operation. Ma per i fatturati di Malo la Spring-Summer non può certo essere il nuovo AutunnoInverno: è chiaro che, utilizzando cashmere e fibre nobili, una maglia pesante, pensata per i climi più rigidi, ha un impatto economico ben diverso da quello di un modello estivo. E poi va detto che un 50% dei nostri prodotti è continuativo. Più che altro, quello che notiamo è una maggiore attenzione da parte della clientela a una qualità durevole, quindi non strettamente legata a mode e condizioni climatiche. La gente si è stancata di buttare via le cose e apprezza sempre di più valori, come il made in Italy e la sostenibilità, che non hanno stagioni e non cade nella trappola delle svendite selvagge. Una pratica, questa, che non appartiene al dna di Malo ed è controproducente per i brand che la adottano: mi chiedo come facciano a coprire i costi e ad assicurarsi una redditività. L’anno scorso abbiamo introdotto delle capsule: le usiamo per scandire meglio le nostre tempistiche, ma anche per eventi in store, tra cui mini-sfilate rivolte a clienti selezionati. È un modo per rinfrescare la collezione e anche il negozio che la ospita».
Boutique Michele Inzerillo, associazione Histores «L’inverno non dura praticamente nulla e il Black Friday è anche di un mese, quindi penso che funzionerebbe meglio una collezione unica, con flash per i momenti più caldi e più freddi, al posto delle due tradizionali stagionalità. Non vedo nemmeno l’utilità delle pre-collezioni: con il Covid la frenesia della moda era stata messa in discussione, ma poi tutto è rimasto come prima, se non peggio. Anche in primavera noto brand di prima fascia scontati anche oltre il 50%, per non parlare dell’online. Si può dire no a tutto questo, anche per una questione di immagine, non coerente con il lusso. Siamo in un momento di contrazione del mercato, ma bisogna riconoscere che è anche colpa dei brand e di noi negozianti. Apprezzo i marchi che hanno una distribuzione selettiva e fanno un controllo serrato sui prezzi praticati. Di certo serve trovare un compromesso fra stagionalità e price point: fino a tre-quattro anni fa si poteva trovare un pantalone sotto i 200 euro, oggi si viaggia sui 400-500 euro Ma il cliente italiano non ha voglia di spendere queste cifre. La questione del clima sta favorendo l’outdoor in materiali performanti, indicati per l’estate e l’inverno, come pure le sovrapposizioni. Con i retailer indipendenti dell’associazione Histores, fondata e guidata da me, stiamo sperimentando in via diretta: da qualche stagione abbiamo lanciato Hindustrie, una linea made in Italy a-stagionale dal prezzo interessante, che sta crescendo»
IlI marchi sportivi in più rapida crescita sono legati a discipline di nicchia, come il trail running, il padel e il ciclismo. Grazie a uno stile minimal e no-logo stanno conquistando i clienti fashion, pronti a indossarli in un constesto urban. Nomi come Norda e Pas Normal (su cui hanno investito Zegna e la famiglia Ruffini), ma anche Satisfy, District Vision e Pulco sono diventati per i multibrand un’opportunità per distinguersi e costruire una community. Il difficile è fare alti margini
DI ANDREA BIGOZZI
quiet luxury ha il suo corrispettivo anche nell’abbigliamento sportivo. Si chiama appunto quiet sportswear. E mentre il primo sembra un trend in via di esaurimento (come suggerisce il ritorno in scena di Alessandro Michele scelto da Valentino), il secondo - caratterizzato da un dress code da città che predilige capi tecnici e performanti dal design minimal eppure lussuosi - promette di essere una delle tendenze commerciali più forti delle prossime stagioni nel canale wholesale e non solo in quello specializzato. Da qualche tempo, infatti, nelle vetrine fisiche e online delle boutique indipendenti della moda e del lusso i nomi delle grandi griffe si intrecciano con quelli di brand tecnici come Norda (sneaker per il trail running), Pas Normal e Rapha (cycling apparel), Satisfy (abbigliamento per il running), District Vision e Alba Optics (performance sunglasses), Pulco Studios (padel) e Goldwin (ski clothing). «Il quiet sportswear è una versione più sofisticata dell’athleisure e dell’outdoorconfermano Federico Oggioni e Marco Massei, buyer di LuisaViaRoma - dove
La sfida per i marchi è dialogare con gli appassionati di moda, restando fedeli a un’identità tecnica e high confort
gli articoli chiave sono giacche tecniche, in equilibrio tra design alla moda ed esigenze funzionali, berretti e occhiali da sole a specchio, anche se il vero capo blockbuster è la sneaker da running, anzi trail running, che in questo momento prova a mettere in ombra scarpe da ginnastica legate a sport come il basket o lo skate».
La sensazione è che ormai l’hype intorno all’abbigliamento tecnico e alle sneaker sia diventato troppo invadente, mentre una fetta crescente di pubblico è interessata a indossare capi sportivi di qualità e slegati dai trend. «La leva del successo del quiet sportswear è nel design», assicura Niccolò Piubello, coowner di Sept showroom, realtà indipendente che cura lo sviluppo commerciale di
brand come Norda, Alba Optics, Cotopaxi, Keen, Amish Supplies. «Questo fenomenochiarisce Piubello - hanno individuato un’estetica nuova, forte e innovativa, che non ha niente a che fare con i tradizionali sport di squadra o con l’attività indoor in palestra, in cui il cliente moda difficilmente può identificarsi. Una sneaker Norda, invece, è versatile: si indossa in città, anche insieme a capi molto più eleganti».
Al di là della tendenza, l’appropriazione dell’abbigliamento tecnico legato a sport di nicchia come running, ciclismo e padel nel contesto urban-fashion riflette molteplici motivazioni. «Innanzitutto - fa il punto Simone Ponziani, ceo di Artcraft International, azienda che produce marchi come Canadian e ne distribuisce altri, tra cui Norda e Teva - lo si ricollega allo stile di vita reale di un pubblico di consumatori sempre più vasto, che presta forte attenzione a tematiche come il cambiamento climatico, l’ambiente e la sostenibilità». «Per questo - prosegue l’imprenditore - capi progettati per offrire alte performance in contesti non urbani possie-
dono caratteristiche di durabilità oggi fortemente apprezzate, quando si tratta di acquisti di capi fashion». «In più - prosegue-, l’estetica e l’autenticità connessa a questi brand sportswear sono piuttosto uniche in un panorama moda sempre più omologato, consentendo alle realtà multimarca che decidono di inserire questi brand nella propria offerta di distinguersi e di mantenere contemporaneamente quel senso di esclusività che rientra nel loro alto posizionamento di mercato». C’è un altro aspetto che alimenta la propensione dei retailer multimarca a scegliere di investire sul quiet sportswear: i marchi di questo segmento, grazie alla loro credibilità di specialisti, dimostrano una capacità di fidelizzare la clientela che attualmente manca a molte maison del lusso. Ne sono un esempio il successo ottenuto da appuntamenti collettivi come le “Open rides” di Rapha e le Pas Recing, che gli store manager dei negozi Pas Normal organizzano in giro per il mondo. «È più facile creare una community intorno a questi brand - confermano Oggioni e Massei di LuisaViaRoma -. Per noi seguire questo filone non significa semplicemente includerlo nell’assortimento commerciale, ma renderlo parte della shopping experience offerta. Con l’apertura del nuovo store a marchio Sotf nel centro storico di Firenze, in via de’ Tosinghi, creeremo un running club che darà appuntamento ogni settimana a una community di appassionati di moda e che ci vedrà collaborare con brand come On e Satisfy e, in futuro, altre realtà del genere». Un’espressione, quella del quiet sportswear, che è arrivata anche alle orecchie di chi opera nel canale della distribuzione specializzata,
tradizionalmente alieno ai trend. «Da tempo - conferma Alberto Fiasconaro, direttore Marketing e Comunicazione di Cisalfa Group - abbiamo riscontrato nei nostri negozi e negli acquisti online un forte interesse verso la scelta di sportswear di qualità tra i consumatori più fashion-oriented. Ciò fa sì che nell’attività di buying siamo sempre alla ricerca delle innovazioni nel settore dell’abbigliamento sportivo, ma cercando di coniugarle con le tendenze moda». Gli addetti ai lavori, dunque, sembrano propensi ad affermare che l’estetica del quiet sportswear sarà pervasiva e capillare ben oltre il 2024, com-
Anche i grandi brand del lusso si interessano al quiet sportswear. Apripista in tal senso è stato Zegna, che ha investito oltre 7 milioni di euro per il 25% di Norda, brand con cui aveva allacciato i rapporti collaborando a una capsule collection
plice la passione dei consumatori per i nuovi sport di nicchia. Pronostici che sembrano trovare conferma nel recente report Sporting Goods 2024 di McKinsey, dove si evidenzia un allontanamento dagli sport organizzati, con nuove possibilità di crescita, in particolare in segmenti come il pickleball/padel (+159% dal 2019 al 2022), il tennis (+33%), il trail running (+21%) e il cycling (+11%).
Con questo promettente scenario era prevedibile che anche i grandi brand del lusso si interessassero al segmento del techwear di qualità, grazie alla sua capacità di affermarsi nel contesto metropolitano. Apripista in tal
senso è stato Zegna, che nel 2023 ha investito oltre 7 milioni di euro per assicurarsi il 25% del capitale di Norda. Poi è stato il turno della famiglia Ruffini di puntare sul quiet sportswear. Attraverso la società di investimenti Archive ha finalizzato lo scorso aprile l’acquisizione di una quota di minoranza di Pas Normal Studios, marchio legato all’universo del ciclismo, scelto per la capacità di evolvere «oltre i codici tradizionali del suo settore», ha commentato Pietro Ruffini, ceo di Archive. «Questi investimenti - sintetizza Piubello di Sept showroom - dimostrano non solo la volontà dei grandi gruppi di entrare in contatto con realtà piccole ma molto dinamiche e creative, ma anche le prospettive di crescita esponenziale del segmento in cui queste startup si muovono». E poi come non ricollegarsi anche al fatto che Pitti Immagine lancerà a Firenze durante il mese di giugno Be Cycle. Questo nuovo salone, affronterà mondo della bicicletta, «non il solo dal punto di vista sportivo, ma come pratica sempre più al centro della vita quotidiana», ha spiegato Agostino Poletto, direttore generale.
In sintesi, con il supporto finanziario proveniente dei grandi gruppi e la spinta di fiere con una dimensione più lifestyle, è lecito attendersi un’escalation commerciale di questa specie di sottocategoria sportiva, frutto del mix di lusso e techwear? Una risposta univoca a questa domanda non esiste. Certo è che il successo del fenomeno sarà duraturo e conquisterà un pubblico con un potere di spesa consistente, «dato che il punto prezzo di questi brand è più alto della media dello sportswear in virtù dell’alta qualità dei prodotti», evidenzia Ponziani, alla luce dei 260 euro necessari per un paio di sneaker Norda e i circa 400 per una giacca Satisfy. Nonostante queste premesse, il quiet sportswear pare destinato a confermarsi come fenomeno sì in continua evoluzione, ma di nicchia. E Ponziani sa bene il perché. «Quando il mondo dello sport incontra quello della moda si
1. Il brand On cerca di scuotere il settore e conquistare una audience extra sportiva, puntando sulla cantate Fka Twigs, nuova creative partner
2. Pulco Studios è uno dei brand alla conquista della ricca base di fan del padel 3. Satisfy ha già forte credibilità tra i multibrand urban italiani: è presente da Slam Jam, Tricot, Penelope e LuisaViaRoma, con cui collabora al running club
Il target point è alto, in linea con il mondo del lusso, ma i margini sono quelli tipici delle catene di articoli sportivi
registra sempre un grosso problema di marginalità - sentenzia il ceo di Artcraft International - perché chi vende articoli sportivi è abituato a margini molto più bassi. Spesso il tecnico compra a 100 e rivende a 200 mentre un brand moda ha un mark up dal 2,5 in su. Diciamo che se il titolare di un multimarca urban fashion spostasse tutto il budget destinato alle calzature su brand come Norda perderebbe tantissimo margine, quindi la presenza di questo genere di marchi è giustificata solo alla luce di acquisti molto curati e chiedendo il supporto delle aziende». «Commercialmente certi nomi vale la pena averli nelle proprio brand mix se il negoziante esaurisce l’ordine e addirittura lo si riassortisce almeno una volta», conferma Piubello.
Per Giuseppe D’Amato, buying & merchandising director di Rinascente, non sono i mark up a frenare la scalata dei marchi del quiet sportswear, ma il loro modo di comunicare. «Il fermento c’è - conferma il buyer del department store -. Infatti, questi prodotti escono dagli specialty store per entrare in concept store e multibrand. Però non sono ancora pronti per realtà come la nostra, non per il loro contenuto, che è chiaro nello stile e nel posizionamento, ma per il modo di comunicare che non è altrettanto chiaro». «Penso che per fare il grande salto - prosegue D’Amato - queste realtà non debbano tanto uscire dal perimetro della performance, quanto comunicare di più in altri canali, diversi da quelli abituali, rendendo più universale il messaggio. Non tutti sono pronti a scendere a questo compromesso, in quanto temono di perdere credibilità tra i clienti core». Ma qualcosa sta già cambiando anche su questo fronte. Il marchio On per raggiungere una popolarità più mainstream ha scelto di reclutare la cantautrice, ballerina e modella Tahliah Debrett Barnett, aka Fka Twigs, come creative partner, con il compito di sviluppare nuove categorie di prodotto, con un occhio rivolto alle donne. Perché per prepararsi all’upgrade, il quiet sportswear deve conquistare anche questo target. «é nato come un trend maschile, ma ora può dirsi multigender, perché la componente femminile è in ascesa», assicura Ponziani. Parole supportate dalla cronaca: sulla scena si registrano startup di successo come Hettas, Saysh e Moolah Kicks, che hanno creato sneaker progettate specificamente per il pubblico femminile. Ed è solo l’inizio. Ed è solo l’inizio.
Dall'1 settembre, passando al ruolo di membro del management board, mi concentrerò sullo sviluppo di partnership significative nel B2C e B2B. Si tratta di un elemento cruciale nell’esecuzione della strategia in atto e per crescere in un’Europa molto frammentata
David Schneider, co-fondatore e co-ceo della piattaforma tedesca, racconta la sua visione del mercato dell’e-commerce, in profonda trasformazione. Spiega il perché della nuova strategia di gruppo e parla dei consumatori, che chiedono ispirazione, e di come l’evoluzione delle partnership con i brand sia necessaria a Zalando per riposizionare verso l’alto il canale B2C. Ammette l’ascesa in Europa dei colossi cinesi dell’ultra fast fashion e fa una previsione: la vera leva per la crescita dell'azienda berlinese nel medio termine arriverà dal B2B, ora aperto anche ai marchi che non vendono sulla piattaforma
DI ANDREA BIGOZZI
«Non temiamo la concorrenza, tantomeno quella delle piattaforme asiatiche arrivate in Europa puntando sull’ultra fast fashion, e crediamo fortemente nella forza del nostro modello di business. Stiamo investendo sia in prodotti, sia in esperienze di shopping di qualità, puntando su elementi come tecnologia e innovazione, storytelling e infrastrutture logistiche, che sono quelli che garantiranno la crescita futura. Perché il nostro obiettivo è proprio tornare a crescere a due cifre, senza mai smettere di offrire ai clienti e ai brand partner la migliore esperienza possibile. Rimanendo sempre umili e umani, vogliamo cogliere tutte le opportunità». Se avere le idee chiare, in un momento di grande cambiamento e confusione per il settore degli e-player multimarca (tra la liquidazione di Matches, Mytheresa tentata dal delisting, Ynap in cerca di un nuovo acquirente), è considerato un punto di forza, David Schneider, co-ceo di Zalando, non lascia dubbi sulla nuova identità e gli
Dal 2024 vengono presentati i dati finanziari specifici del canale B2B di Zalando, segmento raggruppato nell'unità Zeos, abbreviazione di Zalando E-Commerce Operating System, che integra logistica (dai centri di distribuzione ai corrieri), software (attraverso Tradebyte, l’integratore di marketplace che fa parte del gruppo dal 2016) e servizi aggiuntivi, come la creazione di contenuti, attività che rientra nel perimetro di Highsnobiety. Nel 2023 Zeos ha fatturato quasi 900 milioni di euro ma nel medio periodo, secondo le previsioni, raggiungerà un giro d’affari multimiliardario.
Logistica, software, maketing tra i servizi offerti da Zalando ai brand
B2C B2B
Fashion
ZMS Lounge by Zalando
Outlets
Logistics
Services
2023
GMV (in mld Euro)
Ricavi (in mld Euro)
Gross margin (in %)
EBIT rettificato (in mld Euro)
EBIT margine rettificato (in %)
Volumi ancora ridotti per il B2B ma marginalità più alta del B2C
obiettivi del colosso tedesco della vendita online di cui è co-fondatore: storicamente focalizzato sul rapporto diretto con i propri clienti, ma sempre più orientato a diventare una piattaforma di servizi per i propri partner (ovvero i brand). Un ampliamento del modello di business che coincide con un'altra trasformazione: da settembre l’organigramma del gruppo da 10,1 miliardi di ricavi nel 2023 cambierà. Schneider cederà il suo incarico di co-ceo all’attuale coo David Schröder, per ritagliarsi un ruolo nel management board completamente dedicato alle partnership nel B2C e B2B, in modo da rafforzare il posizionamento del brand Zalando. Una decisione che lo stesso Schneider racconta in questa intervista, la prima dall’annuncio del cambio ai vertici, con la massima naturalezza. Come fosse qualcosa che non poteva non succedere.
Avete annunciato un nuovo piano di sviluppo, basato sulla divisione dei canali B2C e B2B, e un cambio di governance a poche settimane di distanza l'uno dall'altro. Cosa sta succedendo?
Recentemente abbiamo aggiornato la nostra strategia con lo scopo di costruire un ecosistema di e-commerce paneuropeo per la moda e il lifestyle, i cui vettori di crescita sono il Business-to-Consumer (B2C) e il Business-to-Business (B2B). Di conseguenza, stiamo adattando le responsabilità all’interno del nostro consiglio di amministrazione per garantire l’efficace esecuzione di questo nuovo piano. Uno dei punti di forza di Zalando è sempre stato quello di sapersi adattare ai cambiamenti, ruotando i ruoli e le responsa-
sono i clienti attivi di Zalando, che vanta una delle basi clienti più ampie d'Europa. La fetta più grande è composta da Millennial, il target che nel medio termine effettuerà oltre un terzo di tutti gli acquisti di lusso
bilità del suo team di leadership, per assicurarsi che tutti si completino a vicenda e soddisfino le esigenze in continua evoluzione di clienti e brand partner.
Che cosa vi aspettate esattamente dalla trasformazione da piattaforma a ecosistema?
Ci consentirà di conquistare una quota maggiore del mercato dell'e-commerce di moda e lifestyle e di approfondire le relazioni con clienti e brand partner. In ambito B2C, da cui tutto è partito, stiamo andando oltre le semplici transazioni. La chiave per differenziarsi è offrire ai nostri clienti esperienze di qualità ancora migliore e prodotti in linea con il loro stile di vita. Settori merceologici come lo sportswear e i beni per la famiglia occuperanno uno spazio sempre più importante nel mondo di Zalando, insieme ad aspetti come l’ispirazione e un intrattenimento personalizzati. Nel B2B, che rappresenta la nuova sfida, stiamo aprendo la nostra infra-
struttura logistica, il nostro software e i nostri servizi, per diventare un facilitatore chiave per le transazioni e-commerce di marchi e rivenditori, indipendentemente dal fatto che avvengano su Zalando o su altre piattaforme o attraverso i loro canali di vendita diretta. Sul medio periodo, vediamo la nostra offerta B2B svilupparsi in un business da diversi miliardi di euro (nel 2023 il segmento ha contribuito per 855 milioni ai ricavi totali, ndr). Per questo motivo abbiamo deciso di dividere B2B e B2C, perché vanno gestiti in modo diverso e perché vogliamo mostrare il potenziale di crescita del B2B.
Nel contesto che ha appena delineato quale saranno i suoi nuovi compiti?
Con il mio passaggio dal 1° settembre al ruolo di membro del management board, mi concentrerò ancora di più sullo sviluppo di partnership significative nel B2C e B2B. Si tratta di un aspetto cruciale nell’esecuzione della nuova strategia in atto. Lavorerò per aiutare i partner e i marchi a sbloccare nuove opportunità e a crescere in un’Europa profondamente frammentata. Mi assicurerò che tutti questi marchi siano rappresentati in modo autentico all’interno del nostro ecosistema e che raggiungano nuovi clienti, in altri termini che si fidino di noi.
Di cosa si occuperà invece David Schröder, che presto sarà co-ceo?
David è parte integrante della storia di successo della società fin dai primi giorni del 2010. Con il nuovo incarico si focalizzerà sulla messa a punto di un sistema operativo B2B legato all’e-commerce in Europa attraverso la piattaforma di Zalando ma anche al di fuori di quest’ultima,
sviluppando ulteriormente le infrastrutture aziendali.
Il 2022 e il 2023 non sono stati anni di crescita per il gruppo, né tantomeno per il settore degli e-tailer multimarca. La ripresa delle attività online arriverà?
L’ambizione è quella. Ritengo che l’online crescerà strutturalmente. L’Europa è al momento caratterizzata da un minore predominio dell’online rispetto agli Stati Uniti e all’Asia, ma recupererà terreno. Vogliamo sfruttare questa crescita e conquistare attraverso il B2B e il B2C una fetta ancora maggiore del mercato europeo della moda, che vale 450 miliardi di euro.
Le piattaforme cinesi dell’ecommerce, come Temu e Shein, stanno conquistano sempre più utenti in Europa. Fino a che punto questo vi può preoccupare?
La loro espansione è un dato di fatto, ma per prima cosa è importante sottolineare che Zalando opera in modo molto diverso da questi player: copriamo un numero maggiore di segmenti di mercato e, soprattutto, abbiamo un posizionamento differente, specie per quanto riguarda sia le fasce di prezzo, sia la varietà e qualità dei marchi offerti sulla piattaforma. Lo ribadisco, non c’è competizione diretta: siamo fuori dal segmento ultra fast fashion, in più la nostra è un’offerta multimarca. Aspetto, questo, che rappresenta un forte vantaggio competitivo, perché il contesto multimarca resta quello preferito da oltre il 60% dei consumatori. Nonostante tutte queste diversità, per noi è fondamentale che le regole per le aziende che vendono in Europa siano uguali per tutti, quando si tratta di concorrenza e sicurezza dei prodotti.
C’è il rischio, secondo lei, che le realtà europee siano frenate rispetto ai concorrenti asiatici?
La nostra posizione è chiara: chiediamo regolamentazione. Non possiamo prescindere da un quadro rigoroso di regole in materia di dazi all’importazione, trasparenza dei prezzi, sicurezza dei prodotti e protezione dei consumatori. Il primo passo sarebbe quello di abolire al più presto la soglia di 150 euro di dazi doganali per i pacchi importati.
La vostra forza sono i quasi 50 milioni di clienti attivi: vi stanno chiedendo qualcosa in particolare? Come pensate di mantenere la loro attenzione?
Quello che vogliamo è entrare a far parte della vita quotidiana dei nostri clienti e per fare questo non basta offrire un prodotto
Il management board di Zalando: da sinistra, in piedi, Astrid Arndt, i cofondatori David Schneider e Robert Gentz. Seduti, da sinistra, David Schröder e Sandra Dembeck. Dall’1 settembre è prevista una riorganizzaizone che porterà Schneider a cedere il suo posto di co-ceo al coo Schröder, per focalizzarsi sulle partnership nel B2C e B2B, mentre Gentz continuerà a essere co-ceo
Per Zalando in calo i principali KPI dei clienti, ma cresce il carrello medio La disciplina sui costi è in atto: ebit
Fonte: Zalando
e un servizio di vendita fluido e conveniente, serve immaginare una shopping experience che inizi con l’ispirazione. Noi di Zalando stiamo lavorando proprio in questa direzione: poniamo i nostri clienti al centro di tutto ciò che facciamo, fornendo innovazione tecnologica e storytelling e, soprattutto, personalizzazione. Oggi i consumatori non vogliono un'offerta sempre più grande, ma un’offerta migliore. Per questo la nostra priorità è rendere il nostro assortimento personalizzato e altamente pertinente, grazie a un’offerta localizzata. Per noi è importante che i clienti trovino ciò che è più significativo per loro negli specifici mercati di interesse. La rilevanza locale della nostra gamma di prodotti è un aspetto importante, che cureremo sempre più da vicino.
A quali soluzioni tecnologiche state lavorando per approfondire la relazione con gli utenti?
Continuiamo a introdurre e incorporare nuove funzionalità, molte delle quali puntano a facilitare la scelta dei clienti, come l’Algorithmic Fashion Companion, che fornisce consigli ai nostri clienti su outfit completi, in base agli articoli per cui hanno espresso interesse in precedenza. Inoltre, stiamo esplorando le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale generativa impiegata, ad esempio, per il servizio di assistenza vocale alla vendita, con cui è possibile avere un vero e proprio dialogo.
Parla di ispirazione e intrattenimento: in che modo Zalando riesce a suscitare emozioni?
Oltre il 70% della Gen Z dichiara di fare regolarmente acquisti cercando ispirazione: il nostro investimento e la collaborazione con la media company Highsnobiety vanno proprio in questa direzione, perché ci hanno consentito di lavorare insieme
L’Italia è al centro delle strategie commerciali e di marketing di Zalando, che recentemente ha lanciato una collaborazione con Aspesi (foto 1), con cui ha lanciato la prima collezione in assoluto ispirata al cinema italiano. In più, da due anni è attiva la collaborazione con Cnmi per la realizzazione dell’evento Changemakers in Luxury Fashion, che coinvolge importanti imprenditori della moda e del lusso come Jacquemus (foto 2), tra i protagonisti dell’ultima edizione. Tra le novità tecnologiche lanciate da Zalando c'è il nuovo strumento di misurazione delle taglie (foto 3)
per reimmaginare il futuro dei contenuti e dell’e-commerce. Ne è nata una sinergia che valorizza i punti di forza di entrambi.
Da un lato, la rilevanza culturale, gli insight nel campo della moda e l’esperienza di storytelling di Highsnobiety ci hanno supportato nella costruzione di un ambiente online più emozionante e coinvolgente, per i consumatori e per i marchi partner. Dall’inizio della nostra collaborazione abbiamo pubblicato oltre 300 contenuti di forte impatto. Un esempio del nostro lavoro fatto insieme finora è Stories su Zalando, un’esperienza immersiva di moda visual-first che dal suo lancio, nel 2023, è già stata utilizzata da oltre 5 milioni di clienti. Stiamo andando oltre la semplice esperienza d'acquisto.
Cos'altro rende felice la GenZ? Il live shopping. Questa pratica sta finalmente registrando una crescita costante anche in Europa, specie tra le generazioni più giovani. Finora i clienti erano trattenuti da un tema di sicurezza, perché avvertivano la mancanza di piattaforme affidabili che offrissero le vendite in diretta. I format
di live shopping sulla nostra App sono sicuri e capaci di intrattenere per davvero. Nell'area Dach stiamo testando il format settimanale "Beauty live show", che da subito ha registrato un riscontro positivo.
Da due anni organizzate a Milano, con la Camera Nazionale della Moda Italiana, l’evento Changemakers in Luxury Fashion, che coinvolge i più noti imprenditori della moda e del lusso. Un segmento, questo, che non rappresenta il vostro core-business ma che volete accrescere. A che punto siete nel percorso di upgrading? Abbiamo già una sezione dedicata con circa 350 marchi di alto livello e un’esperienza più esclusiva e sofisticata, anche in termini di contenuti. L’assortimento che noi definiamo “Designer” sta crescendo velocemente. Funziona molto bene, anche perché le giovani generazioni hanno un approccio allo shopping diverso, mescolano capi basici, sportswear e di lusso. La nostra forza è proprio nell’esperienza di acquisto trasversale, senza soluzione di continuità, che offriamo e che porta i nostri clienti, che
Fonte: Zalando, elaborazione Fashion. Dati espressi in miliardi di euro
acquistano abitualmente in altre categorie, ad avvicinarsi organicamente al mondo delle griffe. Le ricerche di marchi di lusso su Zalando sono in costante aumento: solo negli ultimi 12 mesi abbiamo registrato oltre 1 milione di ricerche inerenti ai principali marchi di lusso: un segnale chiaro che il consumatore vuole scoprire la moda firmata e di lusso su Zalando.
Qual è il lusso che piace sulla piattaforma?
Anche in questo segmento il nostro approccio non cambia: offriamo al cliente scelta e convenienza, raddoppiando la rilevanza locale dei marchi. L’assortimento comprende classici senza tempo come Ralph Lauren, Weekend Max Mara, Emporio Armani. Ma anche vere e proprie icone del lusso da Gucci a Versace (presenti sulla piattaforma principalmente con gli occhiali, ndr), fino a Victoria Beckham ed Helmut Lang. Diamo spazio anche a marchi emergenti di street luxury (per esempio 032c, Ahluwalia, GmbH). Tra le new entry ci sono Helmut Lang, Maison Kitsuné, Marine Serre e Dsquared2.
Di certo l’hype è calato ma il percorso è avviato e inarrestabile, anche se più che di Metaverso sarebbe meglio parlare di tecnologie immersive e contaminazioni fra realtà fisica e virtuale. Più sottotraccia i brand continuano a sperimentare per raggiungere nuovi target, ampliare la community, esplorare altre formule di vendita ed educare al bello, seppure in pillole
DI ELISABETTA FABBRI
Chefine ha fatto il Metaverso? Oggi che ancora di fatto non c’è, chi ne parla usa il plurale Metaversi o espressioni del tipo “Metaverso, o comunque si chiamerà”. Si va con più cautela rispetto al 2022, quando era sulla bocca di tutti e la moda annunciava con insistenza iniziative a tema. «Non siamo in una fase di razionalizzazione, perché il mercato è ancora allo stadio iniziale», chiariscono i ricercatori della School of Management del Politecnico di Milano, che nel recente Osservatorio “Extended Reality & Metaverse” hanno contato, a livello mondiale, 205 progetti sviluppati dentro mondi virtuali nel 2023 e inizio 2024, dai 328 del 2022 (vedi box). Per ora questi mondi - sorta di fondamenta di ciò che ancora non esiste - si suddividono in tre categorie. La maggioranza appartiene alla tipologia “Rooms”, perché suddivisi in “stanze” non continue e separate, come nel caso di Roblox e Spatial. Ma ci sono anche gli “Open World” come Decentraland e The Sandbox, che sono ambienti unici, estesi su un’unica mappa e infine gli “Hybrid” come The Nemesis e Coderblock, con accessi sia in stanze sia in un’unica mappa.
Il gaming sulle piattaforme immersive diventa un nuovo modo di interagire e comunicare
A inizio 2024 Max Mara ha scelto proprio la piattaforma di gioco Roblox - e i suoi oltre 77 milioni di user attivi al giorno, soprattutto teen - per lanciare l’esperienza immersiva di edutainment Max Mara Coats Adventure: uno spazio dove gli avatar degli utenti possono giocare ma anche scoprire in pillole l’universo del brand, l’artigianato e l’industria tessile. «Volevamo fare apprendere con il gioco quello che rappresenta la creatività per Max Mara - spiegano dal gruppo presieduto da Luigi Maramotti - . Da qui la scelta di costruire un’esperienza di gaming fondata su tre pilastri: il marchio, la storia e i valori identitari». L’esperienza su Roblox rappresenta per Max Mara uno strumento per poter dialogare con una generazione che in una parte della propria vita ha una prossi-
mità con il gaming. «Attraverso l’experience - proseguono dall’azienda - possiamo dire di aver sviluppato un nuovo modo di interagire e comunicare. Inoltre abbiamo ampliato la nostra capacità di immaginare altri mondi e creare nuovi legami e relazioni». «Il gioco all’interno di Max Mara Coats Adventure e la sperimentazione attraverso la progettazione e la creazione, in modo anche potenzialmente interconnesso con il mondo fisico, fanno parte del progetto e continueranno a essere sviluppati nelle prossime release», anticipano da Reggio Emilia.
A sentire We Are Muesli, impresa sociale attiva nel game design che ha collaborato a questo progetto, nulla è stato preso alla leggera. «Prima di partire - racconta Claudia Molinari, co-fondatrice, direttrice creativa e producer dello studio milanese - abbiamo studiato la piattaforma per il gioco multiplayer Roblox nei suoi pregi e nei suoi difetti e ci siamo chiesti se fosse giusto realizzare un gioco per questo sistema. Abbiamo deciso per il sì, perché Max Mara ha fatto delle scelte precise: quelle di non includere transazioni per il gioco, di escludere acquisti e vendite
1. Su Roblox, dove il 60% degli utenti è under 16, si vendono prodotti di vario genere per personalizzare il proprio avatar 2. Le MetaTabi, primo step di Maison Margiela nel Web3, acquistabili sul sito di The Fabricant 3. In gennaio il brand Mango ha aperto uno store di capi digitali nell’Outfit Shopping Mall di Roblox
di prodotti, di non usare cripto currency». «Abbiamo visto Roblox come un quartiere italiano da arricchire, portando un’esperienza culturale. Quello di Max Mara non è solo un gioco: si può approfondire in pillole la storia del brand e dei suoi cappotti ma è nata anche una collaborazione con artisti cresciuti all’Atelier dell’Errore, che propone arte fatta da bambini neurodivergenti». «Ciò che ci caratterizza - specifica Molinari - oltre alla game culture, è la forte sensibilità a trattare contenuti in modo rispettoso, non escludente e la volontà di trasferire conoscenza attraverso il gioco. Forse per questo abbiamo attirato l’attenzione di Max Mara». Ma sono progetti accessibili anche ai marchi più piccoli e meno strutturati? «Un gioco si può fare con pochi mezzi, anche un ragazzino di 10 anni è in grado, come dimostra la piattaforma Roblox - risponde l’esperta di We Are Muesli -. Tuttavia, prima di pensare all’ammontare dell’investimento un brand dovrebbe chiedersi: “Perché devo stare su una piattaforma immersiva? Quali sono i miei obiettivi? C’è budget per mantenere il gioco, rilanciarlo, vedere le statistiche?”. Al di là di questo spero che il gio-
co diventi una parte importante dell’attività degli adulti. Purtroppo i big del settore non sempre presentano un’offerta che va nell’ottica dell’edificazione personale. Aspetto a cui noi, che siamo un’impresa sociale, teniamo molto. Facciamo parte di una nicchia, quella del gioco indipendente, poco conosciuta ma che da 10-15 anni sta portando una new wave nel comparto».
Anche Hugo Boss si è posizionato su Roblox per lanciare nuove esperienze. La più recente riguarda un evento per festeggiare la partnership con il Team Visa Cash App RB Formula 1: quello fisico si è svolto all’Hugo Garage di Miami, mentre la replica virtuale è avvenuta nel Planet Hugo all’interno di Roblox. «Che fosse a Miami o collegata virtualmente, la nostra community ha potuto accedere a un’esperienza che ha unito i mondi del motorsport, della moda, della musica e del gaming - ha dichiarato Nadia Kokni, svp global marketing e brand communications di Hugo Boss -. Abbiamo sfruttato la community della F1 e presentato gli eventi attraverso i nostri canali, per entrare in contatto con il nostro attuale pubblico
Dal 2018 a oggi sono 736 i progetti sviluppati all’interno di mondi virtuali pubblici e ambienti privati (in gergo Metaverse as a service platform) come emerge dal recente Osservatorio Extended Reality & Metaverse del Politecnico di Milano. Dopo il boom del 2022 (vedi grafico in basso), emerge una flessione che ha riguardato soprattutto i progetti B2C, mentre sono cresciuti quelli B2B/B2E (Business to Employee, per migliorare la comunicazione con i dipendenti). In Italia tra il 2018 e gli inizi del 2024 si contano 71 progetti tra realtà aumentata, mista e virtuale.
Come evidenzia l’Osservatorio, da noi latitano i fruitori: meno di 500mila italiani sono dotati di visore, l’accesso avviene soprattutto da Pc. La barriera è il prezzo, inoltre non si percepisce il valore del servizio. Più del 50% degli italiani conosce almeno un mondo virtuale (per lo più legato al gaming), ma solo poco più di un utente su quattro è entrato almeno in un mondo virtuale nell’ultimo anno. Oltre la metà degli intervistati dice, però, che vorrebbe provare.
di Hugo ed espandere la nostra fanbase». Maison Margiela ha aspettato il 2024 per debuttare nel mondo virtuale con un progetto di mixed-reality legato alle Tabi, le calzature split-toe emblema della casa di moda. In collaborazione con The Fabricant, produttore ed e-commerce di moda digitale, è nata una collezione Nft di MetaTabi, che garantisce un accesso prioritario a tutti i futuri progetti Web3 del marchio del gruppo Otb. «È fondamentale che il lusso sperimenti ed esplori il mondo digitale - ha affermato al lancio Stefano Rosso, presidente della casa di moda e ceo di Bvx-Brave Virtual Experience -. Crediamo che l’innovazione sia essenziale per il progresso della moda e per esprimere l’identità del marchio». Mentre scriviamo la MetaTabi più esclusiva (solo 15 paia in colore bianco) risulta in vendita al prezzo di 2,5 Ethereum (circa 3.380 euro, al cambio corrente) ed è associata a una versione fisica personalizzata. Altre varianti in nero, proposte in 1.500 unità, sono invece vendute a 0,185 Ethereum e associate a un vero portafoglio in pelle personalizzato. Il prodotto digitale ha la particolarità che può essere visto attraverso la realtà aumentata e indossato in vari Metaversi e videogame, come garantiscono gli ideatori. Pinko ha invece mosso i primi passi con gli Nft già nel 2022, realizzando una serie di Meta Love Bag. «Abbiamo tentato di vendere un prodotto virtuale Nft nel Web 3, ipotizzando che poi si trasformasse in vendita fisica ma si è rivelato un processo complicatissimo - dice Marco Ruffa, cmo e digital trasformation director di Pinko -. Di certo è stata un’o-
Il valore di un prodotto digitale oscilla sempre, perché dipende dall’andamento delle criptovalute
perazione di comunicazione e marketing che ha dato più visibilità alla Love Bag, ha avuto un’eco e ci ha permesso di ottenere informazioni di prima mano. Purtroppo non abbiamo trovato le clienti pronte, da chi credeva di acquistare, con l’Nft, anche un’identica borsa reale, a chi non disponeva di un wallet cripto. Non sempre, inoltre, è chiaro che il valore del prodotto digitale si modifica a seconda delle oscillazioni delle crypto currency: può essere un investimento o far perdere soldi». «Le sperimentazioni legate al Metaverso sono progetti rischiosi e costosi, per i quali è impossibile stimare il Roi - allerta l’esperto -. Basti pensare che per far vedere una borsa a tutto tondo sono serviti 27mila rendering». Secondo Ruffa, a oggi il Metaverso è più costellato di dubbi che di certezze, ma si arriverà a costruire esperienze coinvolgenti non solo per
gli iper-tecnologici e gli appassionati di videogiochi. Uno dei limiti allo sviluppo di inziative “metaversiche” è dato dalle tecnologie. «I device - nota il manager di Pinko - sono ingombranti e stranianti ma ci si aspetta un’evoluzione, come nel passaggio dai telefonini agli smartphone». Quella dell’hardware non è la sola barriera: «Serve una ragione per cui
Il marchio Police ha creato Audacityland, una piattaforma basata su tecnologia Web 2.5 collegata a un Metaverso interattivo e navigabile
valga la pena di gettarsi nell’esperienza e che dia un senso a investimenti consistenti. Può essere l’immersività, grazie alla realtà aumentata o parallela. Oppure il Web 3, ma a quel punto le transazioni saranno via blockchain e in criptovalute. Come contabilizzare queste vendite? La normativa fatica a stare al passo, tutto è molto indietro, l’attuabilità per le imprese è ancora lontana». Anche la mania del controllo end-to-end del lusso non aiuta: nel caso del Metaverso si trova a dipendere da una piattaforma che non può governare e di cui non può controllare la tecnologia. Ormai è però chiaro che l’intrattenimento nel mondo virtuale permette di creare una community, «che è una necessità sempre più evidente dei giovani e della generazione alfa». Quanto alle collezioni, Ruffa prospetta prodotti sempre più ibridi, da indossare fuori e
Gli avatar e la moda digitale sono estremamente importanti per la Gen Z. Lo si rileva da un sondaggio dello scorso anno di Roblox, rivolto a 1.500 suoi utenti fra Usa e UK, di età compresa tra 14 e 26 anni, volto a capire il modo in cui si esprimono nel Metaverso. Lo scorso anno gli user di Roblox hanno apportato oltre 165 miliardi di modifiche ai loro avatar (capelli, vestiti, ecc.), il 38% in più rispetto al 2022. Hanno acquistato quasi 1,6 miliardi di articoli di moda e accessori digitali, dato in aumento del 15% rispetto all’anno prima. La maggior parte si è detta disposta a spendere soldi veri per vestire i propri alter ego digitali. Quanto alle cifre, il 52% ha risposto fino a 10 dollari, il 19% fino a 20 dollari e il 18% tra i 50 e i 100 dollari.
Tre intervistati su quattro della Gen Z ritengono che indossare abiti digitali di un marchio noto è «un po’» importante per loro, mentre il 47% afferma che è «molto» o «estremamente importante». Il 40% trova più facile presentare il proprio io autentico nel Metaverso che nel mondo fisico. Inoltre pensa che l’espressione digitale di sé aiuti a creare connessioni con gli altri (29%), aumenti
la fiducia in se stessi (24%) e permetta di esprimere la propria vera personalità (21%). Per il 36% dei sondati il proprio avatar è più espressione di sé, rispetto alla versione pubblicata sui social media 2D. Dalle statistiche emerge pure che la moda digitale può essere importante per esplorare l’identità di genere. Il 29% del campione ha detto di sperimentare «tipi di corpo in qualche modo diversi dal proprio (più grandi, più piccoli, più muscolosi, ecc.)». Il 16% ha sperimentato un corpo non umano e il 15% una versione in grado di rappresentare altri generi. La maggioranza ha affermato che il proprio stile nel mondo reale si ispira almeno «in qualche modo» a ciò che indossa il proprio avatar. La gran parte degli intervistati della Gen Z pensa che esprimersi in spazi immersivi li aiuti a sentirsi più a proprio agio nel presentarsi al mondo fisico. Il 62% del panel ha rivelato di tenere «molto» all’aspetto del proprio avatar e il 37% è stato incoraggiato a cambiare il proprio taglio di capelli. Infine, il 34% ha indossato stili più audaci e colorati grazie al proprio alter ego digitale.
Nato in Canada nel 1986 e presto adottato dal mercato italiano per via di uno straordinario equilibrio tra design, tecnica e coolness, l’outdoor firmato Museum è pronto al rilancio. Alessio Badia, che ne ha acquisito la licenza mondiale, anticipa i termini del progetto, che lo vede al fianco di Engadin Spirit
Difficile immaginare una cornice migliore di Saint Moritz, luogo simbolo del lifestyle alpino di lusso, per il rilancio di un brand iconico dell’outdoor. Dopo aver attraversato decenni e confini, Museum pone infatti in Engadina i blocchi per la ripartenza grazie al progetto di Alessio Badia, imprenditore visionario che ne ha acquisito la licenza worldwide e ne guida lo sviluppo su tre assi strategici: riposizionamento, design, internazionalizzazione. «Ho sempre amato le sfide - rivela Badia, esperto di marketing e moda - e mi definisco uno startup lover. Questa volta ho scelto di investire le mie competenze e la mia energia su un brand che mi rappresenta e che ha delle potenzialità enormi». Fissato per luglio, il ritorno di Museum sul mercato è supportato dalla holding svizzera Engadin Spirit, leader in servizi ed eventi sportivi, e fortemente voluto dalla ceo Maria Laura Eldahuk, presidente della Graubunden Tennis e vice presidente della Spta. «Il brand di fatto ha perso solo l’ultima stagione invernale - puntualizza Badia -. Si è trattato di una fermata ai box, più che di un vero e proprio stop». Una pausa utile a ridefinire la nuova ambizione premium dell’etichetta attraverso un’estetica più internazionale, che ne convoglierà l’espansione commerciale soprattutto verso la Mitteleuropa. Fondamentale nel cambio di rotta è la rilettura stilistica audace e contemporanea del direttore creativo Marco Vedovato, uno specialista del capospalla. «Il suo arrivo - commenta il general manager - conferma il riposizionamento di Museum in direzione di alti standard qualitativi di design e produzione. Una leva strategica verso un brand più desiderabile». «Tra gli obiettivi - prosegue - c’è innanzitutto la diversificazione delle collezioni, attraverso l’ampiamento del range di capi simbolo come la light down jacket e i modelli invernali
super performanti. Ma anche la sperimentazione di nuove linee di prodotti su licenza, come la sunglasses, già in programma, un vero e proprio link tra sport e moda». L’azione si sposta poi sulle strategie commerciali e di marketing, che puntano allo sviluppo di nuovi mercati: «Oltre all’Italia, storico riferimento del brand, riteniamo che Svizzera, Austria e Germania rappresentino un focus realmente importante - dice il manager - poiché sono Paesi con una significativa cultura del capospalla outdoor. Engadin Spirit, così radicata sul territorio, sarà la chiave d’accesso anche attraverso il lancio previsto per ottobre 2024 di “EWoK”, Engadin World of Experience, un’innovativa piattaforma dove confluiranno prodotti ed esperienze sportive e outdoor». Un nuovo linguaggio di comunicazione, connesso con natura, arte e musica, accompagna il rilancio di Museum, la cui sfida è quella di fidelizzare anche i clienti più giovani, coinvolti dai canali social e da un sito-vetrina e-commerce in progress. «Con l’invito all’esplorazione dello straordinario nell’ordinario e del sublime in ogni avventura», conclude Alessio Badia.
dentro la realtà. «Credo però - conclude - che una shopping experience come quella alle Galeries Lafayette non sarà mai replicabile nel Metaverso».
Forse non la pensa così l’insegna del fast fashion Mango, che in gennaio ha aperto il suo primo store immersivo nell’Outfit Shopping Mall di Roblox. Qui gli user possono interagire con il marchio, far provare ai loro avatar vestiti della linea deigitale creata ad hoc Mango Teen e acquistarli. Inoltre sono in grado virtualmente di comprare collezioni che si trovano nei negozi fisici. «Come azienda globale vogliamo rispondere alle necessità dei consumatori in ogni momento, location e format - ha spiegato Jordi Álex Moreno, director of Technology, Data, Privacy e Security del gruppo spagnolo -. Si tratta per noi di una pietra miliare, che ci permetterà di portare sulla piattaforma immersiva la nostra passione per la moda e, in parallelo, di rafforzare il nostro ecosistema di canali, offrendo prodotti differenziati, servizi ed esperienze». Police ha invece appena lanciato Audacityland, «una piattaforma basata su tecnologia Web 2.5 collegata a un Metaverso interattivo e navigabile, dove trovano rappresentazione i prodotti e i valori del marchio lifestyle». Così punta a «ridefinire le logiche d’interazione tra il brand e i suoi consumatori». La particolarità è che, iscrivendosi, gli affezionati della marca, nota soprattutto per l’eyewear, entrano a far parte della community, ottenendo un membership token personale univoco e certificato, grazie alla tecnologia blockchain. Inoltre accumuleranno P-Coin, navigando e compiendo missioni nel Metaverso Police e acquistando i prodotti della capsule collection Audacityland My.Avatar, composta da occhiali, fragranze e uno smart watch.
Realtà virtuale e aumentata: tutta una questione di device
In futuro si prospettano prodotti sempre più ibridi, da indossare nel mondo reale e virtuale
Giuliano Noci, professore di Strategia e Marketing del Politecnico di Milano, ci aiuta a collocare meglio queste iniziative eterogenee nel momento attuale. «L’entusiasmo sul Metaverso, sulla scia dei primi annunci di Mark Zuckerberg, aveva quasi dell’irrazionale - dice l’esperto -. Il trend a cui assistiamo oggi corrisponde di fatto ai cicli di sviluppo delle tecnologie, che sono sempre discontinui. Noi parliamo di Metaverso, ma sarebbe più giusto parlare di tecnologie immersive e di forme di contaminazione tra realtà fisica e virtuale. Con l’avvento dell’AI si parla anche di extended reality. Siamo entrati nel paradig-
I device per apprezzare appieno la realtà virtuale o aumentata non sono ancora smart, nemmeno nel prezzo, ma la ricerca va avanti. Anche Apple ha colto la sfida: in febbraio ha lanciato sul mercato Apple Vision Pro, uno «spatial computer», che fonde contenuti digitali con lo spazio fisico di chi lo indossa. Il visore a realtà “mista” ha da subito attratto retailer come J.Crew, Decathlon e Mytheresa, che hanno proposto esperienze immersive di shopping su Apple Vision Pro. «Realtà aumentata e virtuale sono un modo per suscitare emozioni – ha detto il ceo di Mytheresa, Michael Kliger, intervistato dal Textilwirtschaft -. Apple Vision Pro è un progetto pilota, non ha ancora un mercato, ma fa parte della nostra missione comprendere e conoscere questi argomenti nella fase iniziale». Meta, da anni nel settore (da quando si chiamava Facebook), starebbe invece lavorando a una versione economica del suo visore AR/VR, arrivato alla versione Meta Quest 3. Il gruppo guidato da Mark Zuckerberg è anche partner di EssilorLuxottica per gli smart glasses Ray-Ban Meta, che di recente hanno aggiunto nuove funzionalità software e aggiornamenti di Meta AI. Per esempio, si può chiedere a Meta AI di scattare fotografie a ciò che si guarda e di fornire dettagli informativi. L’AI multimodale può anche tradurre testi o suggerire didascalie in base a quanto visto.
Un Nft della Pinko Meta Love Bags Collection, presentata nel giugno 2022, prima mossa verso il Metaverso del marchio Pinko
ma dell’immersività, della capacità di ibridare spazi fisici e virtuali per realizzare esperienze interessanti, unendo il senso di presenza e la spazialità». «Vedo le tecnologie immersive come un processo inarrestabile - prosegue -. Le imprese dovranno imparare a usarle. Però a oggi le esperienze puramente virtuali non sono del tutto attraenti, almeno per chi non è giovane o non fa parte del mondo gaming». Inoltre una tecnologia si diffonde quando è utile e semplice da utilizzare. «Cosa che non avviene con gli attuali visori - sostiene Noci - anche se in certi casi si stanno rivelando di grande utilità, per esempio nel training dei medici e nell’installazione o manutenzione di impianti. Nel mondo consumer i visori faticano ad affermarsi, perché non si è ancora arrivati alla semplicità d’accesso. Vediamo che il real estate li usa per la “navigazione” negli appartamenti e l’automotive per far vivere l’esperienza della guida». «Oggi non sappiamo che device prenderà piede, ma di certo dovranno cambiare la potenza di calcolo e la connettività - aggiunge l’esperto del Polimi -. Siamo indietro rispetto a quanto postulato da Zuckerberg due anni fa. Deve diminuire la latenza e aumentare la potenza di calcolo». Noci non vede difficoltà sul fronte delle tecnologie (i Paesi più avanzati sono Usa e Cina, l’Europa è nelle retrovie) e i costi sembrano sostenibili. Ma emerge un deficit di competenze, anche nel marketing strategico: «Le esperienze - sottolinea in chiusura - devono essere trasformate in qualcosa di utile e di valore».
Dall’alto, in senso antiorario, gli smart glasses Ray-Ban Meta, il visore Meta Quest 3 e un modello di Apple Vision Pro
Ancora una volta, come è accaduto negli ultimi nove anni, la Ceo Roundtable di Fashion ha analizzato gli scenari di moda, lusso e tecnologia. Alla sede della Borsa due panel con gli imprenditori di questi settori, di fronte a un pubblico di 120 selezionati addetti ai lavori
DI ALESSANDRA BIGOTTA E ANGELA TOVAZZIFare il punto su un mercato volatile, mettendo a confronto le rispettive strategie e visioni, per centrare l’obiettivo di una crescita che oggi sembra ancora più difficile da raggiungere: con questo obiettivo comune si sono ritrovati recentemente a Palazzo Mezzanotte imprenditori di moda, lusso e tecnologia in occasione della 15esima edizione della Ceo Roundtable di Fashion. Come ha ricordato Marc Sondermann nel suo intervento introduttivo, «le realtà del made in Italy stanno attraversando con performance vastamente divergenti una fase complessa. Distinguere l’approccio giusto da quello sbagliato è particolarmente difficile ed è per questo che ci troviamo qui». Dai due panel sono emersi numerosi spunti di riflessione, ma soprattutto un’ampia panoramica sui cambiamenti in atto a tutti i livelli: le modalità di pagamento, il ruolo del punto vendita fisico calato in un contesto omnicanale, gli imprenditori che devono da un lato studiare nuovi prodotti e strategie di engagement del consumatore e, dall’altro, lasciare da parte l’individualismo per aggregarsi, in modo da accrescere la propria competitività. Anche sul fronte tecnologico c’è grande fermento: se il canale B2C va alla ricerca di un’experience su misura e “snackable”, il B2B deve ispirarsi allo stesso B2C per aggiornare le proprie modalità organizzative e comunicative.
ma affidabili, con al centro il cliente: così si costruisce
NICOLA DE CESARE
SENIOR DIRECTOR E-COMMERCE & INTERNATIONAL MARKETS
PAGOLIGHT
Ci troviamo di fronte a consumatori alle prese con l’inflazione e l’aumento generalizzato dei prezzi, che da un lato sono costretti a fare scelte sempre più ponderate negli acquisti ma che, dall’altro, non vogliono rinunciare all’aspirazionalità delle loro scelte. Ecco allora che entriamo in gioco noi di PagoLight, soluzione finanziaria omnichannel di Compass Banca (Gruppo Mediobanca), leader nel credito al consumo, basata su una formula unica nel suo genere: consentiamo infatti alle persone di non rinunciare ai loro oggetti del desiderio, potendoli comprare subito e dilazionando il pagamento fino a 24 rate per importi fino ai 5mila euro. Suddividere in piccole rate l’importo degli acquisti, online e nei negozi fisici, permette l’accesso a prodotti caratterizzati da ticket medio-alti e alti, coprendo ad ampio spettro i bisogni di spesa delle persone. Le nostre parole d’ordine? Accessibilità, affidabilità e flessibilità. PagoLight permette ai brand di coinvolgere nuove fasce di consumatori con un potere di spesa prospettico e di migliorare i tassi di conversione, favorendo sia l’aumento dello scontrino medio, sia le occasioni di acquisto.
ANDREAMOLTENI
CEO TESSABITLa bussola per orientarsi nell’incertezza attuale è il motto “Be true to yourself”, ossia restare fedeli al dna ma aprendosi al cambiamento. Noi, con le nostre quattro location sul lago di Como, per un totale di 150 vetrine e 4-5mila metri quadri di superficie di vendita, dobbiamo intrecciare il genius loci con il multichannel e l’internazionalità, fornendo ai clienti da tutto il mondo un’experience a 360 gradi, anche grazie alla partnership con hotel di prestigio. Non siamo semplici partner commerciali dei brand con cui lavoriamo, ma leve di visibilità anche presso la fascia emergente delle generazioni più giovani, che mostrano grande interesse per il lusso. Ai marchi però dico, attenzione ai prezzi: se l’”elevation” di cui si parla si riduce a un mero rialzo dei listini, il consumatore, anche di alto livello, non ci sta.
ALESSANDRO BOGLIONE VICEPRESIDENTE BASICNET
Mai privilegiare i numeri in sé a scapito delle strategie e di una visione di lungo raggio: una scelta che guida da sempre BasicNet. Già 25 anni fa abbiamo scelto di lavorare a livello globale non con nostre filiali, ma con imprenditori locali. Un approccio che ci ha garantito quella flessibilità che, oggi più che mai, è decisiva per affrontare il mercato. E’ chiaro che i numeri devono essere sani, ma non sempre la salute dei marchi, che è la nostra priorità, si misura solo tramite i fatturati e gli utili: siamo convinti che il successo non si basi su metriche di breve termine. Un tema sempre al centro della nostra attenzione sono i prezzi: in quest’ambito direi che siamo un po’ “talebani”, nel senso che vogliamo essere più democratici possibile. Un’eventuale variazione dei listini nasce dal percorso che fa il prodotto, non certo da speculazioni.
Fornendo funzionalità avanzate ai clienti in ambito sia B2C e B2B, noi di Shopware possiamo osservare da vicino come cambiano i due canali. In particolare, notiamo che in entrambi si fanno strada nuove generazioni che, nel caso del B2B, sono rappresentate da giovani buyer che magari fanno esperienze d’acquisto in privato nel B2C con modalità avanzate, ma poi si ritrovano a essere frenati da sistemi legacy e obsoleti nell’operatività day by day. Invece il B2B deve ricalcare le dinamiche del B2C, con gli agenti di vendita che si trasformano in consulenti come è successo nella nostra intesa con Wortmann, colosso tedesco da 3 miliardi di ricavi, noto per il marchio Tamaris: la digital salesroom, avviata durante il lockdown per far interagire il network dei buyer internazionali, è tornata utile anche dopo la pandemia, con ricadute positive sulla conversion rate e l’apertura verso i mercati globali.
FEDERICO BETTI BUSINESS DEVELOPMENT LEADER ALPENITE (GRUPPO ARSENALIA)
Le modalità di comunicazione tra le persone cambiano e i brand non possono che adottare un modo diverso di dialogare con la loro clientela, elevando l’esperienza di acquisto tramite abilitatori tecnologici a partire da Whatsapp, integrabile in tutti i sistemi aziendali. A noi spetta aiutare le imprese a sfruttare questo e canali analoghi in tutte le fasi del customer journey, raggiungendo i consumatori con strumenti diversi e più immediati rispetto a quelli abituali: è questa la base del “conversational commerce”, il commercio elettronico basato sulla tecnologia conversazionale, dove l’AI gioca un ruolo chiave. Pensiamo ad esempio al concierge digitale che trasferisce all’utente, in modo appunto conversazionale, le informazioni di cui quest’ultimo è alla ricerca quando è
90% degli italiani tra i 16 e i 64 anni usa WhatsApp. Tutti siamo diventati conversational
interessato a un prodotto. Anche all’interno delle aziende questi canali possono agevolare la comunicazione e il business intrafiliera, riducendo tempi e costi e, non ultimo, semplificando il lavoro di buyer e store manager. Questo soprattutto in filiere frammentate come quelle dell’occhialeria o della calzatura. Un fatto è certo: i customer service stanno diventando centri di ricavi.
Il consumatore, prima ancora che conquistato, va sedotto, trasmettendogli un messaggio coerente tra prodotto e scelte di comunicazione: ancora oggi, in piena era tecnologica, sono l’emozione, il desiderio e la curiosità a far scattare l’acquisto. Non è così scontato che, tra i canali distributivi, l’online abbia soppiantato il negozio fisico: anzi, stiamo notando che quest’ultimo è in rimonta, anche se non si può più pensare a compartimenti stagni. Da tutti i canali si può imparare ancora molto, a livello sia di distribuzione che di comunicazione: prendiamo per esempio i social, decisivi per l’affermazione o meno di un brand, ma da monitorare attentamente nelle loro peculiarità e da seguire con strategie differenziate. Sperimentare continuamente, mettendosi in discussione ogni giorno e avendo in azienda persone focalizzate su tecnologia e innovazione: questa è la regola della nostra quotidianità di imprenditori, attingendo idee anche da settori diversi da quello in cui ci muoviamo con maggiore agilità e consapevolezza, ossia la moda. Per esempio, per il marchio John Richmond ci siamo chiesti: perché non provare a introdurre in luoghi di grande passaggio le vending machine, prendendo spunto dai distributori automatici del food? Detto, fatto: la formula sta piacendo e generando engagement.
In una value chain complessa e articolata, tech e intelligenza artificiale sono booster di efficienza
Sopra, una delle vending machine dedicate a John Richmond, uno dei marchi di punta del Gruppo Arav. Collegate all’e-commerce e accessibili H24, sono un esempio di omnicanalità fuori dai soliti schemi, ideali per essere collocate in centri commerciali, aeroporti, stazioni e anche su strada
ATTILA KISS CEOGRUPPO FLORENCE
Andare oltre modelli statici significa capire che l’insieme vale più della somma dei singoli. Partendo da questa convinzione abbiamo costituito il Gruppo Florence, una piattaforma italiana integrata, formata da un network di laboratori che rappresentano l’eccellenza nell’abbigliamento, nelle calzature e nella pelletteria made in Italy al servizio dei brand internazionali del lusso. Fanno parte del Gruppo una quarantina di imprenditori per circa 100 brand, e la mission che ci poniamo è aiutarli a esprimersi al meglio attraverso una struttura manageriale. Insieme possiamo assecondare le altissime aspettative dei grandi committenti, abbattendo i costi ed elevando il livello del servizio. Questo anche tramite la tecnologia e l’AI, che permettono di accorciare i tempi di produzione della supply chain, gestire in modo digitalizzato l’archivio per dare ai brand risposte precise e molto rapide sul prodotto, progettare in 3D, fare sfilate con gli avatar a complemento dei prototipi fisici e simulazioni. Sono tutti plus che difficilmente i piccoli imprenditori da soli riescono ottenere, mentre noi abbiamo le spalle abbastanza larghe per farlo.
L’altra faccia dell’evento alla Borsa di Milano è stata la convivialità, con un cocktail e un dinner che hanno permesso ai partecipanti di confrontarsi e scambiare opinioni sui temi clou della giornata
1. Francesco Ladisa (Founder di Ladisa Communication), Barbara Sertorini (Fashion magazine) e Mena Marano (Ceo del Gruppo Arav) 2. Attila Kiss (Ceo del Gruppo Florence) 3. Nicoletta Fasani e Viola Venturelli (Marketing Manager di PagoLight Web) 4. Federica Ronchi (Vice president Sales di Esw) 5. Luca Lambertini (Head of PagoLight Web) 6. Marcello Messina (Head of E-business di Tod’s) 7. Giacomo Curti (Marketing Manager di Swarovski) 8. Marc Sondermann e Barbara Sertorini 9. Enrico Mambelli (consulente strategico di Bisazza) 10. Mario Davalli (Country Manager di Sud ed Est Europa di Cegid) 11. Nicola de Cesare (Senior Director E-Commerce & International Markets di PagoLight 12. Davide Giordano (Regional Manager di Shopware)
Il noto artista e fotografo di moda è il mentore dei 12 studenti dell’Istituto Europeo di Design che firmano 10 progetti dove la moda incrocia l’arte per ridefinire l’identità, attraverso l’ibridazione di linguaggi diversi
Michel Comte, artista contemporaneo e tra i più celebri fotografi di moda degli ultimi 50 anni, ha accolto l’invito dell’Istituto Europeo di Design a seguire come Mentor il team di studentesse e studenti IED selezionati da tutte le undici sedi del Gruppo fra Italia, Spagna e Brasile per il progetto Identity, l’installazione presentata negli ambienti dell’ex Teatro dell’Oriuolo di Firenze in occasione di Pitti Uomo. Il team di lavoro multidisciplinare ha unito le competenze delle aree di fashion design e styling con quelle di interior design, video, sound e fotografia per sviluppare un progetto dove la ricerca dell’arte incontra la riflessione della moda. La cornice dell’ex Teatro dell’Oriuolo, nella sua nuova veste di polo formativo delle Arti Digitali e Visive IED, accoglie la prima installazione aperta alla città, proprio durante la settimana internazionale di Pitti Uomo. IED ha scelto come mentor Michel Comte per la sua capacità di esprimere l’arte attraverso i diversi linguaggi da lui utilizzati nel corso della sua carriera come fotografo, filmmaker, foto-giornalista, oltre che per la sua aderenza ai temi culturali e sociali, l’impiego di materiali innovativi e per l’attenzione ai processi di upcycling. «In un mondo consumato dal fast fashion, scelgo il denim giapponese come simbolo di uno stile sostenibile. Questa filosofia guida la mia curatela dell’installazione IED a Firenze, dove undici spazi di uguali dimensioni fungono da piattaforme per un’opera d’arte collettiva, fondendo personalità diverse in pura magia», dichiara Michel Comte.
L’artista ha indirizzato gli studenti nello sviluppo progettuale a partire da una riflessione sul tema dell’identità: in tempi in cui i dispositivi elettronici hanno superato la moda in termini di desiderabilità, come possiamo rappresentare chi siamo attraverso ciò che indossiamo? La moda resta uno dei mezzi principali per rappresentare chi siamo, la nostra identità. «Internet e globalizzazione hanno dato vita ad una moltitudine di nuove appartenenze virtuali appiattendo il senso di identità delle persone. L’individuo è diventato dividuo: non ha più un’identità o ne ha
troppe. Anche la moda ha finito per diventare vittima di questo fenomeno: dovrebbe aiutarci a indicare chi siamo e cosa rappresentiamo ma nella maggior parte dei casi è solo abbigliamento e decorazione», sostiene Danilo Venturi Direttore IED Firenze.
«Indipendentemente dalle scelte fatte da dodici studenti provenienti da tutto il mondo, esporre il concetto di identità culturale filtrato attraverso i loro occhi - nel nuovo polo IED delle Arti Digitali e Visive - ci permette di rivalutare la moda come una delle forme più significative d’espressione sociale e personale. E di tornare a guardare al futuro», conclude Danilo Venturi.
L’installazione è diffusa negli spazi interni e nel giardino dell’ex Teatro dell’Oriuolo, in un percorso che alternerà capi concettuali a sculture contemporanee.
1965: Tito, Imerio e Domenico Tacchella rilevano un laboratorio per la produzione di pantaloni e fondano Carrera
1968: debuttano i primi pantaloni in denim
1979: inizia la produzione dei jeans anche a Malta e, in seguito, in Marocco
1981: Villa Zenobio, antico edificio del 1700 vicino a Caldiero (Verona), diventa la nuova sede dell’azienda
Fine anni ’80: Carrera produce 15 milioni di jeans l’anno
1993: l’intera produzione dei pantaloni viene spostata in Tagikistan
2001: Gianluca Tacchella, figlio di Tito, arriva in azienda e diventa ceo
2015: viene firmato un accordo con Corea e Sud Africa per usare tessuti hi-tech
2018: è l'anno del lancio di Passport Jeans, uno dei modelli best seller
Da questo numero Fashion lancia “Controcorrente”, una nuova rubrica dedicata a strategie non convenzionali. Carrera, il marchio di jeans da uomo più venduto in Italia dal 1965, è il primo esempio. Opera con una filiera integrata di proprietà in Tagikistan, vende in canali alternativi e offre sempre gli stessi prodotti. «Siamo una commodity. Come la squadra del cuore, non si cambia mai!», spiega il ceo Gianluca Tacchella
DI MARIA CRISTINA PAVARINISentirsi
una “commodity” e andarne fieri non è scontato per un brand di moda. «Siamo come la Coca-Cola e la Nutella e, come la squadra del cuore, non si cambia mai!», spiega Gianluca Tacchella, amministratore delegato di Carrera, azienda atipica che, a differenza di un settore che vive di cambiamenti, ha scelto di non trasformarsi.
Da quasi 60 anni questo marchio di jeans da uomo è il più venduto in Italia, coprendo una quota di mercato di circa il 10%. Dal 1965, inoltre, appartiene agli stessi proprietari e segue il medesimo business model dai primi anni ’90. Serve principalmente una clientela over 30, a cui offre sempre lo stesso jeans in cotone con un ottimo rapporto qualità-prezzo, da 29,90 a 39,90 euro.
Molti marchi simili come Wampum, Rifle e Casucci non esistono più. Carrera, invece, resiste e registra un fatturato di circa 40 milioni di euro l’anno. «Se fallisci nel segmento uomo vuol dire che non hai capito niente del tuo cliente. Hanno chiuso tutti, a forza di cambiare e stravolgere le collezioni a ogni stagione», spiega Tacchella.
Per conoscere questa impresa abbiamo incontrato il ceo, che gestisce la società dal 2001 e appartiene alla seconda generazione della famiglia dei tre fratelli fondatori - suo padre Tito, gli zii Imerio e Domenico. Ci accoglie alla stazione di Caldiero, vicino a Verona, in una giornata piovosa e grigia come il suo Touareg Volkswagen e ci accompagna nella sede del brand. Quell’auto, quel gesto gentile e l’atteggiamento cordiale, ma franco, sono già chiari indizi per la nostra indagine. «Qui tutti collaboriamo al bene dell’azienda. Se c’è bisogno di scaricare un camion lo fa chiunque, anch'io», racconta.
«Da noi i dirigenti non guidano una Ferrari, né gli impiegati vanno in Panda. Qui viaggiamo quasi tutti in Volkswagen», sintetizza Tacchella. Arriviamo nella vicina Caldierino a Villa Zenobio, sede del marchio dal 1981. Entriamo nello showroom, un locale essenziale, con vista sul giardino del bellissimo complesso di metà Settecento. «Siamo andati sulla luna, abbiamo creato un mondo digitale e combattuto guerre mondiali. Tutto è cambiato. Solo il pantalone da uomo non cambia - sottolinea Tacchella -.
L'evoluzione dei top 10 competitor a volume
«Abbiamo un direttore creativo. Ogni volta che mi chiede cosa facciamo di nuovo la mia risposta è sempre: ‘Niente’. Evolviamo anche noi, ma in modo diverso»
Ma non cambiare è più difficile che evolvere». Il modello best seller è un 5-tasche in due fit, slim e regular. Garantisce sempre lo stesso comfort, con una vestibilità impeccabile e tessuti di qualità. «Molti clienti sanno già cosa vogliono e non entrano nemmeno in negozio…anche perché odiano farlo! Mandano le mogli a fare acquisti per loro», spiega l’imprenditore. Benché l’offerta dell’azienda evolva lentamente, nel team c’è anche un direttore creativo. «Il suo ruolo qui è diverso che altrove, perché non lo vede nessuno» afferma Gianluca Tacchella. «Anche noi cambiamo, ma per introdurre novità occorre tempo - continua -. Dopo tre anni il cliente compra i nuovi modelli e solo dopo ottodieci anni questi capi diventano bestseller. Ci vuole pazienza con l’uomo». «I prodotti Carrera sono sempre identici, grazie alla nostra esperienza e alla nostra filiera integrata in Tagikistan - spiega -. Dal 1993 questa organizzazione verticalizzata vicina a campi di cotone raccoglie, fila, tesse e produce quattro milioni di paia di jeans all’anno, grazie a più di 2mila donne alle quali riserviamo un trattamento dignitoso».
Dopo la caduta del muro di Berlino e la crescente concorrenza di Paesi con manodopera a basso costo, l’azienda cercava come delocalizzare la produzione in modo duraturo: «Lo spunto l’abbiamo trovato qui in Veneto, dove si produce il vino vicino alle vigne: abbiamo portato le
Molti clienti sanno già cosa vogliono. Per questo non entrano nemmeno in negozio e mandano le mogli a fare acquisti per loro
nostre fabbriche di pantaloni in un’area dove cresce il cotone. È stata un’idea vincente, perché siamo lì da 30 anni». Carrera fa scelte precise. «Crediamo nella filiera del rispetto - chiarisce il ceo -. Produrre una T-shirt di cotone costa 3 euro. Puoi essere bravissimo e convincermi a pagarla 100 euro, ma se la vendi a più di 20 euro non rispetti il cliente».
Anche la distribuzione è particolare. I marchi di moda cercano di vendere attraverso negozi su esclusiva, ma non Carrera. «La nostra distribuzione è strana, ma funziona: siamo ovunque vada il consumatore. Vendiamo nei monomarca di strade commerciali, negli ipermercati come Coop, Bennet e Brico, oltre ad Autogrill e sui traghetti a lunga percorrenza. Siamo in circa 2mila punti vendita e oltre 40 monomarca», continua Gianluca Tacchella. Il 40% del fatturato proviene dalla gdo, il 30% dai negozi monomarca, il 9% dall’ecommerce e il 5% dall’export, per metà in Germania, oltre ad altri canali, benché in passato fosse uno dei maggiori brand d’Europa ed esportasse il 50% dei suoi prodotti: «Siamo diventati esperti di logistica, visto che i nostri clienti ci chiedono solo di far performare i loro spazi. Raramente sbagliamo previsioni di fatturato, perché sappiamo già cosa comprerà il cliente».
Il marketing merita un discorso a parte. Nella moda è normale investire milioni di euro in comunicazione. Anche Carrera l’ha fatto
e lo testimoniano trofei, gadget e memorabila esposti nella sua sede, oltre a ricordi di sponsorizzazioni di ciclisti quali Marco Pantani e Stephen Roche e campionati di calcio come Italia ’90. Tuttavia, la strategia di Carrera oggi è cambiata.
«Il nostro marketing non è quello tradizionale. Per noi è efficace l’uso di volantini. Ne stampiamo circa 200 milioni all’anno - racconta Tac-
La distribuzione di Carrera è strana, ma funziona. Include negozi monomarca, gdo, Autogrill e traghetti. Il marchio deve essere ovunque vada il cliente
chella -. Mentre la signora fa la spesa, acquista anche i jeans per il marito». Il marchio intende crescere focalizzandosi su prodotti d’immagine, pur mantenendo prezzi accessibili: «Puntiamo su capi leggermente superiori, come le polo in materiali ricercati, che vendiamo nei negozi monomarca».
La parte donna rappresenta il 5% delle vendite. «Non riusciamo a servire la consumatrice in maniera adeguata, perché ciascuna ha esigenze diverse e una conformazione fisica differente», osserva Gianluca Tacchella e conclude: «Alla donna piace entrare in camerino, provare nuovi modelli e cambiare spesso. Tutt’altro rispetto all’uomo! Con lei non valgono le leggi delle commodity…».
1. Una selezione di jeans della collezione Carrera all’interno dello showroom nella sede dell’azienda 2-3. Il denim di Carrera è ovunque: ricopre cuscini e poltrone e lo indossano anche gli amici animali
Aesthetics and lightness are the principles behind the choice of our materials and technologies. Merino Connections, Monticolor winter attitude.
Con questo numero inauguriamo un nuovo spazio, dedicato esclusivamente alle donne. Donne che attraverso il talento, il coraggio e la determinazione sono riuscite a infrangere il fantomatico soffitto di cristallo: una barriera invisibile, fatta di stereotipi culturali e sociali, ma resistente, nonostante i progressi e le conquiste degli ultimi anni. Iniziamo con Sabine Brunner, che insieme ad altre tre donne sta scrivendo un nuovo capitolo di Mcm
ANGELA TOVAZZI
Daottobre 2022 c'è un triumvirato tutto al femminile alla guida di Mcm. SungJoo Kim, dinamica e visionaria imprenditrice coreana che ha acquisito il brand tedesco di accessori e abbigliamento nel 2005, ha affidato a Sabine Brunner e alle creative Tina Lutz Morris e Katie Chung il compito di rilanciare il marchio, facendo leva sul suo heritage e sulla sua identità di prodotto smart luxury, di alta qualità ma dal prezzo più accessibile rispetto alle griffe del lusso. Con il proprio bagaglio di esperienze costruito tra il mercato europeo e quello asiatico, Brunner è apparsa come la persona giusta per incrementare la coolness di Mcm tra le nuove generazioni di consumatori e guidare la traiettoria dell'espansione commerciale sullo scacchiere internazionale. Nata e cresciuta a Parigi, studi alla Esce International Business School, a 24 anni fa le valigie e se ne va all'estero: «Sono una persona curiosa e Parigi mi stava stretta - racconta -. Così, grazie anche alla conoscenza delle lingue, sono approdata a Hong Kong, dove ho iniziato a lavorare come sales manager da Stefanel». Nel 1998 la forte crisi finanziaria dell'ex colonia britannica la porta in Italia, presso Dkny, ma già l'anno dopo è di nuovo a Hong Kong. Ed lì che inizia davvero la sua carriera, sotto le ali
Un ritratto di Sabine Brunner, President & Global Commercial and Brand Officer di Mcm, acronimo di Modern Creation Munich. Dal 2005 il marchio fa parte del Sungjoo Group di Sung-Joo Kim
di Diego Della Valle, che le affida lo sviluppo del marchio Tod's e successivamente degli altri brand del gruppo marchigiano. «Nel giro di sei-sette anni abbiamo costruito tutto il mercato asiatico, non solo per Tod's, ma anche per Hogan, Fay e Roger Vivier - sottolinea -. Della Valle è stato il mio mentore. Si
1. Un outfit di Mcm per la Fall-Winter 2024 con in bella vista il logo del brand 2. Due look SS24 di abbigliamento e accessori. Il marchio punta a crescere anche nelle calzature, prodotte dalla pugliese Leo Shoes 3. Uno dei negozi Mcm. Il brand è attivo con 120 monomarca diretti e conta circa 600 multimarca a livello globale è fidato istintivamentee di me, ha scommesso su di me, mi ha lasciato crescere». 20 anni fa non era così scontato che una donna avesse potere decisionale, soprattutto in ambiti prettamente maschili come il retail e in Paesi all'epoca certamente non fertili per l'empowerment femminile. «Nonostante in azienda il fatto di essere donna non abbia mai costituito un ostacolo, non è stato semplice farsi rispettare in quell'ambiente - ricorda - ma ho la fortuna di avere un carattere molto forte e di non mollare facilmente». Anche oggi, dopo le battaglie e le posizioni conquistate dal genere femminile ai vertici delle imprese, la presidente di Mcm osserva che il suo modello di leadership è rimasto lo stesso: «Per chi è ai posti di comando sono fondamentali la calma e la gestione dello stress, la capacità di rassicurare sul fatto che per ogni problema c'è una soluzione». «Credo che la mia sia una forza tranquilla - aggiunge -. Preferisco essere autorevole, piuttosto che autoritaria. Mi reputo una persona "operativa", sono la prima a rimboccarmi le maniche quando serve. Non ho un'impostazione gerarchica,
LA "RICETTA BRUNNER" PER ARRIVARE AI VERTICI?
«Tanto lavoro. E poi il mio essere diretta e franca. Il saper controllare lo stress e rimanere calma nelle situazioni difficili».
TORNARE A ESSERE L’ALTERNATIVA SMART AI LUXURY BRAND, PUNTANDO SU ALTA QUALITÀ E PREZZI ACCESSIBILI
VALORIZZARE L’HERITAGE, RENDENDO ANCORA PIÙ COOL IL LOGO "VISETOS"
CRESCERE NELLA DISTRIBUZIONE INTERNAZIONALE E, IN ITALIA, APRIRE IL PRIMO MONOMARCA, CON MILANO COME OBIETTIVO
pur nel rispetto delle gerarchie». Caratteristiche che Brunner pensa siano legate «più alla personalità che al gender». Guardando indietro, realizza che la famiglia e la cura dedicata a crescere due figli non sono mai state un freno alla sua carriera, anche se negli ultimi dieci anni, pur riuscendo spesso a entrare nella short list di alcuni gruppi per la posizione di ceo, non è mai riuscita ad avere la meglio su un uomo. «Alla fine - commenta - come capitano d'industria anche le realtà della moda continuano a preferire persone di sesso maschile, relegando le donne ad altre attività più satelliti e dimostrando che i pregiudizi non sono affatto superati». Per smuovere lo status quo ci vorrebbero forze propulsive profonde, capaci di scardinare schemi culturali cristallizzati. «Non è però un problema delle donne, noi non c'entriamo - conclude Brunner -. Perché raggiungere i vertici per il genere femminile è ancora un'impresa? Perché continuano a esserci così poche manager nelle stanze dei bottoni? Non siamo noi a dover rispondere. Tocca agli uomini».
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QUAL È IL SUO
MANTRA NEL LAVORO?
«Mai prendere le cose sul personale. Il lavoro deve restare lavoro. Mantenere un sano distacco garantisce serenità e lucidità nelle scelte».
UN CONSIGLIO PER LE MANAGER A INIZIO CARRIERA?
«Di non contare le ore. Se si vuol emergere bisogna impegnarsi con tanta determinazione e flessibilità. Una regola che vale per tutti, al di là del genere».
Per Marzotto, gruppo tessile italiano con quasi 190 anni di storia, è iniziata una nuova fase. La famiglia Favrin, da shareholder del gruppo, dopo un periodo di stallo, ha scommesso sull’azienda e rischiando ne ha ottenuto il controllo. Davide Favrin, oggi azionista di maggioranza e ceo, più che nelle logiche finanziarie crede nel valore dello spirito imprenditoriale, che permette di vincere le grandi sfide di anni burrascosi come quelli che stiamo vivendo
Dalontano l’edificio dove ha sede l’azienda ha un aspetto imponente. Avvicinandosi, la prima impressione corrisponde alla realtà.
La Marzotto di Valdagno non è solo una fabbrica, ma una città nella città che si estende per chilometri, percorribili solo in bicicletta o in auto.
La sede amministrativa, che si trova a sinistra dell'ingresso, assomiglia a un museo. Alle pareti si trovano ritratti e opere d'arte. Nella sala conferenze, al primo piano, il dipinto a olio di Luigi Marzotto scruta con serietà i visitatori. E a buon titolo, perché tutto è iniziato con lui. Nel 1836, infatti, ha fondato il Lanificio Luigi Marzotto & Figli. All'epoca aveva dodici dipendenti. A quasi 200 anni di distanza, il Gruppo Marzotto è in assoluto il più grande conglomerato tessile in Italia, con un fatturato aggregato di oltre 500 milioni di euro e più di 3.800 dipendenti. La Marzotto ha dimensioni giganti e una lunga storia. Per chi la guida è una responsabilità enorme.
Davide Favrin porta questo compito sulle sue spalle. Non solo è amministratore delegato del gruppo dal 2018, ma recentemente ne è diventato anche l'azionista di controllo. Questa primavera la famiglia Favrin ha, infatti, acquistato ulteriori quote dagli eredi Marzotto. In questo modo si è assicurata il controllo del gruppo di Valdagno, che ha anche una partecipazione nel setificio Ratti di Como. Al comando dell'impero industriale, dunque, non ci sono più i Marzotto, ma i Favrin. Hanno preso il timone in tempi turbolenti. Per sopravvivere come produttori tessili sono sempre stati necessari nervi saldi, ma nel recente passato le fluttuazioni economiche sono state straordinarie. Nel 2020, l'anno della pandemia, le vendite sono crollate. Non appena è iniziata la ripresa, la Russia ha invaso l'Ucraina, facendo schizzare alle stelle i costi dell'energia.
Anche il 2024 si sta rivelando difficile. «È un anno molto complicato», esordisce Favrin. Tra
Ph: Alberto Bernasconi
le criticità maggiori il fatto che i marchi e i rivenditori hanno riempito i loro magazzini di scorte di tessuto nell'anno precedente per paura di rimanere senza forniture, che ora stanno gradualmente riducendo. «L’andamento del nostro settore registra una flessione degli ordinativi tra il 20% e il 30%, con picchi anche più alti in alcuni momenti d’inizio anno, rispetto a quello scorso. L’auspicio è che alla fine del 2024 il mercato si possa riprendere, una volta normalizzati i magazzini, grazie alla tenuta dei consumi», spiega l’imprenditore.
Oltre alle fluttuazioni economiche, i produttori di tessuti italiani devono far fronte a cambiamenti strutturali. In primo luogo, tra i loro clienti si sono imposti giganti come Lvmh e Kering, gruppi francesi del lusso che dettano le condizioni e sottopongono i loro fornitori a severi audit, che richiedono tempo e denaro. Da Bruxelles, poi, sta arrivando un'ondata di nuove leggi per l'industria tessile. La Commissione EU insiste sulla trasparenza della catena di fornitura, obbligando tutte le aziende coinvolte a documentare con precisione le proprie attività e a scambiare dati tra loro. Anche sul fronte del prodotto è in corso una trasformazione. L'abito tradizionale ha perso importanza ed è più richiesto un abito moderno, che mixa eleganza e performance. È comodo, non si sgualcisce e può essere
«Questa operazione è stata fatta per garantire uno sviluppo industriale all’azienda e non è stato un atto di speculazione. C'è molto da fare. La squadra c'è»
messo in lavatrice. Ci sono poi alcuni nuovi mercati che stanno diventando interessanti. Molti guardano all'Arabia Saudita e all'Africa, vista come potenziale mercato futuro. Anche ridurre solo i costi non basta più. Dopo la caduta del Muro di Berlino, molte aziende si sono trasferite a Est per produrre a condizioni più vantaggiose e rimanere competitive. Tra queste c'è lo stesso Gruppo Marzotto, che ha acquisito fabbriche in Repubblica Ceca e Lituania, oltre a essere presente in Tunisia.
Tuttavia, oggi il vantaggio dell'outsourcing è diventato più “effimero”, perché i Paesi cosiddetti emergenti crescono molto velocemente. Dice Favrin: «Nella Repubblica Ceca o in Li-
Nella foto, Davide Favrin, classe 1971. Dal 2018 è amministratore delegato di Marzotto Group, ma ora ne è anche azionista di controllo
tuania, per esempio, l’efficienza degli stabilimenti è altissima. Tuttavia, il costo del lavoro è aumentato negli ultimi anni, mentre in Italia non ha seguito lo stesso andamento. Così il divario tra Italia e gli altri Paesi produttori si è ridotto considerevolmente».
Invece di tagliare i costi, le grandi aziende tessili stanno ampliando la loro offerta. Vitale Barberis Canonico ha scelto di entrare nei settori donna e athleisure. Reda ha creato la divisione Active e si rivolge al consumatore finale dopo l'acquisizione dello shop online Lanieri. Con Tailoor, Reda ha anche sviluppato una soluzione su misura, che offre come software-as-a-service a terzi.
Il Gruppo Marzotto non è stato a guardare in fatto di diversificazione. Sta intensificando l'impegno nel tessile per la casa. Con i marchi Marzotto Fabrics, Estethia/G.B. Conte e Opera Piemontese entra nel segmento della moda donna, che oggi rappresenta fino al 20% delle vendite. Si occupa anche di packaging sostenibile. Grazie a Linificio e Canapificio Nazionale ha sviluppato L’!ncredibile, una linea di filati sostenibili adatti a confezioni di reti per frutta e verdura, ma utili anche per allevare le ostriche.
La sostenibilità è al primo posto dell'agenda di tutti. Vitale Barberis Canonico, Reda e Marzotto rendono conto dei loro sforzi nei rapporti di sostenibilità. Reda si è trasformata in B-Corp, come Linificio e Canapificio Nazionale. Ratti è diventata una Società
1. Un momento della lavorazione all'interno del Linificio e Canapificio Nazionale, che fa parte delle acquisizioni più recenti del gruppo di Valdagno 2. Marzotto opera nel settore tessuti con i marchi Marzotto, Estethia/G.B. Conte, Tallia di Delfino, Marlane e Opera Piemontese
Benefit. «Altre realtà del gruppo faranno altrettanto», afferma Favrin. Le numerose piccole e medie imprese in Italia hanno molte più difficoltà a far fronte al rapido ritmo del cambiamento. Per questo Favrin è convinto che le Pmi debbano crescere e collaborare. «Marzotto è da sempre un polo aggregatore, che ha basato la propria crescita sul fare sistema - commenta -. Adesso la Marzotto è in una posizione di leadership». Per questo il gruppo potrebbe orientarsi verso una fase di crescita attraverso acquisizioni. «È possibile», ammette l'imprenditore e precisa: «Dobbiamo continuare il nostro progetto di diversificazione nel design, rafforzare l’integrazione lungo la filiera e favorire partner-
Le famiglie Donà Delle Rose e Favrin controllavano insieme il Gruppo Marzotto attraverso la holding Trenora, tramite Manifatture Internazionali (Donà Delle Rose) e Faber Five (Favrin), detenendo ognuna il 40%. Il restante 20% apparteneva a Vittorio Marzotto. Questo equilibrio si basava sulla stima reciproca tra le parti. Per convincere Favrin a entrare in Trenora, Andrea Donà Delle Rose ha frazionato il suo pacchetto suddividendo le quote e permettendo alle parti di possedere quote identiche
Come è cambiato l'assetto del gruppo dopo che la maggioranza dell'azienda è passata nelle mani dei Favrin Faber Five
ship esterne alla ricerca di nuove tecnologie». Per affrontare tutte queste sfide è necessario il capitale, ma oggi da solo non basta. «Grandi investimenti, soldi a pioggia, magari per un’azione finanziaria, non funzionano», sostiene. Oggi, secondo Favrin, serve qualcos'altro: «Ci vuole l'imprenditore».
L'ASCESA
Davide e il padre Antonio Favrin ne sono un chiaro esempio. Quest'ultimo, in particolare, si è fatto strada partendo dal basso. Da giovane, a metà degli anni Sessanta, entrò nella vetreria Zignago di Portogruaro, che dal 2005 è di proprietà del ramo di Luca e Gaetano Marzotto e oggi fattura intorno a 800 milioni di euro. Tra l'altro gli eredi Marzotto contano anche una piccola presenza nel tessile tramite una partecipazione in Hugo Boss. Grazie all'intuito, al rigore e alla capacità di fare un passo indietro per interpretare le dinamiche familiari, Antonio Favrin s’è fatto strada fino raggiungere la posizione di presidente del gruppo. Dopo l'inizio del nuovo millennio, Pietro Marzotto, il patriarca della famiglia, lo trasferì dalla vetreria Zignago alla divisione tessile, all'epoca in crisi. Sotto l'egida di Favrin, la situazione iniziò a migliorare.
Il figlio Davide, invece, è entrato nel Gruppo Marzotto nel 2007. Si è occupato prima di Filivivi, poi di Linificio e Canapificio Nazionale, entrambe aziende complesse da gestire. Nel 2015 è stato promosso a ceo della Marzotto Wool Manufacturing, che rappresenta più della metà del fatturato del gruppo, di cui nel 2018 è diventato ceo.
Per non perdersi all'interno dell'impero Marzotto, Favrin ha riunito intorno a sé un gruppo dirigente. «Ho un mantra - dice -. Come manager ho sempre creduto che fosse fondamentale costruire una squadra forte e motivata, con caratteristiche umane, cultura e professionalità diverse, ma con obiettivi ben chiari. La Marzotto è una grande squadra». Nel 2020, durante il Covid, ha dovuto superare la prova più difficile della sua carriera. Le fabbriche si sono fermate. La divisione lana ha perso il 45%, mentre Marzotto Lab, specializzata nella manifattura di tessuti in fibre come cotone e lino, ha visto scendere la sua performance del 35%. Anziché produrre tessuti per abiti di pregio, le fabbriche hanno iniziato a realizzare mascherine e si sono trasformate in centri vaccinali.
Ratti S.p.A.
Con la scomparsa di Andrea Donà Delle Rose, i rapporti tra le parti si incrinano. Per superare lo stallo si procede con un’asta competitiva, vinta da Faber Five. Così Favrin acquisisce il 40% di Manifatture Internazionali e, in seguito, il 20% in capo a Vittorio Marzotto, ottenendo il 100% di Trenora. In questo modo i Favrin si assicurano il controllo del gruppo di Valdagno, che ha anche una partecipazione nel setificio Ratti di Como, di cui la famiglia Favrin era già azionista.
«Se prima della pandemia mi avessero chiesto "Cosa succede in presenza di cali delle vendite così alti?", avrei risposto: "Un’azienda manifatturiera difficilmente può sopravvivere, specie per un periodo così prolungato". Invece siamo riusciti a resistere. In questi mesi di buio, abbiamo ridisegnato il nostro modello di business». In uno scenario ipotetico per Marzotto Wool Manufacturing, l'imprenditore ha calcolato come sarebbe stato possibile mantenere una redditività sufficiente, nonostante il calo permanente del 25% delle vendite. Lo "stress test"
2. 3. Diverse fasi della produzione all'interno della fabbrica di Valdagno, attiva dal 1836 su iniziativa del capostipite Luigi Marzotto. In quasi 190 anni il gruppo si è trasformato in una rete di imprese con oltre 3.800 addetti, 10 stabilimenti in Italia più una serie in 5 Paesi esteri
Fatturato, ebitda e risultato netto in Mln euro
Fatturato
Ebitda
Risultato
I dati non includono i ricavi delle partecipate tra cui Ratti, Uab Lietvilna e Tintoria di Verrone
Fonte: Gruppo Marzotto
ha portato alla conclusione vincente di concentrarsi sui prodotti che offrono il maggior valore aggiunto, perciò il margine più elevato. Quello che sembrava banale è stato un lavoro complicato e dettagliato. «La situazione - sottolinea - ci ha portato a rivisitare le collezioni, le tecnologie e i processi, tutto secondo una logica sostenibile». Nella divisione Marzotto Lab è stata accorpata la gamma di prodotti per la casa, che prima era spalmata in vari reparti, mentre ora tutto è riunito nella linea Marzotto Interiors. Il gruppo sta investendo molto in questa nicchia di prodotto, ma la missione non è facile: «Il design è diverso dalla moda. Quest’ultima segue sempre logiche stagionali. Nell’arredamento, invece, i progetti richie-
dono tempi più lunghi per essere sviluppati». Tutte queste iniziative sono state possibili grazie ai dipendenti. Chiusi in casa, tutti si sono mobilitati. Nessuno guardava mai l'orologio. «I dipendenti - racconta Favrin - hanno dimostrato grande professionalità e generosità. Ci si confrontava a ogni ora del giorno e della notte, per riuscire a trovare soluzioni per ridurre i danni. Ho visto dalla parte di tutti i nostri lavoratori un attaccamento all’azienda che non mi aspettavo»
LA STORIA CONTINUA
È stata un'esperienza che i Favrin non avrebbero mai dimenticato ma, dopo la pandemia, è arrivato un altro shock. Nel settembre 2022
è morto il vicepresidente dell'azienda Andrea Donà delle Rose, rampollo di una famiglia aristocratica veneziana, il cui padre Leonardo aveva sposato una Marzotto. Era stato lui a determinare le sorti del gruppo, di comune accordo con il padre di Favrin. La sua morte ha mandato in frantumi la struttura e gli equilibri che avevano garantito la stabilità della realtà di Valdagno fino a quel momento.
Nel 2014 Donà delle Rose aveva incoraggiato Antonio Favrin a entrare nella holding Trenora, a cui fa capo la maggioranza del Gruppo Marzotto attraverso un'altra società, Wizard. Per creare un assetto paritario, Donà delle Rose e Favrin detenevano ciascuno una quota pari al 40% di Trenora. Il restante 20% apparteneva invece a Vittorio Marzotto. La squadra Donà delle Rose-Favrin funzionava bene. «Abbiamo fatto tanto insieme - ricorda Favrin -. La Marzotto è cresciuta molto». Tuttavia, con l'ingresso degli eredi di Donà delle Rose, l'armoniosa convivenza è terminata. I discendenti avevano idee diverse in fatto di strategia e corporate governance rispetto ai Favrin. «Purtroppo, non ci siamo trovati in sintonia - spiega l’imprenditore - e ci siamo ritrovati in una situazione di stallo decisionale». La paralisi è durata un anno e mezzo e ha generato «un pe-
1. 2. Tutte le attività del settore lana sono incluse nella Marzotto Wool Manufacturing, istituita nel 2015 3. Tra i progetti di diversificazione del gruppo Marzotto c'è L'!ncredibile, una linea di filati sostenibili adatti a confezioni di reti per frutta e verdura, ma utili anche per allevare le ostriche
La lana è il cuore ma la diversificazione è avviata
Ricavi 2023* del Gruppo Marzotto per settore di attività
Tessuti lana 57%
Filati lino 12%
Cotone 11%
Seta 7%
Velluto 5%
Arredo 3%
Altro 3%
Filati Lana 2%
TOTALE 100%
*Gruppo Ratti, Uab Lietvilna e Tintoria di Verrone consolidato proporzionalmente
Fonte: Gruppo Marzotto
momento da film. «Non nascondo che ero in preda a una certa tensione», ammette Favrin. Questo sentimento era anche espressione di un conflitto interiore. Da un lato, i Favrin non volevano voltare le spalle al Gruppo Marzotto. Dall'altro, non potevano escludere di doverne uscire, benché Antonio Favrin avesse dedicato 23 anni della sua vita al gruppo e suo figlio Davide trascorso quasi un ventennio in un’impresa di cui, come ciascun dipendente, si sentiva parte di una grande famiglia.
gia e corporate governance rispetto ai Favrin. «Purtroppo, non ci siamo trovati in sintoniaspiega l’imprenditore - e ci siamo ritrovati in una situazione di stallo decisionale». La paralisi è durata un anno e mezzo e ha generato «un periodo particolarmente difficile, anche dal punto di vista emotivo», ha sintetizzato Favrin. L'unica via d'uscita per evitare la paralisi è stata lo scioglimento dell'alleanza attraverso un'asta competitiva. Si tratta di una procedura in base alla quale le due parti presentano un'offerta di acquisto per la quota dell'altra, senza sapere quanto l'altro azionista metterà sul tavolo. Poiché entrambi gli azionisti devono vendere le loro quote, se la controparte fa un'offerta più alta e la proposta non può essere migliorata, entrambi hanno interesse a offrire un prezzo che corrisponda al valore della quota. Così i Favrin e i discendenti di Donà delle Rose si sono presentati davanti al notaio, che aveva in mano due buste sigillate. Una conteneva l'offerta dei Favrin per la quota del 40% di Trenora detenuta dai Donà delle Rose, l'altra la proposta dei Donà delle Rose per la partecipazione degli stessi Favrin. È stato un
«Saremmo usciti con il capitale e avremmo cambiato vita - racconta -. E forse, dopo il faticoso lavoro degli ultimi anni, tra Covid, guerre e problemi socio-politici, sentivo anche il bisogno di prendere un periodo di pausa».
Per la testa del businessman stavano passando tutte queste considerazioni, quando il notaio aprì le buste e annunciò il risultato: i Favrin avevano vinto l'asta, avendo fatto un’offerta di 32 milioni di euro «con un ampio scarto» su quella dell’altro socio. Qualche settimana dopo, i Favrin acquistarono anche la quota del 20% di Vittorio Marzotto. Da allora, detengono il 100% di Trenora, perciò la maggioranza dell'intero Gruppo Marzotto.
«Alle fine ha prevalso il senso di responsabilità», afferma Davide Favrin. «Sicuramente - aggiunge - non è stato un atto di speculazione. Tuttavia, la cifra che abbiamo messo sul tavolo è stata congrua vista la situazione. Tuttavia, secondo noi, l’azienda vale molto di più e siamo convinti di poterla valorizzare ulteriormente in futuro».
«C’è molto da fare. La squadra c’è e cogliamo questa sfida con forte convinzione», conclude con orgoglio Favrin. La storia della grande Marzotto continua.
In Fortezza da Basso, un’esposizione, un film e una collezione speciale generata dall’AI per lanciare la prima linea di filati e maglieria di lusso ricavata da fibre di scarto
Insieme per un futuro di lusso sostenibile. Dalla collaborazione tra Consinee, produttore cinese di filati pregiati, e Vitelli, brand italiano di maglieria, nasce Vitelli X Consinee: The Next Regeneration, una collezione di filati di cashmere interamente ricavati da fibre di scarto – viene rigenerato il primo rifiuto dalla discarica – che dà origine a una capsule di maglieria slow-made, in cui l’identità culturale e l’inventiva tecnologica sono a sostegno di pratiche produttive più responsabili.
Presentata al prossimo Pitti Uomo, Vitelli X Consinee: The Next Regeneration è innanzitutto un’esposizione in cui il direttore creativo del brand di maglieria, Mauro Simionato, esplora le sfumature dell’ibridazione creativa, indagando su come percepiamo e consideriamo l’idea del “fatto bene” e su come questa possa essere ampliata in un futuro sostenibile della moda. L’installazione rappresenta il desiderio d’esplorare temi cari alla cultura cinese come “armonia” e “patrimonio culturale” attraverso gli occhi di un designer non nativo, portando avanti allo stesso tempo gli sforzi dell’azienda cinese verso il passaggio a una produzione circolare.
Con particolare enfasi sull’urgenza di protocolli diffusi di produzione sostenibile nel campo del lusso e del design, The Next Regeneration auspica la “produzione rigenerativa”, proponendo il nuovo concetto di “riciclato bene” – che implica la riconsiderazione dei rifiuti pre-consumer come fonte pura per nuovi prodotti di lusso – e sperimentando un’ottimizzazione dell’uso degli avanzi in termini di scalabilità industriale: la fase di progettazione deve partire dagli “avanzi” anziché generarne di nuovi. “Per Consinee la sostenibilità è un valore chiave – afferma il CEO di Consinee, Boris Xue. Siamo
entusiasti di collaborare nuovamente con Vitelli e il suo fondatore, Mauro Simionato. Questa collaborazione è una dimostrazione del nostro impegno nel produrre filati di cashmere di alta qualità, abbracciando al contempo pratiche sostenibili. Trasformando gli scarti di produzione in filati di lusso, miriamo ad essere fra i pionieri della moda sostenibile. Attraverso la nostra collaborazione con Vitelli, sottolineiamo proprio l’importanza dell’innovazione sostenibile. Consinee è orgogliosa di sostenere e collaborare con giovani designer, fornendo loro le risorse necessarie per dare vita alle loro creazioni rispettando l’ambiente. Crediamo che partnership come questa siano cruciali per il futuro della moda sostenible”.
Se Pitti Uomo ha un ruolo significativo nel panorama dell’abbigliamento maschile globale perpetuando l’essenza della tradizione sartoriale italiana, Simionato sfuma i confini tra l’installazione e lo spazio che occupa presentando una narrazione polifonica ispirata alle arti e mestieri dell’antica Ningbo - ora sede delle principali strutture produttive di Consinee - nella provincia cinese di Zhejiang, con un focus sull’eredità artistica della dinastia Norther Song: l’ispirazione proviene dalla ceramica classica Celadon, dai dipinti paesaggistici tradizionali, così come dalla tecnica originale di ricostruzione con le macerie (Wa Pan) impiegata nella regione fin dal decimo secolo. All’interno della spettacolare mostra di Vitelli X Consinee alla Fortezza da Basso, un nuovo film diretto da Simionato mostrerà l’intero processo di realizzazione del filato di cashmere più sostenibile. Per arricchire ulteriormente l’esperienza con la tecnologia, una collezione speciale di classici Vitelli generata dall’intelligenza artificiale sarà virtualmente esposta insieme alla collezione fisica.
Nel giro degli ultimi tre anni il gruppo
Prada ha rafforzato la sua filiera, rilevando quote di aziende manifatturiere d’eccellenza e investendo sulla propria struttura industriale, come dimostra l’espansione del maglificio in Umbria (nella foto).
«Siamo al centro di un network di relazioni - dice il ceo Andrea Guerra - nel quale le acquisizioni significano ampliamento della capacità produttiva e know-how che cresce»
Che si tratti di integrazione verticale oppure orizzontale, di aggregazioni oppure di nearshoring, in un mercato volatile e turbolento come l’attuale il ridisegno della catena di fornitura è prioritario, per ridurre i rischi di produzione e gestire al meglio le tematiche Esg. Se all’indomani delle numerose M&A di filiera messe a segno dalle major della moda il percorso di verticalizzazione del settore pareva quasi necessario, il confronto sull’argomento tra consulenti, manager e imprenditori evidenzia l’assenza di una ricetta univoca
DI ANDREA BIGOZZI
Una riconfigurazione delle filiere produttive, con un aumento delle aziende italiane impegnate in percorsi di integrazione a livello verticale o orizzontale, ma anche interessate al fenomeno delle aggregazioni e alle strategie di nearshoring: è una delle conseguenze più evidenti al contesto altamente volatile e turbolento che stiamo vivendo, tra pressioni geopolitiche, aumento dei costi energetici e carenza di manodopera. L’insieme di questi fattori, a cui si aggiunge la necessità di controllare la catena della fornitura per evitare danni reputazionali (come dimostra la crisi della Giorgio Armani Operation e di Alviero Martini), ha cambiato lo scenario di riferimento della supply chain nell’ultimo triennio in cui non è stato facile per i brand dare prova di adattamento produttivo. La reazione da parte delle big
Prima le M&A di filiera si facevano per motivi difensivi o strategici, in futuro per rispettare le regole Esg
major della moda è stata quella di concentrarsi sulle M&A di produzione: da Prada a Zegna, da Lvmh a Cucinelli, da Missoni a Golden Goose, sono numerose le griffe che hanno internalizzato i propri fornitori attraverso acquisizioni totali o parziali, come dimostrano i 166 deal, in sei anni, legati al comparto dell’indotto (fonte Kpmg). «Negli anni siamo riusciti a costruire un network aperto di relazioni “intelligenti” e collaborazioni in cui si fondono l’artigianalità e la
scala, in una capacità continua di portare innovazione al mercato», ha dichiarato poche settimane fa Andrea Guerra, a.d. del gruppo Prada, durante l’inaugurazione di una nuova fabbrica della società, un investimento che rientra in un piano di sviluppo industriale milionario, di cui le acquisizioni di filiera sono un elemento centrale. Molte delle operazioni di internalizzazione condotte recentemente della major della moda a monte della filiera hanno logiche, oltre che industriali, anche “di sistema”. «Spesso - fa notare Federica Levato, partner di Bain&Co. - le attività di verticalizzazione sono guidate da razionali “difensivi”, per assicurarsi la catena di fornitura in contesti di scarsità di materie prime o competenze, oppure per andare in soccorso di fornitori in difficoltà economico-
finanziarie dei fornitori, nonché a supporto di momenti di transizione generazionale». Ma alla base della recente overdose di acquisizioni, specie nel segmento del lusso, ci sono anche motivazioni più strategiche. «Certi deal si fanno per qualificarsi e differenziarsi», sottolineano Claudia Lotti, Senior Managing Director e Francesco Leone, Senior Managing Director, Head of Corporate Finance & Restructuring Italy di FTI Consulting, società di consulenza aziendale globale che ogni anno firma il Barometro della Supply Chain. «Le maison del lusso - proseguono - compiono scelte molto mirate, prendendo il controllo di fornitori ad alto valore aggiunto in fatto di materiali, tecniche di produzione e, soprattutto, di capacità manifatturiere sempre più scarse. Non è pensabile, quindi, che questo tipo di M&A vada avanti all’infinto, proprio per un tema di offerta di target potenziali, che sono limitati». C’è poi un terzo fattore che promette in futuro di pesare significativamente nelle valutazioni di M&A lungo la filiera: le normative, a livello europeo e non solo, sul monitoraggio delle catene di approvvigionamento.
«L’attenzione crescente verso i criteri Esgsottolinea Mario di Giulio, partner dello studio legale Pavia e Ansaldo, docente di fashion law and ethics all’Università Luiss Guido Carli -, ma anche la direttiva europea sui fornitori, in via di approvazione, possono indurre molte aziende, a tutti i livelli e non solo in ambito made in Italy, a diventare, dove possibile, verticali». «Il supply chain act - prosegue l’avvocato - ha l’obiettivo di promuovere la sostenibilità ambientale e sociale in tutte le catene di fornitura e, per
47%
dei dirigenti C-suite al vertice delle aziende italiane considera la carenza di manodopera qualificata uno dei principali fattori di tensione all’interno della supply chain
Fonte: Supply Chain Barometer 2023 di FTI Consulting
come si prospetta, prevede la responsabilità dei marchi (con un fatturato netto superiore a 40 milioni di euro, ndr) riguardo alla catena di fornitura».
Uno scenario dinamico - dopo anni di stasi - che portato gli addetti ai lavori a chiedersi se si stia imponendo un business model, che vede al centro del sistema moda il modello di Brand-capofila, completamente integrato verticalmente, senza potere però investire in strutture dedicate, specie sulle categorie non-core. Secondo Micaela Le Divelec, consulente aziendale con un passato da ex cfo di Gucci ed ex ceo di Ferragamo (vedi intervista nelle pagine seguenti) una riconfigurazione del parco fornitori è in atto per molte realtà dell’alto di gamma, ma la flessibilità produttiva e l’equilibrio con le produzioni esterne restano elementi strategici, mai messi in seria discussione. «A lungodice Le Divelec - l’obiettivo delle primarie realtà del lusso è stato di internalizzare non più del 30% dei volumi produttivi. Così
Per continuare a crescere nell’industria della moda, oltre a entrare nell’orbita dei grandi gruppi del lusso, i terzisti della moda hanno altre opzioni: entrare a far parte di poli finanziari che aggregano terzisti come Gruppo Florence (foto 1.), oppure aderire a progetti industriali come quello lanciato dal gruppo Pattern (foto 2.), che rimanendo indipendente, ha lanciato il suo progetto di polo nel 2017
50%
delle imprese basate in Europa ha espresso l’intenzione di approvvigionarsi di più sul proprio territorio o in aree vicine già a partire dal 2024
Fonte: Global Sourcing Survey 2024 di QIMA
facendo, da un lato restavano aperti alle innovazioni, potendo ricorrere a specifiche lavorazioni non sviluppata all’interno della propria filiera, dall’altro l’“equilibrio 30%70%” consentiva di gestire senza shock le fasi di discontinuità della domanda che da sempre contraddistinguono il settore. Oggi, per una serie di ragioni tra cui la crescita accelerata del biennio post-Covid, i rischi di interruzioni nella catena di fornitura e anche la narrazione sempre più incentrata sull’artigianato, i grandi gruppi si sono verticalizzati oltre la soglia del 30% ma non credo che propenderanno per una completa integrazione, perché questo li ingesserebbe». Visione ribadita dalle parole di Andrea Guerra, che durante conferenza di presentazione del polo di Torgiano in Umbria, ha confermato la contenporaneità del modello conto terzi. «Alcune fasi produttive - ha affermato Guerra - restano assegnate ai partner, ma la nostra gestione è a 360°: quello che si fa dentro, si fa anche fuori». In ge-
Dal 2018 al 2023 sono 166 le M&A nella filiera made in Italy
Ecco i principali gruppi, italiani ed esteri, che hanno spinto sul processo di acquisizione dei fornitori
2019 Conceria Samanta (specializzata in pelli stampate e goffraste), Renato Corti (pelletteria di alta gamma), Mabi International (pelletteria di alta gamma)
2020 Conceria Gaiera Giovanni (trasformazione e trattamenti pelli di capretto, agnello e vitello)
2021 Paima (produzione conto terzi maglieria da donna e uomo - lana, cashmere, cotone)
2022 Fashion Art (produzione di jeans e abbigliamento in denim e tessuti per borse e scarpe) 2023 altre quote di Mabi International, Lanificio Cariaggi (a) (filati per maglieria in cashmere e delle lane pregiate)
2019 Masoni Industria Conciaria (conceria)
2022. Art Lat (stampe digitali e rifinizioni manuali su pelle), Maglificio Matisse (maglificio), Roban’s Produzione (abbigliamento in pelle di alta gamma), Ally Projects (conceria e distributrice di pelli esotiche), Metallart (lavorazione artigianale del metallo per occhialeria)
2023 Conceria Nuti Ivo (conceria specializzata nella lavorazione di pelli bovine), Renato Menegatti (lavorazioni proprie dal mondo della gioielleria alla produzione di piccole parti
%
dei chief procurement officer cita la volatilità della domanda come una delle variabili in grado di impattare sui rapporti con i fornitori nei prossimi cinque anni
Fonte: BoF-McKinsey State of Fashion 2024
nerale, il modello di “insourcing” si focalizzza sulle categorie prodotto “core” dei brand e anche se non esite una taglia minima, in termini di fatturato e risorse, «le caratteristiche delle aziende con maggior propensione all’attività di M&A verticale sono legate all’appartenenza a un gruppo, in cui l’integrazione può portare a dei benefici sinergici condivisi tra tutte le marche facenti parte del gruppo stesso», sottolinea Levato di Bain.
La prospettiva di una verticalizzazione totale e su larga scala, quindi, non sembra concreta, perché non in linea con le esigenze dei grandi brand. Per loro, ma anche per i medi, un’alternativa c’è ed è rappresentata dalle piattaforme che aggregano terzisti, garantendo la trasperenza della filiera. Dal 2017 a oggi, si sono impegnati a creare poli sganciati dai grandi gruppi fashion realtà industriali come Pattern oppure finanziarie come Gruppo Florence. «Si dà grande rilievo alla verticalizzazione della
2021 Filati Biagioli Modesto (produzione di cashmere e filati nobili)
2022 Conceria Superior (lavorazione delle pelli di vitello)
2023 Luigi Fedeli (maglieria in cashmere)
2019 Gruppo Dondi (produzione di tessuti a maglia jersey)
2021 Filati Biagioli Modesto (produzione di cashmere e filati nobili)
2023 Luigi Fedeli (maglieria in cashmere)
filiera - conferma il ceo di Pattern Luca Sburlati - ma anche il valore che si riesce a integrare orizzontalmente è importante. La nostra priorità è sempre stata quella di ampliare l’offerta di prodotto/servizio e per questo, quando si trattava di individuare quale azienda integrare, la scelta è sempre caduta su realtà con competenze attigue a quelle già presenti nel gruppo. Così riportiamo al centro tutta la manifattura made in Italy e restiamo competitivi: se alcune categorie di prodotto sono in sofferenza, ne abbiamo altre che invece ci terranno occupati». Convinto sostenitore del valore aggiunto che i poli di aggregazioni possono dare al sistema è Luciano Barbetta la cui azienda è entrata a far parte nel 2022 di Gruppo Florence (controllato dal fondo Permira), la più grande piattaforma integrata di aziende italiane di produzione specializzate. «Il Gruppo Florence - racconta - sta cercando di superare una logica diffusa tra i big brand, che dopo aver acquisito un’azienda passano subito a individuarne un’altra con differenti specializzazioni, mentre rilevare un’impresa dovrebbe portare possibilmente a consolidare anche il suo indotto di laboratori. Perché la vera priorità non è battere sul tempo la concorrenza nelle acquisizioni di aziende sempre nuove e diverse, ma preservare la filiera e l’integrità di tutti i distretti manifatturieri e dare garanzie non solo alle realtà acquisite ma anche ai loro supplier». Quando si tratta di ridisegno delle filiere non entrano in gioco non solo l’integrazione verticale oppure orizzontale e le aggregazioni. Anche il reshoring e il nearshoring sono opzioni valide per una platea di im-
2019 Calzaturificio Re Marcello (calzature da donna di lusso)
2023 Lanificio Cariaggi (filati per maglieria in cashmere e delle lane pregiate)
2020 Lanificio Piemontese (produzione di tessuti e abbigliamento di altissima qualità)
2022 Lanificio F.lli Cerruti (produzione di tessuti pregiati per l’alta sartoria)
2023 Filatura Cardata Lanefil (specializzata nella filatura cardata di fibre nobili)
prese sempre più ampia. Secondo il Global Sourcing Survey 2024 di Qima gli sforzi da parte dei brand globali per arrivare a catene di fornitura più corte è «a un livello record e in aumento»:circa la metà delle aziende con supply chain internazionali starebbe infatti pensando di avvicinare le loro produzioni. Un fenomeno che non tocca le aziende caratterizzate dall’etichetta “made in Italy”, ma che interessa da vicino molti brand italiani di posizionamento più accessibile. «Per i segmenti fashion premium - è il parere di Claudia Lotti e Francesco Leone di Fti Consulting - il nearshoring è una leva strategica chiave per aumentare la reattività (avere il prodotto in tempi tali da non dover fare ordini al buio) e per proteggersi da rischi interruzioni della supply chain». Anche per Luca Sburlati del Gruppo Pattern la prospettiva di creare filiere integrate e corte per i brand del segmento premium è sempre più concreta. «Si sente parlare spesso di realtà del segmento che stanno creando filiere proprie nell’area del Mediterraneo allargato e dell’Est Europa». Viceversa, il nearshoring è un fenomeno trascurabile per il segmento lusso. Ma un punto rilevante, osservato da Federica Levato, è la dipendenza europea dall’export, dopo avere forse sottostimato gli effetti della frenata della domanda in Europa. Fare made in Italy dovendo al contempo presidiare al meglio i mercati esteri è un percorso indubbiamente complesso: «Vi è piuttosto da ragionare - dice la partner di Bain - se vi sarà la necessità e/o la possibilità di avvicinare alcuni hub di produzione ai mercati di destinazione (per esempio Cina) - per fare fronte a possibili dazi o disruption della catena logistica».
Spazio alle scuole per la prossima edizione di Pitti Immagine Filati: uno stand rinnovato all’insegna della sostenibilità per presentare le creazioni degli studenti
Dal filato al capo finito, da come nasce il filo a come si può trasformare, dalla creatività al prodotto: far conoscere la maglia in tutta la sua espressività è l’impegno di Shima Seiki Italia – leader mondiale nella produzione di macchine rettilinee per maglieria – che per l’edizione 95 di Pitti Filati ha scelto di dare spazio a una serie di creazioni realizzate da studenti, a testimonianza del proprio impegno nel campo della formazione professionale. Far conoscere in tutta la sua ampiezza la maglieria – realtà oggi ancora molto di nicchia – costituisce la mission della succursale italiana della multinazionale giapponese, che punta a instaurare un dialogo con un numero sempre maggiore di appassionati, grazie a un’opera di
divulgazione che coinvolge il mondo scuola, vero focus della prossima edizione di Pitti Filati. Istituti tecnici, accademie di moda e l’Academy aziendale di Shima Seiki insieme per promuovere e incentivare lo studio della maglieria, un valore che rappresenta il made in Italy, ma anche per mostrare le capacità degli studenti che si stanno formando in un settore in cui la carenza di figure professionali specializzate è un dato di fatto.
«Far esibire i lavori e le creazioni degli studenti mostra quanto le nuove generazioni abbiano a disposizione, oltre al potere creativo, anche una tecnologia avanzata – afferma Davide Barbieri, CEO di Shima Seiki Italia». Il tradizionale “maglione della nonna” resta un evergreen, ma oggi, con l’avanzare della
tecnologia, è possibile raggiungere livelli mai esplorati prima nella maglieria: le macchine Shima Seiki a tecnologia WholeGarment® – in esposizione in Fortezza da Basso insieme a una macchina per accessori – permettono di realizzare capi di ogni tipologia, stile, tecnica di punto, senza cuciture e multicolor. Un traguardo reso possibile anche dalle molte collaborazioni che l’azienda si impegna a sostenere, tra cui quelle con il Ricamificio Forza Giovane per i ricami e con Stratasys per la stampa 3d. Lo stand in questa edizione si veste di nuovo. Il tema è ancora una volta la sostenibilità, che trova il suo spazio nella struttura portante e in ogni complemento d’arredo, tutto rigorosamente derivato da materiale certificato e biologico.
Una carriera manageriale stellare, ai vertici di Gucci, Richard Ginori e Ferragamo, e un presente da innovatrice nel tech (con il tool digitale di clienteling Alpha) e soprattutto nel sociale: con Ethicarei, insieme ad altre quattro donne, Le Divelec spinge sulla leva della supply chain, per convincere l’industria del lusso che per preservare artigianalità e qualità serve il made in Italy eticamente certificato
DI ANDREA BIGOZZI«Sto vivendo una seconda vita sul piano professionale, nella quale mi sono gettata in attività imprenditoriali che mai avrei mai immaginato prima», dice con convinzione e un pizzico di orgoglio Micaela Le Divelec. Quando parla della sua nuova carriera imprevista, l’ex ceo di Ferragamo e Richard Ginori - nonché ex numero due del board di Gucci, in piena era d’oro targata Marco Bizzarri-Alessandro Michele - si riferisce certamente all’avventura legata al tool digitale di clienteling Alpha (una startup in cui si è ritagliata il ruolo di angel investor), ma soprattutto a Ethicarei, il primo distretto produttivo del made in Italy, garantito dal World Fair Trade Organization. «Il progetto - racconta - è nato dalla collaborazione di cinque donne, con un duplice mission: sociale e di mercato. Volevamo fare qualcosa per sostenere la svolta dell’industria della moda e del lusso, chiamata con il Supply Chain Act a garantire la loro filiera dal punto di vista non solo della sostenibilità ambientale, ma anche sociale».
«Il primo passo - prosegue - è stato registrare il marchio Ethicarei, che si propone di integrare e mettere a sistema una serie di laboratori sociali che provvedono al reinserimento lavorativo, con un equo salario, nelle filiere produttive del lusso di persone svantaggiate come donne vittima di violenza, di lavoro nero, detenute ed ex detenute». Inizia da qui un percorso che in breve tempo porta Le Divelec e le sue quattro “colleghe”(«Tutte professioniste di talento, con esperienze in ambiti eterogenei dalla formazione alla sostenibilità, fino a fundraising e investor relation») a stringere partnership tecniche di prim’ordine come quelle con Gruppo Florence, l’hub di consulenza aziendale CluXter, la scuola di eccellenza Mita-Made in Italy Tuscany Academy e soprattutto a ottenere la certificazione di garanzia Wfto-World Fair Trade Organization: «Non è stato facile, ma siamo riuscite a quadrare il cerchio tra le esigenze delle cooperative sociali e quelle delle aziende profit». A sostenere i primi passi di Ethicarei è stata la collaborazione con la Cooperativa Alice, che da anni lavora per l’inserimento di soggetti svantaggiati nel mondo del fashion attraverso i suoi laboratori artigianali attivi nelle sezioni femminili delle carceri lombarde di San Vittore, Bollate,
Monza e una sartoria esterna. «Ora l’obiettivo è mettere a sistema diverse cooperative sociali che creano laboratori nella pelletteria, nella calzatura e nell’abbigliamento», fa il punto Le Divelec, che gestendo Ethicarei ha dimostrato ancora una volta le sue capacità in termini di ottimizzazione di processi, produzione, sviluppo network e, non ultima, empatia. «Penso che iniziative come la nostra - osserva - possano rappresentare una risposta ambiziosa, ma anche concreta, alle tematiche sull’integrazione delle competenze. Integrare laboratori sociali nelle filiere produttive del lusso potrebbe consentire ai marchi di preservare certe competenze, visto che gli italiani non vogliono più fare certi mestieri, e mantenere il livello di artigianalità e qualità che contraddistingue il made in Italy». Anche i grandi brand della moda si sono già avvicinati al progetto: il gruppo Armani, Chloé e Aspesi hanno scelto di collaborare con Ethicarei per il lancio di progetti speciali. Stessa cosa è successa con brand indipendenti, come Magliano e La DoubleJ, con cui sono state realizzate produzioni etiche destinate alla vendita.
Mettiamo a sistema cooperative sociali che insegnano a lavoratori fragili i mestieri della filiera moda. Un progetto che ha già avvicinato Aspesi, Armani, Chloé e realtà indipendenti come Magliano e La DoubleJ
Da qualche tempo, poi, Le Divelec punta a far vivere la sua idea di filiera etica anche all’interno delle scuole tecniche, con programmi formativi che abilitino alle professioni del made in Italy, aperti alle categorie fragili ma anche alle nuove generazioni. «Chi segue i nostri corsi e laboratori - conclude - saprà realizzare prodotti perfettamente equiparabili a quelli nati all’interno dei laboratori comuni, perché il marchio Ethicarei deve diventare sinonimo di qualità assoluta e non solo di dignità. Non si tratta di una charity, ma di lavoro».
Founder Veronica Leoni
Distribuzione Direzionale quira.it
Romana, classe 1984, una laurea in lettere, ex allieva di Jil Sander e Phoebe Philo e fresca di nomina come direttrice creativa di Calvin Klein, Veronica Leoni è uno dei nomi più in ascesa dello stilismo italiano. Il suo brand, Quira, prende il nome dalla nonna Quirina, «sarta irriverente e ribelle», per portarne l'essenza nella contemporaneità, con un'estetica minimalista e decostruttivista. Dal lancio nel 2021, il brand - con prezzi medi sell in intorno ai 1.250 euro - è oggi presente in circa 35 top shop, tra cui Antonia, 10 Corso Como, Bergdorf Goodman, Andreas Murkudis e H Lorenzo.
Co-founder Sara e Tania Testa
Distribuzione Daniele Ghiselli Showroom letwins.it
Non poteva che chiamarsi Le Twins questo progetto al femminile lanciato nel post pandemia dalle gemelle Sara e Tania Testa, romagnole doc. Appassionate di moda sin dai tempi dell'università, hanno scommesso su un concept preciso: un «ready to party» fatto di lustrini e bagliori scintillanti ma portabile anche di giorno, grazie a silhouette smart e facili da abbinare. «Una moda timeless e non "sprecona", - aggiungono le sorelle - perché i capi in paillette possono stare nell'armadio per molto tempo, senza perdere appeal». Distribuito da Daniele Ghiselli Showroom, il marchio ha conquistato finora una ventina di multimarca internazionali, tra cui Coin Excelsior e Milaura a Milano, Topkapi a Verona e Julian Fashion a Milano Marittima. I prezzi medi sell out sono intorno ai 400 euro.
Founder Olivia Nausner
Distribuzione
Diretta olivianausner.com
OLIVIA NAUSNER
Austriaca, sette anni passati alla corte di Re Giorgio (Armani), Olivia Nausner dal 2022 è protagonista en solitaire con una collezione monoprodotto, svincolata dalla stagionalità e concentrata sulla produzione di capsule e drop in piccole quantità. Protagonista assoluto è il capospalla, in primis il trench, reinterpretato in chiave innovativa ponendo l'accento su design e funzionalità: capi unici e timeless, da custodire nel proprio armadio, in una logica responsabile e anti fast fashion. Venduta attraverso il proprio e-shop (nel momento in cui scriviamo il focus è sul Parachute Coat a 1.350 euro), la collezione punta a intraprendere un percorso wholesale anche nel canale fisico attraverso la collaborazione (in via di definizione) con una showroom milanese.
Co-founder Donata Ceccarelli
Distribuzione Diretta autentica504.com
AUTENTICA 504
Quattro donne, due mamme e due figlie, sono le artefici di Autentica 504, un marchio di borse in pelle realizzate artigianalmente in laboratori napoletani. L'idea prende forma nel 2021 in una stanza d'albergo (la 504 appunto) da Donata Ceccarelli e Andrea Isaia (cofounder) e Monica Palmieri e Francesca Merloni (business angel), che hanno unito le loro competenze per realizzare accessori «autentici», in grado di valorizzare chi li indossa. Risultato: oggi la collezione (anche con il nuovo modello Mini Me Bag) è venduta con prezzi fra i 300 e i 500 euro in una rete di multibrand, tra cui Ratti, Lou Lou, Marina Lari, Stefania Ardizzone e Monetti.
Il progetto, focalizzato soprattutto sul knitwear, è nato durante il lockdown, quando Martina Boero, studi allo Ied, ha cominciato a esprimere la propria creatività con quello che trovava in casa. A distanza di quattro anni lo spirito di Cavia (un nome che sottolinea la volontà di sperimentare) non è cambiato: ogni pezzo utilizza materie preesistenti o riciclate, lavorate a mano da artigiani italiani, in modo da salvare le tradizioni ed evitare gli sprechi. Distribuita dalla showroom di Riccardo Grassi, la collezione è venduta a livello internazionale, con prezzi medi intorno ai 600 euro. In Italia la si può trovare nei negozi di Rinascente, G&B ed Eraldo.
Distribuzione
yourcavia.com
CSM è un’associazione autonoma, libera ed indipendente.
CSM è dedicata a tutti gli showroom multibrand di Milano più rappresentativi del fashion e con una forte vocazione internazionale.
CSM ha tra i suoi obiettivi fondamentali l’esigenza, resa ancor più forte dalla recente situazione congiunturale, di fare squadra.
CSM ha concretizzato, grazie alla collaborazione con Confartigianato Moda, importanti attività durante le Fashion Week di Milano:
ARTISANAL EVOLUTION + CSM MEETS SUSTAINABILITY
CAMERA SHOWROOM MILANO ringrazia
1ST FLOOR
999 SHOWROOM
ARETE’ SHOWROOM
ASESTANTE SHOWROOM
BRERAMODE
BOIOCCHI SHOWROOM
CASILE & CASILE
CONTINUO
DANIELE GHISELLI SHOWROOM
DMVB SHOWROOM
ELISA GAITO SHOWROOM
FATTORE K MILANO
GARAGE MARINA GUIDI
K-LAB
MANNERS
MANUEL MENCARELLI SWOWROOM
MODERN SWOWROOM
PANORAMA MODA
PERCORSI OBBLIGATI
PROGETTO MILANO
RENZO VESENTINI MILANO
S5 SHOWROOM
SD SHOWROOM
SHOWROOM A. FICCARELLI
SHOWROOM DUNE
SHOWROOM JE T’AIME
SHOWROOM PAPAVERI
SPAZIO 38
SPAZIO COLTRI
SPAZIO LIBERTY
STUDIO 360 SHOWROOM
STUDIO POGGIO
STUDIO TATO SOSSAI
STUDIO ZETA
STYLE COUNCIL SHOWROOM
THE PLACE SHOWROOM
ZAPPIERI
Thank you all! CSM - PERCHÈ
Saranno mesi impegnativi per il designer che ha fatto del métissage tra sport e moda e upcycling la sua cifra distintiva. «Con la collezione SS25 inizia una nuova era.
Voglio crescere fuori da Milano»
DI ANDREA BIGOZZI
Seesistesse un premio per lo stilista emergente più rilassato andrebbe, senza nemmeno andare al ballottaggio, a Marcello Pipitone. Protagonista di una delle parabole più originali della moda italiana degli ultimi anni, quando era ancora semisconosciuto Pipitone ha preso le mosse dalla T-shirt indossata da Ghali - realizzata grazie al riciclo di tante maglie del Milan messe insieme -, transitando poi per Pitti Uomo, dove nel 2019 presenta la sua prima collezione. Risale al 2023 la vittoria al Cnmi Fashion Trust Grant, ulteriore rampa di lancio per volare in proprio, grazie a un progetto che non assomiglia a quello di nessun altro. «La moda che faccio - dice – è un patchwork urbano: sport, tecnica, artigianalità, contrasti materici, cromie forti, stile underground e residenziale». Ma il segreto del successo di questo ragazzo, nato e cresciuto nel quartiere milanese di Bonola, non è solo nell’estetica camaleontica che propone, ma anche nella disinvoltura che lo contraddistingue e che sembra appartenere a un veterano, o a un predestinato. Quando Marcello Pipitone parla di sé, del suo lavoro e dei progetti futuri, l’atmosfera che si crea è di un “ottimismo nonostante tutto”, una gioia di vivere a dispetto delle difficoltà che il fashion system pone alla voglia di emergere di un newcomer.
made in Italy. Tutto sta succedendo in maniera molto veloce, quasi imprevista: ci sono ancora dettagli da definire, ma ho previsto un evento di lancio e verrà coinvolta una showroom per la vendita. Mi piace l’idea di iniziare un nuovo percorso che mi porterà fuori da Milano e dall’Italia e che, spero, possa finanziare il mio sogno: fare cose sempre più potenti.
La sfida sarà produrre in serie con lo stesso approccio… Finora è stato molto più facile lavorare con l’upcycling, mentre con il nuovo progetto è necessario cambiare l’ottica di produzione e realizzazione dei capi. Fortunatamente una parte di prodotti realizzati con materiali riciclati resterà: si tratta di una capsule di denim. Poi se un cliente privato mi chiede di realizzare per lui un prodotto unico, allora il processo creativo basato sull’upcycling torna in gioco. È questo l’assetto che vorrei dare il business model del marchio: da un lato le produzioni su ampia scala, dall’altra i capi speciali su ordinazioni.
Nello sport ha praticato basket ed è un grande appassionato di calcio. Anche nella moda preferisce il gioco di squadra?
In più occasioni ha definito la sua modalità di lavoro come quella di uno stilista-artigiano dell’upcycling: perché?
Mi sono sempre definito un artigiano, perché finora ho prodotto solo capi unici su misura, scegliendo personalmente i tessuti e cercando di riciclare il più possibile, il che per me è davvero stimolante. Poi disegno io il cartamodello, taglio i materiali e cucio sempre io dall’inizio alla fine. Tutto avviene all’interno del mio laboratorio in zona San Siro a Milano, non lontano da Bonola, dove tutto è cominciato. Insomma, ho sempre fatto tutto da solo. Adesso però basta, si cambia…
Cosa intende?
Sto realizzando la mia prima collezione prodotta in serie. La presenteremo a giugno, durante la fashion week di Milano: una collezione maschile e femminile, interamente realizzata in Italia con tessuti
►Nel 2018 il brand nasce a Bonola, quartiere di Milano
►Nel 2020 inizia a creare capi con tessuti riciclati per clienti privati e propone i suoi prodotti a La Boutik di Londra e Showroom Romeo di Parigi
Amo lavorare in team. In questi primi anni di attività da stilista, la mia squadra era formata da tutte le persone che mi hanno dato una mano: gli amici, che mi hanno prestato i primi abiti per assemblare le mie collezioni, i fornitori come Tintoria Emiliana e Tessuti di Sondrio, che da subito hanno sostenuto il mio progetto. Ora mi sento pronto per formare un vero team intorno al mio brand. Sto collaborando con mio fratello: insieme progetteremo tutta la strategia di comunicazione, con nuove tipologie di video e immagini per creare uno storytelling più articolato. Inoltre vorrei coinvolgere uno stylist e una figura che si intenda di logistica e commerciale.
Il topic del momento è l’AI generativa, come la giudica?
►Dal 2022 collabora con Tintoria Emiliana
►Nel 2023 arriva la linea di magliette uniche da calcio con la piattaforma di noleggio Drip Italia
Proverò a trarne vantaggio. La userei come uso Photoshop e Illustrator, per svolgere più velocemente aspetti di routine del mio lavoro. Alla tecnologia chiedo di farmi lavorare in modo più rapido, non di farmi venire le idee.
Facciamo un salto nel passato: chi sono gli stilisti che l’hanno influenzata di più?
Carol Christian Poell mi ha sempre affascinato, così come Martin Margiela. Anche Helmut Lang e Alexander McQueen, con le sue scenografie, sono stati punti di riferimento. E poi, ovviamente, Nike.
Ora guardiamo avanti: cosa si aspetta dai prossimi mesi?
Mi piacerebbe poter avviare collaborazioni con brand più grandi e strutturati di me e sviluppare la mia attività di consulente. Mi piacerebbe presentare presto un pop up nei negozi e lanciare una serie di iniziative di guerrilla marketing. Wow, si entra in azione. Ero stanco di aspettare.
Qualunque sia il tuo business, noi siamo il tuo spedizioniere globale.
DSV è tra i principali leader di mercato mondiale nel settore dei trasporti e della logistica. Ci proponiamo come partner che connette le aziende con il mondo, semplificando e ottimizzando il trasporto e la gestione delle merci. Su strada, via mare, via aereo e attraverso la nostra esperienza in ambito di logistica e logistica integrata. Garantiamo la continuità della supply chain dal mittente al destinatario e contribuiamo ad una crescita sostenibile, fornendo ai nostri clienti i servizi logistici di cui hanno bisogno.
DSV si concentra nell’assicurare pratiche commerciali responsabili e sostenibili ovunque operi. Riconoscendo il nostro ruolo nel settore, abbiamo accresciuto le nostre ambizioni di sostenibilità e ci siamo impegnati a raggiungere emissioni nette pari a zero in tutte le nostre operations entro il 2050.
DSV Air & Sea è la divisione che gestisce il trasporto di merci via mare e via aerea, offre inoltre un’ampia gamma di servizi a valore aggiunto tra cui assicurazione, attività doganali e consulenza documentale. La Divisione Air & Sea conta più di 20.000 dipendenti e opera in tutto il mondo attraverso uffici dislocati in 80 Paesi e una qualificata rete di Agenti.
Per maggiori informazioni: www.dsv.com/it
Facilitare una supply chain trasparente e tracciabile - premessa per un business di successo in linea con i criteri di sostenibilità ambientale e sociale - è al cuore di soluzioni di tracciabilità e serializzazione dedicate da Temera al comparto lusso
Dal Sourcing e certificazione delle materie prima alla selezione dei fornitori fino al post-vendita e ai processi di upcycling, la tracciabilità è un valore imprescindibile per l’industria del lusso e della moda, la cui catena di approvvigionamento è articolata, globalizzata, dai molteplici risvolti. Proprio la tracciabilità dei prodotti racconta la storia di Temera, azienda leader in Italia e nel mondo sul mercato delle soluzioni IoT e blockchain per il lusso che crea per i propri partner nuove opportunità di sviluppo favorendo una supply chain certificata e trasparente. La tracciabilità è il prerequisito fondamentale per la sostenibilità. Per affiancare le aziende nel loro percorso di trasparenza, Temera ha messo a punto una gamma di soluzioni legate al Digital Product Passport che aiutano a tracciare tutte le informazioni e i dati relativi all’intero ciclo di vita del prodotto. Facilmente accessibile dal prodotto stesso, il Digital Product Passport, infatti, è in grado di dare accesso immediato alle informazioni ESG (Environmental Social Governance), mettendo al sicuro le imprese nel rapporto con i propri stakeholder lungo l’intera catena del valore. Il rating ESG, ha un ruolo cruciale nel definire l’affidabilità di un’azienda, oggi calcolata perlopiù in base a metriche che poggiano sul suo valore immateriale, dunque sulla sua governance, dove assumono sempre più rilevanza valori come la sostenibilità sociale e il rispetto per l’ambiente. Non è più soltanto importante conoscere fornitori diretti e supplier dei fornitori: garantire una catena di approvvigionamento responsabile significa mettere in relazione le materie prime con i prodotti finiti, secondo standard ambientali e sociali che accompagnano le merci
lungo il loro ciclo di vita fino al riciclo, più semplice se il prodotto è stato concepito nel rispetto dei principi di eco-design. Il ciclo del prodotto comporta enormi quantità di materiali, energia e altre risorse, con impatti ambientali significativi dall’estrazione delle materie prime alla produzione, dal trasporto all’utilizzo e al fine vita. Questi impatti ambientali devono quindi essere controllati. Il passaporto digitale, il digital twin e l’uso di data science confluiscono nell’approccio multidisciplinare che Temera assicura alle imprese. L’obiettivo è analizzare le quantità di dati relativi al lifecycle di prodotto per implementare nuovi modelli nelle applicazioni che consentano di aderire agli standard che l’Europa esige tramite i criteri ESG, contribuendo anche a promuovere il rispetto dei diritti dei lavoratori e condizioni di lavoro eque, oltre alla protezione dell’ambiente per le generazioni future. «In passato la tracciabilità era prevalentemente associata all’ottimizzazione dei processi di produzione, logistica e retail oppure connessa alle sfide imposte dal mercato parallelo e dalla contraffazione, spiega Francesco Pieri, Managing Director di Temera. Oggi la sostenibilità rappresenta una priorità critica per il business delle azienda di moda che vogliano l’innovazione, migliorare la reputazione di marca e assicurarsi buoni risultati a lungo termine. Ogni business di successo poggia sul ruolo centrale che le tecnologie di tracciabilità e trasparenza rappresentano nel delineare il futuro delle nostre industrie. Il comparto moda e lusso non ha ancora rivolto sufficiente attenzione a questo aspetto e negli ultimi tempi si sono verificati casi di due diligence della supply chain che hanno dato risultati negativi, con un significativo danno in termini di reputazione per i brand».
Il marchio di sneaker Hidn-Ander, fondato dal designer Alessandro Viganò nel 2019, si è affermato nel segmento del lusso accessibile con la sua filosofia “clash of cultures”, che fa convivere icone delle sneaker globali. L’arrivo di Adam Kakembo come ceo segna l’inizio della fase due. Una nuova rete di agenti, servizi come il Never-out-of-Stock e attivazioni nei negozi: così Hidn-Ander vuole fare un salto nella distribuzione. Gli investitori ci credono, a cominciare dalla star del calcio Edin Džeko, azionista con la moglie Amra
DI TOBIAS BAYEREdin
Džeko ha dimostrato un grande istinto sul campo da calcio. L’attaccante bosniaco-erzegovese, attualmente sotto contratto con il Fenerbahçe, ha segnato molti goal a squadre di primo piano come Manchester City, AS Roma e Inter Milan. Ora la stella del pallone, che è anche impegnata in attività di beneficenza come ambasciatore dell’Unicef, si sta dimostrando un attaccante anche fuori dal rettangolo di gioco. In questi anni è diventato un businessman nel campo della moda. Insieme alla moglie Amra, ha investito nel marchio di scarpe Hidn-Ander fondato nel 2019.
Hidn-Ander è uno dei nomi emergenti nel mondo delle sneaker. Il marchio, ideato dal designer Alessandro Viganò, reinterpreta gli archetipi degli sneaker riunendo le icone della cultura europea e americana in uno “scontro di culture”. Fin dal suo lancio, Hidn-Ander si è posizionato come alternativa a Golden Goose nel mercato europeo della moda, con prezzi compresi tra 295 e 450 euro nel segmento del lusso accessibile.
Per raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi, il brand di sneaker ha recentemente accolto nella propria squadra nuove figure
L’azienda, fondata nel 2019, prevede per l’anno in corso un incremento delle vendite del 20%. Negli ultimi mesi il marchio ha visto l’ingresso di nuovi manager per gestire la fase due: oltre al ceo Adam Kakembo è entrato anche Hugo Barbosa come cfo e coo
strategiche. Al fianco di Viganò c’è adesso un ceo: Adam Kakembo, che ha maturato esperienze in Loewe, Levi’s, Scotch & Soda e Aesop e ben noto a Viganò per il periodo trascorso insieme in Wrangler. Hugo Barbosa è entrato in squadra come cfo e coo dal conglomerato portoghese Sonae. «Il mio compito è trasformare Hidn-Ander da una start-up a una scale-up. Il marchio si sta sviluppando da bambino ad adolescente e poi finalmente ad adulto», racconta Kakembo, che non fornisce cifre esatte delle vendite, ma prevede una significativa crescita, intorno al 20%, per l’anno in corso.
1.2. Le calzature Hidn-Ander si posizionano nel segmento del lusso accessibile con prezzi compresi tra 295 e 450 euro. Le collezioni per uomo e donna sono realizzate completamente in Italia
La storia di Hidn-Ander e del suo nome è iniziata a Lugano. Viganò, che in passato ha lavorato per Armani, Dolce&Gabbana e Golden Goose, è al volante della sua auto in un parcheggio sotterraneo. All’improvviso la luce dei suoi fari illumina il radiatore di una Rolls-Royce Corniche, che faceva capolino da sotto un telo di copertura: «Hidden Under (in italiano Nascosto sotto), pensò in quel momento lo stilista. Un’esclamazione che poi ha cambiato in “Hidn-Ander”, per essere in grado di registrare il nome come marchio.
Un gioco di parole che descrive bene la filosofia del brand. In ognuna delle scarpe Hidn-Ander, realizzate interamente in Italia, si nascondono modelli che hanno fatto la storia delle sneaker. La Superstar di Adidas si fonde con la All Star di Converse. Un sandalo Birkenstock diventa uno skater Vans. La Stan Smith è avvolta dai lacci. Il baffo di Nike è nascosto da una tomaia in pelle. È un puzzle ironico, un “mix and mismatch” con cui Viganò è riuscito a trasformare quanto di più familiare nei guardaroba dei consumatori in qualcosa di nuovo.
Il nuovo ceo Kakembo è partito con l’obiettivo di fare un salto di qualità nella distribuzione. Ha ingaggiato nuovi agenti, come Bernard Waage di Select Studio, ora responsabile per Germania, Austria e Svizzera, e spera di conquistare i migliori rivenditori in Europa, oltre che negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nella Corea del Sud. Hidn-Ander può già vantare i primi successi commerciali. Il marchio di sneaker è disponibile (o lo sarà a breve) pres-
Il marchio ha anticipato i tempi di consegna delle collezioni per consentire ai partner commerciali di vendere a prezzo pieno più a lungo
so Le Bon Marché a Parigi, LN-CC a Londra, NK a Stoccolma e Göteborg, Antonioli a Lugano, Henry Lehr negli Hamptons e Jill Roberts a Beverly Hills, tra gli altri. HidnAnder attira i rivenditori con un assortimento preciso, un servizio attento e accordi commerciali mirati. Kakembo ha ridotto la gamma da 240 a 90 varianti. Ha antici-
pato i tempi di consegna delle collezioni primaverili e autunnali da febbraio a novembre e da settembre a giugno, in modo che i partner commerciali possano vendere a prezzo pieno per un periodo più lungo. Grazie a un programma Never-out-of-Stock i retailer possono ordinare in qualsiasi momento i bestseller come le Mega T. Hidn-Ander mantiene una quantità minima d’ordine di 35 paia e offre un mark up di 2,6. Per generare il footfall nei negozi, Kakembo spinge sulle attivazioni e sta intraprendendo un programma di nuove collaborazioni con marchi i retailer.
Di recente Kakembo e Viganò hanno fatto visita al negozio multimarca Jofré a Barcellona, dove lo stilista ha personalizzato i modelli di sneaker per i clienti presenti. Con l’intento di compiere ulteriori passi avanti nello sviluppo del business, Viganò è pronto a giocare la carta dell’abbigliamento, ma Kakembo preferisce attendere. «Alessandro non vede l’ora di partire. Ma ora ci stiamo concentrando sulle scarpe», conclude Kakembo. Toccherà quindi a lui provare a “frenare” l’amico e collega, con cui condivide la passione per il motociclismo fuoristrada e che ha portato i due a vivere insieme avventure estreme in luoghi come l’Africa e l’Argentina.
3. Il brand è focalizzato sulle sneaker. L’ipotesi di ampliare la gamma con l’abbigliamento è allo studio, ma nel medio termine
L’innovazione è da sempre una priorità per Esc Group, agenzia padovana di vendita e consulenza, attiva dal 1977 nei settori sportswear e lusso accessibile. Con risultati in crescita e nuovi progetti al varo, svela a Pitti Uomo l’ampliamento dell’offerta. Quanto all’AI, per Esc Group è una realtà e sarà al centro di un forum il prossimo ottobre
AGiorgio Magello Mantovani piace l’effetto sorpresa. È per questo che in oltre 40 anni di attività Esc Group non ha mai smesso di evolversi. La sua visione strategica gli ha permesso nel tempo di comporre un insieme che aggrega moda e tecnologia, diventando un punto di riferimento sul mercato del Nord-Est italiano. «Siamo una realtà pioneristica, una showroom 4.0 - sottolinea Magello - e Pitti Uomo ci offre ancora una volta l’occasione per mettere in scena il risultato delle nostre scelte eclettiche e delle modalità operative futuristiche». Ripagate, queste ultime, da un’ulteriore crescita double digit registrata nelle vendite FW 2024. «Ci presentiamo con un importante bagaglio di novità - fa sapere l’imprenditore -. Nuove acquisizioni sia per l’abbigliamento sia per accessori e calzature, per un asset completo suddiviso in tre fasce commerciali (Aspirazionale, Core e Commodity), che sarà perfettamente implementato nella FW 2025». «Un ausilio importante in questo percorso - continua - ci arriva dall’utilizzo, consapevole e a volte critico, dell’intelligenza artificiale, che consente indagini più veloci e documentate sulle scelte di consumo della moda». Della tecnologia come leva strategica nella distribuzione, del resto, Esc Group aveva già parlato lo scorso 25 marzo, in occasione di una nuova iniziativa, il forum “Oltre il negozio fisico?” svoltosi nel suo headquarter: oltre 100 clienti e 20 manager della moda si erano confrontati su scenari di mercato e linee di evoluzione del retail, in un momento di grandi incognite e cambiamenti. Soluzioni smart applicabili anche nella ridefinizione del brand portfolio, come dice Magello: «Sì, perché anche in queste scelte l’AI può essere determinante. Oggi, quando selezioniamo i prodotti
per la nostra clientela, non possiamo prescindere da dati come la componente valoriale e tecnologica delle collezioni e i mutati criteri d’acquisto». Un esempio è la linea AI Jeans di Replay, che nasce da analisi predittive sui consumi delle nuove generazioni, tracciando processi produttivi del denim più responsabili, in linea con la coscienza green dei nuovi consumatori. «Il workshop di marzo avrà un seguito - anticipa Magello Mantovani -. A ottobre ospiteremo un secondo evento, con un focus proprio sull’AI, per illustrarne
tecniche e ragioni di utilizzo e, soprattutto, spiegare come la linearità dei processi di sviluppo e successo di un brand non sia più tale. Si seguono, infatti, evoluzioni dovute a nodi interconnessi, in nome di una qualità potenziata e sinergica, frutto di vari strumenti e attività». Compreso il commercio conversazionale: «Le app di messaggistica - conclude l’imprenditore - stanno superando i social media in fatto di influenza su scelte di consumo e acquisti. Tocco l’argomento solo per dire che occorre un continuo aggiornamento in ogni direzione da parte di tutti gli operatori moda e degli agenti in primis. Perché, come diciamo sempre noi di Esc Group, precedere è meglio che inseguire».
La moda studia il Paese dei mega-progetti urbanistici e dell’Expo 2030, che sta portando avanti un piano strategico di diversificazione economica, sociale e culturale. Chi ha mosso i primi passi nella capitale è soddisfatto. Puntare alle città in costruzione e ai nuovi luxury resort ha senso - per ora - più che altro per la brand awareness
DI ELISABETTA FABBRI
Eral’ottobre 2022 quando Luisa Spagnoli esordiva in Arabia Saudita, nel centro commerciale della capitale Riyahd Park, con il gruppo Saudi Jawahir. Oggi il bilancio di Nicoletta Spagnoli, presidente, ceo e direttrice creativa del marchio di womenswear è positivo: «Le vendite sono in aumento e cresciamo in popolarità tra la clientela locale. I nostri best seller includono una vasta gamma di abiti, che rispondono alle esigenze culturali dell’area, dalle proposte eleganti per occasioni speciali ad altre più modeste, che rispettano le tradizioni e i valori culturali locali. Gli accessori raffinati aggiungono un tocco finale ai look eleganti, completando l’esperienza di shopping. Ci impegniamo a offrire opzioni diverse e inclusive, per soddisfare le esigenze di tutti». In un momento in cui le vendite in Cina non mostrano gli slanci sperati, il Regno saudita potrebbe risultare un mercato di sbocco alternativo per la moda italiana in senso allargato, ma la cautela e d’obbligo e forse non bisogna avere troppa fretta di monetizzare eventuali investimenti in loco.
Per il tessile-abbigliamento italiano quello saudita è, per ora, il 46esimo partner com-
Il Regno saudita punta a diventare una meta turistica e si prepara a ospitare importanti eventi sportivi
merciale, in termini di export, che nel 2023 ha superato di poco i 100 milioni di euro, nelle stime del Centro Studi di Sistema Moda Italia. La società di consulenza Bain & Company parla però di una destinazione del lusso in accelerazione, che sta attraendo gli investimenti dei maggiori marchi dell’alto di gamma, per via dell’ampio potenziale inespresso. Non ultimo Dolce & Gabbana, che ha annunciato l’apertura di una nuova boutique nella capitale, presso lo shopping centre Via Riyadh. Il suo partner è AlMalki Group, lo stesso che collabora con Zegna, Gianvito Rossi e La Prairie. In gennaio Lanvin ha raggiunto il Centria Mall di Riyad e a fine 2023 Rolex ha aperto un flagship store a Jedda, presso El Khayyat Centre Mall. Elie Saab, invece, per lanciare il suo arredo di lus-
so, ha inaugurato di recente una showroom nella capitale con il gruppo immobiliare Dar Al Arkan. Anche il casualwear è pronto a investire: con il partner storico di Dubai, Gmg, VF Corporation intende aprire in Arabia Saudita nuovi monobrand Vans, The North Face e Timberland.
In questo momento il Paese si trova in una fase di transizione su più fronti, come da programma governativo Saudi Vision 2030, svelato nel 2016, che include una diversificazione sul fronte sociale, culturale ed economico. Ad attrarre l’attenzione dei media sono soprattutto i mega-progetti immobiliari, nell’ottica di far diventare l’Arabia Saudita una destinazione turistica esclusiva e quindi di diversificare il Pil interno, legato essenzialmente al petrolio. Uno su tutti Neom: una megalopoli a nord del Mar Rosso da 500 miliardi di dollari di investimenti stimati, che include The Line, una città lineare a zero emissioni lunga 170 chilometri, alta mezzo chilometro e larga 200 metri, dove nove milioni di futuri abitanti potrebbero accedere a tutto ciò di cui hanno bisogno in cinque minuti a piedi (il condizionale è d’obbligo, mentre
1. Un rendering della città di New Murabba con, al centro, Mukaab, un edificio di 400 metri per lato che si candida a prima destinazione immersiva del globo 2. Il futuristico Epicon, sul Mar Rosso, progettato da 10Design, con due torri di 225 e 275 metri collegate da piattaforme che includono piscine, ristoranti, una biblioteca e una palestra 3. Il lago artificiale della futura stazione sciistica di Trojena, che dovrebbe essere ultimata per i Giochi
Asiatici Invernali 2029, nell’ambito del maxi-progetto Neom
si parla di lavori rallentati e dell’improbabile raggiungimento dei target per la fine del 2030). Neom include una stazione sciistica montana - Trojena, con tre dighe e un lago artificiale - ma anche un grattacielo, Epicon, per soggiorni di lusso nel deserto, che sembra uscito da un film di fantascienza. A nord ovest di Riyad, per citare un altro avveniristico piano architettonico, dovrebbe invece sorgere New Murabba, una città che ospiterà l’edificio più grande al mondo - Mukaab, in grado di contenere 20 Empire State Building - che si candida a prima destinazione immersiva del globo.
In parallelo il Regno si prepara a ospitare importanti appuntamenti come, i Giochi Asiatici Invernali del 2029 (a Trojena), l’Expo 2030 e la Coppa del Mondo Fifa del 2034. Tutte date che probabilmente sono già evidenziate nelle agende dei marchi internazionali, a cui non sfuggono neppure le riforme in corso da alcuni anni, che vanno anche nella direzione di una maggiore emancipazione femminile. In tempi recenti le donne saudite hanno avuto la possibilità di entrare nei cinema e negli stadi, oltre a guidare l’auto con
Le consumatrici locali sono sofisticate e prediligono prodotti di qualità dal design esclusivo
la patente senza la presenza di un tutore maschio, richiedere il passaporto, far parte delle forze armate e avviare attività senza il consenso maschile. I fashion e luxury brand che hanno già aperto dei punti vendita in città come Riyad e Gedda parlano effettivamente di empowerment femminile e notano un aumento delle quote rosa nella forza lavoro. Dalle statistiche ufficiali emerge che se nel 2017 le donne nel mercato del lavoro erano il 21,2% del totale, nel terzo trimestre 2023 la quota è salita al 34,2%. Le donne in posizioni manageriali sono passate dal 28,6% del 2017 al 43,7% del terzo quarter 2023. Ecco il profilo delle acquirenti delle collezioni Luisa Spagnoli descritto da Nicoletta Spagnoli: «Sono sofisticate e desiderose di seguire le ultime tendenze. Spendono in media ci-
fre significative e prediligono prodotti di alta qualità e dal design esclusivo». In boutique le attende un’esperienza di shopping «impeccabile, con personale cortese e professionale, che fa assistenza in ogni fase del percorso di acquisto». A ciò si aggiungono programmi di fedeltà e, in futuro, eventi speciali. Del modest fashion l’imprenditrice umbra dice: «Al momento le nostre collezioni non sono ancora adattate, ma certamente potremmo valutarlo per il futuro. Riconosciamo l’importanza di rispondere alle esigenze e alle preferenze di un pubblico diversificato e includerlo potrebbe rappresentare un’opportunità, per espandere la base di clienti e offrire una gamma più completa di prodotti». «Ora - anticipa - stiamo esplorando diverse opportunità, tra cui un’altra apertura a Riyad, all’interno di uno dei mall più prestigiosi della regione». Il marchio di alta gioielleria Pasquale Bruni ha aperto nel Centria Mall della capitale nel dicembre 2023 ma in settembre inaugurerà a Gedda un secondo monomarca e ha in valutazione un progetto di shop in shop all’interno di un centro commerciale di Neom, ipotizzato nella seconda metà del 2024. Il
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direttore generale Roberto Bocus è soddisfatto: «Stiamo ottenendo risultati ottimi, soprattutto in termini di brand awareness, visto che non avevamo una storia su questo mercato. Anche il sell out è buono: il prezzo medio di vendita è di circa 12mila euro, decisamente al di sopra di quello italiano». «In Medio Oriente - racconta - abbiamo avuto una storicità in passato ma non a livelli soddisfacenti. Così dal 2019 abbiamo rivisto la strategia e tra il 2021 e il 2023 ci siamo riattivati, tra partnership nuove e consolidate, spaziando in Arabia Saudita, ma anche Dubai, Kuwait e Katar». La brand awareness sta salendo grazie ai modelli iconici, ma anche a una testimonial come la modella Georgina Rodriguez e al film “Marry Me”: sono firmati Pasquale Bruni i gioielli indossati da Jennifer Lopez nella commedia della Universal Pictures. «C’è pure tanto lavoro dei team sul campo e un piano strategico ben architettato con i partner: il marchio è nostro ma le azioni per metterlo in luce vanno condivise», precisa il manager, ex-Pomellato. L’azienda di Valenza sta cercando di costituire una componente forte di clientela locale. Quella turistica - più fluttuante e quindi rischiosaè soltanto la «ciliegina sulla torta». Il Medio Oriente attualmente rappresenta circa il 15% del fatturato totale della Pasquale Bruni e l’obiettivo è il raddoppio della quota sul fatturato globale, nel giro di tre-cinque anni. Mentre scriviamo sulle vendite non stanno impattando le tensioni geopolitiche legate al conflitto Israele-Hamas. «Si tratta di prodotti di lusso disegnati da una donna, Cecilia Bruni, per le donne - sottolinea Bocus -. In genere acquistano per se stesse, anche per farsi un regalo». In negozio la cerimonia d’acquisto è sobria, nel rispetto della cultura locale: «Cerchiamo di rendere l’esperienza nel retail fisico, mai soppiantata dall’e-commerce, unica è indimenticabile, senza essere invadenti. Di regola si instaura una relazione nel rispetto della privacy. Se vogliono le clienti lasciano un contatto, generalmente telefonico, raramente e-mail: servirà a mantenere vivo l’interesse
1. I prodotti di bellezza Nashi Argan proposti in versione Ramadan Calendar kit 2. La gioielleria Pasquale Bruni nel Centria Mall della capitale saudita 3. Jennifer Lopez indossa i gioielli del marchio italiano nel film Marry Me 4. La boutique Luisa Spagnoli presente nel Riyadh Park Mall dall’ottobre 2022
L’interscambio commerciale con l’Arabia Saudita nel
per il brand attraverso eventi o presentazioni delle nuove collezioni in via esclusiva». Alex Raffoul della showroom milanese Marcalec, attiva nel fashion, food e beauty, conosce bene il Medio Oriente e di sei mesi in sei mesi osserva in prima persona le evoluzioni socio-culturali del Regno Saudita. Un’occasione è stata l’apertura a Riyad, insieme a un partner locale, di due negozi e un salone Nashi Argan, il marchio della cosmesi della lombarda Landoll. «La bellezza e il benessere sono settori in ascesa, i consumatori locali curano tantissimo il fisico e spendono molto - osserva Raffoul -. Le nuove generazioni sono molto fashion e veloci a cambiare le loro preferenze, ma è difficile trovare nuove linee italiane ed europee da esportare, perché hanno già a disposizione diversi nomi affermati per la moda maschile e femminile. Per di più i multimarca stanno un po’ sparendo e i mall
sono orientati ai nomi noti, sia del lusso che di fascia bassa come H&M e Zara. Oppure a concept particolari, come quelli di Nashi Argan». I cambiamenti sul fronte dell’emancipazione femminile sono tangibili e portano vantaggi nel B2B e B2C. «Prima - riferisce il titolare di Marcalec - non incontravo mai di persona una retailer donna: tutto si svolgeva via telefono. E non ci si salutava stringendosi la mano». Ora si può e anche lo shopping e i momenti di socialità stanno cambiando. Uomini e donne possono frequentare lo stesso mall in contemporanea, senza barriere di genere e le clienti possono provare i capi nei camerini. Al ristorante è stata superata la divisione tra aree per soli uomini e spazi per famiglie e donne. Le saudite possono anche non indossare il velo e l’abaya, la tunica che lascia scoperti solo testa, piedi e mani (talvolta celando capi di foggia occidentale). «Agli
eventi privati tra donne, l’abito da sera è di rigore - osserva Raffoul -. Come in tutto il Golfo, amano le proposte bling bling. L’uomo veste per lo più i capi tradizionali e indossa modelli occidentali soprattutto quando viaggia». «C’è chi vede nell’Arabia Saudita un potenziale a breve che a mio parere non c’è. Adesso è il momento di metterci piede, per cogliere dei risultati probabilmente non prima di tre-quattro anni», precisa l’esperto di distribuzione in Medio Oriente, pur riconoscendo i tanti passi avanti fatti dal Paese. «C’è un nuovo aeroporto dove non si passano più ore alle dogane, perché basta il visto elettronico - nota Raffoul -. Si può aprire una società senza sponsor locali ed esente da tasse. Ma i taxi scarseggiano, così come i commessi per i negozi, specie ora che la “Saudization” imposta dal governo locale vuole che la forza lavoro sia per lo più di nazionalità saudita. Nuovi resort sono già aperti e funzionanti ma il turismo è essenzialmente quello saudita o del Medio Oriente. Ci vorrà tempo per dimostrare al mondo il cambiamento in atto. Oggi l’Arabia Saudita sembra un po’ Dubai 30 anni fa». «Il Paese è molto lontano dallo sviluppo di Dubai, che è più organizzata a livello di infrastrutture, gestione dei mall e turismo - concorda Giorgio Casella, titolare della showroom milanese Marco Polo, altro esperto di Medio Oriente -. Farà progressi più lenti e graduali. Ci si aspetta che Neom diventi la nuova Mecca, ma non sarà a breve. Stanno promuovendo un’isola sul Mar Rosso che per il 2025 dovrebbe essere pronta ad accogliere monomarca con le prime linee dei brand. Ma mancano ancora le infrastrutture e l’aeroporto non è completato: nell’immediato mi sembra un investimento a scopo pubblicitario per la moda, più che di business». «A Riyad - aggiunge Casella - lo sviluppo nel mondo retail e fashion non è quello che si prospettava. La situazione è stabile, anche se dovrebbero aprire nuovi centri nel 2025 e 2026. I consumi di abbigliamento sono più lenti rispetto ad altri mercati del
1. La showroom di Elie Saab Maison nella capitale 2. Martino Scabbia Guerrini, executive vp, global chief commercial officer e president per gli Emerging Brands di VF e Mohammad
A. Baker, deputy chairman e ceo di Gmg, si preparano a espandere nell’area Mena, partendo dall’Arabia Saudita, le label Vans, The North Face e Timberland
Sono stati fatti tanti passi avanti ma ci vorrà tempo per dimostrare al mondo il cambiamento in atto
Medio Oriente. Si tratta di shopping domestico o di chi è di passaggio per affari, in più è concentrato in periodi limitati, per esempio alla fine del Ramadan o in vista delle vacanze, ed è focalizzato sui marchi internazionali famosi». «Per chi intende muovere i primi passi nell’area consiglio di puntare alla capitale o a Gedda e di avvalersi di un partner esperto, per entrare nei due-tre mall che vanno davvero per la maggiore, con un posizionamento ideale - suggerisce il titolare della showroom Marco Polo -. La location va sempre verificata di persona, mai decisa sulla carta. Però i costi sono molto inferiori rispetto a Dubai e il turnover è più basso, quindi l’investimento è abbastanza sicuro». Si tratta di pochi scontrini ma «pesanti», quindi merita fidelizzare i clienti acquisiti puntando molto al servizio, dall’intrattenimento in una room in boutique dedicata fino alla consegna a casa per la prova. I settori con più probabilità di successo sono la cosmetica e la profumeria, seguiti da gioielli e accessori di lusso come borse e calzature. «L’abito può anche essere di Zara, ma la borsa - conclude Casella - si preferisce di Hermès».
Il marchio saudita Rebirth, che ha sfilato alla recente Red Sea Fashion Week
LA FASHION
La moda locale, un altra via per diversificare il Pil
L’Arabia Saudita sta muovendo una serie di passi anche nell’ottica di sviluppare un business locale della moda. Nel 2022 il settore fashion ha contribuito per l’1,4% al Pil nazionale, con la cifra di 12,5 miliardi di dollari, dimostrando di avere un ruolo nella crescita economica e nella diversificazione. Inoltre si stima che per il 2025 le vendite di moda nell’area arrivino a 32 miliardi di dollari, (+48% dal 2021, ipotizzando un incremento annuo del 13%). Non è un caso dunque l’apertura, tra due anni, di una sede dell’Istituto Marangoni a Riyad, d’intesa con la Saudi Fashion Commission guidata da Burak Çakmak. Con l’iniziativa Saudi 100 Brands, la Commissione sta anche promuovendo all’estero 100 marchi tra ready-to-wear, couture, accessori e cosmesi. A Milano, in particolare, il White di settembre ha ospitato una serie di brand sauditi, portato una selezione di collezioni in un pop up da 10 Corso Como e organizzato una sfilata evento a Palazzo Serbelloni. Mentre la collaborazione con il trade show resta aperta, in vista di nuovi progetti, la Fashion Commission saudita dà appuntamento alla seconda edizione della Riyad Fashion Week: sarà dal 17 al 21 ottobre, dopo l’esordio nel 2023, che ha fatto sfilare 30 marchi locali. In maggio è stata preceduta dalla Red Sea Fashion Week, vetrina di marchi sauditi e non, nell’esclusivo St. Regis Red Sea Resort sull’isola Ummahat, che ha voluto celebrare la fusione tra l’estetica tradizionale saudita e il design contemporaneo.
Con questo numero inauguriamo un nuovo spazio, dedicato al mondo del lifestyle: partiamo con un’azienda di gioielli, protagonista della retrospettiva veneziana “The Prince of Goldsmiths, Rediscovering the Classics” e impegnata nella sfida di portare avanti una tradizione orafa che dura da 105 anni
DI ANGELA TOVAZZIThe Prince of Goldsmiths, il principe degli orafi - nella definizione che ne diede Gabriele D’Annunzio, all’epoca uno dei “top spender” del marchio - era Mario Buccellati, il capostipite dell’azienda che a distanza di 105 anni dalla propria fondazione è conosciuta in tutto il mondo per i suoi gioielli incisi a mano nei laboratori milanesi. A lui e a suoi eredi è stata dedicata la retrospettiva veneziana, on stage fino al 18 giu gno: un tuffo nella storia di creazioni realizzate ancora con tecniche rinascimentali, piccole opere d’arte dalle lavorazioni come il pizzo, il tulle e il nido ape. Con l’ingresso nel capitale, cinque anni fa, del gruppo elvetico Richemont e il duopolio creativo di Andrea Buc cellati e sua figlia Lucrezia, da qualche anno co-creative director, la casa di moda è in una fase di evoluzione: «Mio nonno - racconta Andrea Buccellati - aveva un gusto Art Déco, mio padre Gianmaria era più barocco, io invece minimalista e amante delle geometrie, mentre mia figlia, prima donna della generazione, ha una visione rivolta alla portabilità e all’indossabilità dei nostri gioielli. Pensati non solo per le grandi occasioni e il red carpet, ma easy-to-wear, anche nella quotidianità». «La filosofia però rimane la stessa - tiene a precisare -. Da quando mio nonno Mario iniziò l’attività nel 1919 non è cambiato niente dal punto di vista delle tecniche e anche nello stile siamo rimasti sempre fedeli al nostro dna, con la produzione di pezzi artigianali senza tempo. Quello che andava di moda 30 anni fa è attuale anche adesso. Questa è la nostra forza, questo il segreto del nostro successo». Andrea Buccellati non fornisce numeri ma con tono fermo ribadisce che «l’azienda cresce anno su anno», che nonostante il rallentamento del lusso «non ha mai avvertito crisi» e che «la clientela si è ulteriormente allargata». Merito anche dell’approccio di Richemont, conglomerato con in portafoglio gioiellieri della caratura di Cartier e Van Cleef & Arpels e che recentemente ha anche inglobato un altro nome italiano come Vhernier: «Rispetto ad altri big del lusso - osserva - non stressano sui risultati economici e mettono in campo strategie non a breve, ma a lunga gittata. La loro logica è sempre stata quella di rispettare le nostre radici e preservare il valore del marchio nel tempo». Quest’ultimo aspetto appare come il “chiodo fisso” che accomuna Andrea e Lucrezia,
1. Foto di famiglia in occasione della mostra a Venezia, in concomitanza con la Biennale: da sinistra Andrea Buccellati, la sorella Maria Cristina, la figlia Lucrezia e il cugino Luca 2. Uno scorcio della retrospettiva, realizzata da Balich Wonder Studio, curata da Alba Cappellieri e allestita negli spazi di Oficine 800 sul canale della Giudecca 3. e 4. Un anello della “Historic Collection” e una collana ombelicale 5. Buccellati punta a sedurre le nuove generazioni: la nuova testimonial è Talita von Fürstenberg. Designer, filantropa e imprenditrice, è figlia dei principi Alexandra e Alexander von Fürstenberg e nipote della stilista Diane von Fürstenberg
rispettivamente rappresentanti della terza e quarta generazione. Un obiettivo che secondo Buccellati si può raggiungere non solo con le spalle coperte da un grande gruppo, non solo con una «grande passione per quello che si fa», ma mettendo in sicurezza il know how capitalizzato in oltre un secolo di storia, assicurandosi la continuità. «Trasferire le conoscenze, in modo che vengano tramandate a chi verrà dopo di noi, è fondamentale per mantenersi all’altezza di certi standard qualitativi - sottolinea l’imprenditore -. Per questo ci occupiamo della formazione internamente e abbiamo portato avanti joint-venture con la Scuola Orafa Ambrosiana». Del resto ci vogliono dai cinque ai dieci anni per imparare l’arte del mestiere, che negli ultimi anni è stato molto rivalutato, secondo Buccellati: «Diventare orafo per me è stata una scelta naturale, a 12-13 anni avevo già deciso cosa fare nella vita. Per mia figlia Lucrezia è stato più o meno lo stesso. Per tanti giovani adesso c’è questa opportunità. Molti hanno capito che lavorare con le mani ti dà la possibilità di creare e di esprimere veramente te stesso».
B)IMMOBILIZZAZIONI
I
e
C) Proventi e oneri finanziari
Proventi da partecipazioni
Altri proventi finanziari:
a) da crediti iscritti nelle immobilizzazioni
b) da titoli iscritti nelle immobilizzazioni che non costituiscono partecipazioni
c) da titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono partecipazioni
d) proventi diversi dai precedenti
17. Interessi e altri oneri finanziari:
verso imprese controllate
verso altri
17. Bis Utile e perdite su cambi
utile su cambi
perdite su cambi
(15+16-17+17bis)
D) Rettifiche di valore di attività finanziarie
18. Rivalutazioni:
a) di partecipazioni
b) di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni
c) di titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono immobilizzazioni
19. Svalutazioni:
a) di partecipazioni
di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni
c) di titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono immobilizzazioni
Totale delle rettifiche (18-19)
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