Con l'ingresso di Permira in K-Way, Alessandro e Lorenzo Boglione aprono una nuova era per BasicNet: più lifestyle, più controllo diretto e più capitali esterni
ATTO SECONDO
Con Fusalp Sophie Lacoste lancia la sfida ai grandi marchi dell'outerwear
DOUBLE FACE
Da imposizione a opportunità: la leva strategica del Digital product passport
PRONTI AL BIS
Il dopo Farfetch: i marketplace italiani si fanno spazio sulla scena globale
In copertina
Alessandro e Lorenzo Boglione, vice presidenti di BasicNet, azienda fondata dal padre Marco, sono i protagonisti della cover story di questo numero Ph: Alberto Bernasconi
COVER STORY
BASICNET Fase due Pagina 8
PROTAGONISTI
SOPHIE LACOSTE
Un cognome importante e un’ambizione: fare di Fusalp un marchio globale, capace di sfidare i big Pagina 18
ROBERTA BENAGLIA
Con Autry la ceo di Style Capital proverà a trasformare ancora una volta una sneaker vintage in un capo iconico Pagina 24
LUIGI FILA
Il direttore creativo svela i nuovi progetti di Altea, Valstar e Brooksfield. «Per crescere - dice - ci prendiamo i nostri tempi» Pagina 28
IL POLSO DEL MERCATO
BUYERS’ SURVEY UOMO FW 24/25
I multimarca rialzano la testa Pagina 30
LISTINI ALLE STELLE
È più una questione di diversificazione che di pricing Pagina 41
MERCATI & CAPITALI
Il punto di vista di Swetha Ramachandran (Artemis) Pagina 47
PREVIEW UOMO FW 25/26 Ritorno al futuro Pagina 53
FOCUS PANTALONI
Diari di viaggio Pagina 70
PITTI STORIES
Roy Roger’s Il futuro è workwear e arriva dal passato Pagina 72
PITTI STORIES
Prohibited
Hype senza hype Pagina 74
INNOVAZIONE
DIGITAL BUSINESS
Little Italy vs i giganti: si accende la sfida dei marketplace Pagina 85
Giglio.com: con un magazzino condiviso si può fare le rivoluzione Pagina 86
Thebs.com: la strategia del club deal per crescere Pagina 88
Wanan: il modello Cettire e l’AI per preparare la sfida Pagina 90
Bestsecret: «100 marchi sono nella lista dei desideri. Ne abbiamo la metà» Pagina 93
SHOPPING EXPERIENCE
Virtual try-on: il sequel Pagina 96
OLTRE LA TRACCIABILITÀ
I first mover del Digital product passport Pagina 103
RUBRICHE
L’EDITORIALE
2025? 2025! Pagina 7
CONTROCORRENTE
Mark Batista di Welcome: «Siamo una fiera che sembra una showroom» Pagina 111
OLTRE IL SOFFITTO DI CRISTALLO
Generazioni a confronto: Letizia Galli e Olimpia Santella & Chiara Airoldi Pagina 114
NEWCOMERS
Carlo Piombo: «Né avvocato, né fantino. Ho preferito l’azienda di famiglia» Pagina 118
LIFESTYLE
Thibaud Crivelli: «Ogni profumo è un’avventura personale» Pagina 120
2025? 2025!
«Anno della paura o anno della ripresa? A leggere i giornali si direbbe che non c’è da star molto tranquilli».
Con queste frasi Gianni Bertasso, il fondatore di Fashion, iniziò il suo primo editoriale del 1975. Nonostante sia passato mezzo secolo, suonano sorprendentemente attuali. L'impennata dell'inflazione, il conflitto in Medio Oriente, le preoccupazioni per la finanza pubblica e la competitività: sono temi che erano acuti nel 1975 e lo sono ancora oggi.
Il lungo respiro della storia pervade il nuovo numero di Fashion. Dimostriamo che è necessario guardare al passato per plasmare il futuro. Il passato offre un orientamento, qualche volta un conforto ed è spesso uno sprone ad andare avanti con coraggio.
La nostra cover story è dedicata a BasicNet. L'azienda torinese è l'esempio perfetto di come si può costruire un ponte fra ieri, oggi e domani.
Tobias Bayer
La famiglia Boglione si è data il compito di rilevare brand storici e di riportarli al successo. Come archeologi, cercano indizi, costruiscono archivi e progettano collezioni che riflettono l'identità del marchio. Tramite un marketplace altamente tecnologico producono e vendono a livello globale. Lorenzo e Alessandro continuano la missione del padre Marco e sono entrati in una nuova fase con l'investimento di Permira in K-Way.
Delusioni e sconfitte fanno parte della vita. Proprio come le seconde opportunità. Sophie Lacoste ha perso la battaglia per l'azienda dei suoi genitori. Ma non si è arresa. Ha rilevato lo storico brand di sci Fusalp e, come ci racconta, sta provando a creare un marchio globale che si ispira a Moncler.
È sempre una buona idea ascoltare le persone che hanno molta esperienza. Ecco perché abbiamo incontrato Letizia Galli, che a 104 anni ne ha viste tante. L'anziana titolare di Brunate ha preso il timone dell'azienda calzaturiera di Lomazzo quando il padre è morto improvvisamente. Dopo un incendio, dovette ricostruire la fabbrica. Ancora oggi non è andata in pensione. «Cosa faccio a casa? A casa mi stufo», dice.
Anche noi di Fashion ci diamo da fare. Il 2025 sarà un anno di nuovi inizi. Abbiamo dato alla nostra rivista una nuova veste grafica, aumentato le uscite, arricchito il nostro sito online con la voce di esperti e sperimentato nuovi format di conferenze, come un club al femminile.
Come scrisse Bertasso: «Nasce ora la speranza che deve farci alzare lo sguardo verso l’alto. Perché ogni bruttura collettiva può essere sempre vinta quando dall’individuo si sviluppino repulsione e volontà di vincere». Buon anno a tutti!
FASE DUE
Lorenzo e Alessandro Boglione hanno rilevato la gestione day-by-day di BasicNet, azienda fondata dal padre. Risale a fine ottobre l’annuncio della vendita di una quota di minoranza di K-Way a Permira: sarà questo il modello di business che seguiranno anche per gli altri marchi del gruppo Kappa, Superga e Sebago?
In cabina di regia di BasicNet ci sono i fratelli Lorenzo e Alessandro Boglione, entrambi vice presidenti del gruppo, figli del presidente e fondatore Marco Boglione
Ph. Alberto Bernasconi
Nasce BasicNet: sono le 20 del 7 novembre 1994 quando Marco Boglione entra nel Maglificio Calzificio Torinese. Ha sborsato 21 miliardi di lire per rilevare l’azienda di maglieria, scivolata nell’insolvenza. Indossa blue jeans, blazer e una cravatta fantasia, verde e nera. Il verde è il colore della speranza. Boglione è convinto che nel Maglificio Calzificio Torinese (MCT) si nasconda un tesoro. Non è la proprietà. Non sono le macchine per maglieria. Sono i marchi Kappa e Robe di Kappa, di proprietà dll’azienda tessile. L’ingresso principale di MCT, in corso Brescia 86 a Torino, è illuminato a giorno. All’entrata si è radunata una folla. Quando Boglione fa la sua comparsa, scroscia un applauso. È accompagnato dalla moglie Daniela e dai figli Lorenzo e Alessandro, che all’epoca hanno otto e sei anni. Indossano un gilet di maglia grigio e uno blu. È successo 30 anni fa. Tuttavia, Lorenzo e Alessandro ricordano quel momento come se fosse ieri. «Lo vedo chiaramente ancora oggi», dice Alessandro. «Nostro padre si trasferì in azienda. Quando andavamo a trovarlo nel suo loft mangiavamo, dormivamo e ci svegliavamo in azienda. Vivevamo in azienda», racconta Lorenzo. I fanciulli di allora sono diventati due uomini adulti. Lorenzo e Alessandro siedono fianco a fianco in una sala conferenze della sede milanese di Basic Village in via dell’Aprica, dietro allo Scalo Farini, inaugurato nel settembre 2022. L’edificio è un’ex fabbrica di pneumatici, ancora intatta nella sua struttura originaria, su cui svetta una ciminiera. Sono successe molte cose da quel giorno di novembre di tre decenni fa. La società BasicNet è quotata in Borsa, genera un fatturato aggregato di oltre 1 miliardo di euro insieme ai suoi licenziatari e ora controlla marchi come K-Way, Superga, Sebago e Briko, oltre a Kappa e Robe di Kappa.
BasicNet non rivela l’entità del fatturato dei singoli marchi. Tuttavia, non è un segreto che Kappa e Robe di Kappa rappresentano la maggioranza. Seguono Superga, K-Way e, più distaccato, Sebago. Se l’acquisto del Maglificio Calzificio Torinese è stato cruciale per il padre, anche Lorenzo e Alessandro hanno appena vissuto un momento importante, perché BasicNet ha venduto una quota di minoranza di K-Way a Permira.
Si dice che la società di investimento - che è stata coinvolta in Valentino, Hugo Boss e Golden Goose - abbia messo sul piatto tra i 180 e i 190 milioni di euro per il 40%. Se ciò fosse vero, l’investitore finanziario avrebbe valutato il marchio, famoso per la sua giacca a vento e con un fatturato di circa 148 milioni di euro nel 2023, 505 milioni di euro: un prezzo di cui andare fieri, che corrisponderebbe a 11,3 volte gli utili EBITDA. Il mercato dei capitali è in preda all’euforia. Le azioni BasicNet, che in precedenza erano quotate sotto i 4 euro ciascuna, hanno fatto un balzo in avanti e
ora sono salite a oltre 7 euro. Gli investitori ipotizzano che l’operazione realizzata per K-Way potrebbe essere replicata anche per Kappa, Superga e Sebago. Questo è esattamente ciò che i fratelli hanno in mente. Alla domanda se K-Way può essere un modello, entrambi rispondono all’unisono in inglese con «hopefully». «Ci piacerebbe molto - afferma Alessandro -. Potrebbe diventare il nostro mestiere. Sarebbe la seconda fase per BasicNet. Nella prima abbiamo portato i marchi da zero a cento da soli. Nella seconda li vorremmo far salire a 200 o 300 con i partner».
A fine giugno K-Way aveva un valore contabile di soli 9 milioni di euro. Kappa, Superga e Sebago sono valutate rispettivamente 15, 21 e 12 milioni di euro. Se qualcuno come Permira dovesse intervenire, si tratterebbe di un multiplo in un colpo solo. Per BasicNet è iniziata una nuova era, in gran parte determinata da Lorenzo e Alessandro. I due fratelli gestiscono le attività quotidiane in qualità di vicepresidenti esecutivi.
Formalmente, Lorenzo è responsabile del marketing, Alessandro delle operazioni e delle vendite. In pratica, i compiti non sono così chiaramente separati. «Non li abbiamo mai definiti con precisione» spiega Alessandro e Lorenzo aggiunge: «Certo è che condividiamo tutto. Quando ci sono investimenti importanti da fare, decidiamo insieme».
I figli del fondatore conoscono ogni angolo dell’azienda paterna. Come tutti i dipendenti, all’inizio hanno dovuto impratichirsi nei negozi per tre mesi. Lorenzo lo ha fatto nei punti vendita di via Lagrange e piazza C.L.N. a Torino. «Da ottobre a dicembre per l’esattezza - ricorda -. Dopo le vacanze di Natale, ho iniziato a lavorare in ufficio». Gli fu affidato il compito di seguire l’espansione internazionale.
I classici mocassini Sebago
Il Basic Village a Milano si trova nella zona dello Scalo Farini
Il nuovo quartier generale è uno spazio multifunzionale di 4.500 metri quadrati
BasicNet ha sempre più il controllo del business: le vendite dirette crescono, le royalties restano stabili...
Questo significa che Lorenzo era praticamente quasi sempre in viaggio: «Ero in trasferta tra 150 e 170 giorni l’anno». Volava in Australia almeno una volta l’anno. «È stato un privilegio vedere così tanti luoghi di tutto il mondo - sottolinea -. Ho imparato quanto siano diversi i mercati». Alessandro ha conosciuto «l’altra faccia della medaglia». Ha viaggiato nelle fabbriche, «in Cina, Myanmar, Cambogia, Sud America». Ha conosciuto l’intera catena di fornitura, «dalle materie prime, come la lana e il nylon, alle cerniere e ai capi di abbigliamento.Da allora so come si produce un maglione o un paio di pantaloni».
L’operazione di Permira, che Lorenzo e Alessandro hanno accompagnato, è il culmine di un processo di cambiamento che BasicNet ha intrapreso da diversi anni. In origine, l’azienda si presentava come un marketplace. Era un pioniere come Amazon ed eBay, con la differenza che non si trattava di una piattaforma B2C ma B2B, sulla quale i titolari di licenze e i produttori potevano commerciare solo articoli dei marchi in capo a BasicNet. «Non vendo magliette, vendo l’opportunità di fare affari», era il mantra di Marco Boglione.
C’era una rigida divisione del lavoro. BasicNet progettava la collezione, gestiva il marketing e aveva il compito di fornire il sistema informatico. I licenziatari si occupavano delle vendite nei mercati locali e si rifornivano di prodotti presso le fabbriche. L’azienda torinese riscuoteva i diritti di licenza per questi servizi.
Il borsino retail: Store in crescita per Kappa e K-Way, stabile Sebago, Superga razionalizza
trebbe quotare un marchio come K-Way attraverso uno spin-off.
I fratelli hanno anche preso provvedimenti nel caso inverso, in cui volessero fare un’acquisizione. BasicNet riacquista le proprie azioni e ora detiene oltre il 12% del proprio capitale. Da un lato, questo è un modo per ricompensare gli azionisti esistenti per la loro fedeltà e consentire ai dipendenti di partecipare al successo dell’azienda. Dall’altro, le azioni proprie sono anche una moneta con cui BasicNet potrebbe finanziare l’acquisizione di un altro marchio.
Da qualche tempo, BasicNet sta facendo sempre di più da sola. In Europa, in particolare, i “Bogliones” hanno rilevato una serie di licenziatari, come Kappa Europe nel 2019 e K-Way France nel 2022. Di conseguenza, le vendite dirette di BasicNet sono salite significativamente, mentre le royalties sono rimaste pressoché stabili. Lorenzo e Alessandro hanno anche cambiato l’architettura aziendale. Mentre prima i marchi erano gestiti da un’organizzazione centrale, ora sono incorporati in società separate sotto la casa madre BasicNet SpA. Ciò significa che a ciascun marchio viene assegnato un team che può concentrarsi completamente su di esso. Questa struttura rende anche più facile separare ogni brand dalla rete aziendale. Ad esempio, BasicNet po-
Se i due fratelli vogliono fare la loro parte, in sostanza non è mutato nulla, nonostante tutti questi cambiamenti. «Il nucleo del modello di business è rimasto lo stesso», precisa Lorenzo. Anche l’ingresso di Permira non rappresenta una rottura. «Aumentare il valore dei marchi è sempre stato il nostro obiettivo», chiarisce Alessandro.Tuttavia, si tratta di un punto di svolta. Il fondatore Marco Boglione diceva sempre di no quando un fondo bussava alla sua porta ed era interessato a uno dei suoi marchi. La sua prima esperienza imprenditoriale gli aveva insegnato quanto fosse importante possedere un brand. Football Sport Merchandise, in breve FSM, era il nome dell’azienda che Boglione gestiva con l’amico Luciano Antonino negli anni Ottanta. FSM vendeva maglie della Juventus Torino ai tifosi. Le maglie erano prodotte dalla Kappa, il Maglificio Calzificio Torinese, il cui proprietario Maurizio Vitale aveva nominato il giovane Boglione ...ma le acquisizioni come K-Way France pesano sui conti...
Fonte: BasicNet
Dati in milioni di euro Fonte: BasicNet
... la vendita di una quota K-Way porta soldi in cassa e il titolo di BasicNet vola
2014
Fonte: Factset
responsabile del marketing della Kappa. FSM ebbe successo fino ai primi anni ‘90, ossia fino a quando le grandi aziende sportive, come Nike, non avevano ancora attirato a sé i top club con ingenti somme di denaro. In cambio di tutti i soldi, insistevano per avere contratti esclusivi. Questa era una minaccia per la sopravvivenza di FSM. Nella sua autobiografia dal titolo “Piano piano che ho fretta”, Boglione racconta cosa ha imparato dall’inciampo di FSM: «La mia piccola, giovane azienda informatizzata - scrive - che aveva lottato per anni per sopravvivere ed espandersi, aveva bisogno di una sola cosa. No, non di soldi o, meglio, non solo di soldi, ma di un marchio di proprietà».
Con l’acquisizione del Maglificio Calzificio Torinese, l’imprenditore era riuscito ad assicurarsene uno - Kappa. Questo gli ha permesso di realizzare la sua visione e di creare un marketplace di abbigliamento e accessori, che ha battezzato BasicNet. Il mercato gli ha consentito di ottenere grandi fatturati con un investimento di capitale relativamente basso e sfidare giganti dello sport come Adidas e Nike, grazie a Kappa. BasicNet era una piccola azienda, ma partendo da zero è diventata un piccolo player globale. All’epoca si trattava di un concetto rivoluzionario, che sarebbe stato più adatto alla Silicon Valley che a Torino. Boglione, che ama i computer e si definisce un “nerd”, avrebbe dato molto per aver potuto assemblare il primo computer Apple con Steve Jobs e Steve Wozniak nel garage di Los Altos.
«L’operazione K-Way potrebbe essere un modello? Ci piacerebbe. Sarebbe la fase due»
Alessandro Boglione, BasicNet
Un sogno che non si è realizzato. Tuttavia, Boglione si è consolato anni dopo, acquistando l’Apple 1 e la scheda madre all’asta: «Per me è il Santo Graal». Poté comprare anche l’Apple 2 insieme al sistema operativo originale. Wozniak lo aveva programmato da solo in Basic. Quasi dieci anni dopo l’acquisto di Kappa, Boglione diventa proprietario di K-Way e Superga. Il 2004 fu un anno difficile. Le azioni BasicNet, che quattro anni prima erano state scambiate a 4 euro, scivolarono a 50 cente-
2024
simi. Fortunatamente per Boglione, alcune aziende andarono anche peggio della sua: basti pensare al Formula Sport Group, che possedeva K-Way e Superga. Quando Boglione rilevò K-Way, non venne subito capito. «Sei pazzo. K-Way non esiste più», gli dicevano gli amici. Ma lui non si è lasciato scoraggiare. «K-Way è diventato parte della cultura globale», rispondeva agli scettici. La giacca a vento K-Way fu ideata da Léon-Claude Duhamel quando vide una signora con una giacca di nylon rossa passare al Café de la Paix di Parigi in un giorno di pioggia del 1965. Da allora è diventata un’espressione abituale nel linguaggio comune, «come i kleenex. In Italia gli insegnanti ricordano sempre ai genitori, prima di una gita scolastica, che i figli devono portare con sé un K-Way».
All’epoca, l’azienda K-Way non esisteva più, ma nell’immaginario collettivo il ricordo era ben presente. I Bogliones si sono basati su questo e hanno progettato una collezione completa. Se nel 2004 il marchio era associato solo alla Le Vrai Claude, oggi la famiglia di prodotti rappresenta meno di un quinto delle vendite. Tuttavia, Le Vrai Claude è ancora «molto importante» per il marchio K-Way perché, come dice Lorenzo, «incarna la sua storia». Per questo motivo BasicNet lancerà un nuovo modello dell’iconica giacca a vento in occasione del 60esimo anniversario del marchio, che sarà celebrato con una sfilata alla fashion week di Milano di febbraio. Sarà più leggera del 25%, più idrorepellente, più traspirante, realizzata in
Dicembre
Dicembre
La nuova struttura di BasicNet: ora più facile scorporare i brand (in caso di vendita)
Negli ultimi anni la famiglia Boglione ha modificato l’architettura aziendale. Basicnet era un’organizzazione centrale. Esistevano società in cui erano raggruppati i diritti del marchio e la vendita al dettaglio. Oggi i brand sono stati incorporati in singole società organizzate direttamente sotto la capogruppo BasicNet S.p.A.. Ogni singolo marchio controlla le proprie filiali di vendita al dettaglio. Perché? I brand sono cresciuti. Per questo motivo è necessaria una maggiore concentrazione rispetto al passato per portarli al livello successivo. Ci sono team separati per ogni marchio, ad esempio per il marketing e le vendite. La nuova struttura rende anche più facile separare i brand dal gruppo se Basicnet sta pensando di venderne uno o di quotarlo in borsa.
nylon riciclato e costerà 140 euro al pubblico. Con l’aiuto di Permira, Lorenzo e Alessandro spingeranno le vendite dirette, cioè apriranno i loro negozi, e si espanderanno a livello internazionale, dato che attualmente K-Way è fortemente rappresentata solo in Francia, Italia e Belgio. Il nuovo socio ha immediatamente nominato un nuovo ceo, Luca Lo Curzio, che ha lavorato per Zegna ed è stato recentemente a capo di Jil Sander. Lo Curzio proviene dal mondo del lusso, ma questo non significa che K-Way stia emulando Moncler, chiariscono Lorenzo e Alessandro. «Non credo che alzeremo i prezzi - anticipa Lorenzo -. Il marchio è posizionato correttamente». Inoltre, per ora non è prevista l’assunzione di un direttore creativo: «K-Way ha le carte in regola per passare da un brand che realizza il 95% delle vendite in tre mercati a un marchio globale».
Attualmente tutto si concentra su K-Way, ma Lorenzo e Alessandro stanno spingendo anche gli altri marchi BasicNet. Con Kappa occupano delle nicchie. Nel calcio realizzano le divise di club come l’FC Venezia, che si rivolge a un pubblico cool e attento alle tendenze. I fratelli vedono un grande potenziale nello sci. Kappa sponsorizza la squadra di sci degli Stati Uniti, tra cui la superstar Mikaela Shiffrin. «Otterremo una grande visibilità durante le Olimpiadi invernali del 2026 a Milano-Cortina», dice Lorenzo.
Sebago è in ascesa. Lorenzo e Alessandro hanno trasformato il marchio, che aveva solo due modelli di due calzature - la Dockside e il mocassino - evolvendo la sua offerta in un total look completo che comprende maglioni, camicie in denim e cappotti, visibili al Pitti Uomo di gennaio. «Sebago deve diventare un marchio lifestyle e raccontare un modo di vivere», è la convinzione di Lorenzo.
Solo pochi anni fa, il brand Usa era in de-
«Sebago deve diventare un vero marchio lifestyle e raccontare un modo di vivere»
Lorenzo Boglione, BasicNet
clino. Il precedente proprietario, il gruppo calzaturiero statunitense Wolverine Worldwide, aveva in portafoglio un concorrente di Sebago con il marchio Sperry e stava cercando un acquirente. Marco Boglione arrivò al momento giusto, poiché BasicNet non era un concorrente “serio” dal punto di vista degli americani.Poiché non esisteva più un archivio di Sebago, Lorenzo e Alessandro hanno setacciato Internet alla ricerca di vecchi articoli, cataloghi e campagne pubblicitarie, con l’aiuto dei loro clienti. Il negozio Guichardaz di Courmayeur, per esempio, ha trovato una vecchia sneaker Sebago nel suo garage. «Non sapevamo nemmeno che questo modello esistesse», ammette Lorenzo. I fratelli raccontano la storia di Sebago, originario dello stato americano del Maine, con uno “Yearbook” pubblicato ogni
anno. Per la realizzazione del libro non si bada a spese. Nella seconda edizione hanno preso la penna, tra gli altri, Tatsuya Nakamura, direttore creativo di Beams, e il fondatore di Drake’s Michael Hill. La situazione è più difficile per il marchio Superga, la cui icona è la scarpa da tennis 2750. «Superga ha avuto un enorme successo, ma ora abbiamo perso vendite - dice Lorenzo -.Questo non è dovuto ai suoi errori, ma al fatto che il mercato si è trasformato». Anche concorrenti come Vans sono attualmente in difficoltà. Nel giugno 2024 Lorenzo e Alessandro hanno riportato il marchio a Pitti Uomo, dopo quattro anni di assenza: «È stato un primo segnale». Il piano è di continuare nel 2025. «Superga ha il potenziale per diventare un marchio a 360 gradi», puntualizzano, raccontando che negli archivi del brand hanno anche trovato una capsule disegnata dall’inventore di C.P. Company, Massimo Osti, mai messa in produzione prima. In BasicNet stanno accadendo molte cose. Vendere un marchio, acquistare un marchio, tutto sembra possibile. Ma ai fratelli non viene in mente di creare un nuovo brand. «Sappiamo come rivitalizzare un marchio con una storia», chiarisce Alessandro e Lorenzo aggiunge: «Tuttavia non cominciamo a lavorare a nessun progetto senza un archivio». Questo li fa somigliare molto al padre. «Non possiamo farlo», aveva risposto Marco Boglione quando gli era stato chiesto se volesse creare un marchio. Ma ha iniziato a fare anche questo. Si è prefissato il compito di trasformare l’isola di Culuccia, al largo della Sardegna, in una destinazione turistica. Parte del progetto è una linea di abbigliamento chiamata Culuccia. È chiaro che le sorprese non finiscono qui. ■
TOBIAS BAYER E MARIA CRISTINA PAVARINI
In un’unica sede si trovano le showroom di K-Way, Superga, Kappa e Sebago Ora tutto si concentra su K-Way, ma i fratelli Boglione vogliono spingere su Kappa
«I clienti vogliono i marchi heritage. Hanno nostalgia dei bei tempi»
Komet und Helden è una delle agenzie di moda più importanti in Germania. Ecco perché i due fondatori credono nei marchi di BasicNet
Dopo K-Way, Komet und Helden rappresenta ora anche Superga e Sebago in Germania. I marchi storici di BasicNet sono in piena espansione?
Henrik Soller: Sì, nei tempi incerti in cui abbiamo vissuto negli ultimi tre o quattro anni, nei consumatori è cresciuta la nostalgia dei bei tempi andati. I marchi storici come K-Way fanno bene all’anima. Quando si vede un K-Way, si ripensa alla spensieratezza dell’infanzia. Automaticamente si sorride un po’.
Come si sta sviluppando attualmente K-Way?
Florian Ranft: Quando sono stato a Milano, di recente, pioveva. K-Way era onnipresente per strada, il che è stato davvero sorprendente. La situazione è simile in Francia, dove K-Way è diventato parte integrante del paesaggio urbano. Viene scelto da tutte le fasce d’età. Molte ragazze indossano K-Way sopra un vestito. Il marchio è forte in Francia e in Italia. Qual è la situazione in Germania?
K-Way sta performando bene in Germania. Il sell out dei rivenditori è soddisfacente. Il prodotto è davvero molto buono e il rapporto qualità-prezzo è ottimo. L’aspetto positivo è che K-Way ora è più di una semplice giacca e rappresenta un total look. Vendiamo l’intera gamma, i maglioni, le T-shirt e i pantaloni.
La società di investimento Permira ha acquisito una quota di minoranza di K-Way. Stiamo parlando di negozi di proprietà. Un segnale d’allarme per il wholesale?
Henrik Soller: K-Way è un marchio predestinato sia ai negozi monomarca che alla vendita nei multimarca. Se un marchio funziona, funziona su tutti i canali. La vendita diretta e il wholesale possono coesistere. Per quanto riguarda l’ingresso di Permira, vedo dei vantaggi. Permira ha partecipato a Golden Goose. E Golden Goose è diventata molto grande. Permira ha guadagnato bene con Hugo Boss. Quanto alla piattaforma off-price Bestsecret, che appartiene a Permira, sta andando molto bene. Perché sostenete Superga?
Superga è un prodotto molto democratico. Come un paio di Vans. Kate Middleton
indossa queste calzature e così fa anche la cassiera del supermercato. Il livello di consapevolezza è pazzesco. Una scarpa Superga si trova nei negozi di moda, ma anche presso i rivenditori specializzati. Si può ottenere molto dal marchio.
Il mercato grigio è stato a lungo un problema per Superga. È ancora così?
Capitava che 10mila paia apparissero improvvisamente sul mercato parallelo. Per
«K-Way è diventato parte integrante del paesaggio urbano. Viene indossato da tutte le fasce d’età»
Henrik Soller e Florian Ranft, fondatori di Komet und Helden
questo BasicNet ha ridotto il numero di licenziatari e distributori. Questo ci rende ottimisti sul fatto che il problema sia stato risolto.
Sebago è nota per le sue scarpe da vela e il marchio sta ampliando la sua gamma. A che punto è attualmente?
Florian Ranft: I mocassini hanno molto successo e costituiscono un importante pilastro. Crediamo anche negli stivali per la prossima stagione invernale. L’abbigliamento completa il look e ci facilita la vendita delle scarpe.
Sebago sta emulando Ralph Lauren. Realismo o pura velleità?
L’abbigliamento è già di buon livello. Ma ci vorrà ancora un po’ prima che Sebago si avvicini a Ralph Lauren.
Henrik Soller: Tutti vogliono essere come Ralph Lauren. Per noi sarebbe sufficiente che Sebago si sviluppasse nella direzione di Gant. Quando si tratta di scarpe, vogliamo raggiungere il consumatore finale che acquista Timberland. Sebago è un marchio cool. E il nome è facile da pronunciare in tutti i mercati.
Il motore di vendita più importante di BasicNet è ancora Kappa. Potrebbe funzionare anche per Komet e Helden?
Stiamo monitorando Kappa da un po’. Ma non possiamo fare tutto contemporaneamente. Se BasicNet imbocca la strada giusta, Kappa può diventare uno dei più grandi marchi sportivi dopo Adidas, Nike e Puma. A nostro avviso, il marchio ha un potenziale maggiore rispetto a concorrenti italiani come Lotto o Diadora.
Nel calcio Kappa è il fornitore di kit per club minori come l’FC Venezia, che si rivolgono a un pubblico attento alle tendenze. È la strategia giusta?
Noi pensiamo di sì. Kappa lavora con club che non sono interessanti per le grandi aziende sportive, perché non abbastanza internazionali per loro, ma i cui tifosi sono veri appassionati di calcio. Come l’FC Venezia o la Fiorentina. Sono simili al Leverkusen con Xabi Alonso prima di diventare campioni, o al St Pauli in Germania. Molti di questi club sono felici di trovare un fornitore di kit che, in cambio di un accordo sul merchandising, si associ alle loro squadre fino al livello giovanile.
Kappa vede un grande potenziale nello sci. Il marchio sponsorizza la squadra di sci degli Stati Uniti... È il miglior accordo di sempre, perché ha regalato a Kappa una superstar assoluta, Mikaela Shiffrin. Al momento ce ne sono solo due: Lucas Braathen, che Moncler si è assicurato. E Mikaela Shiffrin. Si diverte in pista e ha anche successo. Per noi è la Taylor Swift dello sci. ■
TOBIAS BAYER
Sophie Lacoste
Un cognome importante e un’ambizione che sa di rivincita: fare del marchio Fusalp, acquisito dieci anni fa, una grande realtà globale, dando del filo da torcere a big come
Moncler
Sophie Lacoste non scherza, dicendo che le dimensioni contano. «Per sopravvivere a lungo termine, dobbiamo crescere - dice -. L’obiettivo è trasformare Fusalp in un marchio globale». L’imprenditrice afferma di voler generare mezzo miliardo di euro di vendite con il raffinato, ma ancora piccolo marchio francese di outerwear nel medio termine, che oggi genera circa 60 milioni di euro.
Sfidare il grande concorrente Moncler sul suo territorio: questa è l’ambizione. Ma sei Lacoste, devi essere ambizioso. Anche nei confronti di se stessi. Lacoste è un nome che nel settore della moda non ha bisogno di presentazioni e l’imprenditrice vuole dimostrare a modo suo di essere all’altezza di questo nome. Tuttavia non può più dimostrarlo con il marchio con il coccodrillo, un tempo fondato dal suo amato nonno
René. A causa dell’irrimediabile rottura all’interno della famiglia nel 2012, i Lacoste hanno perso il controllo del famoso marchio delle polo, a favore della famiglia di investitori svizzeri Maus
Superato lo choc, Sophie Lacoste si è unita al fratello Philippe per rilevare il marchio di moda invernale Fusalp, storico ma un po’ appannato. E, se possibile, per condurlo a un nuovo splendore. Un decennio dopo, in un’intervista a Fashion Magazine, Sophie Lacoste esprime la sua soddisfazione per lo sviluppo del brand fino a oggi: i ricavi si sono decuplicati, partendo da un livello molto basso. Ora è il momento di cambiare passo. «Dobbiamo metterci in gioco», dice l’imprenditrice. Il fatturato dovrebbe superare la soglia dei 100 milioni nei prossimi anni. A settembre la presidente di Fusalp ha nominato Pascal
Nel 2014 Sophie Lacoste ha rilevato il brand di moda invernale Fusalp insieme al fratello Philippe
«Fusalp nasce da un dialogo permanente fra alta tecnologia e stile, per consentire ai clienti di essere attivi e allo stesso tempo eleganti» Sophie Lacoste
Conte-Jodra nuovo amministratore delegato. Un manager con una grande esperienza nel settore, che in precedenza ha lavorato, tra gli altri, presso Hermès e Marc Jacobs.
Sophie Lacoste, una sorridente donna bionda di 48 anni, riceve gli ospiti in una showroom di Parigi. La sede di Fusalp, nel Nord-ovest della capitale francese, riflette l’attuale status dell’azienda nel settore della moda: un edificio in mattoni stretto e poco appariscente, nel mezzo di un quartiere costoso. Il reparto modellistica è nell’edificio posteriore, mentre la direzione dell’azienda si trova ai piani superiori. La nuova collezione è appesa alle grucce nella showroom. Giacche, maglioni a collo alto per lui e per lei, pantaloni da sci, cappelli: tutto ciò che serve per l’inverno, sia in città che in montagna La silhouette aderente fa parte dell’essenza del marchio. «Fusalp nasce da un dialogo permanente fra alta tecnologia e stile - afferma Lacoste - per consentire ai clienti di essere attivi e allo stesso tempo eleganti». Non è l’unica a fare una promessa del genere. La concorrenza nel settore dell’outerwear ad alto prezzo è dura e il mercato è attualmente meno dinamico. Fusalp deve lottare per le quote di mercato con giganti come Moncler, ma anche con Canada Goose e specialisti come Moorer, mentre il cambiamento climatico sembra rendere l’abbigliamento invernale sempre più superfluo. Il business dei marchi di lusso nel suo complesso vacilla e persino il leader del settore Lvmh non sta più andando bene come un tempo. Ma l’azionista di maggioranza di Fusalp è risoluta: «Proprio perché siamo molto piccoli continuiamo a crescere», dice. In questo mercato compe-
titivo, Moncler è il suo più grande rivale e allo stesso tempo il suo più grande modello. Remo Ruffini, a capo della casa di moda italiana, ha dimostrato come un’azienda di abbigliamento da sci in difficoltà possa diventare un marchio di lusso, con un fatturato di quasi 3 miliardi di euro.
I parallelismi tra Fusalp e Moncler sono sorprendenti. Entrambi sono stati fondati nello stesso anno, il 1952, sul versante francese della catena alpina. Moncler a Grenoble, Fusalp ad Annecy. Tutti e due i marchi erano un tempo fornitori della squadra nazionale francese di sci, motivo per cui entrambi hanno i colori blu, bianco e rosso e un galletto nei loro loghi. «È vero, ci stiamo affrontando a viso aperto sul mercato - spiega Lacoste -. Allo stesso tempo le nostre identità sono oggi molto diverse». Moncler è più «generoso» in termini di fit e «ora ha un’estetica molto italiana». Fusalp, invece, è decisamente francese: più aderente ed elegante. Per la stratega dell’azienda il tocco francese, di cui è responsabile la cognata Mathilde Lacoste in qualità di direttore creativo, è uno degli argomenti di vendita più importanti. Tuttavia, ammette di essere grata al pioniere del settore Ruffini: «Moncler ha aperto la strada e ha dato un esempio, il che rende più facile che le nostre banche e i nostri partner commerciali credano nel nostro piano».
Il competitor italiano ha un grande distacco. E con Lvmh ha anche un azionista particolarmente forte dal punto di vista finanziario, che consente di estendere questo vantaggio. Per Fusalp, invece, campagne di marketing spettacolari e costose alla Moncler Genius, in cui
Una funzionalità che strizza l’occhio alla moda, puntando sul dna francese: lo stile di Fusalp
lavorano per il marchio star dello spettacolo del calibro di Pharrell Williams, sono fuori discussione.
La visibilità è fondamentale, soprattutto per un piccolo marchio. Tuttavia, i fratelli Lacoste devono essere parsimoniosi con il loro budget. Le collaborazioni occasionali con marchi di lusso come Chloé, nell’orbita del Gruppo Richemont, o Pucci, azienda di abbigliamento di Lvmh, hanno contribuito a far conoscere meglio Fusalp, sottolinea Lacoste, che può anche contare sul fattore celebrity: che si tratti del principe William in trasferta in Svezia, delle sorelle Kardashian nella località sciistica statunitense di Aspen o del presidente francese Emmanuel Macron sui Pirenei, tutti sono stati avvistati con indosso capi Fusalp. Sophie Lacoste si affida anche al product placement convenzionale in film e serie. In Corea del Sud, ad esempio, funziona molto bene. Crede anche nel potere dei classici manifesti pubblicitari, come quelli che si possono vedere alle fermate degli autobus di Parigi. La moda sportiva da città è da tempo il core business di Fusalp. Sophie Lacoste si alza e si avvicina a un appendiabiti. Vuole presentare il suo bestseller. Non si tratta di un capo da sci, ma di un lungo cappotto sportivo da uomo, che va in vendita a 1.090 euro (il prezzo medio dei prodotti Fusalp è di 850 euro). Da quando i Lacoste hanno rilevato il marchio, non solo hanno aumentato significativamente le vendite entrando nel segmento di prezzo alto, ma hanno anche riorganizzato la struttura dei ricavi. Se al momento dell’acquisizione, nel 2013, Fusalp realizzava circa il 45% delle vendite su Intersport, ora la quota del commercio all’ingros-
so è diminuita così tanto, che il nuovo amministratore delegato Conte-Jodra ha il compito di prendere contromisure e trovare nuovi partner commerciali, ma non più nel segmento Intersport. «Dobbiamo sviluppare il wholesale», precisa Sophie Lacoste. Anche le vendite online hanno margini di miglioramento: secondo Lacoste, rappresentano circa il 15%. In realtà, Fusalp non si è ancora stabilizzato e deve ancora affermarsi del tutto. La partenza nell’autunno del 2023 del predecessore di Conte-Jodra, Alexandre Fauvet, che aveva gestito Fusalp fin dall’acquisto, è sembrata affrettata. Sophie Lacoste ha dovuto improvvisamente gestire da sola l’attività operativa per nove mesi, fino a quando Conte-Jodra non ha preso il comando. Lacoste giustifica il brusco cambiamento dicendo che Fauvet era stanco, ma che è rimasto fedele all’azienda come azionista: «Ha sviluppato fortemente l’azienda. La prossima fase, proiettata ai 150 milioni di euro di fatturato, è un’altra cosa Per questo avevamo bisogno di un nuovo capitano».
I documenti di Fusalp del registro delle imprese mostrano che le entrate non stanno crescendo così rapidamente come si sperava. Se, secondo le prime proiezioni, l’azienda pensava di raggiungere il traguardo dei 100 milioni nel 2026, probabilmente non lo centrerà prima del 2028, ammette Lacoste. Soprattutto, i bilanci mostrano che Fusalp è scivolata in perdita, dopo aver realizzato un utile nell’esercizio 2021-2022, chiuso nel maggio 2022. Nell’esercizio successivo, l’azienda ha ceduto 1,4 milioni di euro netti; un anno dopo ha registrato una perdita simile, come spiega Lacoste: «Ma questo non è più il caso
Nato sui campi da sci, in questi dieci anni Fusalp è diventato più glamorous e trasversale
«La prossima fase, proiettata ai 150 milioni di euro di fatturato, è un’altra cosa. Per questo avevamo bisogno di un nuovo capitano»: Sophie Lacoste sulla nomina di Pascal Conte-Jodra
dell’esercizio in corso. Non mi sento affatto in pericolo», puntualizza. Una delle ragioni delle perdite è il tentativo fallito di non limitarsi a produrre in Cina, ma anche di vendere nel Paese. Fusalp è stata sfortunata: l’apertura di boutique in quest’area a partire dalla fine del 2019 è stata rallentata dallo stop dettato dal coronavirus. Ma anche nel suo mercato di origine, la Francia, i negozi devono talvolta chiudere a causa di un fallimento, come è successo ad esempio nella località balneare di Biarritz sull’Atlantico. Anche il progetto di affermare Fusalp come marchio alla moda per lo yoga è stato vanificato. Gli esercizi di meditazione sono una delle passioni di Sophie Lacoste, ma questo non le fa perdere di vista gli affari.
L’imprenditrice afferma che Fusalp ha recentemente deciso di investire nell’espansione internazionale e di accettare le perdite: «È stata una decisione strategica, soprattutto negli Stati Uniti, dove vogliamo stabilire una forte presenza. Questo ha un costo». Fusalp ha recentemente aperto tre nuove boutique oltreoceano: nelle località di sport invernali di Aspen e Vail e a New York. Lacoste è molto soddisfatta dell’attività all’estero, che rappresenta già circa l’8% del fatturato. Lei ritiene che si possa e si debba fare molto di più. Dopotutto, la crescita su cui Fusalp fa affidamento dovrebbe provenire non solo dagli Stati Uniti, ma anche da Regno Unito o Corea del Sud, «dove il fatto di essere un marchio francese è un vero valore aggiunto», osserva l’imprenditrice. Di recente il business internazionale ha rappresentato un terzo delle vendite. Nei prossimi cinque anni, questa quota è destinata a salire al 60%
Altri mercati, tra cui l’Italia e la Germania, sembrano essere più difficili. Entrambi i Paesi hanno i propri marchi di abbigliamento esterno, ognuno con il proprio stile, e l’identità francese di Fusalp è meno desiderabile in mercati come questi, come evidenzia Lacoste: «L’Italia è complicata. È un Paese con marchi forti, finora ci siamo limitati a singoli rivenditori». Per esempio Rinascente. In Germania, Fusalp è disponibile presso la catena di grandi magazzini Breuninger e da Mytheresa, con l’idea di aprire una boutique a Monaco. Mantenere una mente aperta e ragionare sulle diverse opzioni è l’abc per una donna d’affari. Una domanda viene in mente, visti gli obiettivi ambiziosi di Fusalp: «Signora Lacoste, potrebbe fare come Moncler e trovare un investitore strategico del settore?». Lei ci pensa un attimo. «Al momento ce la caviamo bene da soli - risponde -. Ma se un giorno la nostra crescita non fosse più sufficiente a capitalizzare le opportunità, un’alleanza potrebbe diventare necessaria». Soppesa ogni parola: «Non ho intenzione di chiudere quella porta».
Ogni opzione ha pro e contro. Se un investitore importante dovesse bussare alla porta di Fusalp e volesse entrare, Sophie e Philippe Lacoste si troverebbero davanti a un dilemma: essere disposti o meno a cedere la loro quota di maggioranza in Fusalp. Uno scenario che fa riaffiorare brutti ricordi, come quando la famiglia perse il controllo del marchio con il coccodrillo. «Quello che mi interessa è controllare l’azienda», ribadisce. Quello che a le è stato negato tanti anni fa, lei spera di ottenerlo ora con Fusalp. ■
LEO KLIMM
Nella collab Pucci per Fusalp si incontrano le fantasie della griffe e il massimo comfort
Pascal Conte-Jodra, ceo di Fusalp
Roberta Benaglia
La ceo di Style Capital ha in portafoglio
il brand
Autry e proverà a trasformare ancora una volta una sneaker vintage in un capo iconico. «Selettiva
come Golden Goose, ma a prezzo più smart»
«Inumeri, per un’azienda come la nostra, sono importanti, ma rappresentano uno strumento al servizio della visione che vogliamo perseguire e dell’impatto che desideriamo avere sulla distribuzione. Autry continua a crescere e quest’anno avrebbe potuto fare ancora di più, spingendo sugli ordini dell’ultima campagna vendite. Con un posizionamento di prezzo davvero smart come il nostro, sarebbe semplice trasformarlo in un brand di fascia alta per una distribuzione media. Ma non è questo il nostro obiettivo». Roberta Benaglia, ceo e principale azionista del fondo di private equity Style Capital, ha già tracciato con chiarezza le prossime mosse del piano espansionistico del brand italiano di sneaker, di cui ha acquisito la maggioranza nel 2024. L’obiettivo, come già accaduto con Golden Goose - marchio di cui Benaglia è stata investitrice e artefice del successo tra il 2012 e il 2017 - resta uno: «Trasformare Autry in un brand iconico».
Il primo passo per raggiungere questo traguardo sarà lo sviluppo del retail diretto, rafforzando al contempo la vocazione internazionale. A questo si affiancherà un potenziamento della collezione: la gamma Autry sarà più ampia e diversificata, grazie anche all’avvio di collaborazioni inaspettate. Ma i prezzi rimarranno invariati: «Ci piace posizionarci come prodotto entry-price in una distribuzione selettiva».
Sono tempi che tutti definiscono incerti. Invece con Autry continuate a investire…
Siamo in fase espansiva. L’obiettivo è liberare risorse significative per aprire ogni anno nuovi monomarca, fondamentali per sostenere la brand identity e comunicare al cliente finale il nostro concept.
Roberta Benaglia è ceo e principale azionista di Style Capital, private equity che investe nel campo della moda
«Puntiamo sulla qualità e ci piace il ruolo di prodotto entry price di una distribuzione selettiva. L’obiettivo è trasformare Autry in un brand iconico» Roberta Benaglia
Da dove prevedete di partire?
Dall’Europa. Le prime aperture saranno a Londra e Parigi e si concretizzeranno tra marzo e aprile. Originariamente erano fissate per la fine del 2024, ma abbiamo preferito dare priorità agli shop-in-shop nei department store: ne abbiamo attivati otto, di cui quattro in Rinascente tra Milano e Roma.Gli altri sono in location come Galeries Lafayette, Le Bon Marché e uno anche in Corea. Questa attività si sta rivelando molto formativa: ci introduce alla prova del flagship store con un po’ di esperienza alle spalle, dal punto di vista sia della resa al metro quadrato che dei sell-through.
Redditività delle superfici, volumi di vendita: da come parla, si direbbe che queste aperture hanno un fine commerciale. Non si tratta semplicemente di storytelling… Personalmente (ride), non sono abituata a inaugurare negozi se non prevedo che siano redditizi. I presupposti sono incoraggianti: un nostro shop-in-shop di 40 metri ha una resa al metro quadrato di 20mila euro. Performance ottima, certamente legate alle location strategiche di cui disponiamo a livello department store, ma che ci rendono fiduciosi in vista delle aperture su Londra e Parigi. I negozi avranno una superficie di 100/150 metri quadrati, essendo Autry un brand lifestyle, con il 90% delle vendite derivanti dalle sneaker: performiamo bene anche su superfici limitate.
Non c’è spazio per Milano nel piano di aperture?
Ovviamente sì. Siamo partiti da Londra e Parigi perché l’Italia è già molto ben coperta dalla distribuzione wholesale, oltre
Sopra, le sneaker in edizione limitata Rob Pruitt x Autry che sono state presentate a Miami con un grande evento (foto sotto) che si è svolto durante i giorni di Art Basel
che dai quattro corner in Rinascente. Abbiamo in programma, entro quest’anno, nuove boutique in Italia e non solo a Milano: siamo in cerca delle giuste location.
Per Autry l’era del wholesale sembra ormai giunta al termine… A livello europeo, non vogliamo spingere ulteriormente i multimarca: abbiamo già un’ottima distribuzione, molto selettiva, e non vogliamo diluirla. Certo, ci sono alcune regioni che possono crescere ancora ma in Italia, Germania, Francia e Spagna manterremo l’attuale distribuzione. La distribuzione multimarca è stata un driver importante di crescita (attualmente vale circa l’80% delle vendite, ndr), che ha permesso ad Autry di raggiungere una presenza commerciale capillare senza investimenti stratosferici. Ora stiamo cambiando approccio nella vendita al dettaglio e, in futuro, il boost arriverà da canale diretto. La strada è quella giusta: lo vediamo dai risultati ottenuti dal sito di e-commerce. Nel 2024 ha performato benissimo, con un incremento del 40%. È il segnale che, quando andiamo direttamente sul cliente finale, otteniamo una grande risposta, ed è per questo che intensificheremo l’espansione retail. In tre o quattro anni prevediamo che il retail diretto inciderà per circa il 30%. Ma, se sommiamo canale fisico e digitale, allora il business Dtc potrebbe toccare il 50% del fatturato aziendale.
Gli investimenti retail porteranno a un’impennata dei fatturati?
Al contrario, in questa fase puntiamo sulla qualità, non sulla quantità.
Questa nuova strategia di posizionamento porterà a un innalzamento dei prezzi?
Il value for money è uno dei segreti del successo di Autry. Tutti i suoi modelli si sono sempre contraddistinti per un prezzo smart e io sono una sostenitrice del “lusso intelligente” da almeno dieci anni. E ora che il lusso è diventato così costoso, lo sono ancora di più. Per questo non pensiamo minimamente a ritoccare i listini. Magari potrà aumentare lievemente il prezzo medio del merchandising mix, in virtù di alcuni pezzi speciali che lanceremo sul mercato, ma niente di significativo.
Quindi prevedete novità sul fronte del prodotto…
Esatto: porteremo ancora più contenuto, più idee e più energia nelle collezioni.
Così in futuro nessuno potrà mai dire che il successo di Autry e legato solo alle sneaker bianche…
Chi sostiene che il marchio sia semplicemente una sneaker bianca evidentemente non è mai passato dalla showroom: rimarrebbe stupito dalla struttura e dalla varietà della collezione. Se davvero fosse stato un brand di sneaker bianche, non ci avremmo mai investito: sarebbe stato complesso e lungo costruire le basi per sviluppare il retail. Invece la collezione era già pronta per il mercato: bastava attivare le leve giuste per lo sviluppo commerciale, fare dei piccoli aggiustamenti.
Quali, ad esempio?
Lanceremo nuovi modelli che strizzano l’occhio al mondo femminile, come la sneaker Windspin, realizzata in suede, con linee più slanciate e colori più vivaci, senza tradire il dna vintage del marchio. Poi aggiungeremo collaborazioni che alimentano l’appetito dei consumatori per tutto ciò che è “nuovo”. Dopo quella con l’artista Robert Pruitt, lanciata in occasione dell’Art Basel di Miami a fine 2024, abbiamo in programma altri due progetti in arrivo nel 2025. Uno è con un brand sporty molto forte nei mercati di Corea, Giappone e Cina. L’altro, invece, si preannuncia disruptive, perché mette insieme Autry con un altro produttore di sneaker, il che è un’eccezione: le colab avvengono spesso tra marchi di settori diversi.
Puntare su un prodotto più vario significa anche uscire dalla macronicchia dell’universo sneaker? Preferisco dire che vogliamo ampliare
l’offerta di sneaker piuttosto che puntare significativamente su altre categorie merceologiche, come ad esempio il ready-to-wear. Fa già parte della nostra proposta e vogliamo migliorarlo, ma non sarà mai il nostro focus principale e non supererà il 10% della nostra offerta.
Con una collezione sempre più diversificata e per raggiungere diversi segmenti di consumatori, pensate vi servirà un direttore creativo?
Noi crediamo di più nel lavoro di squadra. Non abbiamo un direttore creativo, ma il mio socio Marco Doro è un eccellente direttore d’orchestra. Coordina un team di giovani designer, ciascuno dei quali porta idee e progetti che finiscono con il convergere in una sola collezione coerente, frutto di un lavoro collettivo. Questo approccio moderno è ideale, specie nel mondo delle scarpe da ginnastica.
Alla luce di tutta questa iperattività, che anno sarà il 2025 per Autry e quali sono le priorità?
Siamo fiduciosi nella crescita del brand, che nel 2024 ha toccato 120 milioni di fatturato. Molto dipenderà dai tempi di apertura dei nuovi negozi, con diverse location in pipeline. Vedremo: abbiamo un budget stimato di 140 milioni e contiamo su una crescita sana e sostenibile, anche fuori dall’Europa. In Asia stiamo cercando validi partner distributivi per la penetrazione nel mercato; gli Stati Uniti sono un bacino chiave per la crescita della società e porteremo lì il nostro retail, ma prima ci rafforziamo con i department store.
Lei ha lanciato Golden Goose e ne ha fatto lievitare i conti, ora in tanti si chiedono se riuscirà a fare lo stesso con Autry: ci sono punti di contatto nelle strategie adottate dai due brand o siamo di fronte a due casi differenti?
Beh, una grande differenza tra i due c’è ed è il posizionamento di prezzo, molto più democratico nel caso di Autry, che a mio avviso rispecchia l’attuale mercato. La somiglianza, invece, sta nella distribuzione: condividiamo molti canali wholesale. Ma in Golden Goose non vedo un concorrente, bensì un ottimo compagno di viaggio. ■
Con il lancio delle Windspin, il brand strizza l’occhio al pubblico feminile, destinato a crescere
Uno dei quattro shop in shop Autry aperti in Rinascente: un test in vista dei monobrand
ANDREA BIGOZZI
Nei piani il ready-to-wear verrà valorizzato, ma continuerà a incidere sul fatturato per il 10%
Luigi Fila
Altea, Valstar e Brooksfield: identità diverse, ma
lo stesso
comune
denominatore, la Fratelli Fila.
Il direttore creativo svela i nuovi progetti e spiega perché «per crescere ci prendiamo i nostri tempi»
Dopo cinque anni a Parigi, a fine 2019 Luigi Fila è tornato a casa come Head of Design della Fratelli Fila, eccellenza biellese attiva con tre società operative: Altea, che segue il brand omonimo, Beta, focalizzata sui marchi Valstar e Brooksfield, e Newport, dedicata alla distribuzione in Italia di Gant, label Usa di MF Brands Group (Maus Frères). Classe 1989, Luigi Fila rappresenta l’ultima generazione della storica azienda fondata nel 1911 e sviluppata dal padre Francesco negli anni Ottanta e lo snodo verso il futuro. Lo abbiamo raggiunto nel bel mezzo dei preparativi per il debutto dei «numerosi progetti» che, ci ha anticipato, saranno svelati questo mese a Milano.
Da qualche anno a questa parte Fratelli Fila ha fatto un twist, trasformandosi da licenziatario e distributore conto terzi a gruppo multibrand con tre marchi in house. Da dove è venuta questa spinta? Volevamo uscire dalla logica di “sudditanza” verso le multinazionali - a eccezione di Gant, con cui abbiamo un rapporto anche umano che dura da oltre tre decenni - e valorizzare l’expertise che avevamo capitalizzato nel corso degli anni. Così abbiamo deciso di portare sotto il nostro cappello piccoli marchi italiani con un’identità stilistica spiccata, un know how molto forte e un potenziale interessante, con l’idea di farli crescere ed esprimere al meglio. Prima sono arrivati Brooksfield e Valstar, poi nel 2020 abbiamo rilevato anche Altea.
Siete diventati proprietari, ma non siete veri e propri produttori... Non siamo dei manufatturieri puri, ma all’interno abbiamo un ufficio creativo e gestiamo la parte prototipia, modellistica
Luigi Fila, 35 anni, è Head of Design della Fratelli Fila, con sede a Verrone, in provincia di Biella
«Con l’aumento dei listini, il lusso è diventato inaccessibile. Noi offriamo un prodotto di alta qualità, un pensiero stilistico aggiornato e un prezzo corretto. Questo il nostro mix vincente» Luigi Fila
e controllo qualità. A essere esternalizzata è la produzione vera e propria. La nostra è una filiera corta: contiamo su rapporti storici e consolidati con realtà familiari italiane, che sanno mettere in campo grande savoir-faire. Collaborare con aziende di nicchia ci permette di portare avanti una ricerca più efficace e sperimentare, perché all’interno vi lavorano persone ancora molto appassionate di prodotto.
Il prodotto resterà al centro anche dei nuovi progetti? Cosa c’è in cantiere?
Il 17 gennaio presentiamo a Milano la prima collezione femminile di Altea. In passato ci sono stati dei test, ma un progetto vero e proprio non era mai stato sviluppato. Noi crediamo invece che il know how raggiunto nell’uomo meriti di essere espresso anche nella donna. Nello stile abbiamo mantenuto un’aderenza al mondo maschile, utilizzando fibre nobili e belle texture, con uno studio ad hoc sui volumi. Il focus è sulla maglieria, come nel dna di Altea, ma la linea, tra abbigliamento e accessori, conta un centinaio di pezzi.
Alla donna Valstar non ci pensate?
Ci stiamo pensando. Infatti abbiamo già messo a punto una primissima capsule, che sveliamo a Milano il 19 gennaio. Nel nostro monomarca in Brera molte clienti ci hanno confidato di “rubare” i capi al marito, al fidanzato o al fratello. Così abbiamo deciso di ampliare l’assortimento, partendo da quello che sappiamo fare meglio: i capi in pelle. Ricordiamoci che questo storico marchio milanese è diventato un cult soprattutto grazie al Valstarino, giubbino in pelle scamosciata.
E riguardo a Brooksfield?
Per il momento resta un marchio maschile. Ma anche con Brooksfield, nato negli anni Settanta, stiamo portando avanti un importante lavoro di attualizzazione degli archivi, valorizzando la sua estetica in chiave preppy americana. I primi risultati si vedranno con la FW25.
Tutti e tre i brand sono wholesaleoriented: sarà così anche in futuro?
Il nostro parco clienti internazionale è importante - 650 per Altea, 350 per Brooksfield e 180 per Valstar - ma negli ultimi anni abbiamo iniziato a spingere sul retail, strutturandoci con un team dedicato. Tanti i progetti: dopo il monomarca Valstar aperto a Brera nel 2020, stiamo cercando una location in Europa, a Parigi o a Londra. Lo sviluppo estero è prioritario anche per Brooksfield, finora presente solo in Italia attraverso i negozi di Milano, Courmayeur e Alassio. L’unico a non avere un proprio flagship store è Altea, ma anche in questo caso ci stiamo dando da fare per trovare il posto giusto, con Milano in pole position.
Progetti nell’e-commerce?
Ci stiamo investendo molto, anche in questo caso con un team ad hoc, perché dagli ultimi risultati abbiamo realizzato che è un importante driver di crescita. Valstar, per esempio, nel 2024 ha più che raddoppiato il fatturato online. Per noi continuerà però a rappresentare un canale complementare a quello fisico. Siamo convinti che per comprendere l’alta qualità e creatività delle nostre proposte sia essenziale vedere dal vivo e toccare con mano il prodotto.
Nel mercato attuale anche il prodotto alto di gamma sta però soffrendo...
Tutta la fascia del lusso, negli ultimi anni, è diventata inaccessibile a molti consumatori, a causa di una lievitazione dei listini spesso ingiustificata. Noi offriamo la stessa qualità, contenuti con un pensiero stilistico aggiornato e un prezzo corretto. Questo mix è la nostra arma per competere.
Che proiezioni avete per il 2024?
Puntiamo ai 30 milioni di euro di fatturato, con un +10% rispetto all’anno precedente. Usciamo da un anno che per tutti è stato turbolento, ma ci stiamo attrezzando a livello strutturale per essere pronti quando il mercato ripartirà.
L’azienda è al 100% in mano alla famiglia Fila. L’apertura del capitale costituisce un’opzione?
Siamo solidi e non abbiamo bisogno di liquidità. Vogliamo continuare a lavorare in maniera autonoma, senza dipendere da logiche di breve periodo che subentrano quando ci sono investitori. Preferiamo ragionare su un orizzonte di ampio respiro. I nostri sono brand con una forte personalità e oltre una certa dimensione fisiologica non possono, e non devono, andare, pena il rischio che vengano snaturati. Siamo ambiziosi, certo, ma cerchiamo una crescita sana e sostenibile. ■
ANGELA TOVAZZI
Altea SS25
Brooksfield SS25
Valstar SS25
I multimarca rialzano la testa: «Trend setter per vocazione e per necessità»
Rispetto all'anno scorso le vendite uomo hanno avuto un andamento complessivamente migliore, anche se non sono mancati cali di sell out. Ai marchi si chiede più focus sul prodotto e meno sulla finanza, perché i prezzi alti vanno giustificati con la creatività e la sostanza. In molti pensano che il primo brand da promuovere sia il negozio stesso
L'interno di Colognese 1882 a Montebelluna in provincia di Treviso
Il sell out
COME SONO STATE LE VENDITE UOMO DELLA FW 24/25?
Un anno fa il nostro sondaggio sulle vendite di moda maschile vedeva un 50% di negozianti che chiudevano la stagione in calo, un 34% all'insegna della stabilità e un 16% in crescita. Stavolta, tirando le somme dell'autunno-inverno 2024/2025, la situazione sembra migliorata: risulta sempre minoritaria, ma in aumento, la percentuale di coloro che hanno registrato un incremento (21%), mentre si dimezza quella che denuncia una flessione (24%) e c'è un 55% che chiude in pari.
Certo, l'atmosfera resta tesa: si chiede ai brand di pensare meno alla finanza e più alla creatività (alcuni si spingono a dire che «non c'è più prodotto», anche a causa dell'eccesso di quiet luxury, che andrebbe scapito dell'emozione in grado di giustificare il prezzo) e di dialogare di più con i retailer. E sono davanti agli occhi di tutti, non da oggi, lo sbilanciamento di diversi marchi sul dtc e scelte più restrittive sul wholesale.
A questo proposito i 40 protagonisti della nostra Buyers' Survey si dividono tra chi è preoccupato (42%) e chi no (58%). Da un lato c'è chi constata che «oggi i brand stanno diventando i nostri peggiori competitor», ma dall'altro si avverte la voglia di ribaltare le regole.
«Siamo noi che dobbiamo fare una selezione, privilegiando aziende che preservino il canale wholesale», osserva un dettagliante e un altro dice: «Ci troviamo di fronte alle solite dinamiche. Il dtc serve per fare hype, ma alla fine i brand tornano al wholesale». Nella loro espansione nel direct-to-consumer le griffe si sono esposte negli ultimi anni molto sull'Asia, «ma ora, in tempo di luxury shame imperante soprattutto sul territorio cinese - afferma un intervistato - saranno costrette a rivedere le loro strategie». «La visione del multimarca si sta evolvendo - è la conclusione di Giuseppe Nugnes, titolare di Nugnes a Tra-
Nell'autunno-inverno 2023/2024 la metà dei negozianti del nostro panel aveva chiuso la stagione uomo in calo, ora invece prevale la stabilità
È ANDATO MEGLIO IL CANALE FISICO O L'ONLINE?
Dati aggiornati al 29/11/2024
ni, intervistato in queste pagine -. Non dimentichiamo che la sua forza risiede nell'essere trend setter».
In assenza di prodotti fortemente "emozionali", il cliente cerca una vera sostanza. «Abbiamo visto crescere le richieste di un formale fatto da chi lo sa fare, da nomi come Tagliatore, Loro Piana, Lardini e Cucinelli - informa Gino Cuccuini - che portano avanti un discorso ben diverso da quello che ormai si tende in modo un po' troppo generalista a definire "quiet luxury". Alla fine le persone comprano un cappotto di Loro Piana perché ne riconoscono la differenza rispetto a un capo "quiet luxury", che poi magari è fatto in poliestere». Il retailer spende alcune parole anche sulle sneaker, che alla nostra domanda sulle categorie merceologiche più vendute sono seconde dopo la maglieria, benché si cominci ad avvertire anche in questo settore una certa stanchezza: troppi modelli in giro, strapotere dei big brand e anche prezzi non proprio competitivi.
«Avanzano tra le sneaker nomi meno mainstream, vedi On, che va bene anche nei prezzi, compresi tra i 170 e i 180 euro - osserva Cuccuini -. Non è un caso che Loewe abbia scelto proprio questo brand per una capsule di successo». Secondo il dettagliante toscano questo è il momento di monitorare tutto il mercato, compreso il fast fashion, perché le insidie arrivano anche da lì e tenersi stretta la clientela diventa più difficile: non bisogna dimenticare che, secondo le analisi di Bain&Company, negli ultimi due anni il lusso globale ha perso 50 milioni di clienti. «Non escludo - conclude Cuccuini - che anche iniziative come le collab di Zara abbiano distolto alcuni consumatori. Quella con Pilati è stata molto azzeccata».
«Prima l'importanza del prodotto in negozio era 100, ora potrebbe essere 70riflette Orfeo Lumina di Modamica a
Valbrembo, in provincia di Bergamo -. Il restante 30% è experience, cercando di anticipare le scelte dei clienti anche con la tecnologia e il Crm». Lumina chiarisce il suo punto di vista, dicendo che «siamo passati da un modello reattivo, in cui aspettavamo che la gente entrasse in boutique, a uno proattivo, che ci impone di metterci in gioco per fare accadere le cose».
Il dettagliante bergamasco sottolinea che le persone «non comprano un prezzo, ma un valore». Tuttavia, in base al nostro sondaggio, alla domanda su quale fattore guardi l'uomo al momento dell'acquisto (che comporta in media uno scontrino dai 500 ai 1.000 euro, secondo la maggior parte del campione), a svettare è proprio il prezzo, segnalato da oltre metà dei retailer.
La griffe è all'ultimo posto, con il 16%, e il made in Italy si piazza appena un po' più su, con il 21%. In seconda posizione ci sono materiali e dettagli, in terza la vestibilità e solo in quarta la novità. Scarso l'interesse per la sostenibilità: quasi la metà del panel ammette che non fa parte dei desiderata dei più, anche se Gino Cuccuini non è d'accordo. «Ho investito in un negozio del brand eco-friendly Pangaia e non me ne sono pentito», precisa. In sintesi, domina la concretezza e se si trova l'outfit già pronto, tanto meglio. «Penso a quello che chiamiamo il "pacchettino Valtellini", ossia quattro-cinque capi di brand diversi abbinati fra loro, che promuoviamo anche su Instagram e che stanno avendo un ottimo riscontro», informa Didi Corbetta di Valtellini.
Dell'argomento prezzi abbiamo più volte parlato nel nostro sondaggio: inutile dire che questa parola accende sempre il dibattito, ancor più dopo le recenti dichiarazioni del ceo di Prada, Andrea Guerra, che ha accusato alcuni brand di avere alzato troppo gli entry price. «Che dire? - riflette Gaetano Deflorio di Deflorio dal 1948 -. Dopo queste dichiarazioni non possiamo che augurarci che il settore si regolarizzi, come è giusto che sia». Il Black Friday è passa-
GIUSEPPE NUGNES
Titolare di Nugnes a Trani
Le scelte
55% PREZZO
50% MATERIALI E DETTAGLI
42% VESTIBILITÀ
23% NOVITÀ
21% MADE IN ITALY
16% GRIFFE
* Risposte multiple
SOSTENIBILITÀ/TRACCIABILITÀ DEI CAPI: A CHI INTERESSANO DI PIÙ?
47% NON INTERESSANO MOLTO
31% GIOVANI
16%
MILLENNIAL
6% SILVER
Da tre generazioni Nugnes
è un punto di riferimento per Trani e non solo. Come si riesce a tenere sempre il passo con tempi che, soprattutto ultimamente, sono insidiosi e imprevedibili?
Restando se stessi e mantenendo un approccio sartoriale al nostro lavoro. Del resto il nostro dna, quello da cui tutto è partito, è la sartoria, intesa anche come approccio su misura al cliente. La passione di chi sta dietro un banco di vendita deve essere forte, oggi come ieri, e questo vale per me, ma anche per tutte le persone che lavorano da noi. Nugnes non vende semplicemente dei marchi ma è esso stesso un brand, il che significa stile di vendita, accoglienza e spirito di collaborazione con clienti che spesso conosciamo a fondo, anche perché magari abbiamo già vestito i loro padri e i loro nonni. La sfida a cui stiamo lavorando è trasporre anche nell'online questa nostra unicità. Si parla spesso di troppa offerta e di sovrapproduzione dei brand: lei cosa ne pensa?
A mio parere c'è ancora spazio per marchi di livello ottimo, con un giusto rapporto qualità/prezzo e un buon percepito presso la clientela. Ci sono, ma ne vorremmo ancora di più. Cosa le piace e cosa no di quello che vede intorno a sé in fatto di moda?
Mi piace sapere che in Italia ci sono una sessantina di boutique multimarca belle, con un merchandising e un buying fatti bene, che sarebbero da intervistare almeno una volta alla settimana. Io che giro molto posso dire con cognizione di causa che un Paese dove si possono trovare tutti questi bei negozi tutti insieme non esiste. Invece vedo che i giornali parlando di moda si concentrano sempre sulla finanza, le trimestrali, il parallelo, la rovina del fashion...Bisognerebbe invece puntare su quello che c'è di buono e positivo.
Nugnes
COSA GUARDA L’UOMO AL MOMENTO DELL’ACQUISTO?
QUALE MERCEOLOGIA HA VENDUTO DI PIÙ NELL’UOMO?*
74%
MAGLIERIA
PANTALONI SPORTIVI
TRA GLI STILI AL MASCHILE COSA VINCE?*
13%
PANTALONI ELEGANTI
10% BLOUSON E PARKA
%
5% POLO 5% CAPPOTTI 2%
ABITI ELEGANTI 2%
ABBIGLIAMENTO IN PELLE
2% PELLETTERIA
2% ACCESSORI
* Risposte multiple
Risposte multiple
QUALE IL MARCHIO BEST SELLER AL MASCHILE DELLA FW24/25?
STONE ISLAND HERNO, MONCLER
LOEWE, TOM FORD, C.P. COMPANY, RRD 1 2 3
ONLINE CHI È SALITO SUL PODIO?
STONE ISLAND AUTRY GOLDEN GOOSE 1 2 3
La spesa
QUANTO HANNO SPESO IN MEDIA GLI UOMINI?
IL BRAND DI ACCESSORI AL TOP DELLE VENDITE? AUTRY GOLDEN GOOSE 1 2 3
COME SARÀ IL VOSTRO BUDGET PER LA FW25/26 UOMO?
to, creando come sempre disagio e punti interrogativi soprattutto in chi lavora nelle fasce premium e alta («Si parla tanto di esclusività, ma alla fine dov'è?», si chiede per esempio Andrea Agnetti, alle prese con la ristrutturazione del suo punto vendita di Macerata, «perché investire è l’unica strada»), ma a tenere banco sono anche le sample sale, le vendite cosiddette "family & friends", organizzate da showroom e aziende per il pubblico. Un fenomeno in crescita, ma che sembrerebbe più che altro milanese. Infatti parte proprio da Milano, nell'articolo sul tema prezzi pubblicato in questo numero, il grido d'allarme di Francesco Casile della showroom Casile & Casile Fashion Group nel capoluogo lombardo, che non usa mezzi termini: «Le sample sale sono l'emblema di una rincorsa alla monetizzazione su cui bisognerebbe fare una battaglia, stabilendo delle regole».
In realtà l'eco di queste vendite "per gli amici" si fa sentire anche oltre Milano. C'è chi afferma che hanno un peso marginale, ma altri la pensano diversamente. «Trovo indecente che marchi anche importanti pratichino sconti assurdi», dice Riccardo Macciocu da Sassari e Marco Cassina di Peter Ci a Como rincara la dose: «Le sample sale incidono molto, e negativamente, nell'abbassare il percepito del valore del prodotto in vendita. L'abuso di questo strumento, insieme a outlet, spacci e temporary, convince i consumatori che un acquisto in negozio a prezzo pieno non sia più "etico", facendo credere che il delta di prezzo tra una sample sale e il retail sia il margine del negoziante». «Il futuro del wholesale - conclude Cassina - è nella ricerca, in prodotti meno distribuiti e luoghi dove trascorrere al meglio il proprio tempo». Si combatte, ma intanto arrivano prospettive positive da una ricerca di Camera Buyer, secondo la quale i multimarca italiani, che nel 2019 rappresentavano il 60% delle vendite e poi sono scesi al 52%, starebbero imboccando una risalita che li porterebbe entro il 2030 a raggiungere una quota del 55% ■
RAFFAELE GULLO
Titolare di THE APARTMENT
The Apartment è una realtà in crescita a Cosenza. Un anno fa avete aperto il negozio dedicato alla moda maschile e, a quanto ci risulta, gli opening potrebbero continuare in futuro. Una domanda classica: qual è il segreto di questo successo? Le componenti sono tante, ma una su tutte è la continua ricerca sui marchi. Ci troviamo di fronte a un consumatore del lusso che non riesce più a emozionarsi per un prodotto, quindi è importante per noi basarci su un brand mix che possa risvegliare il suo interesse, evitando di fossilizzarci sul singolo target o su una fascia di età. Si potrebbe dire a grandi linee che The Apartment si rivolge a una clientela fashion, ma in realtà c'è spazio anche per chi cerca un formale fuori da schemi predefiniti, da personalizzare in base al proprio gusto. Quindi da noi si possono trovare tanto Dolce&Gabbana quanto Versace, Dries Van Noten, Rick Owens, Lemaire. Ma anche Kiton, Lardini e Cucinelli, solo per citare alcuni nomi presenti nei nostri punti vendita. Con alcuni di questi marchi avviamo delle collaborazioni, come è successo recentemente con Lardini, con cui abbiamo realizzato una limited edition e un evento in store. Quanto conta il personale di vendita?
Michele Inzerillo Non solo Black Friday: anche le vendite "family & friends" fanno la loro parte nella corsa del cliente allo sconto ad ogni costo
Moltissimo. L'età dei nostri addetti alla vendita è ben al di sotto dei 30 anni e questo dà freschezza all'approccio alla clientela. Ma questa freschezza non basta: la formazione continua è fondamentale per comunicare in modo efficace quello che siamo ed evitare la ripetitività. In una città come Cosenza cerchiamo di introdurre una mentalità internazionale e veniamo seguiti. Il cliente vuole costruirsi il suo guardaroba pezzo per pezzo: non arriva più in cassa con i capi di un solo brand ma di sei o sette, per creare il proprio look. Dietro questa scelta c'è chi in negozio ha saputo consigliarlo al meglio.
Biffi Boutique
10 Corso Como
I protagonisti del nostro panel
10 Corso Como Milano
Agnetti Macerata
Arteni Progetto Moda Tavagnacco (Ud)
Bernardelli Mantova
Biffi Boutique Milano, Bergamo
Boutique Macciocu Sassari
Calabrò Canicattì (Ag)
Chirico Store Messina
Clan Upstairs Milano
Colognese 1882 Montebelluna (Tv)
Cuccuini Livorno, Forte dei Marmi (Lu)
e altre sedi
Deflorio dal 1948 Noicattaro (Ba)
Divo Boutique Santa Maria a Monte (Pi)
e Pontedera (Pi)
Edward Uomo Trani (Bt)
Fiacchini Forte dei Marmi (Lu)
e Portovenere (Sp)
Filippo Marchesani Cupello (Ch)
Giglio Palermo
Giordano Boutique Pompei (Na)
Guarini Pescara
L’Incontro Uomo Modena
Leam Roma
Mantovani Shop San Giovanni Valdarno (Ar), Castiglione della Pescaia (Gr), Greve in Chianti (Fi)
Marcos Mondovì (Cn)
Marinotti 126 e Marinotti 160 Cortina
d’Ampezzo (Bn)
Michele Inzerillo Palermo
Modamica Valbrembo (Bg)
Moras Boutique Intimiano (Co)
Noha Brindisi
Nugnes Trani (Bt)
Papillon Corigliano Calabro (Cs)
Paolo Pessina Monza
Peter Ci Uomo Como
Porrini Moda Besozzo (Va)
Sir Andrew’s Carpi (Mo)
The Apartment Cosenza
Tiziana Fausti Bergamo
Tufano Moda Pompei (Na) e Scafati (Sa)
Valtellini Rovato in Franciacorta (Bs)
Zer0 Verbier (Svizzera)
Deflorio dal 1948
Edward Uomo
Agnetti Leam
Divo Boutique
Valtellini
Tiziana Fausti
Clan Upstairs Rendering
Filippo Marchesani
Calabrò
Moras
Boutique Macciocu
Noha
Papillon
L'incontro
Chirico Store
Modamica
Zer0
Sir Andrew's
Paolo Pessina
DALL’ITALIA AI MERCATI INTERNAZIONALI: IL NUOVO IMPULSO
DI FERRANTE È DETTATO DALLO SHOWROOM
DI MILANO
Uno showroom strategico a Milano per rilanciarsi all’estero, ripartendo dall’Italia. Con una collezione casualwear riposizionata verso l’alto che rilegge la maglieria classica in ottica contemporanea
Investire. Questa la risposta di Ferrantestorico produttore di maglieria con sede a San Giovanni Teatino, in provincia di Chieti - al contesto odierno di difficoltà del settore. E farlo dando un segnale forte al proprio mercato di riferimento, che resta l’Italia, nonostante le politiche commerciali verso l’estero stiano spingendo maggiormente l’acceleratore per consolidare le aree acquisite e aggiungerne di nuove. In questa direzione va l’apertura del nuovo showroom a Milano, in zona Porta Romana, il secondo dopo quello di Via Anfossi: un passaggio decisivo della linea strategica adottata dal maglificio abruzzese per continuare a rimanere sul mercato con lo standing che storicamente lo caratterizza, anzi spostare verso l’alto il proprio posizionamento.
«Con i suoi oltre 400mq, in una piazza imprescindibile come quella milanese, il nuovo showroom rappresenta per la nostra azienda un investimento importante - non solo in termini finanziari - per competere in modo proattivo, affrontando le sfide lanciate dal settore della maglieria che,
come tutti gli altri della moda, ciclicamente va in crisi». Così comincia Amedeo Ferrante, cotitolare di Ferrante insieme al fratello Emiliano. «Un investimentoaggiunge - fatto per ampliare l’offerta, relazionandoci con il territorio internazionale in maniera più diretta e continuando a sviluppare un prodotto che fa parte della nostra tradizione: una maglieria contemporanea con l’utilizzo di materie prime di alta qualità, il cui contenuto di innovazione rispetta il dna acquisito nel corso della storia quarantennale del marchio».
Fondata nel 1984, Ferrante è un’azienda familiare oggi alla seconda generazioneben presto arriverà alla terza - in continua evoluzione, ma con un punto fermo: puntare su un prodotto che non tradisca determinati canoni di qualità, a partire dalla scelta delle materie prime, a fronte di prezzi competitivi. «Siamo clienti delle maggiori filature del mondo, tra cui Zegna Baruffa e Todd & Duncan, Iafil per il cotone - aggiunge l’imprenditore - ma cerchiamo di favorire il nostro cliente con prezzi che gli
consentano di realizzare un buon margine». Essere in continua evoluzione per Ferrante significa soprattutto tenere uno sguardo attento sui mutamenti della domanda del cliente finale, influenzata negli ultimi anni dall’invasione del fast fashion e da uno stile più funzionale, e decidere in modo consapevole come posizionarsi in questo contesto. «Il momento attuale ci ha invogliato a puntare più in alto, con l’obiettivo di servire negozi sempre più sofisticati, adatti a recepire il contenuto moda delle nostre collezioni - sottolinea Ferrante - che arricchiscono modelli di stile classico con materie prime e trattamenti di proposta: tinture artigianali, filati bouclé, alpache, modelli “seamless”, capispalla in maglia per vestire un uomo contemporaneo dai 35 anni in su a cui piace indossare capi di maglieria dall’allure sofisticata nella sua essenzialità». Scelta, questa, che oggi permette all’azienda di convivere con i propri competitor in punti vendita posizionati sul segmento medioalto grazie a un’offerta differenziata in termini di ricercatezza.
La distribuzione nel mercato italiano è garantita da una rete di circa 750 punti vendita complessivi, che coprono in maniera capillare l’intero territorio nazionale. «Da anni siamo presenti in Rinascente con uno spazio dedicato all’interno del comparto maglieria e dati di sell-out molto incoraggianti - specifica Ferrante - che si aggirano tra l’80 e l’85% nel periodo presaldi. Allo stesso modo, per fare un altro esempio, abbiamo corner importanti nelle piattaforme come Sorelle Ramonda». Per quanto riguarda l’estero, che rappresenta il 30% del fatturato complessivo dell’azienda, Ferrante può contare su una distribuzione a 360 gradi, nel segmento alto, che vede gli Stati Uniti come mercato storico di riferimento, insieme alla Russia, che l’azienda fu una delle prime a penetrare con convinzione. Mentre è in fase di approccio l’area giapponese. A questo, si aggiunge la presenza in Europa, in particolare Benelux, Francia, Germania. Qui i progetti per l’immediato futuro prevedono un percorso di espansione grazie a importanti trattative in corso in Germania, Spagna, Regno Unito e nella stessa Russia, attraverso un primario studio di rappresentanza. Come naturale conseguenza di questo piano di sviluppo, c’è l’ambizione di aprire showroom diretti in ognuno di questi Paesi, come progetto di medio/lungo termine. «Nonostante l’ampia quota estero, l’Italia rimane il nostro mercato di riferimento - incalza Emiliano Ferrante - in cui riteniamo ci siano ampie possibilità di crescita e la presenza a Milano attraverso il nuovo showroom risponde anche a questo obiettivo». Aggredire il mercato internazionale attraverso una più radicata presenza sul territorio nazionale costituisce, infatti, la strategia aziendale in atto, di cui il nuovo showroom meneghino, attivo da qualche mese, rappresenta il punto di slancio. «Dovevamo essere necessariamente presenti nella capitale della moda - aggiunge - per dare un segnale forte ai nostri clienti, mostrando un’azienda in evoluzione che punta al mercato estero anche con una presenza diretta». L’ampia metratura dello spazio, con tre agenti sempre presenti, consente di ospitare sia le collezioni uomo sia quelle dedicate alla donna (in forte
crescita), e di proporre capsule dedicate. «Stiamo sperimentando nuovi approcci all’assortimento - racconta Ferrante - per esempio con la proposta di cartelle colori sviluppate sulle maglie, anziché sulle tirelle. Una sorta di palette “parlata” attraverso la realizzazione di un capo per ogni colore di alcuni modelli della collezione. Abbiamo inoltre allestito uno spazio di intrattenimento, dove il cliente può fermarsi con noi per quattro chiacchiere in più». E quanto alla possibilità di personalizzazione? Rimanere agganciati al dna del proprio brand per Ferrante non significa escludere una certa elasticità verso la collezione, che potrebbe essere personalizzata di fronte a una richiesta importante in grado di aprire nuovi scenari. «Siamo aperti al dialogo con i nostri clienti
- assicurano i fratelli - e se un filato che in Italia funziona meno può avere sviluppi esteri su finezze più sottili o modellature diverse siamo aperti a produrre modelli ad hoc, dandogli il nostro valore aggiunto». Pur con lo sguardo puntato all’internazionalizzazione, è innegabile l’importanza del mercato italiano. «Sul territorio nazionale c’è ancora da conquistare qualche area - conclude Amedeo Ferrante - e ci sono grandi magazzini dove possiamo ancora dire la nostra e sviluppare il nostro lavoro». Work in progress, dunque, sapendo di poter crescere su un tessuto territoriale consolidato nel quale, grazie a una distribuzione capillare ed efficiente, l’azienda abruzzese ha la possibilità di scegliere dove posizionarsi. ■
È più una questione di diversificazione che di pricing
00
Small Lady Dior: quattro anni di uptrend
Fonte: dati storici di Dior.com presenti su databoutique.com
Nel post-pandemia i principali operatori del lusso hanno raddoppiato le vendite e aumentato l’ebit di oltre 600 punti base, stando a un report di Bernstein, soprattutto grazie alla spesa cinese di lusso in patria, alle performance nel canale retail ma anche alla decisione di aumentare i listini. Tra il 2020 e il 2023, i prezzi globali di una selezione di prodotti evergreen Dior sono saliti del 66%, seguiti a ruota da Chanel, mentre Hermès si è limitato “solo” a un +20%. Reuters ha stimato un +33% di aumento medio dei listini del lusso dal 2019 anche se, mentre scriviamo, si nota una flessione: -7% nel terzo trimestre 2024, rispetto a un anno prima e -4% sul secondo quarter, nelle statistiche elaborate per Bernstein da
Lyst, motore di ricerca focalizzato sulla moda. Secondo gli analisti, è arrivato il momento di affrontare il tema del rapporto qualità/prezzo, che prelude a «ulteriori acquisizioni di fornitori con competenze uniche e a un’attenzione particolare all’approvvigionamento delle migliori materie prime». Poi c’è la questione dell’entry price. «Gli esuberanti aumenti dei prezzi like-for-like - osservano i ricercatorihanno tagliato fuori i consumatori aspirazionali della classe media dai principali prodotti dei marchi più importanti». Ciò è particolarmente vero nell’universo delle borse: trovarne una di dimensioni regolari a meno di 3mila euro/dollari è diventato praticamente impossibile. «In un contesto di crescita più contenuta - aggiungono in
La Lady Dior, iconica borsa della maison francese, è l’emblema della vertiginosa crescita dei prezzi del lusso: passata dai 3.400 euro del 2021 ai 5.400 del 2024. Un trend che ha avuto un effetto domino sull’intero fashion system. Durerà? Imprenditori, membri delle istituzioni, retailer ed esperti di distibuzione spiegano nelle pagine seguenti cosa attenderci
Bernstein - i mega-brand dovranno assicurarsi che i loro prezzi di ingresso siano sufficientemente accessibili, altrimenti rischiano di perdere una fetta significativa di domanda, in un momento in cui non possono permetterselo». Stando al più recente Altagamma-Bain Worldwide Luxury Market Monitor 2024, la riduzione degli acquisti, particolarmente accentuata nella Gen Z, ha portato il settore a perdere 50 milioni di clienti negli ultimi due anni. Nelle pagine che seguono parliamo di prezzi (attuali e futuri), variabili che li condizionano e strategie per non deludere le aspettative del consumatore di riferimento, dando voce ai brand e al tessile, ma anche a buyer, dirigenti di outlet, titolari di showroom e consulenti. ■
A CURA DI ALESSANDRA BIGOTTA, ANDREA BIGOZZI, ELISABETTA FABBRI, ANGELA TOVAZZI
Sergio Tamborini
Ceo Ratti
Presidente Confindustria Moda
«Il problema dei prezzi alle stelle si è percepito a diversi livelli, inclusi i consumatori, che hanno reagito con uno stop alle spese. Anche manager di importanti case di moda italiane hanno criticato una strategia basata solo sull’aumento dei prezzi e non sul valore dei beni, che ha portato a una perdita di fiducia della base. Tornare indietro sarà difficile. Per le manifatture, l’incremento dei prezzi da parte dei brand non ha significato più ordini: piuttosto il contrario, perché per certi margini è bastato un numero minore di vendite. Il valore non è stato distribuito lungo la filiera, come chiediamo da anni. Per un’industria come il tessile che è energivora l’impennata dei prezzi è legata al costo dell’energia. Inoltre, soffriamo di scarsa autonomia, rispetto a fonti chiave come il gas, e di un divario competitivo con l’estero sui prezzi dell’energia e sul peso delle rinnovabili. L’Italia sconta anche una dipendenza importante da materie prime e fibre, con alte quote di importazione. I costi di approvvigionamento sono cresciuti, complice l’adeguamento a nuove rotte logistiche più sicure. Servono nuove strategie sulle materie prime e sull’energia per limitare i costi. A monte della filiera serve una politica industriale nazionale: come Smi (che da gennaio diventa Confindustria Moda, ndr), abbiamo presentato ai ministeri un paper sulla gelsibachicoltura per la seta di qualità, una materia prima per cui dipendiamo al 90% dalla Cina. Per rilanciare il settore rispetto a Paesi dove produrre costa meno sono centrali politiche sul lavoro e defiscalizzazione. Inoltre, il taglio dei prezzi lungo la filiera ha fatto emergere opacità che hanno generato oneri aggiuntivi, spesso a carico delle piccole aziende. Chiudo con la sostenibilità: come Confindustria Moda, pensiamo che la responsabilità estesa del produttore (Epr) non debba essere un aggravio ma stimolare valore, trasparenza e competitività. Italia ed Europa devono tenerne conto».
Enzo Fusco Owner e presidente Fgf Industry (Blauer)
«Se, come emerge da alcune stime, c’è stato un incremento medio dei prezzi del lusso del 33% dal 2019 a oggi, noi abbiamo cercato di contenere gli aumenti entro il 10%, soprattutto per quanto riguarda le proposte continuative. Sulla determinazione dei listini per la Fall-Winter 2025/2026 stanno incidendo soprattutto i costi di trasporto e l’incremento dei prezzi della piuma. Inoltre, per quanto riguarda la maglieria tagliata, è stata colpita dall’esplosione dei prezzi in Turchia, a causa di un’inflazione fuori controllo. Per contenere gli incrementi dei cartellini stiamo cercando fonti produttive in aree geografiche a più basso costo e dove impattano meno i dazi. Attualmente la nostra offerta è diversificata e include, come proposta entry price, un capospalla il cui prezzo sell out oscilla fra 195 e 230 euro. Il top di gamma, invece, ha un prezzo tra 650 e 720 euro. Attualmente gli aspetti speculativi del mercato non possono permetterci di pensare che i prezzi si stabilizzeranno. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il nostro business nell’area è limitato e non prevediamo un impatto significativo, qualora sotto la presidenza Trump venissero inaspriti i dazi alle importazioni di moda italiana».
Riccardo Peruffo
Peserico
«Sebbene possa sembrare che si sia raggiunto un picco, è difficile prevedere una discesa significativa dei prezzi nel breve termine. Le dinamiche di mercato e il posizionamento strategico dei brand del lusso portano a mantenere i listini elevati, per preservare esclusività e percezione di valore. A concorrere all’escalation sono stati diversi fattori: l’aumento del costo di tessuti di qualità e di materiali green, ma anche quello della manodopera specializzata nel realizzare collezioni made in Italy, come le nostre. A influire sono stati anche gli investimenti in sostenibilità, per una transizione verso una moda più responsabile. In alcuni casi, l’impennata dei listini ha provocato un senso di disaffezione nei consumatori, soprattutto nella fascia intermedia, tra lusso accessibile e premium. Diverso il discorso per l’alta gamma, dove la clientela è normalmente più disposta a investire in capi che garantiscono qualità, esclusività e durabilità. Nel caso di Peserico, il valore aggiunto del prodotto, che combina artigianalità, design senza tempo e sostenibilità, ha permesso di mantenere una connessione forte con i consumatori. I nostri clienti conoscono bene la storia del marchio e sono consapevoli dell’impegno che mettiamo nel nostro lavoro, al fine di raggiungere quell’eccellenza che giustifica un determinato prezzo. Credo che in un contesto come l’attuale le strategie di pricing devono essere bilanciate e riflettere il valore reale del prodotto. Fondamentali quindi alcune linee guida: in primis la trasparenza, comunicando chiaramente i motivi dietro il prezzo. Secondo: la diversificazione dell’offerta, con collezioni che includano sia capi iconici di fascia alta, sia pezzi più accessibili. Poi esclusività e personalizzazione, attraverso esperienze e prodotti unici, in modo da rafforzare il legame emotivo tra consumatore e brand. Infine il focus sulla sostenibilità, dimostrando che l’investimento in un certo capo non è solo una scelta di valore nel tempo, ma anche un investimento in futuro più responsabile».
Ceo
Roberto Bottoli
Owner Lane Bottoli
Pres. Gruppo Sistema Moda
Confindustria Veneto Est
«I prezzi dei tessuti hanno cominciato ad aumentare dopo il covid ma si stimano crescite, da allora, del 20%-25% in media, inferiori agli incrementi oltre il 30% ipotizzati per il lusso. A incidere sono stati soprattutto i costi dell’energia e dei trasporti. Quanto alle materie prime, dopo gli aumenti nel post-pandemia si è vista una normalizzazione, eccetto il caso dei filati in lino importati dalla Cina, i cui prezzi sono andati fuori controllo. In futuro diversi fattori andranno a impattare sul nostro business. Uno è il recente rinnovo del contratto dei tessili, che comporta un aumento dei costi della manodopera. Nel 2025 entrerà in vigore l’obbligo, per le aziende, di assicurarsi contro i danni causati dalle calamità naturali. Siamo inoltre tutti in attesa delle normative green. Le certificazioni sono sempre di più, ormai decine, e così salgono i costi. Sappiamo che sarà un percorso costoso ma non sappiamo quanto, come e perché: ci troviamo in una sorta di limbo. Non solo: il piano di Transizione 5.0 per il rinnovamento e l’aggiornamento delle aziende sul fronte sostenibilità e digital è in ritardo di un anno e frena gli investimenti. Adesso ci si rende conto che i parametri sono complessi, farraginosi e che di fatto è impossibile da attuare. Per quanto riguarda un potenziale aumento dei dazi statunitensi, è ancora tutto da vedere. Inoltre noi di Lane Bottoli realizziamo in quel mercato solo il 10% dei ricavi. Sul tessile che fornisce i marchi di alta gamma peserà soprattutto l’incognita Cina. In questo momento la situazione economica dei produttori di tessuti è pesante, come attestano anche le richieste di cassa integrazione. Ma al contrario delle griffe, che possono andare nel panico, abituate ad anni di vacche grasse, noi siamo abituati a soffrire e abbiamo sviluppato gli anticorpi. Il tessile cercherà di contenere gli aumenti dei prezzi al minimo, stringendo i denti. Agiremo diversificando i mercati e puntando sulla ricerca e su nuovi prodotti, anche se lavorare è sempre più complicato.
Cristobal-Felipe Machhaus
Director International Sales Digel
«L’inflazione, l’aumento del costo del lavoro e delle materie prime hanno naturalmente avuto un impatto sui prezzi anche nel settore medio-alto, in cui operiamo, benché attualmente osserviamo una tendenza alla stabilizzazione. La strategia di pricing di Digel punta a offrire al cliente un’ampia gamma di prodotti, con un range di prezzi che per un abito parte dai 299 euro per arrivare a 599 euro. Il valore aggiunto è il servizio: siamo convinti che il cliente sia disposto a pagare di più per un prodotto se, per esempio, può acquistare una giacca di una taglia e un pantalone di un’altra per un abito in lana vergine, con l’etichetta pregiata di un tessitore italiano. L’esperienza d’acquisto è ancora migliore se il cliente stesso compra un secondo paio di pantaloni del suo abito preferito. In qualità di specialisti del segmento, offriamo di gran lunga la gamma più vasta di mix&match in Europa, in questa nicchia di mercato: gamma che spazia dal completo sportivo in poliammide/elastam di alta qualità a quello S150 Platinum. Importante la possibilità di riordinare tramite il canale wholesale (B2B) o sul nostro online shop (B2C). Anche lo storytelling nei punti vendita conta, come abbiamo sperimentato con la nostra campagna Active Suit. La vera “soglia psicologica” nell’acquisto è per il consumatore poter acquistare il prodotto giusto, della giusta qualità e con i giusti servizi post-vendita. Al centro della scena c’è sempre il prodotto, che deve ispirare il consumatore e rappresentare un valore aggiunto. Se sappiamo cosa vuole il consumatore, il prezzo è secondario».
Enrico Spinazzè Owner
Numero 8 (Sun68, Cycle)
«A livello produttivo abbiamo risentito degli incrementi generalizzati dei prezzi, ma non abbiamo trasferito alcun costo aggiuntivo al cliente finale. In particolare per Cycle, progetto di denim premium Made in Italy. Quanto a Sun68, acquisisce sempre più quote di mercato grazie al suo value for money. Nella determinazione dei listini, la prima domanda che ci poniamo per tutti i brand del gruppo è: “Quale potrebbe essere il valore corretto del prodotto che stiamo creando?”. Solo successivamente procediamo con l’industrializzazione. Per noi è fondamentale considerare più l’aspettativa del cliente riguardo a un prezzo equo, che il valore che gli offriamo, value for money appunto. Lavoriamo con grande attenzione a tutti i costi aziendali e ai dettagli, spesso arrivando a sacrificare una parte del margine, pur di espandere le quote di mercato. Lo facciamo mantenendo un focus sull’economicità e sulla sostenibilità di ogni singolo progetto. Nel denim, rigorosamente Made in Italy, le fasce di prezzo partono da 149-159 euro e raggiungono i 300-400 euro, per i capi con lavorazioni altamente elaborate e artigianali, nei quali il cliente può riconoscere e apprezzare il valore aggiunto. Sun68 è invece il footwear che ha rappresentato un forte elemento di rottura e novità sul mercato, con un entry price di 89 euro per il modello Tom, ormai iconico. Non esportiamo negli Usa, pertanto, un eventuale inasprimento dei dazi non è un problema per noi. Inoltre non prevediamo problemi legati all’aumento dei costi produttivi per Cycle, perché è legato esclusivamente all’andamento dell’euro. Per Sun68 potrebbero vedersi effetti lungo la catena del valore, ma per ora non ci preoccupano. A proposito del lusso, non penso che i prezzi si assesteranno o invertiranno la rotta. Le politiche di aumento dei listini non sono una novità dell’ultimo anno: hanno sempre rappresentato un elemento centrale per i luxury brand. Solo che ora il consumatore ne è consapevole».
Alessandro Hong Business manager di Voxigroup (Distretto12)
« I prezzi non si sono impennati solo per il lusso, ma anche per il segmento premium, seppure con aumenti meno contenuti: è tutto l’indotto che ha ritoccato i listini verso l’alto, vista anche l’inflazione che non accenna ad arrestarsi. L’incremento dei prezzi delle materie prime, della manodopera e quindi il rialzo anche dei costi di produzione (influenzato anche dalla scelta di adottare materiali ecologici e sostenibili, per soddisfare le aspettative di un mercato sempre più attento a questo tema) si sono ripercossi a valle della filiera e sul consumatore finale. La nostra strategia è stata quella di fare squadra con i fornitori. Abbiamo inoltre destinato importanti investimenti iniziali al miglioramento dell’efficienza produttiva, con macchinari template di ultima generazione, abbattendo così costi e tempi, pur mantenendo un prodotto di qualità a prezzi ottimi. Attraverso un’analisi corretta del mercato, studiando la nostra fascia prezzi, abbiamo proposto più categorie strategiche di capi come giacche, pantaloni e più maglieria. Infine, ai nostri clienti proponiamo promozioni mirate su alcuni articoli. Credo che la tecnologia e l’Intelligenza Artificiale potranno dare una mano alle aziende a stare al passo con i tempi anche nell’abbattimento dei prezzi».
Ludovica Carotenuto Socia e buyer Giordano Boutique
«Non prevediamo nuovi rincari. E questa per noi è una buona notizia. Ma non credo neppure che assisteremo a una retromarcia dei prezzi. Questo è il nuovo listino e penso che ci dobbiamo adeguare. Quello che potrebbe cambiare è un maggior equilibrio nel mix di prodotti all’interno di uno stesso marchio, che in alcuni casi era venuto un po’ meno. L’aumento esponenziale dei prezzi è certamente legato a fattori oggettivi, ma dietro c’è anche una strategia delle grandi maison del lusso che così provano a diversificare dalla concorrenza, che si fa sempre più ampia, e ad accrescere l’appeal e l’unicità dei loro prodotti. Questa strategia non ha avuto ripercussioni solo sull’andamento delle singole aziende che l’hanno messa in atto, ma anche sui consumatori della classe medio-alta e sulle aziende con un posizionamento premium. I primi si sono sentiti esclusi dalla categoria moda e stanno diversificando i loro interessi. Le seconde sono in uno stato un po’ confusionale: non sanno se è meglio intraprendere un percorso di elevation verso il segmento lusso o mantenere i loro standard tradizionali, rischiando però di entrare in competizione con il fast fashion, che a sua volta sta aumentando il livello delle collezioni e dei prezzi. Wholesaler come noi sono ovviamente dalla parte sia della clientela benestante non “super high spender”, sia dei brand del lusso accessibile, che non devono rinunciare alla qualità. Il contributo che possiamo dare a entrambi è portare i clienti in boutique e guidarli nelle scelte di acquisto, dimostrando che è possibile acquistare una bellissima giacca di pelle made in Italy senza bisogno di spendere 25mila euro. Il cliente che ci dà fiducia scopre che stanno nascendo o si stanno affermando firme nazionali e internazionali - come La Double J, Genny, JW Anderson, Tory Burch - che hanno visto accelerare le loro collezioni anche a fronte di un incremento dei prezzi, perché l’upgrading del prodotto è incredibilmente visibile».
Giorgia Tarchini Gygax Direttrice FoxTown
« In questo scenario, che dal 2020 vede i prezzi delle collezioni salire senza soluzione di continuità, gli outlet sono diventati una piccola oasi, specie per i cosiddetti consumatori “aspirazionali”, che non vogliono rinunciare al sogno ma sono allontanati dall’alta gamma a causa dei listini stratosferici. Per questo si rivolgono sempre più spesso a realtà come la nostra, dove i cartellini sono inferiori almeno del 30% rispetto al prezzo retail, con ulteriori sconti nelle diverse fasi della stagione. Di questa situazione, quindi, stiamo momentaneamente beneficiando, ma non siamo certo i soli. Anche chi opera nel second-hand ha trovato il modo di accrescere la sua nicchia offrendo prodotti iconici, magari di 20 anni fa, che risultano più accessibili. Tutti pensavano che sarebbe stato un fenomeno limitato dal punto di vista del business, ma lo scenario ha finito per rafforzarlo. Indipendentemente da chi si sia avvantaggiato o meno di questa impennata dei prezzi, penso che finalmente si sia raggiunto un equilibrio. Non credo però, come alcuni, che ci sarà un taglio dei listini: sarebbe un errore. E, soprattutto, rischierebbe di mettere in dubbio tutto lo storytelling portato avanti in questi anni dalle aziende del lusso, per giustificare i rincari. Cosa potrebbero fare? Di certo la qualità non si tocca. Forse i luxury brand potrebbero lanciare prodotti a prezzi inferiori usando materiali diversi, oppure lavorare sui prodotti continuativi. Già molte griffe producono collezioni ad hoc per il canale outlet: costano meno ma alimentano il sogno di un certo tipo di consumatore, che ovviamente le acquista molto volentieri».
è la soglia di ricarico dei retailer per la moda premium, sotto la quale «non si fanno affari»
Francesco Casile Owner Casile&Casile Fashion Group
Monica Marando Owner MMB Consulting
è la riduzione media di prezzo negli outlet - oggi oasi del lusso aspirazionalerispetto al retail
« L’innalzamento dei prezzi sta spostando gli equilibri nel mercato. I clienti multimarca con cui lavoriamo ci dicono che molti consumatori del lusso aspirazionale, con minore potere d’acquisto rispetto al passato, continuano ad acquistare pezzi di questo segmento quando il logo è ben in vista, oppure se l’estetica del capo è ben riconoscibile e riconducibile a un marchio top in particolare. Diversamente i clienti finali preferiscono ripiegare su prodotti di fascia premium, che garantiscono qualità e design a un importo più accessibile. I retailer che lavorano con queste etichette, più value for money e meno rigide sui listini rispetto a quelle del lusso ed extra lusso, hanno maggiori possibilità di guadagno, potendo applicare ricarichi tra 2,8 e 3. Va detto che sotto questa soglia il negoziante non fa affari: con 2,7 forse va in pareggio, ma se si limita a un 2,5 ci perde. Per questo stiamo assistendo a cambiamenti importanti nell’offerta del wholesale top level: se prima dell’impennata dei prezzi l’assortimento era composto in media da un 80% lusso e 20% marchi dal posizionamento inferiore, adesso si è arrivati al 50% per entrambe le categorie. L’iperbole dei costi sta creando anche una rincorsa alla monetizzazione tramite sample sales, con molte showroom e aziende che mettono in vendita parte delle loro collezioni in season attraverso svendite aperte al pubblico. Credo che su questo bisognerebbe fare una battaglia, ristabilendo regole precise in termini di saldi e promozioni».
«È vero, negli ultimi tre anni i prezzi sono aumentati in maniera sensibile, ma non possiamo dimenticare che questo fenomeno è legato - nella stragrande maggioranza dei casi - a motivi reali, tra cui i costi delle materie prime e della logistica. L’era dei grandi aumenti è finita ma la possibilità di una riduzione dei prezzi è improbabile, perché rischierebbe di intaccare il valore dei prodotti. Non vorrei mai che questo succedesse, anche perché a farne le spese sarebbe la filiera di qualità, che è principalmente in Italia. Penso quindi che il rialzo dei prezzi si confermerà come una barriera difficilmente superabile per quella fascia di consumatori del lusso che spendono meno dei super ricchi. Ma ritengo pure che questa fascia di clienti benestanti non finirà per sentirsi esclusa dal settore, ma reagirà andando alla ricerca di alternative, che non siano le copie a basso prezzo delle griffe che ora non possono più permettersi, ma di brand molto creativi e commercialmente validi. Detto questo, non credo che le aziende del lusso stiano facendo bene a concentrarsi solo sulle élite: il cliente aspirazionale è importante, crea grande valore e per questo va coltivato. Come? Certo non con il beauty, che ormai è diventato il vero prodotto entry price per molte maison. Queste mi sembrano le tipiche trovate di una moda al servizio della finanza, non della creatività e della visione commerciale. Piuttosto, mi piacerebbe assistere al ritorno delle seconde linee. A mio avviso è di nuovo il momento per progetti creativi, commercialmente e comunicativamente evoluti, come è stato Marc by Marc Jacobs nel passato».
Il punto di vista Prezzi alti? Se li devono guadagnare
Anche nel mondo degli investitori e degli azionisti il pricing dei beni di lusso è un tema scottante. Swetha Ramachandran, fund manager di Artemis, è convinta che il settore stia per entrare in una nuovo momento, in cui a fare la differenza è il consumatore e la sua percezione del valore
Il 2024 si è rivelato un anno piuttosto impegnativo per i marchi della moda e del lusso, alle prese con varie difficoltà. Chi sono stati i grandi vincitori del suo portafoglio?
L’allargamento del perimetro d’investimento al di là dei marchi di lusso, in considerazione dell’evoluzione delle preferenze dei consumatori, si è rivelato una decisione opportuna, dato che avevamo intenzionalmente una relativa “sottoponderazione” dei titoli di lusso. Abbiamo scelto di rafforzare il peso delle società di abbigliamento sportivo, che si sono trovate nella posizione ideale per offrire ai consumatori innovazione a un prezzo appetibile, nel bel mezzo dell’aumento del costo della vita che ha travolto i consumatori di tutto il mondo.
Il contesto macro è difficile. Tuttavia, alcuni dei problemi dell’industria del lusso potrebbero essere autoinflitti. Un aspetto critico è rappresentato dagli incrementi dei prezzi. Qual è la sua opinione?
È proprio così. Stiamo entrando in un periodo in cui il prezzo è un privilegio da guadagnarsi, piuttosto che un potere intrinseco, visto come le aziende hanno sfruttato questa leva, a volte indebitamente, dopo la pandemia. Riteniamo che non siano tanto i prezzi in sé, quanto l’equazione prezzo-valore a motivare o meno i consumatori: «Questo prodotto vale il prezzo che il marchio fa pagare?», è la domanda del giorno. Non è detto che più economico sia necessariamente migliore: basti pensare a Brunello Cucinelli ed Hermès, che continuano a funzionare. Piuttosto si tratta della percezione del valore da parte del cliente. In questo senso, i marchi di gioielleria sono andati molto meglio della pelletteria, con Cartier e Van Cleef che sono sempre più considerati come brand in grado di offrire un “valore” migliore ai consumatori, con aumenti di prezzo più misurati.
Boss è stato vittima della “normalizzazione” in corso nel settore dopo la crescita vertiginosa post-pandemia, avendo aumentato i ricavi nel 2023 di oltre il 50% rispetto al 2019. Il 2024 si è rivelato un anno di metabolizzazione, con i consumatori più sensibili all’inflazione che si sono presi una pausa. Ma è probabile che le prospettive non siano così disastrose, come suggerisce il prezzo delle azioni: parlerei piuttosto di un ritiro dalle alte aspettative del mercato. Riteniamo che la collaborazione con Beckham abbia la possibilità di accelerare la crescita nel 2025 e che stiano emergendo segnali di miglioramento del sentiment dei consumatori nella fascia premium dei mercati statunitense e britannico.
Al contrario, il prezzo delle azioni di Ralph Lauren è cresciuto. Come mai?
Ralph Lauren sembra aver rotto la maledizione che gravava su molte altre aziende statunitensi di abbigliamento di fascia alta, riuscendo a raggiungere la sua elevazione in un modo che altri marchi non sono stati in grado di fare. Merito anche di decisioni strategiche difficili da prendere, come la selezione nel canale wholesale e degli outlet, concentrando l’attenzione sull’elevazione dell’immagine del marchio e della distribuzione, nonché sulla massimizzazione delle vendite a prezzo pieno. Fattori che hanno posizionato l’azienda in modo ottimale per un successo duraturo. L’azienda ha inoltre beneficiato del vento a favore del “lusso silenzioso” e ha superato il crollo della Cina, con i consumatori attratti dall’aspetto intenzionalmente chic e senza tempo del suo design.
«AZIENDE DELLO SPORTSWEAR COME ADIDAS E ON HANNO OFFERTO AL MERCATO INNOVAZIONE A UN PREZZO APPETIBILE»
Swetha Ramachandran
Investite in Hugo Boss. L’a.d. Daniel Grieder ha trasformato Boss e Hugo in marchi lifestyle 24/7 e si è espanso in modo piuttosto aggressivo nel wholesale. Sebbene i ricavi siano aumentati nel 2022 e 2023, il prezzo delle azioni è sceso da 60 a 40 euro. Qual è il problema?
Nel vostro portafoglio avete aziende dello sportswear come Adidas e On, ma anche Amer Sports con Arc’teryx e Salomon. Quali sono i loro principali fattori di crescita?
I fattori di crescita per queste aziende includono l’aumento della passione per lo sport nei Paesi emergenti, la crescente importanza del benessere fisico e la casualizzazione della moda: le scarpe da ginnastica sono state ormai sdoganate anche in ufficio. In più, i consumatori sono sempre più alla ricerca di marchi di nicchia e di alta qualità, come tutti quelli sopra citati e Hoka, che appartiene a Deckers. Anche se Adidas non è considerato “di nicchia”, la sua attenzione nel controllare la crescita del popolarissimo modello Samba e nel promuovere una crescita sostenibile attraverso la famiglia di prodotti Terrace gli ha conferito un’aura di culto. Amer sta beneficiando dell’affermazione dello stile di vita all’aria aperta, soprattutto in Cina, e del successo dell’upgrading del marchio, che consente al brand di attingere al segmento dei consumatori premium, in Cina e nel resto del mondo.
Come valuta Adidas con il ceo Bjørn Gulden al vertice?
Da quando ha assunto la guida di Adidas, Bjørn ha riportato il gruppo su un percorso di crescita sostenibile. L’azienda beneficia anche di una “memoria muscolare” interna sufficiente per evitare, si spera, l’eccessiva saturazione degli anni delle Stan Smith e il ciclo boom/bust di un tempo. Adidas beneficia del colpo di coda di prodotti
fortemente desiderabili - le Samba e più recentemente le Gazelle, con i modelli Speziale e Campus destinati alla crescita futura, in un momento in cui l’azienda cerca di riorientarsi verso la vendita wholesale e di riguadagnare terreno nell’importante mercato statunitense - cosa che sta tentando anche un altro gigante del settore, Nike, ma senza il vantaggio di avere un ciclo produttivo all’altezza. Le sue innovazioni non sono riuscite a fare breccia, nonostante l’eco mediatica delle Olimpiadi - ma mai dire mai quando si tratta di Nike: crediamo che si debba parlare più un “quando” che di un “se” per la sua ripresa.
Ritiene che On sia uno sfidante credibile per Adidas e Nike?
Considerando le dimensioni, On è sulla buona strada per diventare un marchio da 2,6 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2025, contro i 24,3 miliardi di dollari di Adidas e i 48 miliardi di dollari di Nike (probabilmente il minimo storico): la differenza dimensionale è immensa. Anche se On sta crescendo più velocemente e tutto l’entusiasmo del mercato dell’abbigliamento sportivo in questo momento si concentra sulla fascia premium, è intenzione del brand operare esclusivamente nel segmento premium più piccolo dell’abbigliamento sportivo, piuttosto che in quello mainstream, dove si concentra la maggior parte dei volumi. Riteniamo che questa possa essere una nicchia altamente redditizia, ma che On si collochi in una fascia diversa da quella di Adidas e Nike in termini di proporzioni.
IDENTIKIT
Diamo uno sguardo alla sfera di cristallo. Come sarà il 2025 per la moda e il lusso rispetto al 2024? Ci sono due regioni che guideranno le prospettive delle aziende dei settori moda e lusso nel 2025: gli Stati Uniti e la Cina. Sembra sempre più che il 2024 abbia segnato il minimo in termini di crescita (ma sarebbe meglio parlare di assenza di crescita) per le aziende del settore moda/lusso, dopo tre anni di incremento molto forte nel periodo post-pandemia, superiore alle loro medie storiche. I consumatori statunitensi sembrano in ripresa, grazie alla riduzione dell’inflazione e all’effetto ricchezza derivante dalla ripresa dei mercati e dei prezzi delle case, nonché al ritorno di una forte carica vitale in un contesto economico più roseo.
E la Cina?
leone nella crescita in quest’area, mentre è prevedibile che i piccoli operatori perdano importanza nel tempo.
Gucci e Kering sono stati nell’occhio del ciclone quest’anno. Come valuta la probabilità che il 2025 possa essere un anno positivo per il gruppo e il suo brand ammiraglio?
Il rilancio di Gucci è molto atteso, sia dai consumatori che dal mercato. Questo è stato il primo marchio non francese a raggiungere i 10 miliardi di euro di fatturato e uno dei quattro in questa classifica, prima di retrocedere a 7,6 miliardi di euro. Pur essendo una discesa dolorosa, riteniamo che si stiano gettando i semi per una ripresa più sana quando arriverà, che dipenda meno da uno stilista di punta (come nel caso dell’era di Alessandro Michele) e più da ciò che i marchi francesi sanno fare: il prodotto, il merchandising, l’eccellenza nel retail. La domanda chiave è quando inizierà la ripartenza e quanto sarà redditizio Gucci quando avverrà. Pensiamo che stiano emergendo dei timidi germogli per quanto riguarda la percezione del marchio, ma dovremo arrivare al 2025 (forse al secondo semestre) per vederli concretizzarsi in modo più significativo, con una ripresa più completa che si manifesterà a partire dal 2026. Incidono fattori come lo stato di salute dei consumatori statunitensi e cinesi e la loro ricettività nei confronti del nuovo corso di Gucci.
Swetha Ramachandran gestisce il fondo Artemis Leading Consumer Brands Strategy, che ha in portafoglio società come Ferrari, Adidas, Hermès ed EssilorLuxottica. I top performer del 2024 sono stati On, Deckers e Amer Sports. L’esperta di finanza può vantare una carriera di 25 anni. Ha iniziato a lavorare in Goldman Sachs. Da 2019 a 2023 è stata da GAM, dove era responsabile del GAM Luxury Brands Fund.
Quali sono le società del vostro portafoglio che potrebbero essere le migliori “self help stories” nel 2025?
Ci sono alcuni nomi nel fondo che fanno parte delle cosiddette “belle addormentate”: crediamo che attualmente si trovino in un limbo, a causa di una combinazione di eventi straordinari che hanno influito sulle loro performance recenti, ma che i driver di valore latenti rimangano intatti. Uno di questi è Campari. Secondo noi, il mercato ha punito eccessivamente l’azienda per problemi più transitori che permanenti e ci sono nuovi punti di forza che dovrebbero portare a una rivalutazione rispetto ai livelli attuali. Samsonite si trova in una posizione interessante: con i suoi piani di riquotazione negli Stati Uniti è probabile che sblocchi un valore significativo, data la sottovalutazione del titolo e l’elevata generazione di free cash flow.
Il Paese beneficia della svolta politica in atto per stimolare l’economia: in questo caso riteniamo che la ripresa dei consumi si verificherà, grazie all’elevato risparmio delle famiglie cinesi, ma che probabilmente richiederà più tempo e sarà meno marcata: ciò significa che non tutte le aziende beneficeranno della risalita della marea. Dal 2019 i consumatori cinesi sono diventati più accorti e più attenti al valore: questo non vuole dire che stiano facendo acquisti al ribasso, ma che si rivolgono a marchi in grado di offrire qualcosa di veramente distintivo e di valore, indipendentemente dal prezzo: ecco perché Hermès e Brunello Cucinelli continuano ad avere successo, mentre Gucci e Ferragamo fanno fatica. Riteniamo che in futuro i consumatori cinesi saranno più esigenti e che i leader sul mercato faranno probabilmente la parte del
Il quiet luxury è stato il trend imperante negli ultimi anni. Dominerà ancora nel 2025? Sono la persona meno alla moda che io conosca, quindi non credo di avere l’autorità necessaria per affermarlo. Ma la mia sensazione è che il lusso tranquillo abbia raggiunto l’apice e sia in via di estinzione. Una delle ragioni della stanchezza del lusso, al di là dei prezzi, è che i marchi non sono in grado di entusiasmare i consumatori con qualcosa di nuovo, che li incentivi a spendere. Sono poche le eccezioni: penso a Miu Miu e Prada, che hanno davvero fatto centro con la loro creatività. Altri marchi cercheranno sempre più di scuotere i consumatori dalla loro crisi, diventando più creativi e forse più fuori dal coro dal punto di vista del design. ■
TOBIAS BAYER
PMDS LANCIA IL PRIMO MONOMARCA E ACCELERA SULL’ESTERO
Nuove strategie supportano il rilancio del brand sul territorio italiano e sul mercato internazionale: da una serie di new opening mono brand al restyling della showroom estera, passando per le novità di prodotto
Qalità, originalità, autenticità e innovazione orientano progetti e strategie di PMDS - acronimo di Premium Mood Denim Superior -, brand di abbigliamento maschile che fa capo alla Pegno Group s.r.l. di Napoli, nata in Italia nel 2013.
Dopo anni di partecipazione a svariati eventi fieristici, il 2025 rappresenta un anno di svolta per PMDS con il direzionamento delle risorse verso altri canali, grazie anche al significativo supporto di un’agenzia di comunicazione per divulgare le nuove strategie aziendali e stilistiche. L’inaugurazione a Riccione del primo monomarca PMDS, prevista per fine marzo 2025 - spiega l’A.D. Dottoressa Alessandra Cuffari - segna l’inizio di un programma di nuove aperture, cui si aggiungeranno Milano e Roma, rispondendo a una strategia di branding ben precisa: far capire al pubblico l’identità del marchio e la collezione nella sua totalità.
Quest’ultima rispecchia il mood di PMDS, le cui parole chiave sono stile e comfort. Obiettivo principe del brand - racconta il direttore creativo, Ciro Pegno - è rivolgere l’attenzione sulla ricerca di tessuti confortevoli, ma nel contempo accurati.
Non a caso materiale di punta delle ultime otto stagioni è la lycra, tessuto in nylon che fa da padrone anche nella collezione FW 25/26 occupandone circa il 40 % e affiancandolo ad altri materiali similmente performanti quali velluti con composizione di nylon acrilico e cotone, filati prestanti per la maglieria diretti ad esprimere la qualità nonché lo stile tecnico e confortevole del prodotto. Da qui l’inserimento di pantaloni in 100% lana e capi spalla alleggeriti nei pesi quale il «WOOLCKET» ossia un capo di maglia in lana volto ad avere la stessa funzione di un giubbotto, ma sostituendolo data la praticità e il minore volume, in linea con le recenti richieste del mercato in virtù dei cambiamenti climatici.
Particolare attenzione è rivolta alla vestibilità, con silhouettes più morbide e comode sia sul pantalone e sul maglione che sul capo spalla, senza però alterare lo stile del brand.
L’ampliamento nella showroom estera di via Morimondo 21 a Milano segna l’accelerata sul piano internazionale.
Oltre al mercato giapponese, dove il brand figura da circa 10 anni, con
una presenza ben consolidata attraverso corner in luxury department stores, il target è rafforzare ulteriormente la partecipazione di PMDS nel mercato russo, con plurimi epicentri distributivi tra cui Bosco dei Ciliegi, recente obiettivo conseguito.
«La sterzata aziendale - conclude l’A.D. Cuffari - mira ad ampliare non solo la rete distributiva estera, ma anche quella italiana, portandola dagli attuali 140 a 200-220 punti vendita, ai quali si aggiungono i tre monomarca, conseguendo dunque un incremento del fatturato nonché crescita della solidità e del valore dell’azienda».
Alessandra Cuffari A.D. di PMDS
RITORNO AL FUTURO
Come nel film Ritorno al futuro Michael J. Fox veniva catapultato dal 1985 al 1955, così le collezioni maschili per la FW 25/26 esplorano gli archivi per proiettarli nella contemporaneità attraverso dettagli personalizzati, pesi alleggeriti e silhouette più morbide. Una tendenza trasversale, che parte dal capospalla d’impronta classica per insinuarsi nell’outerwear, negli accessori e nella maglieria, mentre le camicie si lasciano tentare dal grunge. Non un’operazione déjà vu, ma la riscoperta di valori durevoli. L’eleganza, quella vera, torna alla ribalta, anche se al leisurewear, magari rivisitato, non si rinuncia.
A CURA DI ALESSANDRA BIGOTTA
MANUEL RITZ
Il capospalla ricalibrato nei volumi
ANTONIO DE MATTEIS
CEO KITON «Dopo anni di leisurewear il capospalla elegante si riprende la scena»
In quanto a.d. di Kiton, Antonio De Matteis può contare su un osservatorio privilegiato sull’evoluzione dell’eleganza maschile. «Si assiste a un grande ritorno al capospalla, dopo anni di leisurewear e relax - dice - tant’è che stanno riprendendo quota la camicia e persino la cravatta». L’uomo «è diventato molto più vicino alla donna nelle modalità d’acquisto e vuole cambiarsi anche un paio di volte al giorno, in base alle occasioni d’uso. La giacca è per certi versi la sua borsa, con tante tasche per portare tante cose». Ma come sarà la giacca del futuro? «Con forme ammorbidite e volumi più ampi, leggermente più lunga. Stesso discorso per il cappotto. Fondamentale il ruolo del tessuto, su cui facciamo una grandissima ricerca, anche grazie al nostro lanificio Carlo Barbera». «Vestiamo uomini dai 35 ai 75 anni - prosegue - con un’età più bassa in aree come Asia e Far East e più matura in Europa e America. I giovani? Li vedo molto più attenti al vestire rispetto alla nostra generazione, più precisi. Difficile, per questioni di budget, che un ragazzino entri direttamente nel mondo Kiton ma mi interessa osservare questa generazione e la sua attenzione al vintage che mi riporta a quando, giovanissimo, io stesso curiosavo nei mercatini dell’usato di Napoli. La moda è una ruota che gira e questo lo vedo soprattutto in mio figlio di 17 anni». «Come Kiton - conclude - continuiamo a crescere, con i primi nove mesi del 2024 a +13,5% e un ottimo inizio della campagna vendite invernale. Quanto a Pitti, di cui sono presidente, c’è altrettanta soddisfazione: quando i tempi sono difficili i buyer si muovono di più e non possono certo rinunciare a Pitti Uomo, l’unica fiera maschile del suo livello al mondo».
KNT KITON
DIGEL
LARDINI OVER
TAGLIATORE
DONATO AMBROSIO
CEO
OTTANTAVENTI (DANIELE ALESSANDRINI)
Un
rilancio, due mood: il formale alleggerito e il rock rivisitato
A giugno Donato Ambrosio, imprenditore attivo da circa 30 anni nel settore tessile con marchi come Outfit Italy, Over/D, Telacruda e Kejo, ha firmato un accordo quinquennale per acquisire la licenza del brand Daniele Alessandrini, pensando a un uomo contemporaneo tutt’altro che insensibile alle nuove tendenze, anche quando si parla di capi eleganti. «La collezione del brand per la FW25/26, che presentiamo a Pitti Uomo, ha due anime - racconta -. Una che interpreta il formale con un’attitude più quotidiana e dai volumi basic, per rispondere alle esigenze e alla voglia di leggerezza che richiede il nostro tempo, e l’altra più rock. Si tratta di capi dinamici e vagamente eccentrici, per una proposta più fashion che sfocia nella Black Label Collection: qui i volumi si fanno fluidi, morbidi e ampi». Il nuovo corso è iniziato con la SS25, «mettendo a punto la rete vendita e partecipando alle rassegne di settore, in primis Pitti, anche per aprirci all’estero dopo aver rafforzato la presenza sul mercato italiano - prosegue Ambroso -. Investimenti sono stati fatti nel miglioramento delle performance produttive e nella riorganizzazione della parte post vendita e della customer care. Il fatturato? Per il 2025 il marchio Daniele Alessandrini punta ad arrivare a 20 milioni di euro».
GIOVANNI BIANCHI DIRETTORE UFFICIO STILE LUBIAM
«Sartoria e comfort: l’alta qualità è il punto di congiunzione»
Tra le novità di Lubiam per il 2024 spiccano il rinnovamento della showroom direzionale a Mantova e il lancio della collezione donna LBM1911 che, come spiega Giovanni Bianchi, sta dando soddisfazioni in fase di sell-in. Ma ora il focus è su Pitti Uomo, con le proposte FW25/26 delle collezioni dell’azienda, tra cui la capsule Blackout di LBM1911 e l’evoluzione di Luigi Bianchi Sartoria: «Un brand, quest’ultimo, che si proietta verso un futuro sempre più lussuoso, raffinato e moderno, pensando a un uomo che apprezza capi fatti di tradizione sartoriale, innovazione e cura minuziosa dei dettagli, il tutto in chiave contemporanea». In primo piano la versione ammorbidita del cappotto, allungato sotto il ginocchio e con volumi abbondanti, ma cresce anche il ruolo dell’outerwear, declinato in giubbotti corti, overshirt in flanella e misto cashmere, giacconi in lana, carcoat, modelli sportivi con cappuccio, felpe hoodie, smanicati e bomber stile college e aviator. La sartoria, sempre in materiali di qualità molto elevata, si lascia contaminare da una maggiore rilassatezza: «Quello a cui puntiamo è un’immagine riconoscibile e coerente, trasversale dal punto di vista dell’età, anche attraverso la maglieria finissima, la pelletteria e i cappelli in panno di lana/cashmere». Giovanni Bianchi tira le somme del sell-out della FW24, «con performance anche superiori alla media, nella parte export ma non solo». L’azienda vede tra i mercati principali, oltre al nostro Paese, anche Usa, Canada ed Europa, trainata da Dach, Spagna, Portogallo e Benelux: «Siamo presenti in multimarca di alta gamma e department store, per un totale di 1.300 negozi in Italia e 800 all’estero». Il 2025 è ricco di progetti, dalla collaborazione di Luigi Bianchi con un importante marchio francese di champagne, che ha creato un’etichetta dedicata al brand grazie a una partnership con Les Elements, alle iniziative sul digitale che, nel caso di LBM1911, riguardano nel B2C campagne mirate per il sito di e-commerce e nel B2B l’imminente lancio di un nuovo gestionale per la presa ordini. Sempre più forte l’attenzione a territorio, welfare aziendale, formazione, sicurezza sul lavoro e sostenibilità, un tema su cui sono in atto investimenti a tutto campo: «Crediamo moltissimo in questo percorso, che ci porterà a migliorare sempre più».
DANIELE ALESSANDRINI
PMDS
MANZONI 24
LUIGI BIANCHI SARTORIA
L’outerwear iperfunzionale con echi rétro
DAVIDE PIETROLUCCI
DIRETTORE COMMERCIALE TORRAS Dna forte e strategie di rilancio
Parte con Pitti Uomo di gennaio il nuovo corso di Torras, marchio fondato nel 1951 in Spagna con un focus sui capi in pelle, che per la FW25/26 amplia i suoi orizzonti. La nuova collezione sarà presentata nel Salone M del Padiglione Centrale (piano inferiore) della Fortezza da Basso. «In primo piano, oltre a tutta pelle, capi in maglia/pelle e tessuto/ pelle, passando dal 100% cashmere e mix cashmere, fino ad arrivare ai 100% lana ed ai tessuti in nylon/seta e nylon stampato, con interni in castorino, lapin e montone», spiega il direttore marketing Davide Pietrolucci, che insieme alla moglie Marina Calazans ha acquisito nel 2021 la licenza mondiale del marchio, gestendo con lei la showroom milanese di via Donizetti. La combinazione di maglia e pelle è un elemento distintivo di Torras, che grazie a questo abbinamento ha conquistato oltre 200 negozi di lusso, di cui 15 in Italia, e che nel tempo ha arricchito l’offerta, monitorando l’evoluzione di un mercato «che ha visto i capispalla incorporare elementi e dettagli all’insegna della funzionalità, in seguito al boom globale di salute e fitness». Italia a parte, sono Russia, ex Urss e Medio Oriente le aree di riferimento, con Usa, Canada e Regno Unito in crescita. «Gli attuali conflitti hanno impattato sull’andamento del 2024dice Davide Pietrolucci - ma abbiamo ottime sensazioni su un 2025 che, soprattutto se dovessero terminare le guerre, potrebbe anche portarci a un +50%». «Riposizionamento, design e internazionalizzazione sono i tre assi strategici - conclude il manager -. Quindi standard qualitativi più alti, partecipazione alle fiere di settore, nuove showroom tra Milano, Parigi, Barcellona e Usa e potenziamento della rete vendita».
BLAUER
DISTRETTO12
CYCLE
TORRAS
AERONAUTICA MILITARE
C.P. COMPANY
BARACUTA
TEN C
MUSEUM
PEOPLE OF SHIBUYA
PAUL & SHARK
OUTFIT ITALY
TATRAS
UNITY
CANADIAN
MONTECORE
La camicia un passepartout multioccasione
DAVID THÖREWIK CEO DI ETON
«Un
capo evergreen intorno al quale stiamo costruendo un mondo»
Soddisfare le esigenze sia formali che, sempre più, informali è un diktat anche per le camicie, come sottolinea David Thörewik, ceo di Eton, marchio svedese che sulla camicia ha costruito il suo successo. «Funziona un design senza tempo, con il comfort e lo stile sempre al centro», spiega il manager, che annuncia una collezione FW25/26 «più audace e versatile di sempre, un punto di svolta». Questo perché Eton intorno alla camicia sta costruendo, e non da oggi, un mondo, con il lancio di nuove categorie di prodotto all’insegna di stili contemporanei e materiali innovativi Così la camicia casual si modernizza e arricchisce di dettagli, «ma c’è molto altro - dice Thörewik -. Dal mio capo preferito, la Soft Jacket che costituisce una perfetta alternativa al classico blazer, alla maglieria, lanciata con la FW24/25, che assume un ruolo centrale, spaziando dal cardigan in maglia spessa di lana Merino al pull in cashmere». Sempre con l’autunnoinverno in corso è stata introdotta una parte di offerta custom-made. Il ceo della realtà nata nel 1928, a quota 95 milioni di ricavi, non fornisce numeri sui prezzi, limitandosi a definirli «competitivi e in linea con il nostro posizionamento nel lusso accessibile». Preferisce invece parlare di mercati: «Metà del business riguarda il Nord America. Seguono i Paesi nordici, il Regno Unito e l’Europa continentale, dove la crescita è più elevata. Anche l’Asia ci dà soddisfazioni». In Italia il brand è presente in negozi come Camiceria Botteri a Trieste e Annare a Napoli, «ma avendo inaugurato da poco una showroom a Milano (in via Bagutta, ndr), vogliamo crescere nel Paese». Tra gli opening esteri più recenti spiccano i flagship sulla Madison newyorkese e a Stoccolma, con un nuovo concept lanciato per i 95 anni del brand.
GIANNETTO PORTOFINO
ALESSANDRO GHERARDI
FILSON
XACUS
CRUNA
ETON
La maglieria un passo avanti nella ricerca
GIONATA REVERBERI CEO
HADAM’S CREAZIONI (KANGRA) «Tutto parte dalla materia prima: nobile e alleata di nuove vestibilità»
Una storia tutta italiana è quella di Hadam’s Creazioni, azienda nata nel 1967 a Reggio Emilia a opera di Paolo Montermini, che si è specializzata nelle proposte in cashmere e materiali nobili con il suo marchio 100% made in Italy Kangra. «Con la FW25/26 la nostra regola non cambia - spiega il ceo Gionata Reverberi -. In primo piano c’è sempre la ricerca del meglio in fatto di materie prime. I capi si fanno più versatili, dai volumi morbidi e moderni, e abbiamo voluto introdurre una capsule di modelli over, lavorando sulla vestibilità». «La maglieria maschile - aggiunge - segue di pari passo l’evoluzione della moda in generale. La voglia di novità è tanta, ma alla base devono sempre esserci sobrietà e pulizia. Negli ultimi anni, inoltre, è cresciuto il focus sulla sostenibilità e la durevolezza dei modelli». La FW24/25 per Kangra si è conclusa all’insegna della stabilità: «Questo perché abbiamo fatto dell’essere fornitori solidi per i multimarca il nostro marchio di fabbrica. I legami con loro sono storici e continuativi. Tra l’altro, presso i nostri migliori rivenditori abbiamo lanciato una capsule con l’artista Enrico Magnani». Forte il legame con il mercato italiano, da cui proviene il 90% dei ricavi. Ma c’è anche una spinta verso l’estero: «Abbiamo stretto intese sia in Europa che in America». L’azienda conta di crescere del 10% nel 2025, sempre con un focus sul wholesale: «Non abbiamo in previsione opening - conclude il ceo - ma visti gli ottimi andamenti in città come Bologna, Ortisei e Courmayeur restiamo aperti a eventuali opportunità».
KANGRA
BALLANTYNE
LORENZONI
DANIELE FIESOLI
PIACENZA 1733
CRUCIANI
IL TRIBUTO
ALLA MATERIA PER DARE
UNA NUOVA ANIMA ALLA COLLEZIONE
Una palette cromatica ispirata ai colori della terra, un concetto rivisitato di suit maschile e l’introduzione di nuovi tessuti e vestibilità. La collezione per la stagione fredda ha questi tre punti fermi
Lo sviluppo di un total look rappresenta, da qualche stagione, il nuovo impegno di Ten c - The Emperor’s New Clothes, brand del gruppo veneto FGF Industry guidato da Enzo Fusco, conosciuto per i suoi capispalla luxury no logo realizzati con l’iconico tessuto brevettato OJJ (Original Japanese Jersey) e attualmente distribuito in 120 boutique selezionate e store multibrand nel mondo, l’80% dei quali situati oltre confine.
Disegnata da Alessandro Pungetti, la collezione Autunno/ Inverno 25/26 presenta un rinnovato concetto di completo maschile, composto da pantaloni e overshirt abbinati a piumini leggeri mid layer, per un look reso coerente e armonico dall’impiego di tessuti e colori ton sur ton. Il contesto è la celebrazione della bellezza selvaggia e profonda della natura: un viaggio cromatico attraverso gli elementi del cosmo per rendere un tributo alla materia, all’intensità dei colori e alla bellezza delle superfici. Un’armonia perfetta tra forma e funzione, per un guardaroba timeless che mixa, sublimandole, tradizione e innovazione.
New entry è il Gabardine Gommato, riproduzione di un tessuto militare caratterizzato da una spalmatura interna in gomma, che si inserisce in una continua ricerca di materiali in grado di combinare estetica e performance. Conferisce ai capispalla impermeabilità e resistenza e viene impiegato principalmente per rivisitare alcuni dei must have di Ten c, come il Fishtail Short Parka, l’Overcoat, il Surcoat e la Field Work Jacket, che vengono rinnovati, pur mantenendo intatta struttura e caratteristiche distintive.
La palette cromatica dell’intera collezione origina dalle terre naturali, in particolare dalla terra di Siena, sapientemente utilizzata per tingere l’OJJ, tessuto icona del brand. Una
lavorazione artigianale, nel rispetto dei processi tradizionali, che conferisce sfumature dall’ossidato al ruggine a capi unici per tonalità ed esperienza tattile.
Anche il Nylon Suede tinto Dust ritorna in collezione, in una serie di varianti dalle nuance naturali, insieme al Nylon Tactel, raccordo tra il mondo militare classico di Ten c e la funzionalità worker tipica delle divise Ice Rescue dei vigili del fuoco americani.
Lana, flanella e velluto, tessuti storicamente associati al mondo del tailoring, vengono sapientemente adattati al contesto tecnico del brand. Il risultato è una linea di capispalla e imbottiti che, pur conservando la sofisticatezza e la ricchezza dei tessuti tradizionali, sono progettati per offrire comfort e protezione anche nelle condizioni più impegnative.
Alessandro Pungetti direttore creativo Ten C
Enzo Fusco Owner e presidente Fgf Industry/Blauer
Le calzature neoclassiche e ultra-comfort
CEO E DIRETTORE CREATIVO
DOUCAL’S
«Il
gentleman torna alla ribalta. La nuova sede?
Un progetto importante»
«In un’epoca di cambiamenti veloci, il segmento di mercato in cui operiamo, legato alla raffinatezza e al buon gusto dell’italianità, assume un ruolo ancora più significativo»: così Gianni Giannini, ceo e direttore creativo di Doucal’s, azienda che ha il suo quartier generale a Montegranaro, nel cuore del distretto calzaturiero marchigiano. «Il consumatore cui ci rivolgiamo - afferma - vuole sentirsi speciale, mai fuori luogo e noi lo accontentiamo. Nella nuova collezione FW25/26 il focus è sulla leggerezza e la comodità, ma senza fare a meno delle linee eleganti e slanciate che caratterizzano il nostro prodotto». «Abbiamo voluto rievocare un gentiluomo contemporaneo ma non eccentrico - prosegue Gianni Giannini - attraverso materiali come gli scamosciati e gli stampati». Il manager e creative director parla di un 2024 in cui Doucal’s ha sfiorato i 30 milioni di euro di fatturato, «dopo un ottimo 2023». In crescita l’online e la donna. Determinante il ruolo dell’export, al 65% dei ricavi, con un saldo posizionamento in Italia, Centro-Nord Europa, Far East e Middle East. Dopo l’opening di Doha sono in vista altri negozi in franchising nell’area, ma la nuova frontiera del 2025 sarà l’America. Il quartier generale dell’azienda è al centro di quello che Giannini definisce «uno dei progetti più impegnativi degli ultimi anni». Attraverso la riqualificazione di due edifici, già adibiti a calzaturifici e ora dismessi, prenderà vita nel 2025 una nuova sede di 7mila metri quadri «all’altezza dei nostri valori, uno spazio stimolante per tutti i nostri collaboratori».
CULT
SCAROSSO
TOD’S
GREEN GEORGE
DOUCAL’S
SANTONI
GIANNI GIANNINI
Le sneaker meno street, più heritage
KIM WILLIAMS CEO
ENTERPRISE JAPAN VALSPORT
PANTOFOLA D’ORO
«Padel,
calcio, golf: dallo sport, anche vintage, nascono nuovi modelli»
Tutto cambia nel mondo delle sneaker e Pantofola d’Oro non perde tempo: tra i nuovi progetti del marchio italiano c’è, oltre a una capsule di abbigliamento con il marchio P448, il lancio di una linea dedicata allo sport del momento, il padel, mentre è in dirittura d’arrivo il debutto di una gamma ispirata al golf. Anche il calcio è una fonte di ispirazione: del resto, come racconta il ceo Kim Williams, «in un momento in cui si assiste al ritorno a calzature più “rétro”, vedi le Adidas Samba, a prezzi più accessibili, noi ci siamo. Proponiamo infatti la linea Sport, disegnata e prodotta con materiali italiani, nei modelli Bomber e Ascoli derivanti dalle scarpette da calcio degli anni ’70, e la 1886, 100% made in Italy, le cui due versioni, Superstar e Piceno, prendono spunto rispettivamente da una scarpa da calcio del 1959 e da una calzatura indoor del 1969. Qui usiamo materiali pregiati e trattati artigianalmente in Harold, nabuk, vitellino e suede ingrassato in diverse lavorazioni». Competitivi i prezzi medi sell in: 50 euro per la Sport e 90 per la 1886. L’azienda, che vede in Williams e Massimo Ubaldi, soci principali, le sue figure chiave, concentra la produzione in fabbriche a controllo diretto nelle Marche.
La distribuzione è wholesale oriented, «ma stiamo valutando l’apertura di un flagship». I ricavi provengono per il 30% dall’Italia, mentre all’estero sono strategici Benelux, Germania, Corea del Sud e Giappone. In Corea è stato siglato un contratto di licenza di tre anni con JBee SC Co. per crescere in questo mercato, mentre in Giappone Pantofola d’Oro è tra i brand italiani selezionati dalla catena di negozi Beams per il progetto Brilla con il Gusto, dove il marchio presenta i due modelli Top Spin e Top Spin slip on, che uniscono la tradizione artigianale italiana con l’estetica contemporanea giapponese.
LYLE & SCOTT
ELLESSE LSR
D.A.T.E.
STKN BY STOKTON
PANTOFOLA D’ORO
Gli orologi raccontare il dna anche sui social
FRANCESCA GINOCCHIO
GLOBAL MARKETING ADVISOR
MORELLATO GROUP
«Philip Watch e Sector: dietro ogni orologio c’è una storia da scoprire»
La divisione orologeria continua a crescere all’interno di Morellato Group, come sottolinea Francesca Ginocchio, Global Marketing Advisor dell’azienda guidata da Massimo Carraro, a quota 737 milioni di ricavi nel 2023. «Un incremento che si è man mano assestato, dopo percentuali positive a doppia cifra - spiega - frutto di un percorso di upgrade valoriale nel prodotto, nell’immagine e nella comunicazione dei brand». Sul fronte prezzi, il marchio di punta Philip Watch ha un range tra i 700 e i 1.200 euro e una proposta di orologi cronografi automatici che non supera i 2mila euro, «con un posizionamento unico nell’orologeria Swiss Made». Sector oscilla invece tra i 200 e i 400 euro. Una componente chiave è il lavoro di ricerca sugli archivi, reinterpretati in chiave moderna: «Penso a Philip Watch - dice Francesca Ginocchio - che ha inserito nella collezione Museum nuove rivisitazioni del Crono 1940 per l’uomo e del Cioccolatino anni ’50 per la donna. Con Sector i designer si sono immersi nell’immensa “memoria” del mondo No Limits, creato dal marchio negli anni ’80 e ’90, dando vita alla collezione Legend: un tributo agli storici brand ambassador, leggende dello sport estremo». Il Diving Millemetri in titanio «rivisita l’orologio al polso dei freediver dell’indimenticabile Sector Diving Team, aggiornato nei dettagli di stile, nel movimento automatico e nelle caratteristiche tecniche». Nell’era dello storytelling, per Sector - che si rivolge prevalentemente all’uomo negli orologi analogici, mentre gli Smartwatch sono unisex - sono stati realizzati un documentario tv e un podcast, in cui i testimonial del passato si sono raccontati, insieme agli atleti del nuovo Sector Team. Oltre a Philip Watch e a Sector No Limits, la Global Marketing Advisor cita Lucien Rochat, «che è cresciuto molto presso un target attento a stile e qualità». Anche in questo caso si parla di un marchio con una storia importante alle spalle: il laboratorio Rochat aprì ufficialmente i battenti nel 1925 a opera di Emil Rochat, nonno di Lucien, ma già nel 1700 un trisavolo dello stesso Lucien aveva rilevato la bottega dove lavorava alla progettazione dei meccanismi che regolano il movimento degli orologi.
MAURICE LACROIX
SECTOR
LUCIEN ROCHAT
PHILIP WATCH MUSEUM
Diari di viaggio
Suggestioni spazio-temporali multiple dal mondo dei pantaloni maschili, che osano ampiezze e vivaci stampe esotiche, danno al formale tonalità vintage, virano al comfort con flanelle e velluti di cashmere. Il dandy si cala nell’epoca dei viaggi in transatlantico, l’esuberante ha nostalgia dell’Oriente.
Ma c'è anche chi ha in mente le atmosfere delle lande nordiche e chi i paesaggi caraibici. I più dinamici sono habitué dei Golf Club o seguaci della Formula 1. Altri viaggiano nel quotidiano: caffè, ufficio, tempo libero diventano tutta una questione di giusto mix. Tra stile e praticità.
DI ELISABETTA FABBRI
BERWICH disegna macro scacchi sulla sallia di lana leggera, ispirandosi ai Golf e Country Club. Dettagli chiave: cavallo morbido, montante alto, ginocchio e gamba generosi
ROBERTO CAVALLI osa con mix cromatici, stampe ispirate a decorazioni orientali, silhouette morbide e reminiscenze boho-chic
LOUIS VUITTON propone un'eleganza sartoriale "over", muovendosi tra gli anni delle crociere transatlantiche. Destinazioni Miami Beach e i Seventies
CARUSO si ispira ad atmosfere da film anni ’70 tra cui Love Story, per un omaggio alla sartorialità italiana, in materiali pregiati e dalla palette sofisticata
ALBERTO opta per il comfort: gamba morbida e dritta, tasche ampie, vita elasticizzata e soffice flanella, mix di poliestere riciclato, viscosa ed elastan
FERRARI dà un carattere sporty chic al pantalone XL con grafiche check, che immagina perfetto per un viaggio tra le più note tappe della Formula 1
BARMAS VENEZIA modella il velluto di cashmere tinto in capo con coloranti di origine vegetale. I capi sono morbidi e caldi, con la vestibilità dei jeans
SALVATORE FERRAGAMO sceglie vita alta, pince e gamba ampia per uno stile minimalista e rilassato, parte della nuova linea ispirata ai Caraibi e all'Africa
WINDSOR realizza un modello con taglio carrot, nei toni neutri, per un concetto di sartoriale elegante, che riscopre la grandpa’s attitude
PT TORINO si rifà a un mood nordico, puntando su raffinatezza sartoriale e comfort e introducendo la vestibilità "city", fra tonalità naturali e contrasti
Il futuro è workwear e arriva dal passato
Nasce un nuovo marchio in casa Roy Roger’s, ispirato all'abbigliamento da lavoro, da sempre parte dell'archivio. «Sarà un brand a sé, con una sua strategia distributiva e un diverso posizionamento», anticipa Niccolò Biondi, raccontando il progetto Workwear al debutto a Parigi e che affiancherà la main line, presente a Pitti Uomo con la capsule collection Made in Japan
Roy Roger's Workwear è una collezione che appartiene all'archivio più longevo del brand, che produceva abiti da lavoro
Hype senza hype
Dopo il boom di Off-White e Palm Angels, lo streetwear è in difficoltà. Ma ci sono delle eccezioni, come il marchio berlinese Prohibited. I fondatori Philip Krause e Patrick Reimann sono in forte crescita, perché infrangono le regole del settore. La loro ricetta: un'estetica fra street e old money a un prezzo giusto
Si potrebbe pensare che nell'era del lusso tranquillo il clamore che circonda lo streetwear sia finito. Ma a uno sguardo più attento ci si rende conto che non è così. Ci sono infatti marchi che sono ancora molto richiesti, come Prohibited di Berlino.
Nel negozio American Dream di Montemurlo, vicino a Prato, che vende marchi come Carhartt, Lacoste e Dickies, le Tshirt e le felpe con cappuccio di Prohibited sono tra le più vendute. «Abbiamo iniziato con un piccolo ordine e da allora abbiamo riordinato più volte - dice Stefano Cataldo, buyer di American Dream -. Molte persone indossano Prohibited nei club di questa zona».
Stefano ha scoperto l'etichetta alla fiera Seek di Berlino. Gli sono piaciuti il nome, stampato a grandi lettere sulle magliette, il cotone di alta qualità e la vestibilità, ovvero top squadrati e pantaloni larghi. Ha anche dato un'occhiata alla presenza dell'azienda sui social media: «L'ho trovata molto creativa». Tornato a Prato, ha convinto i proprietari di American Dream a fare un tentativo con Prohibited. Che ha funzionato. Prohibited sta crescendo rapidamente. Nel 2024 il marchio, che espone a Pitti Uomo, ha aumentato il suo fatturato di 2,5 volte, rendendolo plurimilionario, come dicono i due fondatori Philip Krause e Patrick Reimann. L'obiettivo è il raddoppio entro il 2025. Il segreto del successo di Prohibited? Philip e Patrick, che hanno iniziato la loro attività nel 2021, fanno tutto in modo diverso rispetto ad altri marchi di streetwear: «Nuotiamo controcorrente», affermano.
Nella loro ricerca di un'idea imprenditoriale, hanno scoperto il mondo dei marchi degli influencer: «All'epoca era una tendenza relativamente nuova. Abbiamo pensato: gli influencer portano i clienti, noi ci occupiamo del resto». È nata così l'idea di Prohibited. Il nome deriva dalla parola inglese che significa “proibito”. «Creiamo prodotti che sono così buoni, che dovrebbero essere proibiti, a un prezzo che a sua volta dovrebbe essereproibito», ironizzanoPhilip e Patrick. Hanno iniziato a vendere tee basiche e felpe con cappuccio su Amazon e utilizzano TikTok come canale di marketing. Patrick si sedeva ogni giorno davanti alla telecamera e incoraggiava gli utenti di TikTok con frasi del tipo: «Scommetto che ti stai chiedendo com'è
dere in stock, ma lavora in pre-ordine. Se inizialmente Philip e Patrick si rivolgevano a un gruppo target di giovani tra i 18 e i 25 anni, ora Prohibited è popolare anche tra i 25-35enni. E se in principio gli uomini erano i principali fan, ora circa il 40% dei clienti sono donne.
«Siamo ragazzi provenienti da famiglie normali.
Fin dall'inizio abbiamo voluto solo fare della buona moda»
Ciò significa un'estetica silenziosa piuttosto che chiassosa, un giusto rapporto qualità-prezzo piuttosto che prezzi elevati dovuti alla scarsità artificiale e un approccio alla vendita che non si basa solo su Internet, ma anche sui rivenditori di moda tradizionali.
I due fondatori si sono conosciuti mentre studiavano economia aziendale ad Amburgo. Inizialmente non avevano nulla a che fare con la moda. Philip gestiva le stazioni di servizio della compagnia petrolifera Shell nello stato tedesco della Renania Settentrionale-Vestfalia, mentre Patrick lavorava alla Deutsche Bank e in un'agenzia di marketing.
Philip Krause e Patrick Reimann
fatta la felpa con cappuccio perfetta?». Oggi i due giovani imprenditori impiegano più di 20 persone e hanno un ufficio in Alexanderplatz a Berlino. Fanno tutto da soli, dal design al magazzino, fino alla distribuzione. Nel frattempo, Prohibited si è trasformato da marchio di influencer a marchio di moda, che presenta diverse collezioni l'anno e non si limita a ven-
Ciò è dovuto alle scelte fatte dal marchio. Invece di darsi un'aura da duri, come fanno molti marchi di streetwear, e di proporre una narrazione “dal ghetto allo skyline”, le creazioni di Philip e Patrick si distinguono per uno stile da “yuppie moderno”, che affina i look streetwear con codici “old money” e ricorda un po' Aimé Leon Dore. «Siamo ragazzi, provenienti da famiglie normali - affermano -. Fin dagli esordi abbiamo voluto solo fare della buona moda». Il duo abbina tee dalla silhouette squadrata a pantaloni casual. Offre polo e camicie e dà ai look un tocco rétro, ad esempio facendo riferimento a vecchie maglie da calcio. «Dimostriamo che si può essere cool con lo stile giusto», ribadiscono i due imprenditori, che prestano attenzione a un giusto rapporto qualità-prezzo. Le magliette costano tra i 35 e i 45 euro, le felpe con cappuccio tra i 60 e gli 80 euro. L'offerta non è volutamente scarsa, come fanno alcuni marchi. «Ci infastidisce la pseudo-esclusività - precisano - dove tutto deve essere sempre esaurito nel giro di poche ore. Ci è stato subito chiaro che non volevamo avere nulla a che fare con questo. Quello che invece abbiamo sempre voluto è stare dove si trova il cliente. Un discorso che vale anche per i prezzi. All'inizio avevamo pochissimo margine».
Prohibited è venduto nel proprio e-store, ma sempre più spesso anche attraverso i 200 negozi di moda che lo commercializzano. Tra i partner figurano piattaforme online come Zalando, About You e Asos, e punti vendita fisici come Leffers a Oldenburg, in Germania.
Il prossimo passo? Reclutare un ambassador di spicco per una campagna. «Siamo in contatto con molti influencer. Se potessimo esprimere un desiderio, il pilota della Ferrari Charles Leclerc a Monte Carlo sarebbe il nostro sogno». ■
TOM KIESEWETTER
Si tratta di fatto di una linea che esiste dal 1952, ma il cui debutto ufficiale sul mercato è previsto a gennaio 2025, quando, in occasione della fiera Welcome Edition di Parigi, sarà svelata la prima collezione Roy Roger’s Workwear Un’offerta di capi da lavoro, ottenuta senza cercare di proporre qualcosa che non esistesse già nell’archivio di Roy Roger's. Il brand è universalmente noto per essere il produttore del primo blue jeans italiano, ma fin dagli esordi ha potuto contare su una base di clienti fatta di veri e propri lavoratori, che acquistavano capi come i pantaloni da carpentiere con tasche porta attrezzi e le giacche in canvas nei negozi specializzati.«Per noi quella del workwear è una storia che da sempre cammina di pari passo con il denim», esordisce il ceo Niccolò Biondi annunciando il nuovo lancio, che lo ha visto lavorare fianco a fianco con il fratello Guido nel ruolo di direttore creativo. «Più che un nuovo progetto - prosegue - si tratta di un brand completamente nuovo, anche se mantiene il nome Roy Roger’s. La prima collezione, che coincide con la stagione FW25/26, prevede una sessantina di capi. Non ci sarà denim e i tessuti saranno resistenti, privi di materiali elasticizzati. Della gamma fanno parte giubbotti in canvas, camicie Oxford, pantaloni in velluto a coste larghe, maglie in Shetland e felpe in cotone grezzo, proprio come quelle americane. Sono tutti articoli senza tempo, contenuti nei nostri archivi; quindi non c’è stato bisogno di renderli ‘nuovi’, ma solo di attualizzarli con un pizzico di hype». Anche il logo, che sarà ad hoc per la linea, proviene dall’heritage dell’azienda: verrà infatti riutilizzata un’etichetta già in uso negli anni Sessanta e riadattata per l’occasione, che raffigura la silhouette di un worker che cammina con il claim “Industria abiti da lavoro”. «Non ci sarà il classico triangolino nero dei capi Roy Roger’s, perché questa tipologia di prodotto è sempre stata separata dal jeans cinque tasche», spiega Biondi. Perché proprio ora l’azienda, basata a Firenze, abbia deciso di avviare l’iniziativa non è difficile da immaginare: nel fashion system il workwear è tra i trend del momento per le sue caratteristiche di durabilità e comfort, con un numero crescente di persone alla ricerca di marchi che offrono abbigliamento funzionale, come Carhartt, Dickies e Patagonia. «Nel nostro caso - sottolinea Biondi - il valore aggiunto della linea dipende dall’autenticità e non dalle mode del momento. Nostro nonno si è sempre fatto ispirare dal workwear: tornava in Italia dagli Stati Uniti con un ampio catalogo, da cui i la-
voratori potevano scegliere i capi adatti alle loro esigenze. Questo approccio è cresciuto in modo naturale e oggi lo riproponiamo con coerenza».
A livello commerciale Roy Roger’s Workwear sarà gestito in maniera indipendente rispetto al brand principale, con una rete vendita distinta. «Abbiamo già selezionato tre agenti per l’Italia e due a livello europeo», in base a una strategia che evita sovrapposizioni tra i due marchi. Per esempio, Roy Roger’s continuerà a essere presente a Pitti Uomo, in sintonia con la sua tradizione, mentre la linea workwear verrà presentata a fine gennaio a Welcome Edition di Parigi, «una fiera, già sperimentata on l’altro nostro brand President, che abbiamo trovato affine al progetto, orientata alla vendita e con molte aziende heritage tra gli espositori». Anche il posizionamento di prezzo del-
«Il nostro marchio nasce come servizio, indipendentemente dal materiale utilizzato. Il denim ha segnato nostra storia per questo e continuiamo a innovare»
Niccolò Biondi
le due collezioni non sarà lo stesso, con i capi della Workwear più economici rispetto a quelli della Roy Roger’s classica, che manterrà un focus sul denim e il total look. Gli obiettivi di vendita sono ambiziosi, «in linea con il progetto che abbiamo creato e che è tutt’altro che improvvisato o dettato dalle tendenze del momento», chiosa Biondi.
In effetti, l’azienda già da tempo sta lavorando per valorizzare la sua matrice workwear, «che è già stata testata con successo negli Stati Uniti», fa notare Biondi, riferendosi alla capsule collection realizzata con il negozio specializzato Dave’s New York, giunta già alla quarta stagione. «Una collaborazione che porteremo avanti - conferma l’imprenditore - all’interno della nostra linea Workwear, anche perché ha dato ottimi riscontri sul mercato Usa, che resta quello di riferimento, visto che siamo già presenti in department store come Bloomingdale’s, Saks, Nordstrom e Holt Renfrew. Questo è un segnale che dà credibilità al progetto, specie in vista delle prime due stagioni che saranno determinanti, e che ci dà fiducia per il futuro». Un futuro che per la Manifatture 7 Bell, titolare del marchio Roy Roger’s, non sembra condizionato più di tanto dal rallentamento vistoso dell’industria della moda in generale. L’azienda fiorentina ha chiuso il 2024 intorno ai 30 milioni di euro, in linea con il 2023. «Si tratta di un dato positivo - commenta Biondi - anche perché realizzato dopo le crescite a doppia cifra del 2022 e del 2023. La prospettiva per il 2025 è di tornare a crescere». «I segnali sono molto buoni - aggiunge -: nei negozi le collezioni FW24/25 e i sell-out pre saldi sono stati ottimi ed è questo l’indicatore che più attendevamo del mercato». Un risultato frutto di una crescita reale di tutta la collezione Roy Roger’s, caratterizzata da un’offerta sempre più ampia, con i cinque tasche che restano i best seller, la maglieria che conquista quote di mercato e soprattutto con la donna, che rappresenta una leva determinante per la crescita dell'azienda. Crescita che, con la FW25/26, arriverà anche grazie a Made in Japan, il progetto che Roy Roger’s presenta all’edizione 106 di Pitti Uomo. L’obiettivo della nuova capsule collection, composta da tre pezzi (giubbotto e pantaloni in jeans cimosati e felpa 100% cotone), è catturare i clienti di fascia più alta con capi frutto della tradizione nipponica nel taglio, nel tessuto e nel lavaggio. Anche l’etichetta e la salpa conterranno riferimenti al Giappone. «Il denim giapponese è diverso da quello americano o europeo, pensato per la produzione di massa: è prodotto ancora quasi artigianalmente e su piccola scala - conclude Biondi -. Per questa iniziativa abbiamo coinvolto alcune delle aziende più storiche del Paese, per celebrare un’eccellenza del denim. Ci piace questo tipo di progetti: da sempre puntiamo a rendere il jeans nobile, al pari di altri tessuti». ■
ANDREA BIGOZZI
Roy Roger’s Made in Japan è la capsule collection di tre pezzi realizzati in Giappone
BRAND to WATCH
A CURA DI ANGELA TOVAZZI
Founder Salma Rachid
Distribuzione
Diretta retori.com
RETORI
Parte con la SS25 il Chapter 01 di Retori, luxury brand nato sotto l'egida di Alsara Investment Group. Fondatrice e creative director è Salma Rachid, figlia di Rachid Mohamed Rachid (artefice di Alsara), che ha scommesso su un progetto seasonless con abbigliamento e accessori uomo e donna, ideato e prodotto in Italia e con base a Milano. Le collezioni - con un focus sull'eccellenza della maglieria - vanno al pubblico con prezzi compresi tra gli 800 e i 1.200 euro per il knitwear, e tra i 1.500 e i 2.500 euro per i capi in tessuto. Top level la distribuzione: la linea di esordio, oltre che sul proprio e-shop, sarà venduta da retailer come Harrods a Londra, Takashimaya a Tokyo, Beymen in Turchia, Al Duca D'Aosta a Venezia e Padova.
Founder Monia Filippetti
Distribuzione
Diretta monosmoda.it
MONOS
È stata una mostra di Picasso la scintilla capace di far scoccare in Monia Filippetti - designer umbra con la passione per la pittura - l'idea di Monos, linea di foulard che sulla seta sperimenta forme e colori intensi e vibranti, creando storie ed emozioni. Nato durante il Covid, il marchio scommette sulla filosofia della "cromefashion", termine coniato dalla stessa stilista, per creazioni che vogliono essere uniche, oltre le tendenze, come tele da collezionare. I foulard sono venduti attualmente sull'e-shop del brand con prezzi compresi fra 170 e 190 euro, ma nei piani di Monia potrebbero sbarcare in futuro anche offline in un monomarca, magari a Milano.
Founder Giulia Mastini
Distribuzione
Agenti e showroom d-elle.it
D'L GIULIA MASTINI
Nato a Bologna nel 2018, ma partito con una chiara mission subito dopo la pandemia, il marchio di womenswear di Giulia Mastini si fonda su pochi ma ben delineati capisaldi: offrire una gamma di prodotti confortevoli, intercambiabili, in grado di adattarsi a ogni occasione, con il denim che nella SS25 fa la parte del leone. Con un approccio semi-programmato, il marchio combina collezioni stagionali con lanci periodici di capsule, senza venire meno al proprio obiettivo di «garantire la qualità di capi realizzati totalmente in Italia». Attualmente il brand è venduto in circa 300 multimarca italiani a un prezzo medio appealing, compreso fra i 100 e i 120 euro. Lavori in corso per l'e-commerce, in fase di restyling, mentre continua l'espansione wholesale all'estero, con un focus sull'Europa occidentale.
Founder Seyma Borgato
Distribuzione Lomme showroom seliarichwood.com
SELIA RICHWOOD
La fondatrice, nonché designer, si chiama Seyma Borgato e il suo brand, battezzato Selia Richwood, dal 2019 si muove sul crinale fra tradizione artigianale e sperimentazione, portata avanti grazie a tessuti provenienti da Italia, Francia e Giappone. Ready-to-wear e lingerie si intrecciano e amalgamano, per una collezione che intende portare «un tocco straordinario nella quotidianità». Con base a Milano, il marchio si appoggia alla showroom Lomme, mentre a Parigi il partner distributivo cambia ogni stagione. Attivo con il proprio e-commerce, Selia Richwood è distribuito anche in un network di negozi, tra cui la piattaforma omnicale del lusso Modes e la boutique Eleonora Bonucci di Viterbo. Il prezzo medio retail si aggira intorno ai 200 euro.
Founder Matteo Margini e Giuseppe Galasso
Distribuzione
Diretta e con agenti axeptofficial.com
AXEPT
Marchio fondato da Matteo Margini e Giuseppe Galasso, rispettivamente managing director e brand director, Axept è nato partendo da un'idea di inclusività e accettazione, con l'obiettivo di esplicarla in un prodotto capace di generare un impatto sociale positivo. Come? Attraverso la celebrazione delle differenze e l'abbattimento degli stereotipi, sia nell'estetica delle sneaker, che sono mismatch (destra e sinistra sono diverse, anche per far posto alla personalizzazione), sia nell'adesione a cause socialmente rilevanti, visto che parte dei ricavi saranno devoluti a progetti ed enti charity. Con una showroom a Milano, la collezione è disponibile sull'eshop del brand con prezzi fra 165 euro (in pre-order) a 195 euro e sta iniziando un percorso wholesale in Europa e negli Usa.
Founder Francesco Mangini
Distribuzione
Agenti e portale Ama amadiamond.com
AMA
Oro riciclato e diamanti cresciuti in laboratorio sono gli ingredienti del marchio di preziosi Ama, fondato nel 2023 a Valenza, uno dei distretti italiani dell'arte orafa, dal gruppo Gioielleria Italiana. «Eccellenza e sostenibilità possono convivere senza compromessi», spiega il founder e ceo Francesco Mangini, che parla di gioielli capaci di raccontare una nuova storia: quella di «un lusso consapevole». A Milano il brand offre anche un'esperienza esclusiva presso Casa Ama (Alzaia Naviglio Pavese 60A), una boutique del gioiello con soluzioni altamente personalizzabili. Il marchio è oggi distribuito, oltre che sul proprio e-store, in un centinaio di gioiellerie sul territorio italiano, con un prezzo medio sell out di circa 1.800 euro.
TOUCHABLE PANTS
Founder Antonia, Margherita e Perla Alessandri
Distribuzione Massimo Bonini 3juin.com
3 JUIN
Il 3 è un numero karmico per questo brand di calzature, nato il 3 giugno del 2020 su iniziativa di tre sorelle: Antonia, Perla e Margherita Alessandri. Nonostante il brand sia italiano, con base a San Mauro Pascoli (Fc) presso l'azienda di famiglia (la Greymer), nello stile richiama «la delicatezza e lo charme francesi», con tacchi scultura, punte affusolate e piume come decorazioni. Distribuite dalla showroom milanese Massimo Bonini, sono vendute in top shop internazionali, tra cui Antonia, Eraldo e Deliberti, con prezzi sell out fra i 300 e i 550 euro.
PAOLA VENTURI
Con importanti esperienze alle spalle - da Sergio Rossi a Via Spiga, da Kate Spade a Prada - Paola Venturi ha lanciato il suo marchio nel 2021, nel segno della «moda come decoro dell'anima». Le sue creazioni ruotano intorno al concetto della kalokagathìa, sintesi perfetta di bellezza interiore ed esteriore, oltre le mode e le tendenze, pensate per donne e uomini consapevoli, dal gusto deciso. Con prezzi medi che vanno dai 240 euro per i sandali, 290 per le scarpe e 390 per gli stivaletti, la collezione è venduta sull'e-shop del brand e in multimarca come Atelier Rili a Bolzano e Wiky Concept a Basilea.
Founder Paola Venturi
Distribuzione Diretta paolaventurishoes.com
CÀPE CONCEPT
In dirittura d'arrivo per diventare società Benefit, Càpe Concept è nato nel 2019 su iniziativa di Nicoletta Baldo, che aveva un sogno: unire la passsione per il design con l'attenzione per l'ambiente. Per la produzione sono utilizzate esclusivamente fibre rigenerate ed organiche, per evitare l'introduzione di nuovi materiali nella filiera industriale, e una filosofia "made to order". Un approccio che ha convinto finora una settantina di multimarca, tra cui Mix a Mantova e Sugar ad Arezzo. In Italia il marchio si appoggia a showroom come Spazio Liberty, Buratti e Le Formiche. Il prezzo medio della collezione FW 24-25 è di 290 euro.
Founder Nicoletta Baldo
Distribuzione Spazio Liberty, Buratti e Le Formiche capeconcept.it
QUELLO SPIRITO DI FRONTIERA CHE SPINGE VERSO IL DENIM COUTURE
A Denim Première Vision Milano, una collezione di capi finiti in denim realizzati per collocare la tela indigo tra i tessuti di pregio e far toccare con mano le sue possibilità espressive in ottica sartoriale
Lusso, innovazione, durabilità tracciano il paradigma di un approccio sartoriale al denim che eleva l’iconica tela del cinque tasche a tessuto nobile, per la creazione di capi con tagli e costruzioni couture dall’allure sofisticata e contemporanea, degni di convivere con le proposte glam delle stagioni del prêt-à-porter. Di questo racconta “New Horizon”, la seconda collezione che Pioneer Denim – azienda emergente, parte di un gruppo con quasi cinquant’anni di storia alle spalle – lancia a Denim Première Vision. Una vera e propria collezione di capi finiti, questa volta, sviluppata da un pool di designer e tecnologi tessili di Pioneer per mostrare inedite possibilità espressive della tela indigo. L’ispirazione schiaccia l’occhio all’estetica del West americano dei cercatori d’oro di fine Ottocento, esploratori proiettati verso nuovi orizzonti, e alla loro eleganza rilassata e ricercata allo stesso tempo, riformulata
Christian Reca Collection Designer & Chief of Marketing & Merchandising di Pioneer Denim
in senso contemporaneo senza che ne venga alterato lo spirito. Il chiaro proposito dell’azienda è quello di promuovere per il mondo internazionale del fashion una nuova cultura del denim slegata dal jeans e interprete di una creatività stilistica più ampia, che può estendersi su qualunque capo del guardaroba femminile e maschile, in sintonia con il dna proprio di ciascun brand. «Negli ultimi quindici anni - commenta Christian Reca, Collection Designer & Chief of Marketing & Merchandising di Pioneer Denim - il tessuto denim non è stato valorizzato in tutto il suo potenziale da parte delle firme della moda, che lo hanno impiegato quasi esclusivamente per proporre diversi modelli di cinque tasche, declinati nei vari lavaggi. Il denim è invece un tessuto trasformista dalle tante possibilità stilistiche, a cui può essere attribuito un nuovo senso estetico, capace di sedurre il consumatore finale attraverso un linguaggio inedito».
Ma cominciamo dall’inizio. All’inizio c’è la visione pionieristica di un’azienda che crede fermamente nello stile e nella cura del dettaglio e che, come i colonizzatori delle lontane regioni dell’Ovest, vuole aprire una via ad altri, esplorando una terra di frontiera tutta da costruire: il denim si trasforma e da robusto tessuto di cotone per confezionare cinque tasche diviene prezioso tessuto da atelier. Pioneer Denim ha combinato le ricchezze del territorio e le antiche tecniche di tessitura con tecnologie di ultima generazione per creare una proposta innovativa, dedicata al segmento medio-alto, dove il 100% cotone lascia il passo a blend come quelli a base di lana, lino e seta. «Con le proposte moda della linea New Horizon - prosegue Reca - desideriamo condividere le nostre competenze in termini di management, sartorialità e confezione con i nostri marchi clienti, assecondandone le diverse personalità». Sull’importante palcoscenico di Denim PV Milano, saliranno capi confezionati, lavati, finiti che Pioneer ha potuto creare da zero grazie a una squadra di modellisti esperti e altri specialisti che hanno seguito la costruzione
della collezione passo dopo passo. «A chi desidera stringere una partnership con noi - conclude Reca - oltre a tessuti denim di pregio, offriamo una qualità di servizio curata dal cartamodello al capo finito. I nostri clienti possono scegliere dal filato al tessuto di strutture differenti: dal cross edge agli slubs, dall’open-end al broken twill o all’effetto bottoming. Il nostro obiettivo è dare un supporto concreto, anche in termini di consulenza su lavaggi e sovratinti in filo». Recentissimo è l’annuncio di due nuove collab, strette con Soko e con Kentroy Yearwood. Pioneer x Soko nasce dagli iconici tessuti washed di Pioneer per dar vita a una collezione di capi lavorati al laser, con un leggero aspetto vintage reso da diversi colori e intensità. La linea Pioneer x Kentroy Yearwood, invece, plasma le proposte signature di Pioneer in nuove forme, costruzioni e finiture per spingere il denim verso ulteriori livelli di avanguardia. D’altra parte, la frontiera è una linea di confine che può essere spostata in senso progressivo, una prossimità con spazi inesplorati che possono spingere i nuovi pionieri della moda verso il futuro dello stile. ■
CAMERA SHOWROOM MILANO
CSM è un’associazione autonoma, libera ed indipendente.
CSM è dedicata a tutti gli showroom multibrand di Milano più rappresentativi del fashion e con una forte vocazione internazionale.
CSM ha tra i suoi obiettivi fondamentali l’esigenza, resa ancor più forte dalla recente situazione congiunturale, di fare squadra.
CSM ha concretizzato, grazie alla collaborazione con Confartigianato Moda, importanti attività durante le Fashion Week di Milano:
ARTISANAL EVOLUTION + CSM MEETS SUSTAINABILITY
CAMERA SHOWROOM MILANO ringrazia
1ST FLOOR
999 SHOWROOM
ARETE’ SHOWROOM
ASESTANTE SHOWROOM
BOIOCCHI SHOWROOM
BRERAMODE
CASILE & CASILE
CONTINUO
DANIELE GHISELLI SHOWROOM
DMVB SHOWROOM
ELISA GAITO SHOWROOM
FATTORE K MILANO
GARAGE MARINA GUIDI
K-LAB
MANNERS
MANUEL MENCARELLI SWOWROOM
MODERN SWOWROOM
PANORAMA MODA
PERCORSI OBBLIGATI
PROGETTO MILANO
RENZO VESENTINI MILANO
S5 SHOWROOM
SD SHOWROOM
SHOWROOM A. FICCARELLI
SHOWROOM DUNE
SHOWROOM JE T’AIME
SHOWROOM PAPAVERI
SPAZIO 38
SPAZIO COLTRI
SPAZIO LIBERTY
STUDIO 360 SHOWROOM
STUDIO POGGIO
STUDIO TATO SOSSAI
STUDIO ZETA
STYLE COUNCIL SHOWROOM
THE PLACE SHOWROOM
ZAPPIERI
Thank you all!
LITTLE ITALY VS I GIGANTI: SI ACCENDE LA SFIDA DEI MARKETPLACE
DI ANDREA BIGOZZI
la percentuale in Europa delle vendite fashion online che passa dai marketplace. L’Italia registra il maggior numero di vendite tramite questo canale
Farfetch non è più il colosso imbattibile che monopolizzava il mercato dei multimarca di lusso. Ora che i grandi nomi del lusso non lo sostengono più (dal primo gennaio nessun marchio del gruppo Kering potrà essere venduto sulla piattaforma), nel 2025 si apre una nuova partita per i marketplace focalizzati sui distributori multmarca. Un settore che, nel corso del 2024, è stato spesso descritto come depresso, ma che conserva un suo ruolo nell’ecosistema della moda. Numeri alla mano, il canale resta forte: in Europa il 29% delle vendite di moda online passa dai marketplace e l’Italia registra il maggior numero di vendite tramite questo canale. Il mercato continua a essere dominato dai grandi player (sia generalisti che specializzati), ma la partita sembra aperta anche ai player locali. Nel panorama delle piattaforme basate in Italia ci sono nomi storici come Giglio.com (prossimo a festeggiare i 30 anni di attività online), real-
tà con un forte know-how come Thebs. com (frutto di un club deal tra 40 buyer multimarca italiani) e outsider finora sfuggiti ai radar come Wanan, nata sulla scia del boom del buy now pay later e cresciuta inseguendo il modello di successo lanciato da player stranieri come Cettire. Tre storie diverse che raccontiamo nelle prossime pagine, ma per tutte il 2025 sarà un anno di svolta, per pianificare il grande salto e
Piattaforme made in Italy
Fonte: databoutique.com, dati riferiti a novembre 2024
raggiungere una nuova dimensione. In che modo? Dando priorità agli ordini più redditizi (che per Giglio.com sono cresciuti del 7%, Thebs.com è salito a una media di 327 euro per ordine) e ampliando le operazioni business-to-business alla ricerca di margini più elevati. Questo approccio include l’offerta di servizi tecnologici e logistici, primo fra tutti la condivisione del magazzino, che offre la possibilità ai partner multimarca - ma anche ai brand in e-concession - di non perdere mai le vendite. Tra le mosse per supportare la crescita dei marketplace c’è ovviamente l’intelligenza artificiale, usata sia in ambito B2C che B2B, area questa in cui Wanan si dichiara all’avanguardia e per la quale Giglio.com valuta acquisizioni. È su queste basi che le piattaforme italiane puntano a superare la sindrome della “little Italy”, ovvero di un’Italia troppo piccola, per guardare negli occhi i giganti internazionali e affrontarli a testa alta. ■
Giglio.com Con un magazzino condiviso si può fare la rivoluzione
La regola d’oro del marketplace è andare oltre il core business e investire sui servizi B2B, tra cui il nuovo modello che consente a rivenditori e brand attivi sulla piattaforma di condividere gli stock anche sul canale fisico. Nel piano strategico c’è anche l’AI, potenziata per supportare più i partner che il consumatore finale
Prevedere il futuro è sempre il più grande desiderio dei buyer: conoscere in anticipo le richieste dei clienti per calibrare di conseguenza l’assortimento in negozio e non restare mai out of stock. «Oggi si può», annuncia Federico Giglio, «almeno per chi fa parte della nostra piattaforma». L’imprenditore palermitano, che insieme al fratello Giuseppe ricopre il ruolo di co-ceo di giglio.com, racconta la nascita del magazzino connesso come una svolta epocale. «Non è proprio la sfera di cristallo, ma ci siamo andati vicino - conferma -. Si tratta di un game changer, perché permette ai negozianti di non dover più dire ai clienti “l’ho finito” o “non l’ho ordinato” a proposito di un prodotto». Grazie a questa innovazione, da poco sul mercato, ogni richiesta può essere soddisfatta, anche se il retailer non dispone della merce: gli articoli vengono recuperati dall’assortimento di un altro rivenditore presente sulla piattaforma, senza che il consumatore percepisca la triangolazione. «Dovrà solo attendere un paio di giorni ed entrerà in possesso dell’acquisto», aggiunge l’imprenditore. Tutto avviene tramite l’app ufficiale “community shopping” di giglio.com, utilizzata dai circa 200 partner tra multimarca e brand. Con questa app unbranded i negozianti mostrano al cliente la merce assente in store, selezionando colori e taglie; il pagamento avviene invece alla consegna. «Per i partner il fatto che non emerga il nome giglio.com è una garanzia - sottolinea Giuseppe Giglio -. Non vogliamo sottrarre clienti ai rivenditori associati, ma permettere loro di non perderne neanche uno. Il nostro obiettivo è il servizio». Ed è qui che entra in gioco un fenomeno recente del mercato dei
Gmv: crescita media del 40% nel periodo 2015-2023
+216%
Ricavi vs. 2019 pre-covid
+275%
Margine lordo vs. 2019 pre-covid
+9 pp
Percentuali delle vendite all’estero vs. 2019
+460 dps
Margine lordo % vs. 2019 pre-covid
Fonte: giglio.com
Oltre 200 partner tra rivenditori e brand
Fonte: giglio.com
marketpalce: la volontà dei pure player di andare oltre il core business della vendita online, fornendo più servizi B2B. Un trend che giglio.com segue fornendo ai partner servizi per scalare il proprio business non solo a livello e-commerce. «La competizione, sia online che offline, si basa sull’assortimento - spiegano i fratelli Giglio -. I multimarca tradizionali non hanno mai potuto competere coi marketplace su questo fronte. Ora le cose cambiano: apriamo ai partner le porte del nostro magazzino, che diventa il loro». Anche l’espansione della community è una priorità del marketplace. E persino su questo fronte, il magazzino condiviso sarà strategico, specie per quanto riguarda l’acquisizione di brand come clienti. «Abbiamo quasi una ventina di aziende produttrici legate alla piattaforma con un accordo di e-concession - fa il punto il managing director Vincenzo Troia - ma con il lancio del progetto puntiamo a raddoppiare o triplicare rapidamente il numero». Per le aziende il potenziale del magazzino condiviso è notevole. «Consente loro di rifornire direttamente la propria rete wholesale, anche con singoli articoli - aggiunge Troia -. Ad oggi, molti marchi offrono questo servizio solo nei negozi diretti, mentre con giglio.com sarà possibile rifornire rivenditori in tutta Europa, anche su singole schede prodotto. Quindi, per un’azienda essere su giglio.com non significa solo vendere alla consumer base del marketplace, ma a tutta la propria rete multimarca». La strategia a lungo ternine punta dunque a offrire una gamma sempre maggiore di servizi B2B, spaziando dalla logistica al marketing, fino all’innovazione tecnologica. Questa diversificazione rende difficile dare una
definizione univoca alla società: venditore online e offline, hub, advisor. «Il 12 dicembre 2026 festeggeremo 30 anni dal primo ordine - ricorda Giuseppe -. Siamo stati tra i primi a portare online i multimarca del lusso. Oggi continuiamo a innovare, supportando i partner con nuove attività. Siamo generatori di cambiamento».Guardando avanti, tra le innovazioni da affrontare c’è l’intelligenza artificiale, che aiuterà a gestire molte delle complessità del settore: «Abbiamo avviato collaborazioni con Google e i primi risultati arriveranno nel 2025 - racconta Troia -. Questi svilup1
«Non è la sfera di cristallo, ma quasi. Il nostro magazzino diventa anche quello dei partner, evitando di perdere un solo cliente»
Giuseppe e Federico Giglio
pi saranno principalmente “dietro le quinte” e non visibili al consumatore finale, ma miglioreranno le operazioni interne». L’AI, ad esempio, sarà utilizzata per generare descrizioni automatiche dei prodotti e per rendere più efficiente la gestione del magazzino. «Oggi - dice il manager - identifichiamo manualmente dettagli come maniche lunghe o corte, ma stiamo addestrando una piattaforma capace di apprendere caratteristiche come queste in 48 ore e creare descrizioni automatizzate». Un al-
presenti su Giglio.com
La piattaforma è prossima a festeggiare i 30 anni di attività: il primo ordine online risale al 1996
tro progetto riguarda l’armonizzazione del catalogo: «L’AI - prosegue - ci permetterà di riconoscere prodotti identici forniti da partner diversi, unificando le informazioni e semplificando la gestione dell’inventario». Se i fratelli Giglio dimostrano interesse verso tutto ciò che è innovazione («Fa parte del dna»), si sentono meno coinvolti da un altro tema caldo: la competizione con piattaforme come Temu e Shein. «Un aumento generalizzato dei prezzi ha spinto alcuni consumatori verso il fast fashion, ma il cliente di giglio. com è diverso - chiarisce Troia -. Stiamo vivendo una fase di elevation: nel primo semestre 2024 il valore medio degli ordini è cresciuto del 7% e c’è stato anche un upgrading dei rivenditori-partner, coinciso con il calo dell’influenza di player come Farfetch. Questo ha contribuito a incrementare il valore del nostro catalogo, che ha raggiunto i 400 milioni di euro a stagione». Infine, per giglio.com diversificazione potrebbe anche significare entrare direttamente nella vendita online second hand, già testata grazie alla partnership con Vestiaire Collective, che permette ai clienti di vendere (ma non di acquistare) articoli usati, in cambio di voucher per nuovi acquisti. «Stiamo valutando un progetto di moda circolare - rivela Troia - ma per ora diamo priorità ai servizi B2B e all’AI. Integrare prodotti in-season e second hand, che poi sempre più spesso sono capi off-season, nello stesso catalogo rischia di confondere il consumatore. Per ora stiamo osservando le best practice in attesa di possibili sviluppi». E se fra le prossime mosse dei Giglio? ci fosse una nuova piattaforma? Sarà forse la sfera di cristallo a dirlo. ■
Federico e Giuseppe Giglio sono co-fondatori e co-ceo di giglio.com
Thebs.com La strategia del club deal per crescere
40 dettaglianti italiani fanno sistema, dando vita non a un semplice marketplce ma a un“consorzio”. Così hanno creato una piattaforma flessibile, che oltre ad aggregare prodotti per la vendita online offre servizi condivisi, dal magazzino agli shooting. Perché fare tutto da soli è un freno allo sviluppo
C’è un pool di 40 dettaglianti italiani (ma il numero nei piani è destinato a salire) che ha deciso di tentare un nuovo modo di fare affari online: il club deal. Sulla base di un modello di capitalismo di relazione,
CBI-Camera Buyer Italia ha creato Thebs, una piattaforma marketplace con un duplice obiettivo: generare vantaggio economico per chi ci ha investito e supportare al contempo tutta la categoria dei dettaglianti italiani, offrendo una serie di servizi ad alto valore aggiunto. «La nostra è una realtà ad azionariato diffuso - spiega Claudio Betti, membro del board del marketplace e titolare del multimarca Spinnaker - partecipata da 40 soci, che fanno tutti parte di CBI. Chi ha più quote arriva al 6% del capitale, chi ne ha meno si ferma al 2%».
Il progetto è partito nel 2022, quando Camera Buyer ha acquisito il marketplace di Genova Ikrix tramite la società Top Retailers, per poi rinominarlo Thebs. com, in riferimento al marchio di garanzia The Best Shops, che caratterizza l’associazione composta da 80 boutique italiane con una rete di 500 punti vendita nazionali e internazionali. Con uffici IT a Genova e sede operativa a Milano, Thebs rappresenta una realtà ancora medio-piccola, ma in crescita all’interno del panorama globale dei marketplace. «Puntiamo al break-even già nel 2025», anticipa Betti, elencando i numeri chiave del business: fatturato 2024 tra i 5 e i 6 milioni di euro, 15mila visite giornaliere, un inventario disponibile del valore di 300 milioni di euro, 70mila SKU e un ordine medio di 327 euro nel 2024, rispetto ai 273 del 2023.
40 soci totali, ma il 26% è in mano a 5 azionisti
Nonostante la formula del club deal sia per sua natura elitaria, nei piani futuri c’è l’apertura del capitale anche ad altri buyer italiani. «Cerchiamo di essere molto coinvolgenti», dice Betti, spiegando che Thebs è già aperto anche agli “esterni”, con circa 20 boutique che conferiscono i loro prodotti al marketplace, pur non essendo associate. Il passo successivo potrebbe essere quello di invitare una quota ancora più ampia di membri di Camera Buyer, «incoraggiandoli - chiosa Betti - a far parte della nostra piattafor-
ma, che piace molto». E piace per diverse ragioni: perché inizia a generare volumi considerevoli («Guadagniamo quote di mercato, principalmente in Europa»), perché non è accompagnata da un’area di segretezza come Cettire («Il nostro rapporto con le griffe è diretto e trasparente») e perché può favorire ulteriori opportunità al di là della vendita online («Non siamo una semplice vetrina, ma un network di servizi per supportare le boutique che ne fanno parte»).
Di certo, come ammette lo stesso Betti, proprio quest’ultimo aspetto è quello che più di altri sta muovendo l’interesse verso Thebs: «L’attività di vendita resta il core business, ma il nostro club deal arricchisce l’offerta di Thebs con nuovi strumenti per fornire alle boutique socie pieno supporto alle loro esigenze di trasformazione e crescita. Per questo offriamo servizi come lo sharing fotografico e lo scambio interno di prodotti». Dato che nel canale digitale i costi di produzione impattano pesantemente sulla marginalità, i retailer attivi sulla piattaforma hanno la possibilità di scambiarsi le immagini e le schede prodotto del catalogo online. «Chi per primo del nostro network produce questo genere di materiale tecnico - spiega Betti - lo mette a disposizione sulla piattaforma e chi ne ha bisogno non deve far altro che scaricarlo».
L’altro aspetto, molto apprezzato tra chi ha aderito a Thebs, è la possibilità per i partner di ottimizzare gli inventari. «È a tutti gli effetti un magazzino condivisospiega il titolare di Spinnaker -. Chi ha un prodotto può passarlo a chi lo ha terminato. Questo vale anche per la merce che
capitale sociale 575.756
Fonte: Bilancio 2023 di Top Retailers srl Spinnaker
«Thebs segue un iter diverso rispetto a certe piattaforme che ora crescono veloci: vuole essere un canale familiare alle griffe e trasparente sugli sconti»
Claudio Betti
non è presente sulla piattaforma online ma in store». La lista dei servizi offerti potrebbe presto ampliarsi: come diretta conseguenza dei magazzini collegati, Thebs sta mettendo a punto la gestione degli stock di fine stagione. «Sarà possibile valorizzare al meglio i prodotti invenduti, rafforzandoci come community e migliorando l’efficienza operativa delle singole boutique», prevede Betti. Nonostante i progetti di servizi condivisi, avviati o allo studio - piccoli e grandi, numerosi e in evoluzione -, le entrate principali di Thebs provengono ancora dall’attività di vendita, ovvero dalle commissioni concesse dalle boutique sui prodotti venduti attraverso la piattaforma, che variano a seconda di vari aspetti, come il momento della stagione in cui la transazione viene realizzata. La boutique mantiene sempre e comunque la parola finale sulla distribuzione, le giacenze, i volumi di merce coinvolti nelle transazioni e sui prezzi, evitando saldi “selvaggi”, spesso caldeggiati da altre piattaforme, che nel settore del lusso rischiano di rappresentare una svaluta-
zione per l’immagine del marchio. «Per i dettaglianti il rischio di inciampare in qualche piattaforma dal basso profilo professionale non va sottovalutato. Oggi - fa il punto Betti - ci sono piattaforme che crescono molto rapidamente sui mercati esteri e sono molto popolari tra i consumatori finali perché offrono merce a prezzi vantaggiosi, inferiori a quelli previsti dalle aziende titolari dei marchi. Ma queste realtà non hanno futuro, almeno a nostro modo di vedere, perché non sono autorizzate dai brand».
«Thebs - aggiunge - sta seguendo un percorso inverso rispetto ad altre realtà: vuole diventare un canale di vendita familiare alle griffe e operare in maniera trasparente sulle scontistiche. Le nostre boutique, prese singolarmente, lavorano con i best seller del momento, marchi come Prada, Bottega Veneta e altri ancora. Nomi che per il momento non sono disponibili sulla piattaforma, ma spero che lo saranno presto: ci sono contatti in corso con questi e altri brand per portare su Thebs i loro prodotti, che appariranno solo quando avremo da loro il via libera». Ce la faranno, anche in un momento in cui tra brand e wholesaler spopolano i contratti di distribuzione selettiva? «Sono ottimista. Resto convinto - conclude Betti - che anche nel lusso online quella del marketplace sia la formula più efficiente per posizionare un prodotto. Noi abbiamo vantaggi da offrire ai multimarca che conferiscono i loro prodotti e anche alle aziende titolari dei brand. Il più grande è proprio quello di essere un club dei migliori multimarca italiani, la cui rete di esperienza e contatti vale moltissimo». ■
Con uffici IT a Genova e sede operativa a Milano, Thebs punta al break even nel 2025
Claudio Betti è il primo investitore di Thebs.com
Wanan Il modello Cettire e l’AI per preparare la sfida ai big
Per trasformarsi da start-up a scale-up ha puntato inizialmente sul buy now pay later e sui prezzi vantaggiosi. Ma ora Virgilio Pellegrino, fondatore della piattaforma che fa da intermediario tra store e clienti, sta lavorando a una nuova fase del progetto, che utilizza l’AI per prevedere le tendenze e gestire il magazzino
Ci sono due modi per entrare nel business delle vendite online: bussare alla porta e aspettare che qualcuno apra oppure spalancarla e sedersi al tavolo. Virgilio Pellegrino non ha scelto né l’uno né l’altro, quando nel 2018 ha lanciato con il fratello minore e l’amica Martina Marianelli il marketplace Wanan. È stato ancora più smart e fortunato, trovando nei sistemi di pagamento buy now pay later, che è stato tra i primi a introdurre, un tappeto rosso per conquistare online la clientela aspirazionale del lusso, complice la speciale sintonia con Simone Mancini, fondatore di Scalapay, che ha investito a titolo personale in Wanan insieme ad altri founder partner della società che fa comprare a piccole rate, tra cui Raffaele Terrone.
La vision lungimirante è alla base degli avvenimenti che hanno portato all’avanzata dell’azienda dell’imprenditore romano, ma basato a Mantova. L’idea di Wanan ha preso sostanza nel giro di pochi mesi, non solo grazie alle opportunità connesse con le tecnologie, ma anche grazie a un’intuizione: imbattuttosi, in tempi non sospetti, in marketplace internazionali come Miinto, Poizon e, soprattutto, Cettire, Pellegrino ne ha compreso immediatamente le potenzialità e ne ha adottato il modello di business.
Proprio come le tre piattaforme, Wanan svolge il ruolo di intermediario (non autorizzato dai brand) tra le boutique e i clienti finali, offrendo a questi degli sconti vantaggiosi. In quanto rivenditore non possiede uno stock, ma acquista dai suoi fornitori il prodotto scelto dall’acquirente solo nel momento in cui questo lo richiede. Wanan, come Cettire, non chiede fee, ma trattiene per sé una parte del prezzo sostenuto dal cliente sotto forma di commissione. E proprio come la piattaforma australiana, dopo l’inizia-
La classifica dei brand più presenti su Wanan
le ricerca di visibilità mediatica, Wanan e il suo fondatore hanno fatto marcia indietro, puntando su una strategia più low profile ed evitando il più possibile la luce sotto i riflettori.
Se invece si paragona ad altri player italiani del panorama dei marketplace, come Giglio.com e Thebs, la piattaforma di Pellegrino sembra parlare un’altra lingua. Da una parte le due realtà più established puntano a essere incluse nei contratti di distribuzione selettiva delle griffe, Wanan - pur non escludendo rapporti diretti con le aziende - gioca il ruolo di “alternativa” ai canali di distribuzione autorizzati dal produttore, dando così fiducia alla resilienza del grey market.
I numeri della sua startup, per ora, non gli danno torto. Pur con un parco molto limitato di fornitori (100% italiani), la piattaforma offre oltre 50mila SKU, è visitata da oltre 1 milione di utenti unici (per l’80% fatto di americani) e genera un fatturato netto superiore a 5 milioni, mentre il valore delle vendite sale a circa 8 milioni, da cui vanno scalati i resi (pochi) e i dazi pagati. Numeri che insieme si traducono in un ritorno di 40 volte l’investimento iniziale sostenuto. Nel settore, Pellegrino punta a conquistare l’etichetta di uomo che viene dal futuro (un po’ come il socio investitore Mancini) e per questo, dopo la scoperta del buy now pay later, continua a investire su tecnologia e ricerca, in particolare sull’AI. L’obiettivo è trasformare Wanan in un autentico hub all’avanguardia, inteso come centro di eccellenza che sfrutti le tecnologie avanzate per lo sviluppo di progetti innovativi nel settore distribuzione, come analisi predittive incrementare le vendite e per gestire il magazzino. Se ci riuscirà, il 2025 sarà l’anno della svolta per Wanan, specie in termini di acquisizione di nuovi clienti. ■
Come dropship Wanan vende merce a prezzi vantaggiosi per conto di circa 10 fornitori italiani
Gli scatoloni del trasloco sono stati sgomberati, ma le librerie alle pareti sono ancora vuote. Non c’è da stupirsi, visto che Bestsecret è qui da poco tempo. La piattaforma off-price con sede a Monaco di Baviera ha aperto la sua filiale milanese in via Senato nel settembre 2024.
«Ci siamo subito innamorati dello spazio - afferma il ceo Moritz Hahn -. Avete visto la scala? I mosaici? L’ascensore? La componente artigianale qui è fenomenale». L’ascensore del palazzo è un vero e proprio colpo d’occhio. È chiuso da una porta di ferro, con un intricato motivo floreale impresso. È un luogo in cui i marchi premium e di lusso dovrebbero sentirsi a casa. Bestsecret si è prefissato l’obiettivo di attirare i più importanti, provenienti dall’Italia e dalla Francia.
Hahn chiama tutto questo “Elevation”. L’ex consulente di McKinsey, già top manager di Zalando, è al timone dell’azienda, controllata in maggioranza dalla società di investimenti Permira, dal novembre 2020.
Sotto l’egida di Hahn, che è stato responsabile dell’internazionalizzazione presso
«100 marchi sono nella lista dei desideri. Ne abbiamo già la metà»
Sono tempi duri per il lusso. Cala la domanda e i marchi devono pensare a come sbarazzarsi dell’invenduto. La piattaforma off-price Bestsecret, con sede a Monaco di Baviera, di proprietà di Permira e gestita dall’ex manager di Zalando Moritz Hahn, ha intuito l’opportunità e ha aperto uffici a Milano e Parigi. Il suo principio commerciale: una rigida selezione all’ingresso, come quella del club techno Berghain di Berlino
Zalando, Bestsecret ha registrato una crescita a due cifre anno dopo anno. Nel 2023 l’azienda ha aumentato le vendite di quasi il 17%, superando gli 1,2 miliardi di euro soprattutto grazie ai mercati al di fuori della Germania, che hanno contribuito a circa il 40% delle vendite. Il margine ebitda rettificato è stato del 15%, una cifra eccezionalmente alta nel settore dell’e-commerce.
«Ai
marchi offriamo un servizio. Li aiutiamo a vendere le merci in eccedenza e a proteggere la brand equity»
Moritz Hahn
Il segreto del successo? A differenza di rivali attivi nel segmento off-price, per esempio Veepee, Yoox e Otrium, Bestsecret è un club molto riservato. Chiunque voglia entrare a farne parte deve essere invitato da un membro esistente. Se non fa acquisti regolarmente, rischia di essere cacciato dal club. Per usare un’analogia: Bestsecret è per il mondo della moda quello che il Berghain di Berlino è per la scena techno. La rego-
Missione elevation: Moritz Hahn vuole portare i marchi del lusso su Bestsecret
Dal 2020 Bestsecret ha raddoppiato i ricavi e mantenuto margini a doppia cifra
la è: più rigida è la selezione all’ingresso, migliore è la festa all’interno e più lunga la coda davanti alla porta.
Il modello del club non è tanto concepito per creare desiderabilità, quanto piuttosto per mantenere la desiderabilità dei marchi. Bestsecret si considera innanzitutto un fornitore di servizi B2B. «Ai marchi offriamo un servizio. Li aiutiamo a vendere le merci in eccedenza e a proteggere la brand equity», afferma Moritz Hahn.
Le campagne di sconti su Bestsecret rimangono nascoste. I nomi dei marchi, il numero di articoli e i prezzi non possono essere intercettati da alcun algoritmo o bot. Questo garantisce che le vendite a prezzo pieno dei brand nei loro negozi e in quelli dei loro partner all’ingrosso non vengano disturbate.
Grazie alle condizioni interessanti, i membri del club sono incentivati a consumare continuamente. Pertanto, a differenza della maggior parte degli e-tailer, Bestsecret non dipende dalla spesa per l’acquisizione di nuovi clienti, ma può teoricamente crescere solo grazie ai clienti esistenti. Le basse spese di marketing, inferiori al 2% delle vendite nel 2023, sono uno dei motivi per cui i margini di profitto sono a due cifre. Questi sono tutti argomenti che Hahn sta utilizzando per avvicinarsi ai settori premium e lusso. «Più un brand si posiziona in alto, cioè più si va verso il lusso, più il problema della protezione del marchio diventa rilevante», afferma. Lo si vede dal fatto che gli outlet offline ospitano prin-
cipalmente nomi premium e appartenenti al lusso. L’imprenditore ha stilato una lista di 100 luxury brand: «Ne abbiamo già conquistati circa la metà. È un ottimo risultato, visto che solo da un anno a questa parte abbiamo rafforzato il focus sull’alto di gamma». Bestsecret offre ai marchi due opzioni di collaborazione. L’azienda agisce come rivenditore tradizionale e acquista i prodotti dai brand con uno sconto. Oppure questi ultimi possono inserire i loro articoli in eccedenza D2C sulla piattaforma. In questo modo controllano la ven-
dita e Bestsecret riceve in cambio una commissione. Questa “opzione marketplace” è stata introdotta due anni fa: «Sta crescendo, ma è ancora relativamente piccola rispetto alla nostra attività di vendita al dettaglio tradizionale.Tuttavia è già di grande rilevanza per i marchi del lusso», informa Hahn, che ha riunito una squadra di buyer nell’ufficio di Milano per fare da apripista. La squadra è guidata da Jason Visse-Demortier, Chief Supply Officer, proveniente da Veepee. Il francese è affiancato dall’ex manager di Yoox Elisa Radaelli, che è stata assunta come Vice President Premium & Luxury Brands e può contare su un’ampia rete nel settore dei marchi italiani.
Il momento è più che mai favorevole per Bestsecret. Dopo anni in cui le cose sono andate sempre e solo verso l’alto, il mercato del lusso si è fermato. Secondo la società di consulenza Bain & Co. i top brand, viziati dal successo, hanno perso 50 milioni di clienti negli ultimi due anni. I più giovani, in particolare, si stanno trattenendo di fronte ai forti aumenti dei prezzi e all’incertezza economica. L’industria del lusso sta affrontando un “trilemma”, è la convinzione del ceo di Bestsecret. Innanzitutto i marchi sono attualmente alle prese con difficoltà di vendita come mai prima d’ora. In secondo luogo, l’affluenza nei punti vendita si sta riducendo: «Il tempo delle persone è troppo prezioso per passare due ore in macchina per concludere un affare». Infine, i brand non hanno ancora trovato online una soluzione così discreta per sbarazzarsi delle merci in eccesso, come invece accade nell’offline. Nonostante i vantaggi elencati, Hahn ha ancora molto da fare per convincere le realtà italiane: «Devono prima fidarsi di noi. Nel settore del lusso un brand vuole prima vedere se l’altro sta facendo una determinata mossa. Non vogliono correre da soli», puntualizza. I primi marchi si sono assunti il «rischio del primo arrivato». «Credo che gli altri seguiranno, presto o tardi», dice Moritz Hahn.
Ma occorre avere un po’ di pazienza: non è sempre facile per lui e i suoi buyer fissare un appuntamento con i direttori generali delle case di moda.
Poiché Bestsecret è ancora sconosciuto in Italia, i top manager dei marchi spesso non sanno che opinione farsi: «Sono
Gli interni degli uffici di Bestsecret a Parigi
Fonte: Bestsecret
Il mercato off-price corre a due velocità: l’online sta crescendo molto, l’offline è stabile
Più del triplo: per l’online off-price in Italia è previsto un incremento da 0,7 a 2,3 mld €
ancora in molti a non aver mai sentito parlare di noi. Non facciamo pubblicità presso il grande pubblico», spiega Hahn. Chi vuole consultare il sito web di Bestsecret, non scoprirà molto senza possedere un codice di accesso. Quando l’appuntamento si concretizza, lui deve partire molto da lontano nella conversazione, «spesso da zero». A volte anche con player che sono già partner: «L’altro giorno - racconta - ero con il ceo di un marchio con cui lavoriamo da dieci anni ed è stata l’occasione per spiegargli ancora una volta i vantaggi che offriamo». Come suggerisce il nome, Bestsecret è ancora un segreto ben custodito per molti. La segretezza è stata la priorità assoluta fin dai primi giorni, quando Bestsecret si chiamava ancora
Schustermann & Borenstein. La storia risale al 1924. All’epoca, Hermann Schustermann iniziò come commerciante di tessuti. Nel 1951 si mise in società con Philip Hilsenrath, le cui quote furono rilevate da Benno Borenstein nel 1960. I due imprenditori aprirono diversi negozi nel centro di Monaco, dove vendevano le rimanenze, spesso nelle stazioni della metropolitana e alle fermate degli autobus. In seguito l’azienda di famiglia, che conobbe una rapida ascesa sotto l’egida di Emil Schustermann, si trasferì nel sobborgo di Aschheim vicino a Monaco, dove ha sede anche Mytheresa. Nel corso dei decenni, Schustermann & Borenstein si è trasformato in un punto di riferimento per la clientela chic di Monaco. In occasione della vendita annuale
di costumi tradizionali dell’Oktoberfest, era tutto un traffico di Rolls-Royce e Ferrari ad Aschheim. Non si poteva entrare senza una tessera cliente. Averne una era come vincere alla lotteria. Se non ce l’avevi, non lasciavi nulla di intentato per ottenerla. «Quando ho firmato il contratto di affitto a Monaco, il padrone di casa mi ha chiesto se potevo procurargli una tessera», ricorda una persona che lavorava per Schustermann & Borenstein. Un tempo Schustermann & Borenstein era strettamente legata a Escada. Il fondatore del marchio premium, Wolfgang Ley, andava molto d’accordo con Emil Schustermann. In passato, Escada ha detenuto una partecipazione del 40% nel rivenditore off-price. Al contrario, Schustermann & Borenstein controllava Escada Outlet GmbH. Solo nella primavera del 2010, dopo che Escada è uscita dall’insolvenza e si è trasformata in una società per azioni europea, le due aziende si sono separate.
Intorno al 2007 il figlio di Emil, Daniel Schustermann, e Marian Gradl-Schikora, esperto di digitale ed ex amministratore delegato, si sono avvicinati a Schustermann Senior e gli hanno presentato il concetto di un negozio online, che hanno chiamato Bestsecret. Emil Schustermann non esitò a lungo e diede il via libera ai due giovani manager. Fu una decisione lungimirante. Oggi l’online rappresenta ben oltre il 90% delle vendite.
Moritz Hahn, spera di poter ottenere il “sì” dei ceo dei marchi con la stessa rapidità. Il momento chiave della conversazione è spesso quello in cui parla del fatto che Bestsecret è un club chiuso, eppure in grado di generare un fatturato di oltre 1 miliardo di euro.
Nella maggior parte dei casi scatta l’interesse. Gli amministratori delegati chiedono informazioni sui clienti di Bestsecret, sui price point e sulla collocazione del marchio, al che Hahn tira fuori il suo cellulare e apre l’applicazione: «Mostro tutto al ceo e gli propongo un test. Se un marchio fa questo test, si convince velocemente a fare una partnership di lungo termine con noi». Proprio come succede al Berghain di Berlino: «Una volta entrati nel club, non si vuole più uscire». ■
Dati in miliardi di euro Fonte: McKinsey
Dati in miliardi di euro Fonte: McKinsey
Virtual try-on il sequel
La sperimentazione da parte della moda è cominciata con i lockdown. Poi il silenzio e oggi il ritorno di interesse. Non solo perché il tool promette riduzioni dei tassi di reso, ma anche perché la tecnologia, con i suoi progressi, sembra offrire un'esperienza più ingaggiante, personalizzata e confident. Resta una domanda: fino a che punto si potrà virtualizzare la prova, se l'essenza del prodotto sta nel contatto fisico?
«Abbiamo osservato una riduzione fino al 40% dei tassi di reso grazie a questa innovazione e, sebbene i risultati siano limitati, perché la fase di test è ancora in corso, rappresentano un indicatore promettente del potenziale della tecnologia, nel migliorare la soddisfazione di clienti e brand partner». A parlare è Pelin Anlu Bedirhanoglu, direttore del settore Product Size and Fit di Zalando e l’innovazione a cui si riferisce è il camerino virtuale, che continua a evolvere, nel tentativo di avvicinarsi a un’esperienza sempre più fedele alla realtà. La nuova versione lanciata di recente dal fashion e-commerce di Berlino prevede che i clienti possano creare un avatar che - a dire dell’azienda - riflette accuratamente la loro forma del corpo. Invece prima si arrivava a una previsione di una silhouette, perché gli avatar 3D erano basati su modelli statistici che incorporavano dati come sesso, altezza e peso. La nuova release ha debuttato in 14 mercati europei insieme al partner Levi’s e a una selezione di proposte delle sue collezioni. All’inizio del 2024 il virtual try on è stato introdotto anche sul sito di Mr Porter per il 70% della gamma della private label di abbigliamento maschile Mr P. e sperimentato per sei
mesi. «L'iniziativa - ha spiegato la casa madre Yoox-Net-a-Porter - consente un approccio all’acquisto pratico e su misura, cercando al contempo di ridurre le restituzioni di capi». Fornendo la loro taglia i clienti hanno potuto creare un avatar 3D che rispecchiasse le loro misure, così da avere una visione realistica della vestibilità e capire se il prodotto Mr P. fosse adatto oppure no. Taglia e vestibilità, secondo Ynap, sono le ragioni principali dei resi, il cui trend è stato monitorato durante la sperimentazione ma non è stato reso noto. Di certo si sa che il gruppo delle vendite online di Richemont, che sta per passare a Mytheresa.com (il closing è previsto nella prima metà del 2025), si è mosso per «supportare il crescente interesse dei consumatori verso uno shopping più consapevole». Da un’indagine interna, infatti, il 90% dei clienti ha detto di preferire i retailer che aiutano a ridurre i resi e l'83% cerca di fare acquisti più consapevoli, per evitare di rimandare indietro i prodotti. Mr P. è tra i marchi più all'avanguardia di Mr Porter e l’avatar è la fase successiva alla strategia di prova con le tecnologie 3D, già sperimentate per orologi e accessori. Anche Valentino si è cimentato con il
virtual try-on (vto). Sul sito di e-commerce della maison romana si possono provare le sneaker Bay by Bay della Spring-Summer 2025, disegnate da Alessandro Michele. Prima ancora la griffe ha lanciato l’esperienza virtuale in realtà aumentata per le borse VSling, permettendo la prova virtuale in cinque colori, usando la fotocamera dello smartphone. Il partner tecnologico è la società lituana Wanna, controllata da Farfetch, che ha esordito nel settore nel 2017 con la prova degli smalti.
La collaborazione con Valentino, relativa a footwear, abbigliamento e borse, è iniziata nel 2023 e oggi la società della digital transformation riporta nel suo sito risultati come una media del 35% circa di conversion rate dalla app al sito web del marchio, l’apertura delle e-mail triplicata al lancio del vto, nonché esperienze personalizzate per i private client e feedback positivi dagli opinion leader del settore e dai media. «Ci siamo focalizzati sul migliorare la scoperta del prodotto e sull'elevare l’engagement, tramite uno storytelling immersivo - spiega Daria Guryanova, head of Customer Success di Wanna -. Il nostro virtual try-on, che copre varie categorie di prodotto, porta le collezioni ai clienti Valentino attraverso
Safilo sta investendo nella prova virtuale delle montature con Spaarkly
un’esperienza più dinamica e realistica. Con un'esplorazione interattiva del prodotto, gli shopper possono fare scelte più informate e selezionare stili e colori in linea con i loro gusti. Vediamo il vto come un potente tool per un ingaggio personalizzato, che permette ai fashion lover di connettersi ai loro marchi in modo customizzato e immersivo». A Padova, il gruppo dell’eyewear Safilo non solo ha adottato il vto per alcuni suoi brand di occhiali, ma ha anche deciso di investire nella tecnologia, rilevando una quota di minoranza di Spaarkly, che realizza soluzioni innovative di e-commerce, basate sulla tecnologia della realtà aumentata e con cui collabora dalla fine del 2022. Era l’anno del lancio dell’Instant Try-on per le montature Polaroid, che avveniva scansionando un QR code con uno smartphone. Da allora, Safilo ha adottato ARshades di Spaarkly, una suite completa di software e servizi per la prova virtuale degli occhiali, che va a valorizzare i siti e-commerce di Polaroid e Carrera. «Safilo punta a investire per integrare l’esperienza digitale con quella reale e offrire al consumatore online un’esperienza qualitativamente equivalente e complementare a quella nel retail fisico - spiega Alessandro Bellati, di-
«La prova virtuale riduce l'incertezza e aumenta la propensione all'acquisto online di occhiali»
Alessandro Bellati, Safilo
PER METÀ DEGLI ITALIANI
SBAGLIARE TAGLIA HA EFFETTI A LIVELLO PSICOLOGICO
Una recente ricerca commissionata da Zalando a YouGov sulle emozioni legate alla shopping experience rivela che, per il 48% del campione di rispondenti italiani sbagliare la taglia ha effetti a livello psicologico. La mancanza di spazio nei camerini dei negozi fisici provoca insoddisfazione nel 44% degli intervistati. I maggiori ostacoli allo shopping online sono l’incertezza sulla vestibilità (49%), le descrizioni confuse delle taglie (37%) e le guide alle taglie non precise (36%). Le difficoltà riguardano soprattutto l’acquisto di pantaloni (22%), biancheria intima (17%) e abiti (13%). Il 45% degli acquirenti italiani online dice di avere restituito vestiti almeno una volta in un anno per problemi legati al fitting. Il 72% pensa che si sentirebbe più rassicurato negli acquisti digitali, se potesse utilizzare uno strumento che fornisce consigli sulla taglia in base alle misure corporee. La ricerca è stata condotta nel giugno 2024 su un campione di 14.609 adulti in Europa, di cui 1.043 italiani (nella foto, la prova virtuale di un capo Levi's su Zalando).
rector NA PDC & Front-end Innovation di Safilo Group -. La collaborazione con un’emergente come Spaarkly è sembrata un perfetto complemento. La direzione è stata quella di non acquisire il controllo, per supportarne la crescita a lungo termine senza soffocare la creatività e la spinta allo sviluppo del business, che sono valori fondamentali in una startup». «Il bilancio è positivo - prosegue Bellati - anche se non è stato facile, come in tutte le partenze, integrare e bilanciare i servizi già presenti con le nuove opportunità offerte dalla realtà aumentata. Sicuramente notiamo un notevole traffico online, generato dagli utenti, che sembrano apprezzare i servizi vto di qualità come quelli di Spaarkly». ARShades è uno strumento
che porta a una replica fedele (in gergo digital twin) dell’occhiale riprodotto. «La sperimentazione online - osserva il manager di Safilo - ha delle ricadute estremamente positive per i brand, trovando coronamento nelle strategie di comunicazione già consolidate. Per il cliente è un servizio che riduce l’incertezza e aumenta la propensione all’acquisto». Al momento il gruppo dell’occhialeria non ha dati sufficienti per sostenere l’ipotesi di una riduzione dei resi, tuttavia stime del settore associano al vto un calo tra il 10% e il 20%, a seconda delle condizioni di mercato. «Possiamo notare - aggiunge Bellati - che i vto sono sempre più diffusi nell’eyewear e stanno diventando uno strumento indispensabile
Un avatar 3D indossa la taglia S di un capo Mr P, private label di Mr Porter
per tutti i player D2C di rilievo. In Safilo il tool è in fase di estensione agli altri marchi di proprietà ed è stato proposto a tutti i brand in licenza, che hanno fornito supporto marketing e commerciale per l’iniziativa. Entro il 2025 prevediamo di attivare almeno altri quattro o cinque marchi». Ma c’è di più. «A oggi - afferma l’esperto di Safilo - il vto è stato sempre concepito come un servizio D2C, con focus su web ed e-commerce, mentre poca o nessuna energia è stata indirizzata verso sviluppi B2B, mercato che per noi rimane centrale. La nostra strategia è di portare, entro il 2025, il servizio a essere pienamente usufruibile dai nostri customer su specifici canali B2B, sia per aiutarli a orientarsi nella scelta dei prodotti da mettere a stock, sia per permettere un nuovo servizio al loro cliente, che magari in negozio non trova colori o modelli specifici». Un caso, quest’ultimo, tutt’altro che isolato in un settore commercialmente frammentato come l’eyewear, caratterizzato da ampi cataloghi di prodotto, che pochi negozi di ottica possono tenere aggiornati o anche assortire. L’obiettivo di Safilo, con strumenti come la prova virtuale, è rivitalizzare e innovare un canale tradizionale con una strategia win-win, per i suoi customer e per i consumatori finali.
Il marchio di abbigliamento e maglieria in filati pregiati Kangra, della Hadam’s Creazioni di Reggio Emilia, ha sperimentato il vto con la collezione per la PE 2023, proponendolo per 10 articoli maschili e altrettanti femminili sul sito di e-commerce diretto. «L’utente poteva creare un avatar se inseriva le sue misure - spiega Cristiano Carpi, direttore commerciale dell'azienda di famiglia -. Non abbiamo dati oggettivi per poter parlare di aumento del tasso di conversione o di diminuzione dei resi, ma possiamo certamente dire che il tool ha incuriosito gli internauti, è stato usato e ha creato delle interazioni. Abbiamo deciso in seguito di non adottarlo non tanto per una questione di costi, ma perché questa tecnologia non ci sembrava avere senso per la nostra boutique online che, lanciata nel 2020, rappresenta il 3% circa dei ricavi totali. Quota che non puntiamo più di tanto ad ampliare, per non metterci in competizione con i nostri distributori multimarca».
«La tecnologia 3D risolve il problema della visione completa del prodotto, in linea con un approccio al business cliente-centrico, e migliora l’esperienza online e negli store fisici, aiutando a superare i maggiori dubbi che emergono nella fase decisionale», dice Giusi Cobuzzi, country director Europe di Zakeke, startup di Milano che, con il vto, è partita dall’occhialeria, per poi espandersi nelle calzature e accessori, gioielli inclusi. «Il settore trainante - specifica - è l’eyewear che, con l’aggiunta dell’Intelligenza Artificiale, ha reso l’esperienza ancora più coinvolgente grazie a funzioni come il riconoscimento facciale, il calcolo della distanza pupillare e la valutazione delle proporzioni. Può rispondere
alle domande: “Mi starà bene? È il colore giusto per me?”, riducendo le barriere all’acquisto online. Aumentando la fiducia del consumatore, salgono le vendite e diminuiscono i resi, perché non è più un acquisto quasi a scatola chiusa». In Zakeke stimano un aumento del tasso di conversione del 30% circa, nel caso delle montature e degli accessori per il viso, come cappelli e orecchini. L’impatto sui resi è un calo del 40%-50%. Le App per la prova virtuale che hanno preceduto il 3D, secondo l’esperta di Zakeke, non permettevano una rappresentazione realistica e hanno avuto un impatto inferiore. Più che altro si trattava di gaming, non di vero virtual try-on, che invece «ha un effetto positivo anche a livello di branding, perché trasmette un’immagine di azienda moderna e innovativa». In più questa tecnologia permette di raccogliere dati utili sulle preferenze del consumatore e trarre informazioni per migliorare la sua esperienza. Il beauty è uno dei settori pionieri, con l’Oréal in testa, sull’onda della pandemia e del boom degli acquisti online, mentre Nike è stato tra gli antesignani nella moda in senso allargato. «L’abbigliamento risulta più indietro, forse per scelta - osserva Cobuzzi -. Si tratta di una sfida complessa, che rischia di non far capire meglio la vestibilità e la
Le sneaker Valentino Bay By Bay si possono provare sul sito del brand attraverso un QR code
La Bulgari Dream Machine realizzata con Ett permette di indossare virtualmente i gioielli del marchio, interagendo con lo schermo touch
Il virtual try-on di Deborah Milano è basato sull'AR e su sistemi di riconoscimento facciale
qualità di tessuti, quindi di non risultare all’altezza delle aspettative di brand e clienti. La rappresentazione in 3D resta molto difficile, mentre sono stati fatti vari miglioramenti nelle calzature, per esempio superando i limiti dei modelli aperti o con il tacco. Alla tecnologia serve un certo tempo di "maturazione"». «La prova virtuale attraverso un avatar - prosegue - è un compromesso: può permettere un’esperienza coinvolgente, di certo engaging, ma che impatta sui costi, da valutare bene insieme ai possibili tassi di conversion e di reso. Può avere una funzione interna, come nel caso del software per il fashion design Clo 3D, ma se pensiamo al consumatore finale, gli avatar sono esteticamente discutibili. E nel fashion e luxury l’estetica è prioritaria». Provider e marchi utilizzatori faticano a indicare un Roi, perché sono molte le variabili e i potenziali benefici indiretti da considerare. Ad esempio, che valore ha la percezione del consumatore che un’azienda è cool e all’avanguardia, perché adotta il vto? Tuttavia, a sentire i provider, sembra non si tratti di tecnologie prerogativa solo di marchi molto strutturati. «Noi includiamo varie formule, per proporci al grande gruppo così come al
della moda». «Dopo l’hype legato al covid e ai confinamenti, per un certo periodo non si è più sentito parlare di virtual tryon e oggi notiamo un ritorno di interesse da parte della moda, ma noi siamo ingaggiati soprattutto per attività che riguardano il punto vendita fisico», ammette Nicola Camurri, strategy director di Ett, industria digitale e creativa parte del Gruppo Deda, con clienti come Bulgari, Deborah e Kiko Milano. «La prova virtuale - prosegue - fa parte dell’esperienza della gamification e dell’identità di un brand. Nel caso dei nostri progetti di vto, i dati ricavati, per esempio quelli sulle preferenze di colore, possono avere influenzato le successive scelte delle aziende per i nuovi prodotti da immettere sul mercato. Ma adesso i consumatori vogliono tornare nello spazio fisico, quindi ci viene chiesto soprattutto di rendere lo store una piattaforma, affinché possa fornire indicazioni su quanto viene mossa la merce sugli scaffali e, più in generale, l’interazione con il prodotto, se un capo è esposto bene ed è allineato dal punto di vista dell’experience e quanto si converte realmente. Questo mentre alcune statistiche dicono che il consumatore cerca di capire da casa, navigando in Rete, cosa comprare nel negozio tradizionale, dove avviene il 70% circa degli acquisti. Si scende intorno al 65% in Cina, dove la tecnologia è più avanzata».
H&M: DAL CAMERINO ALLA SOCIAL FITTING ROOM
«L'AI sta rendendo il vto più potente per tutte le fasce di età. Credo che in futuro il tool sarà ampiamente utilizzato»
Giusi Cobuzzi, Zakeke
piccolo business - dice la manager di Zakeke -. I costi dipendono anche dal catalogo, da quante varianti prodotto si hanno, quanti colori e forme. Alcuni partono con l’idea di sviluppare internamente il vto e, dopo essersi accorti che è un bagno di sangue, decidono per la versione standardizzata, per passare successivamente a quella flessibile, dove parte del set up è gestito in autonomia». «L’AI - aggiunge - sta contribuendo a rendere il vto più potente per tutte le fasce di età e credo che, in futuro, la prova virtuale diventerà una tecnologia ampiamente utilizzata, per permettere la scelta del prodotto giusto, arrivando a coprire tutte le categorie
Di sicuro fisico e virtuale si parlano di più ma, secondo l’esperto di Ett, il problema di alcune aziende è che non hanno una visione d’insieme: si concentrano o sulla digitalizzazione del punto vendita, per ottenere dei dati utili, o sul sito e-commerce. «Invece andrebbe digitalizzato il processo d’acquisto». I vto sembrano non attrarre molti investimenti perché non vengono subito individuati il ritorno e la scalabilità. «Molto dipende dalla visione e dalla maturità digitale dell’interlocutore - spiega Camurri -. Talvolta sono richieste delle tecnologie, senza un’attenta analisi delle reali necessità. Inoltre, una tecnologia ha una sua funzionalità e un suo ritorno, ma se le chiedi di fare quello che non può fare è un problema. Nella prova virtuale di un capo c’è un elemento fisico ineludibile, dato dal contatto sulla pelle». «Non so - conclude - se si riuscirà a virtualizzarlo, forse è pura fantascienza. Invece si può rendere il punto vendita un posto migliore. A partire dalle persone a dai rapporti umani, a mio parere il vero problema delle vendite». ■
Per evitare il fenomeno dei resi H&M si muove su più fronti. «Raccogliamo i feedback dei consumatori relativamente al capo acquistato e alla vestibilità - spiegano dal gruppo -. Sul nostro sito web disponiamo di un accurato sistema di misurazione delle taglie e inseriamo informazioni sulla vestibilità del capo, l’altezza del modello/a dell’immagine e la taglia del capo indossato». Nei camerini di selezionati punti vendita fisici, inoltre, il marchio svedese ha puntato su una migliore customer experience e a una maggiore personalizzazione. Innovativi smart mirror possono identificare i capi selezionati dai clienti - compresi taglia e colore - e fornire consigli mirati su prodotti e stile. Dagli specchi intelligenti si possono richiedere i capi al personale di vendita restando nelle cabine di prova o fare acquisti su hm.com. Il negozio di Drottninggatan, a Stoccolma, è il terzo al mondo che incorpora questa funzione, gli altri sono a New York (Soho) e a Seul (Myeongdong). Nella capitale della Corea del Sud l’insegna del Gruppo Hennes & Mauritz sta anche sperimentando un camerino che offre una speciale esperienza sensoriale visiva e uditiva, condivisibile sui social. Nel flagship store di Barcellona le “social fitting room” permettono di sperimentare cinque diversi concetti ispirati alla vita della città, utilizzando diverse canzoni locali, colori ed effetti luminosi (nella foto di Alvaro Valdecantos). Il cliente entra in un camerino e si ritrova immerso in un ambiente che fa da scenografia ai capi selezionati e che si può modificare a seconda dello stato d’animo. I camerini, ricoperti di specchi, sono abbastanza grandi da poter condividere l’esperienza con gli amici.
ELISABETTA FABBRI
I first mover del Digital product passport
Al
Entro il 2030 ogni prodotto tessile in vendita nell'Unione Europea avrà bisogno di un Passaporto digitale di prodotto (Pdp o, all’inglese Digital product passport, Dpp). Anche se la normativa ancora non c’è, alcune aziende - Pmi incluse - testano nuove tecnologie ad hoc, che si stanno via via rivelando un’opportunità, al di là della compliance (di per sé sfidante, a partire dal tracciamento dei prodotti e dalla misurazione degli impatti). Per il marchio Dondup, ad esempio, la Fall 24 è la seconda stagione di sperimentazione del Pdp, con l’idea di ingaggiare il cliente attraverso un capo di abbigliamento. «Ne mettiamo in vendita circa 1 milione l’anno e ogni persona che vede un prodotto in negozio, o lo acquista attraverso qualsiasi nostro canale, potenzialmente può scannerizzare il QR code nell’etichetta», ha affermato Eleonora Migliori, ecommerce & digital manager dell'azienda, intervenendo alla recente roundtable di Fashion sul tema del clienteling. Chi si iscrive, dopo avere scannerizzato il codice, ha accesso a informazioni sul capo, dalla filiera alla gestione del fine vita, oltre a una serie di “privilegi”. Tutto è partito da una sfida: far parlare il prodotto «Ci piace raccontare che il marchio è al 100% made in Italy e al 70% made in Marche, dove tutto è nato - ha spiegato Migliori -. Siamo un’azienda cresciuta con il wholesale, tuttora canale principale,
di là della conformità alla normativa Ue, in via di definizione, i marchi possono vedere il Passaporto
digitale
di prodotto come un'opportunità di coinvolgere il consumatore e creare fiducia
mentre l’e-commerce è una quota piccola ma in forte crescita. Ora stiamo cercando di capire come essere il più onesti possibile a livello di proposte, utilizzando a nostro favore le nuove leggi sulla trasparenza». «Benché non siano ancora in tanti a scansire il QR code, alla seconda stagione del Pdp ci possiamo dire contenti - ha proseguito Migliori -. Siamo in fase di test e stiamo provando a comunicarlo. Di certo emerge un buon numero di scansioni online nella stagione di esordio. Tramite lo store digitale abbiamo visto che chi clicca sul passaporto digitale, dentro la pagina prodotto, rimane nel sito più a lungo, visita più pagine e acquista di più. Nel complesso si sta rivelando un tool estremamente interessante, anche perché permette una maggiore profilazione: dalle letture del digital passport si capisce, per
esempio, su quali capi c’è maggiore interesse, anche in termini di sostenibilità e trasparenza». La scommessa di Cividini, sinonimo di maglieria di alta gamma, è invece di rendere ogni capo trasparente entro la fine del 2025. «Siamo nella fase di ultimazione: abbiamo già tutti i dati necessari sul gestionale, dobbiamo solo integrarli con la piattaforma a cui ci appoggiamo per il progetto Dpp», dice Anita Cividini, head of merchandising dell’azienda di famiglia. «Si tratta di una scelta strategica - sottolinea -. Il nostro dna è legato al territorio, alla qualità delle materie prime e a un’attenzione maniacale al prodotto che il passaporto ufficializza. Raccontiamo una storia, comprese le varie lavorazioni a maglia e le tinture particolari, mentre siamo in dubbio sulle istruzioni per la cura del capo». Sono già presenti nelle etichette cucite all’interno «e credo che non spariranno mai, specie nella maglieria destinata a durare nel tempo, mentre non si sa se tra 10 anni si userà ancora il codice QR. Per ora la nostra deadline è mantenere le informazioni sulla piattaforma per cinque anni». Intanto in dicembre l'azienda bergamasca ha iniziato a preparare i wholesaler sul Passaporto digitale. Il consumatore non dovrebbe trovarsi in difficoltà a interrogare la nuova etichetta, già abituato dagli anni della pandemia e all'uso del QR, ancora in auge, nella ristorazione. Un tasto dolente sono i costi. «Si tratta di cifre
importanti, specie se paragonate a quelle per un gestionale, che viene usato tutti i giorni in azienda - ammette Anita Cividini -. Le piccole imprese sono penalizzate dal fatto che non viene proposta la scalabilità rispetto ai ricavi».
Il Dpp può diventare «un faro nel buio della supply chain», secondo la startup internazionale Surge, specializzata nel supply chain data management. «Di fatto permette alle aziende di raccontare un’unica storia vera, con dati e informazioni certificati e validati dalle tecnologie - sintetizza la co-fondatrice, Marina Raicevic -. Le aziende hanno l’opportunità di coinvolgere la propria filiera diretta e, tramite un unico canale di comunicazione, possono dare visibilità a un certo tipo di informazioni». Questo porterà a premiare le filiere virtuose a scapito del fast fashion, «perché andrà a tracciare, nel lungo termine, la strategia di circular economy, che valorizza i prodotti di qualità e con una storia differente, rispetto ai capi che finiscono velocemente nelle discariche, sono cancerogeni e grandi inquinanti». Si tratta anche di uno strumento di marketing: «Contiene dati obbligatori e volontari che raccontano la storia del marchio e il percorso in materia di sostenibilità - prosegue Marina Raicevic -. Come nei piani dell’Ue, il documento digitale aiuterà il consumatore nella scelta: potrà fare un benchmark di prodotti solo apparentemente uguali, che però hanno un impatto differente rispetto ai temi della sostenibilità, così da acquistare in modo consapevole. Il tool, in progressiva evoluzione, va a valorizzare l’impegno delle aziende a creare un prodotto ecofriendly, durevole e di qualità». «Il Dpp contiene un racconto fondamentale per far decidere il consumatore all’acquisto - ribatte Carlo Visani, executive advisor di Surge -. Non solo le certificazioni ottenute ma anche il ciclo produttivo, il design, la qualità e come dargli lunga vita. Allo stesso tempo rende possibile il controllo, da parte del brand, del post vendita e, potenzialmente, di gestire direttamente il second hand». A oggi, però, non c’è un Roi della sostenibilità. «Ci sarà quando il consumatore potrà essere più informato e istruito per fare la scelta giusta - afferma Raicevic -. Di certo oggi vuole capire e le aziende dovrebbero investire, affinché possa riconoscere il valore del loro comportamento virtuoso. Gli incenti-
I capi Dondup sono dotati di etichetta con QR code da due stagioni: un vantaggio in termini di trasparenza ma anche di ingaggio
«Il Passaporto digitale di prodotto può diventare un faro nel buio della supply chain»
Marina Raicevic, Surge
vi governativi possono dare una svolta agli investimenti». Dall’osservatorio di Surge la maggior parte delle aziende, pur in assenza della normativa, stanno facendo ricerca per capire di più e costruire una strategia mirata. Il meno pronto sembra essere l’ultimo miglio, vale a dire i clienti finali e i riciclatori. I più avanti sono, invece, brand e fornitori. Balenciaga, per esempio, sta facendo molto parlare di sé per come innova nella tecnologia, anche creando sinergie tra moda e musica. Nei mesi scorsi la maison ha avviato una collaborazione con Mina, da cui è nata una limited edition di capi con un Nfc (Near field communication) nell’etichetta: se attivato da un dispositivo compatibile, permette l'ascolto
di un brano inedito del nuovo album dell’iconica cantante italiana. Tod’s, invece, ha lanciato il passaporto digitale per la Di Bag. Avvicinando uno smartphone al logo, dotato di tag Nfc, si raggiunge una pagina web dove, dopo l’inserimento dei dati personali, la borsa appena comprata ottiene il suo passaporto, che va a estendere la garanzia del prodotto e dà accesso a servizi per cura e manutenzione. Il documento digitale certifica l’autenticità della borsa, oltre a raccontare la sua storia, localizzare la sua filiera e attestarne la conformità. In più fa scattare il supporto di client advisor e l’accesso a eventi ed esperienze esclusive, tra cui la personalizzazione.
«I Dpp stanno diventando un'interessante opportunità di innovazione per il lusso - afferma Francesco Pieri, cofounder e managing director di Temera -. Possono essere sfruttati per il product storytelling, programmi a premi ed esperienze digitali, oltre che per dare informazioni su tracciabilità e certificazioni, riparazioni e garanzie». «In Temera - precisa - siamo focalizzati su soluzioni di tracciabilità end-to-end, che costituiscono una solida base per i Dpp. Tecnologie come IoT, blockchain e Intelligenza Artificiale saranno fondamentali per garantire la serializzazione dei prodotti e il tracciamento del ciclo di vita, utili a raggiungere nuovi livelli di trasparenza e responsabilità, dalle materie prime alla fine del ciclo di vita». Del livello di preparazione del consumatore Pieri dice: «Dai casi a cui abbiamo lavorato è emerso che i consumatori del lusso sono pronti a esplorare questa nuova relazione interattiva: si tratta per lo più di nativi digitali, abituati alle tecnologie portatili. Il fatto che le soluzioni Dpp possano essere attivate tramite smartphone, toccando un tag Nfc o scansionando un codice QR, le rende intuitive e accessibili». «Prendendo come esempio il lavoro sui Dpp di Tod’s o quello relativo alla collaborazione tra Mcm e Harper Collective, entrambi realizzati in partnership con Aura Blockchain Consortium, ci piace dire che le nostre soluzioni tecnologiche connesse hanno dato a ogni prodotto una voce digitale e i dati di tracciabilità utili a mappare la filiera e comunicarla in maniera trasparente. Grazie a un tag Nfc, ogni acquisto può diventare un'esperienza digitale esclusiva per l'acquirente, aggiungendo ulteriore valore al prodotto». Con l'App
Authentique di The Ordre Group, invece, i consumatori del lusso possono verificare l'autenticità di un prodotto scansionando la sua impronta digitale: concettualmente simile a quella umana, è una delle opzioni per l'identificazione meno invasive in commercio - pur inglobando migliaia di elementi identificativi - perché non necessita di "touch" né di "additivi" fisici (no Nfc, codici QR o a barre che possono essere rimossi o contraffatti, non calzare bene per certi item e risultare difficili da riciclare). Authentique è nata nel 2021 dalla necessità di combattere la contraffazione, il grey market e i resi fraudolenti, è alla sua fase beta di test, con brand del lusso in Europa e Asia, e ha portato a ideare tecnologie per i Dpp. Un accordo di luglio con l'americana Alitheon ha permesso di incorporare nell'app la tecnologia avanzata di vision AI FeaturePrint: ora basta una foto con lo smartphone per identificare velocemente un prodotto, nel B2C e B2B. Allineandosi agli altri provider, anche Simon Lock - co-fondatore e ceo di The Ordre Group, noto per il lancio, nel 2015, della showroom virtuale ordre.com - è positivo sui passaporti digitali e l'utilizzo per esperienze coinvolgenti, che originano fiducia. «Si creano opportunità attraverso lo storytelling interattivo e, grazie all'autenticazione dei prodotti e alla tracciabilità della proprietà, si accresce il valore di rivendita, nell’ambito di iniziative di moda circolare - spiega -. I marchi possono realizzare esperienze personalizzate, mentre raccolgono informazioni sul comportamento dei consumatori, che vanno a supportare le future strategie di marketing». Il Dpp, come elenca Lock, può contenere, oltre ai dati in conformità alle norme europee, video dei dietro le quinte e dimostrazioni di come prendersi cura del prodotto. Le foto vanno ad approfondire i concetti di craftsmanship e autenticità, e illustrano l'heritage, potendo spaziare tra immagini di archivio e sketch. Si possono realizzare videogame ed esperienze a Realtà Aumentata o far guadagnare premi, se l'utente svolge determinati compiti. Tra le opzioni anche l’accesso a tool per la customizzazione e la visione in anteprima delle modifiche. È inoltre un veicolo per inviare agli acquirenti messaggi dei designer e consigli di stile. I consumatori che hanno fatto acquisti multipli possono pure gestire un proprio inventario digitale,
LA PAROLA AL LEGALE SILVIA ELIA
Legal Counsel Netcomm
«Il Digital product passport è stato introdotto dal Regolamento Ue/1781/2024 del 13 giugno sulla Progettazione ecocompatibile di prodotti sostenibili (Espr). Si tratta di una normativa quadro, in vigore dal luglio scorso, che necessita di ulteriore legislazione, per la piena attuazione. Nei primi mesi del 2025 la Commissione Ue presenterà il piano di lavoro - di almeno tre anni, per l’attuazione del Regolamento - specificando, tra l’altro, l’elenco dei prodotti interessati, che saranno oggetto di specifici atti delegati. Il Dpp, pilastro per l’attuazione del Regolamento, è un documento informativo che riporta dati digitalizzati sulla sostenibilità, la circolarità e la conformità giuridica di un prodotto, quindi sull’intero ciclo di vita. I dati dovranno essere basati su norme aperte, interoperabili, strutturati, facilmente consultabili e trasferibili. Il passaporto è uno strumento complesso e articolato e necessita di interventi sotto un profilo sia normativo che tecnico. Per l’emanazione della normativa secondaria, la Commissione ha promosso la creazione di un gruppo di esperti (Ecodesign Forum), che collaborerà allo sviluppo degli atti delegati e ha già provveduto a pubblicare il primo invito a presentare contributi per le norme per i fornitori di servizi (attese per dicembre 2025). Sotto il profilo tecnico, attualmente i comitati Cen-Comitato europeo di normazione e Cenelec-Comitato europeo di normazione elettrotecnica stanno lavorando alla definizione degli standard tecnici, armonizzati, che permetteranno l’attuazione dell’intero sistema del Dpp. L’esito è previsto per dicembre 2025. L’attuazione dell’intero impianto necessita altresì della collaborazione del mercato, per cogliere impatti e ricadute applicative. Il Passaporto si inserisce, infatti, nel quadro normativo esistente di regolamentazione dei prodotti ed è importante garantire norme armonizzate. Attualmente il Consorzio del commercio digitale italiano Netcomm, anche attraverso il proprio network Ecommerce Europe, sta già lavorando con le aziende, al fine di fornire il proprio contributo al dibattito in corso».
Il marchio Cividini punta a rendere ogni suo capo trasparente attraverso il Dpp entro la fine del 2025
La T-shirt della linea Balenciaga Music | Mina Series integra nell’etichetta un chip Nfc che, se attivato, sblocca un brano inedito del nuovo album di Mina
Tod's ha lanciato il passaporto digitale con la Di Bag: avvicinando lo smartphone al logo, dotato di tag Nfc, si arriva a una pagina web che lo attiva
attraverso un unico portale. Nei negozi, il Dpp è visto dall'imprenditore francese come uno strumento che consente agli addetti alle vendite di accedere a informazioni dettagliate sui prodotti e ai clienti di vivere un'esperienza più coinvolgente. Ai multimarca garantisce la trasparenza tra le diverse linee di prodotto, con impatti positivi sulla fiducia e le decisioni di acquisto
Inoltre è un supporto nel resale, nei resi e nelle riparazioni, presentando registrazioni verificate. Questo vale pure online, dove oltretutto è possibile l'inserimento del virtual try-on, per un maggiore coinvolgimento dell'e-shopper. Il ritorno dell'investimento, secondo Simon Lock, può essere stabilito, «anche se spesso dipende dagli obiettivi specifici e dalla strategia di implementazione dell'azienda». «Certi vantaggi - specifica - sono misurabili, come una maggiore fiducia dei consumatori, un valore di rivendita più elevato, un calo della contraffazione, una semplificazione dei resi e una maggiore conformità alle normative sulla sostenibilità. Nel tempo questi benefici si traducono in ritorni finanziari, grazie a una maggiore fedeltà dei clienti, a efficienze operative e a un aumento del valore del ciclo di vita del prodotto». In più, le analisi avanzate delle interazioni con il Dpp possono fornire preziose informazioni per un marketing mirato e miglioramenti nei prodotti, aumentando ulteriormente il Roi. «Sebbene la tecnologia Dpp sia tradizionalmente adottata dalle grandi imprese - aggiunge l'esperto di innovazione digitale - sta diventando sempre più accessibile alle Pmi, grazie alla diminuzione dei costi e all'emergere di soluzioni di facile utilizzo».
Francesca Rulli guida Y Hub, holding a cui fanno capo Process Factory (società di consulenza co-fondata nel 2008, nota per il sistema e marchio di garanzia 4sustainability), The Id Factory (soluzioni digitali per la tracciabilità nella moda) e Ympact (società benefit e piattaforma per la misurazione degli impatti ambientali e sociali). Pioniera della tracciabilità e sostenibilità in Italia, parla di «onda travolgente» per la filiera del fashion, in questi ambiti, dopo lo slancio nel 2018, connesso a una maggiore consapevolezza di consumatori e investitori, e l’input legato alla Pandemia e a nuove normative. «Un anno e mezzo fa - spiega - seguivamo 300 aziende di prima
AWARENESS ELEVATA
TRA I CONSUMATORI
HIGH SPENDER
Da un sondaggio di Authentique con la consumer experience agency Me, The Customer and I risulta un livello di conoscenza più alto del previsto, tra i consumatori, in materia di Dpp. Il 53% degli intervistati ne ha sentito parlare e il 25% sa di cosa si tratta. «Considerando che i regolamenti Ue non entreranno in vigore prima del 2027 e che finora pochi marchi hanno adottato i Dpp, è un livello di consapevolezza elevato», osservano dall'azienda francese. Per il restante 47% è stata la prima volta che ne è venuto a conoscenza. «Anticipare i consumatori e istruirli è la chiave per il successo di una strategia aziendale di implementazione e di adozione», secondo Authentique. La probabilità che il Dpp venga consultato è alta: il 90% del panel dichiara di voler utilizzare le informazioni sui prodotti, l'87% utilizzerebbe un certificato di autenticità e l'86% consulterebbe le indicazioni per cura e riparazione. Ma c'è anche un 82% interessato alle informazioni sul resale, un 74% che punta all'accesso a benefit e un 71% che vorrebbe avere informazioni sulla sostenibilità. L'indagine è stata condotta online nell'aprile 2024 su 330 consumatori high spender europei, che rappresentano una spesa annua totale, per moda e lusso, pari a 4,5 milioni di euro.
fascia, con alle spalle mille fornitori. Oggi collaboriamo con 50 brand, i clienti attivi sono 3mila e i fornitori mappati 80mila». Le aziende, a suo parere, sono pronte a nuove conformità, anche se talvolta spaventano, ed è un momento di forte consapevolezza che il modello deve cambiare: da solo “profit” a “profit, planet, people”: «Un’organizzazione deve fare profitti, ma nel modo in cui li genera deve avere un occhio di riguardo per il pianeta e le persone». La logica europea è chiedere l’applicazione del Dpp alle realtà più grandi, per poi arrivare nel 2030 a coprire tutte le imprese. Gli aspetti di monitoraggio e controllo della filiera non dipen-
dono dalla fascia di prodotto: «Che si tratti di lusso o fast fashion, tutto dipende dalle numeriche da tenere sotto osservazionespecifica Rulli -. Fa eccezione l’ultra-fast fashion, che con il suo modello di business non rende possibile il controllo della filiera». Quanto ai recenti scandali, che hanno coinvolto le forniture di alcuni noti luxury brand dice: «Hanno acceso i riflettori sul tema di alzare l’attenzione sul controllo della filiera e dei sub-fornitori». Sui consumatori, alla prova con il nuovo tool digitale, afferma: «La sensazione è che, tra tutti gli stakeholder, siano quelli più indietro, anche perché non trovano le informazioni: questo è uno dei motivi per cui promuoviamo il Dpp come strumento educativo. Secondo stime, i passaporti digitali, applicati a intere collezioni nel mondo, vengono poco letti, quindi va aumentata la visibilità di questo veicolo di informazione. Bisogna preparare i venditori e vanno pubblicate schede prodotto più dettagliate online». «I brand più evoluti - aggiunge - sfruttano il passaporto per il marketing puro, l'engagement, la fidelizzazione e il gaming: una scelta che non approvo, se basata su dati da greenwashing. Spero che il Dpp metta ordine in tal senso». In merito agli ingenti costi legati a sostenibilità e tracciabilità, dice: «Le aziende italiane della filiera, anche piccole, che hanno investito negli ultimi anni sono quelle che performano meglio, anche se il 2024 è stato sfidante. Inoltre, in base a statistiche sui trend degli ultimi tre/quattro anni, più investono in queste logiche e più crescono». In anni recenti le agevolazioni per la trasformazione digitale e tecnologica delle imprese sono cresciute esponenzialmente. A livello nazionale c’è un nuovo bando promosso dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che prevede contributi a fondo perduto per la transizione green e tech per moda, tessile e accessori. «Sono agevolazioni specifiche per le Pmi del settore, ma l’aspetto più interessante - conclude Rulli - è il capitolo sulle spese ammissibili, dove si fa esplicito riferimento, per la prima volta, a sistemi di tracciabilità digitale della filiera produttiva». C'è tempo fino al 31 gennaio per la presentazione delle domande. La copertura può arrivare fino al 50% delle spese sostenute, secondo i criteri definiti nel decreto attuativo. ■
ELISABETTA FABBRI
Mark Batista «Siamo una fiera che sembra una showroom»
Mentre i saloni soffrono, Welcome Edition cresce. Nasce a Parigi e si espande a New York. Come una showroom, offre prodotti esclusivi, dalla forte identità, tutti mixabili. La rassegna è sempre in movimento e lo è anche il fondatore Mark Batista, che aspetta i partecipanti per una corsa insieme a lui
Siamo in un un momento in cui molte fiere di settore chiudono i battenti, come Premium Berlin, altre cambiano formato e diventano liquide - è il caso di Seek -, si fondono come Ciff (Copenhagen Fashion Fair) e Revolver, si alleano come ha fatto Ciff con Ispo Munich o, semplicemente, perdono espositori e visitatori. Ma in un contesto come questo non mancano le eccezioni. Tra appuntamenti cancellati e segni di sofferenza, una fiera nata nel 2018
a Parigi, Welcome Edition Showroom, ha successo e continua a crescere. È sopravvissuta al Covid, resistendo con edizioni digitali nel 2020, e oggi richiama un numero crescente di buyer internazionali e professionisti di settore, che ne parlano con entusiasmo. Dopo il debutto a Parigi, nel 2022, è nata anche la versione newyorchese e presto potrebbe arrivare una terza edizione in un’altra capitale globale di moda. Cofondatore della fiera è Mark Batista, in-
sieme ai partner Paul Batista e a Kestin Hare. Il manager, oltre che direttore dell’evento, è un insider di lungo corso perché è proprietario di Brand Progression, showroom londinese nata 26 anni fa che distribuisce vari marchi di moda, molti dei quali sono anche espositori dell’evento. Questo businessman esperto non ama comparire, né raccontare troppo di sé e dei suoi progetti. È longilineo, ha un fisico sportivo che si riflette anche nel suo stile di vestire in-
formale. Predilige lo stile varsity. Indossa spesso T-shirt morbide, polar fleece top e baseball cap, come chi è abituato a non stare mai fermo, darsi da fare e coinvolgersi in prima persona.
Ha già fondato altre fiere in passato, focalizzate su marchi di moda maschile dal gusto autentico, come To Be Confirmed, evento che si svolgeva a Londra, New York e Tokyo, e poi Jacket Required, che si teneva Londra e che poi ha venduto qualche anno fa prima che chiudessero. Si è concentrato su questo nuovo progetto con obiettivi precisi. «Abbiamo creato Welcome United per supportare la nostra agenzia e i marchi che sono nostri clienti premium e luxury», spiega Batista. «Lo abbiamo fatto per offrire un servizio in un ambiente adatto alle richieste dei nostri buyer», continua, spiegando come i brand offerti si concentrino principalmente su abbigliamento maschile d’alta qualità, dall’identità definita, autentici, ma anche capaci di reinventare il loro dna in chiave moderna.
«Partecipano alle nostre fiere i marchi che amiamo e che pensiamo possano star bene accanto a quelli che già sono presenti nei nostri eventi, oltre a piacerenoi pensiamo - a chi ci visiterà», chiarisce. Lascia intendere che, piuttosto che far partecipare molti espositori, le aziende ammesse sono strettamente selezionate in base alla loro qualità, identità di brand e coerenza con il resto dell’offerta, sulla base della conoscenza profonda del settore e delle esigenze di negozi di fascia alta di chi visita le edizioni di Welcome.
La fiera si svolge due volte l’anno a Parigi, nella location di 28 rue De Lappe dal 23 al 26 gennaio e in giugno, mentre a New York la location è l’ex-negozio Barney’s, nella 101 7th Avenue, dal 28 al 30 gennaio e in luglio.
L’edizione parigina presenta circa 130 marchi, tra i quali Benzak Denim Developers, Norbit, Mountain Research, Red Wing, Fred Perry, Drakes Of London, Barbour, Baracuta, Snow Peak, Porter Yoshida, Service Works, Staple NYC, Roy Roger’s Workwear, President’s e Nigel Cabourn. Quella newyorchese si concentra su 100 brand: AB Uniform,
FATTI, NON PAROLE
• Se le altre fiere soffrono, le due Welcome Showroom edition di Parigi e New York hanno successo. Presto potrebbero diventare tre, aggiungendo un ulteriore evento in un’altra capitale della moda globale.
• Mentre altre manifestazioni ammettono un alto numero di aziende per garantire la redditività dei loro spazi, Mark Batista, cofondatore delle fiere e proprietario della showroom Brand Progression di Londra, dopo un’accurata selezione accoglie solo prodotti e brand caratterizzati da uno stile autentico e da un'alta qualità, coerente con gli altri marchi della sua showroom e con gli altri espositori.
• Se molti saloni tendono a essere autocelebrativi e a ospitare stand di dimensioni differenti, dall’immagine vistosa, Welcome si svolge in un capannone essenziale, dove gli stand sono piccoli e tutti uguali, per far sì che sia il prodotto a emergere e a far parlare di sé, non gli allestimenti.
• Spesso le rassegne di settore tendono a offrire esperienze di svago e divertimento a chi le visita, oltre a presentare prodotti di più segmenti e tipologie. Welcome, invece, offre una selezione di prodotti completa (dall’accessorio al total look), sempre coerente con la sua mission di far sentire il cliente come se si trovasse in una showroom, dove potersi concentrare sul proprio lavoro.
• Mentre molte manifestazioni di settore ospitano eventi come sfilate, tavole rotonde e feste, Welcome organizza una corsa per gli appassionati del running la mattina del giorno prima che inizi la fiera, come momento di condivisione e segnale di via, ma anche metafora di dinamismo e tensione a migliorare continuamente.
Adsum, Afield Out, Amundsen Sportswear, Arrow, Astorflex, Baileys1992, Flower Mountain, Homecore, Kangol · Karhu, Red Wing, Retrosuperfuture e Studio D’Artisan.
Anche l’immagine della fiera punta alla sostanza. La location nella Ville Lumiere è un capannone essenziale dall’aspetto poco appariscente, con un ingresso sicuramente non paragonabile allo stereotipo delle rassegne convenzionali. Gli stand sono piccoli, tutti uguali
e arredati in base allo stesso format. In questo modo viene ricreato ancora una volta un ambiente di lavoro simile a una showroom, pensato per far emergere semplicemente i prodotti liberi da orpelli o sovrastrutture.
Mark Batista somiglia a Welcome United e, coerentemente con il suo spirito di persona laboriosa, appassionata e sempre in movimento, nutre anche una grande passione per la corsa, che l’ha portato a fondare nell’aprile 2021 il Progress Running Club.
Si tratta di una vivace comunità globale di runner, che non ha a che fare con il progetto lanciato da Pitti per questa edizione, anch’esso legato a una comunità di runner della capitale britannica.
Il Progress Running Club si ispira, con un pizzico di nostalgia, alla corsa stile anni Ottanta, come i due negozi che Batista ha aperto nella parte Nord e nella zona Est di Londra, ai quali potrebbe presto aggiungersi un nuovo store in Giappone.
Dai suoi punti vendita e dalle sue manifestazioni sono nati dei club a Londra, Parigi e New York, che accolgono corridori di tutti i livelli e promuovono l’idea che si può sempre migliorare, fosse anche solo facendo piccolissimi passi avanti.
Molti gruppi di runner si incontrano settimanalmente e corrono insieme, condividendo esperienze e opinioni su quali siano le migliori scarpe da ginnastica e i prodotti di abbigliamento più adatti per praticare questo sport.
Sulla scia della febbre per la corsa, i club organizzano sempre un contest, la mattina prima che si svolga ciascuna fiera a Parigi e New York.
La passione per il running, come la fondazione di club e di negozi a tema, esprimono metaforicamente lo spirito di Welcome Edition che, come il suo fondatore, non riesce a restare fermo ma è sempre impegnato, come in un esercizio costante, a migliorare, dando sempre di più ai compagni di corsa, che siano atleti - in erba o professionisti - oppure negozianti. ■
MARIA CRISTINA PAVARINI
CONSINEE E L’ARTE DI CONIUGARE
TECNOLOGIA
E CULTURA
Ogni anno una nuova collaborazione speciale dà vita a una capsule collection che esalta le potenzialità espressive del cashmere. La prossima, presentata a Pitti, sarà firmata da Angelo Flaccavento e Luca d’Alena. Alla base, una produzione etica e responsabile, tracciabile lungo l’intera filiera, gestita da una struttura industriale automatizzata e digitalizzata
Dedicare un libero spazio espressivo ad autori provenienti da diversi campi e culture, con l’intento di mostrare le possibilità e la malleabilità offerte dai materiali, attraverso una celebrazione della creatività e della sperimentazione. Questo il cuore delle special collab che Consinée - gruppo cinese leader a livello globale nella produzione di fibre di cashmere e filati preziosi da filiera certificata e sostenibile - da qualche anno sviluppa in occasione di Pitti Uomo.
All’edizione 107 della kermesse fiorentina, protagonista è I just don’t want to wake up, progetto curato dal giornalista e disegnatore Angelo Flaccavento in collaborazione con il fashion designer Luca D’Alena. Si tratta di una capsule collection di maglieria che celebra il potere dell’intimità per trasmettere un messaggio di fragilità come forza. L’idea è di portare in strada il mondo dei sogni e la pace appagante che si sperimenta nel sonno, creando uno spazio personale intimo e sicuro all’interno della frenesia della vita pubblica.
Le linee guardano compiaciute a indumenti da notte e underwear, oppure esplorano trapuntature e imbottiture che richiamano cuscini e coperte, o ancora inglobano pieghe e imperfezioni - suggerite in trompe-l’oeil da jacquard sapienticome di chi si è assopito con i vestiti ancora addosso. I volumi giocano invece con l’idea dell’allungamento, contrapposta a un’avvolgente abbondanza, mentre i pesi oscillano dal leggerissimo al corposo.
Immaginata per essere indossata nella pace di casa come per strada, pensata per corpi maschili ma anche femminili, è stata realizzata con la sapienza tecnica di Loma, partner ideale per chi desidera una produzione esclusivamente Made in Italy in cui l’innovazione vada di pari passo con la cura artigianale.
Fondata nel 1999 a Ningbo, Consinee Group - che assorbe il 20% della produzione mondiale di filati in puro cashmereha messo a punto una struttura industriale completamente automatizzata e digitalizzata capace di integrare, dalla materia prima alla distribuzione di filati pregiati, le diverse fasi del processo produttivo, anche grazie all’utilizzo dell’AI. Una modernizzazione che la rende nota come l’azienda leader nell’industria 4.0, la prima “fabbrica del futuro” della provincia di Zhejianggrazie.
Per Consinee Group è altrettanto fondamentale poter garantire una produzione etica e responsabile, i cui pilastri sono la protezione dell’ambiente, grazie a basse emissioni di carbonio, il benessere degli animali e la sostenibilità sociale. Alla base di questa politica c’è il valore della trasparenza, ovvero la tracciabilità di tutta la filiera, a partire dalla provenienza delle fibre grezze, grazie a un sistema rigoroso di monitoraggio. Mentre la collezione di filati riciclati dimostra l’impegno dell’azienda a promuovere l’economia circolare, contribuendo a creare un’industria restaurativa e rigenerativa per le future generazioni.
LETIZIA GALLI
«Non toccatemi la mia Brunate»
Ci sono amori che durano per sempre e quello di Letizia Galli è stato uno solo, in tutta la sua lunghissima vita: l’amore per la sua azienda, la Brunate di Lomazzo. L’ha presa in mano a 19 anni e non l’ha più lasciata, nemmeno oggi che ha 104 anni. Sì, 104. E tutti i giorni (o quasi) si presenta in ufficio
Quando arriviamo in sala riunioni a Lomazzo lei non c’è. D’istinto ci preoccupiamo. A 104 anni l’equilibrio è giocoforza precario. Non sembra essere però questo il caso di Letizia Galli, per tutti “la zia Letizia”, che invece è semplicemente alla sua postazione: in ufficio, a spuntare le fatture. Ha la messa in piega, i capelli biondi con la tinta, un filo di perle e quando la osserviamo dalla soglia della porta non alza la testa dai fogli, immersa com’è. I conti devono tornare e finché non tornano si sta lì, ci dirà. Quando ci viene incontro, la seconda sorpresa: cammina sulle sue gambe. Dimostra 20 anni di meno. La terza, di sorpresa, è la più inaspettata: non solo è lucida e si esprime con chiarezza, ma ha ancora la risposta pronta e il suo involontario humor ci fa intravedere la donna che è stata. Senza peli sulla lingua. Decisionista. Una vera capitana. «Ma che bella signora», esordiamo, giusto per rompere il ghiaccio. «Bella no, non sono mai stata - ci corregge subito -. È venuta per intervistarmi?».
Letizia Galli è un esempio raro, rarissimo, di empowerment femminile ante litteram. Nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, muore improvvisamente il papà e lei, la maggiore di sei fratelli, ha 19 anni. «Ho lasciato gli studi e sono venuta qui. Non c’era nessun altro per portare avanti la fabbrica e gestire oltre 200 operai. Ce l’ho messa tutta. Mi portavo a casa il lavoro e andavo avanti fino alle 11 di sera, poi la mattina facevo fare un controllo alle mie impiegate e fatture e conti erano sempre giusti». Momenti difficili ce ne sono stati, ma non tanto perché Letizia fosse una donna sola al comando - «Mi volevano tutti bene» assicura -, quanto per il contesto storico e per i rischi che ogni imprenditore (a quel tempo la parola imprenditrice era pressoché sconosciuta) è chiamato a fare. Proprio l’anno del suo arrivo alla guida dell’azienda vengono promulgate le leggi razziali. «All’epoca la famiglia Sciunnach, ebrea di
Roma, era il nostro più importante distributore per il Centro e il Sud Italia - racconta - e dai nazisti continuavano ad arrivare comunicazioni per iscritto, che premevano affinché tagliassimo i ponti con loro». Letizia Galli, nonostante la giovane età, non arretra di un millimetro e lascia che queste missive (custodite oggi a Roma dalla comunità ebraica) restino lettera morta, tanto che gli Sciunnach hanno continuato a lavorare come agenti della Brunate fino a qualche anno fa. La prova più dura fu però quella che la zia Letizia dovette affrontare dieci anni dopo, nel 1949, quando un incendio
IDENTIKIT
Fondato nel 1926 da Vittorio Galli, il calzaturificio Brunate di Lomazzo produce oggi 600 paia di scarpe al giorno, destinate per il 95% all'export, per lo più in Europa. Con una vocazione wholesale, l'azienda dialoga con circa 400 multimarca, dove le calzature Brunate sono vendute con prezzi compresi tra i 250 e i 500 euro. Oggi è guidata dalla terza generazione di famiglia.
(che aveva 29 anni) non si fece intimorire, girò i tacchi e si presentò in un’altra banca, che le fece un prestito per ricominciare. In oltre 80 anni di “mandato” non è stato tutto rose e fiori, ma non sono mancate le «tantissime» soddisfazioni. Le scarpe Brunate hanno vestito i piedi di donne bellissime, teste coronate e capi di stato. Letizia Galli ci fa vedere le foto di Angela Merkel alla Casa Bianca con dei mocassini in camoscio blu, della regina Margrethe di Danimarca, che «aveva il 41 e mezzo e dovevamo fare le scarpe su misura», della regina Paola del Belgio, che «è venuta a trovarmi in visita privata nel 2018». «Faccio fare delle fotocopie!», ci dice, e solo in quel momento realizziamo veramente la sua età. Letizia Galli non si è mai sposata e tantomeno ha mai pensato di farlo. Il mandare avanti l’azienda è stato il pensiero fisso intorno a cui è girata la sua vita, ispirata da un connaturato senso del dovere. Nel periodo d’oro dell'azienda, tra gli anni Sessanta e Ottanta, si realizzavano 2mila scarpe al giorno. Oggi, sebbene i volumi si siano ridotti, tra i cinque calzaturifici attivi all’epoca a Lomazzo, Brunate è l’unico rimasto. Altissima qualità e comfort continuano a essere il mantra aziendale, anche per la nuova generazione al comando, i cinque nipoti Andrea, Sara, Vittorio, Simona e Marta. «Quando entreranno i pronipoti, lei potrà finalmente riposarsi…», suggeriamo. «Ah no, finché posso vengo qui - ci stoppa. -. Cosa faccio a casa? A casa mi stufo. Sì, leggo, ho le mie amiche, ho pure la donna di servizio, anche se mica mi faccio servire». «Allora continuerà a venire in ufficio tutti i giorni?», rintuzziamo. «Non vengo più tutti i giorni! La dottoressa me l’ha proibito, mi lascia venire solo a giorni alterni. Non sono contenta di questa decisione. Qui ho ancora in mano tutto io, sa? Guai a chi mi tocca la mia Brunate». ■
divampato di notte distrusse buona parte dello stabilimento. A quel tempo si faceva tutto internamente, dai componenti come la suola fino alla scarpa. «Siamo andati avanti lo stesso. Fornitori e clienti ci hanno garantito il loro appoggio, pagandoci in anticipo», ricorda Letizia, che in quell’occasione chiese aiuto anche alla sua banca. Il finanziamento le fu però negato e solo più tardi si verrà a sapere che tra i soci dell’istituto di credito c’era un calzaturificio concorrente della Brunate. Anche in quel caso l’imprenditrice ANGELA TOVAZZI
DIETRO LE QUINTE DEL SUCCESSO
•
«LA DEDIZIONE: MI PORTAVO A CASA IL LAVORO E ANDAVO AVANTI FINO ALLE 11 DI SERA»
•
«LA FORZA DELLA FAMIGLIA: AVEVO SOLO 19 ANNI MA SULL'ACCETTARE LA SFIDA DI PORTARE AVANTI L'AZIENDA DI MIO PADRE NON HO MAI AVUTO DUBBI»
•
«LA RESILIENZA: ABBIAMO RESISTITO AI NAZISTI, A UNA GUERRA MONDIALE, A UN INCENDIO, AGLI ALTI E BASSI DEL MERCATO. E OGGI SIAMO ANCORA QUI»
Ph. Alberto Bernasconi
OLIMPIA SANTELLA E CHIARA AIROLDI «Moda circolare? Noi facciamo sul serio»
Una carrarese e l’altra varesotta, inserite tra gli under 30 della lista
Forbes 2024: insieme hanno lanciato Cloov, una fashion-tech startup per abilitare le aziende a strategie resale, rental e repair
Rispettivamente 27 e 28 anni, Olimpia Santella e Chiara Airoldi dal vivo sembrano ancora più giovani. Eppure appena iniziano a parlare dimostrano di avere competenza, idee chiarissime e, soprattutto, grandi ambizioni: fare della startup che hanno lanciato insieme nel 2022 «un provider leader in ambito circolare». Ma riavvolgiamo il nastro. È ottobre 2021 quando un comune conoscente le mette in contatto. Una vive a Londra, l’altra ad Amsterdam, ma hanno gli stessi interessi verso le pratiche green. Basta una mezz’ora di telefonata per far scattare il click e porre le premesse di quello che da lì a poco sarebbe nato come progetto comune: Cloov. «Il nome è frutto di una crasi fra Clothing, vestiti, e Cloud, condivisione - spiega Olimpia, studi alla Bocconi e un Mba presso l’Ibm di Bangalore -. Dopo un approfondito brainstorming abbiamo capito che sul mercato c'era una doppia esigenza: lato brand, quella di gestire in modo sostenibile e profittevole gli stock, in particolare i capi invenduti; lato clienti finali, quella di accedere ai prodotti moda in modo conveniente e responsabile». Da lì l’idea di mettere a punto una proposta “chiavi in mano” per i marchi fashion, attraverso la creazione di piattaforme brandizzate che abilitassero le aziende ad attività resale, rental e repair, offrendo un servizio endto-end, dalla gestione della logistica e dei pagamenti al controllo qualità, al customer service, fino alla riparazione e al ricondizionamento dei capi. Tutto gestito da Cloov. «Abbiamo sviluppato un software - spiega Chiara Airoldi, una laurea in marketing e un master in Sda Bocconi - che a noi permette di restare dietro le quinte e ai brand di esternalizzare completamente il servizio, lanciando rapidamente una sezione di re-commerce e noleggio, accessibile dal loro sito, dove però tutte le operation,
IDENTIKIT
Olimpia Santella, ceo di Cloov, ha conseguito una laurea magistrale in Management presso l'Università Bocconi e un Mba presso l'Ibm di Bangalore, la Silicon Valley indiana. Prima di tornare in Italia per avviare Cloov, ha fatto esperienza a Londra nel settore dell'investment banking.
Chiara Airoldi, coo di Cloov, si è laureata in Marketing nel 2018 presso l'Università Iulm di Milano e successivamente ha completato la sua formazione con un Master in imprenditorialità e Strategia Aziendale presso la Sda Bocconi, conseguito nel 2020. Prima di Cloov, ha lavorato in Olanda come Commercial Strategy & Planning Specialist da Klarna.
dall’inizio alla fine, sono orchestrate da noi con una rete di partner». Oggi Cloov lavora con label come Atelier Emé (Gruppo Oniverse, ex Calzedonia) e Rinascimento, ma altre stanno per arrivare. È risaputo che le startup femminili fanno più fatica a raccogliere finanziamenti rispetto a quelle create da giovani imprenditori, ma nel caso delle due ragazze non è stato così: «Abbiamo avuto la fortuna di trovare “smart people” che hanno creduto nel nostro progetto e lo hanno sponsorizzato», precisa Olimpia, ricordando che lo scorso marzo Cloov ha ottenuto un round da 400mila euro. Tra coloro che supportano le due founder ci sono Giuseppe Stigliano, ceo dell'agenzia americana di marketing Spring Studios, e realtà industriali di rilievo come Axxelera, veicolo di investimento del gruppo Innovando (società di investimenti attiva nel settore dell’economia circolare). La sfida più difficile, secondo le due imprenditrici, non è stata tanto quella di superare la barriera del genere e della giovane età, quanto di «riuscire a ottenere la fiducia dei decision maker all'interno delle aziende e creare un team che credesse nella nostra stessa mission». Oggi quel team è composto da sei persone ed è cresciuta la consapevolezza di poter incidere sui modelli di consumo, anche a causa della pressione esercitata sulle aziende dalla regolamentazione europea. I progetti sono tanti: «Nel 2025 - spiega Chiara - vogliamo concretizzare lo sviluppo all’estero, per collaborare con marchi di Paesi come Germania, Olanda, Francia e Spagna». «Facciamo sul serio - aggiunge -. Entro cinque anni puntiamo a diventare leader europeo nell'abilitazione delle aziende nell'economia circolare». Olimpia la guarda complice. Sorride. E annuisce. ■
ANGELA TOVAZZI
CARLO PIOMBO
«Né avvocato,
né fantino. Ho preferito l’azienda di famiglia»
Il marchio fondato da Massimo Piombo ha cambiato nome, passando sotto la regia del figlio Carlo. Che in Italia ha rivoluzionato la distribuzione, bypassando agenti e showroom e puntando sulla vendita diretta
L'autunno 2024 ha segnato una svolta per lei. Il marchio MP Massimo Piombo ha cambiato nome, diventando Carlo Piombo, e dopo 12 anni di "gavetta" lei ora è l'unico regista. Una strada già segnata? In realtà no, nella vita dovevo fare altro. Ho studiato legge all'Università Cattolica di Milano e contemporaneamente facevo gare di equitazione a livello agonistico. Una volta laureato, non ci ho messo molto a capire che quella dell'avvocatura non era la mia strada. Così sono andato prima a Londra da Moncler per un anno e poi un altro anno l'ho passato a Napoli dalla Kiton. Il mondo della moda mi piaceva ed era nelle mie corde. Ricordo con nostalgia quando da piccolo i miei genitori mi portavano con loro in giro per il mondo alla ricerca dei tessuti per le nuove collezioni. Da figlio unico non mi piaceva restare a casa con le babysitter e seguirli mi ha permesso di conoscere clienti e fornitori. In qualche modo sono tornato alle mie origini.
Lo fu ancora di più l'anno seguente e l'anno dopo bissammo ancora. Quindi abbiamo deciso di adottare la vendita diretta come modello distributivo. I vantaggi di saltare i passaggi della catena commerciale non stanno solo nella possibilità di offrire
Avete appena concluso la private sale in via Borgonuovo a Milano. Cosa c'è da migliorare?
Le vendite sono andate oltre le nostre aspettative. Abbiamo allargato il perimetro dei clienti e ora puntiamo ad alzare l'asticella. Ci piacerebbe personalizzare la location, in modo che anche l'ambiente parlasse di noi e del nostro approccio alla moda. Con l'idea in futuro di esportare il format in altre città italiane. E all'estero?
È tornato alle origini, ma mettendoci del suo, fino ad arrivare al rebranding...
È stato mio papà a insistere affinché la linea prendesse il mio nome. Sono entrato a far parte dell'azienda di famiglia nel 2012 e ormai erano sei anni che mi occupavo in autonomia di MP Massimo Piombo. Sicuramente il mio arrivo ha portato delle innovazioni, ma non tanto sulla collezione e la filosofia produttiva, quanto sul format distributivo.
Perché lei a un certo punto ha deciso di fare a meno di agenti e showroom?
La decisione è stata presa inizialmente per necessità nel 2020, quando è scoppiata la pandemia e ci siamo ritrovati con molti capi invenduti nei nostri magazzini. In quel periodo decidemmo di invitare i clienti nella nostra showroom, vendendo loro i capi con il prezzo che avremmo applicato ai negozi. Il successo fu enorme.
Figlio d'arte, 39 anni, Carlo Piombo apre il secondo capitolo del marchio di famiglia: «Un progetto più legato alla passione che al business»
Oltreconfine non cambia nulla. Abbiamo relazioni consolidate con un centinaio di multimarca internazionali: negozi top come quelli dell'insegna austriaca Dantendorfer. Una distribuzione mirata, in linea con la nostra produzione, fatta di capsule a tiratura limitata, realizzate con tessuti esclusivi che noi sviluppiamo autonomamente. I materiali sono frutto di una grande ricerca in tutto il mondo, come il baby Alpaca delle Ande peruviane, lo shetland della Scozia, il cashmere della Mongolia o il mohair austriaco. Una base di altissima qualità, per capi sartoriali che non passano di moda, con un quid contemporaneo che li distingue.
Quali sono stati i momenti
più difficili del suo percorso?
Quali i più belli?
All'inizio non è stato facile. Avevo il complesso di essere "il figlio di". Ho cercato di lavorare con umiltà e di conoscere tutti gli aspetti relativi alla gestione del business e del prodotto. Negli ultimi anni, soprattutto dal Covid in poi, è stato invece un susseguirsi di soddisfazioni.
C'è qualche designer o marchio che la ispira in quello che fa?
Non saprei... Però sì, c'è un brand che mi piace moltissimo. Si chiama Pia Lea: è gestito da due sorelle austriache. È innovativo perché mixa l'old school con una visione fresca e rock. Come piace a me. ■
un prodotto artigianale di alta qualità a un prezzo competitivo, ma anche di instaurare una relazione diretta con i clienti, raccontando loro le peculiarità e i plus distintivi dei capi, senza che il nostro messaggio si perda in mezzo alla moltitudine di offerta presente sul mercato. Le private sales sono un format innovativo: non vendiamo pezzi avanzati o delle passate stagioni, ma i capi in-season, proposti a metà prezzo. ANGELA TOVAZZI
«Ogni profumo è un'avventura personale»
Cresciuto in una famiglia che nelle ultime tre generazioni ha girato il mondo e lui stesso viaggiatore e cacciatore di sensazioni, Thibaud Crivelli racconta perché i profumi di Maison Crivelli sono diversi da tutti gli altri
Atu per tu con Thibaud Crivelli, i cui profumi racchiudono intense esperienze di vita. Le creazioni di Maison Crivelli si stanno distinguendo sul mercato: presenti in oltre 300 negozi di alto livello in 40 Paesi, in Italia sono distribuite da Olfattorio e si trovano in punti vendita come Rinascente. Il quartier generale è a Parigi, in rue Saint-Honoré 280, ma Crivelli vuole trasferirsi nel 2025 in una sede più vicina agli ChampsElysées, per sostenere la crescita e le ambizioni del marchio. Da Maison Crivelli lavorano 40 persone, più altre 20 previste per il 2025. Nel 2024 è stata aperta una filiale nel Regno Unito.
Lei ha studiato all'Essec, ma è anche un artista dei profumi: come riesce ad armonizzare questi due aspetti?
Aver studiato all'Essec mi ha fornito solide basi di business e management, essenziali per gestire un'azienda di successo. Tuttavia, la mia passione per la profumeria è radicata nell'espressione artistica e nell'esplorazione sensoriale. Combinando queste due sfaccettature affronto la creazione di fragranze con una mentalità strategica e al tempo stesso con una visione creativa.
Ha lavorato per i profumi di Givenchy, Guerlain, Dior. Cosa ha imparato da queste esperienze e cosa l'ha spinta a mettersi in proprio?
Creare un marchio di profumi è un progetto che avevo in mente già da bambino. Sono cresciuto a La Roche Posay, in una famiglia che ha girato il mondo nelle ultime tre generazioni e che ha vissuto in vari Paesi. Mio padre, farmacista, aveva creato un marchio cosmetico, venduto nel suo negozio. La mia infanzia è stata pervasa da spirito di avventura, imprenditorialità e da una mentalità aperta. Prima di creare il mio brand ho sentito che era necessario fare esperienza, lavorando per famose case cosmetiche in Asia e arrivando a conoscere la profumeria di lusso e dei sistemi intricati dell’industria. Alla fine sono molto felice di aver fondato la Maison Crivelli e di vivere il mio sogno. Questo progetto mi permette di creare profumi ispirati a esperienze personali, proponendo così un approccio distintivo alla fragranza.
C'è una sua fragranza che per lei è come la madeleine di Proust?
Tutti i profumi della Maison Crivelli sono ispirati ad avventure personali. Se dovessi nominarne uno che mi sembra più di altri la “madeleine de Proust”, sarebbe Tubéreuse Astrale. Questa fragranza è un omaggio ai ricordi d'infanzia trascorsi con
«Mi ispiro ai momenti che ho vissuto e ai molti elementi sensoriali che ho assaggiato o annusato, ma anche a musica, persone, colori, texture»
Thibaud Crivelli
mio padre, appassionato di astronomia e di aviazione. Gli è sempre piaciuto osservare la Via Lattea e le stelle e io lo accompagnavo. Abbiamo trascorso molte serate all'aperto, guardando le stelle insieme. Durante queste uscite, ricordo di aver sentito il profumo della tuberosa. Sono fiori bianchi e delicati, che mostrano la loro vera bellezza solo di notte. Tubéreuse Astrale cattura questo ricordo abbinando le sfaccettature cremose e radiose della tuberosa con il cuoio vellutato e le note di pelle di pesca, in una composizione audace ma intima. Sono presenti anche note cipriate, che evocano le sfaccettature scintillanti delle stelle. Questa fragranza unica è stata realizzata dal profumiere Quentin Bisch.
Cosa rende speciali le creazioni di Maison Crivelli?
Mi ispiro alle avventure che ho vissuto e ai molti elementi sensoriali che ho assaggiato o annusato, ma anche a musica, persone, colori, texture. La collezione è come un taccuino, racchiude tutti i miei momenti preferiti di scoperta dei profumi. Per esempio, il nuovo Oud Stallion, realizzato dal profumiere Jordi Fernandez, nasce dall'esperienza di assistere alle corse dei cavalli, dove i profumi terrosi e fumosi della natura si fondono con la ricchezza del cuoio e dell'oud (una materia prima nota come il “legno degli dei”, ndr).
Le piace affermare che la profumeria è un'esperienza "viva"...
Per me profumeria non significa solo il profumo finale, ma le emozioni e i ricordi che può evocare. Dietro le fragranze di Maison Crivelli ci sono le esperienze sorprendenti che ho fatto. La fase successiva è dare istruzioni ai profumieri, per incapsulare quei momenti nelle formule dei profumi.
Dove andrà nel suo prossimo viaggio e a quale profumo sarà abbinato?
Da appassionato di immersioni subacquee, andrò alle Seychelles. Devo però dire che le nostre fragranze non si ispirano a destinazioni specifiche, ma a momenti indimenticabili. Quindi chissà se troverò l'ispirazione per una nuova creazione? ■
Oud Stallion e Oud Maracuja: due creazioni di Maison Crivelli
Un format moderno esperienziale nel quale Produttori e rivenditori dei più innovativi macchinari, impianti, processi e servizi per la produzione dell’abbigliamento e la lavorazione dei tessuti avranno la possibilità di entrare in contatto con responsabili di produzione, fasonisti, fashion designer, modellisti , prototipisti, responsabili logistica e distribuzione.
I settori espositivi
Un evento cucito su misura al quale non potrai mancare
Un’occasione imperdibile di visibilità esclusiva all’interno di una filiera in continua evoluzione per instaurare alleanze strategiche commerciali significative e per accelerare la crescita professionale della tua azienda sul mercato.
Tre giorni intensi di formazione, corsi e attività dimostrative all’interno di un networking di alto livello tra tutti gli stakeholders chiave del mondo della produzione della moda.
La sinergia con Technofashion, consentirà, inoltre, di intercettare un pubblico B2b altamente qualificato e metterti in contatto con i decision -makers e professionisti interessati alle tue soluzioni.
Le prime aziende presenti
Inquadra il QR Code per maggiori informazioni sull'evento
332039665 info@samab.it
Progetto e direzione In collaborazione con
Termo Adesivazione
Cucito Stiro
Cad / Cam / Plm
Progettazione Taglio
Logistica Ricamo
Con il patrocinio di
A.D.
Markus Gotta markus.gotta@dfv.de
DIRETTORE RESPONSABILE
Tobias Bayer t.bayer@fashionmagazine.it
EDITOR AT LARGE
Michael Werner michael.werner@dfv.de
CAPOSERVIZIO
Alessandra Bigotta a.bigotta@fashionmagazine.it
REDAZIONE
Andrea Bigozzi a.bigozzi@fashionmagazine.it
Elisabetta Fabbri e.fabbri@fashionmagazine.it Maria Cristina Pavarini mariacristina.pavarini@dfv.de Angela Tovazzi a.tovazzi@fashionmagazine.it
GRAFICA E DESIGN
Nadia Blasevich n.blasevich@fashionmagazine.it
CHIEF MARKETING OFFICER
Daniella Angheben d.angheben@fashionmagazine.it
HEAD OF ADVERTISING
Barbara Sertorini b.sertorini@fashionmagazine.it
ASSISTENTE DI DIREZIONE/UFFICIO TRAFFICO
Valentina Capra v.capra@fashionmagazine.it
COORDINAMENTO INTERNAZIONALE
Margherita Cimino margherita.cimino@dfv.de
AMMINISTRAZIONE
Cristina Damiano c.damiano@fashionmagazine.it
COLLABORATORI
Mariella Barnaba, Cristiana Bonzi, Tom Kiesewetter, Leo Klimm
È vietata la riproduzione anche parziale. Articoli, disegni e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.
Abbonamento annuale Euro 69,00
Pagamento tramite bonifico: Banca Popolare di Milano, Banco BPM, Piazza Meda 4 - Milano IBAN IT 25P0503401647000000044896 È possibile richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Edizioni Ecomarket Spa - servizio abbonamenti Piazzale Cadorna 15 - 20123 Milano. Numeri Arretrati: 16,00 Euro cad L’editore garantisce che i dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione come quelli relativi agli invii in omaggio non vengono ceduti a terzi per alcun motivo. Garanzia di riservatezza per gli abbonati in ottemperanza al D. Lgs. n.196/2003 (tutela dati personali)
Fashion fa parte del Gruppo Dfv MedienGruppe - Deutscher Fachverlag GmbH www.dfv.de
Alcune testate moda del gruppo sono: TextilWirtschaft, Francoforte; The Spin Off, Milano; Ötz Österreichische Textil Zeitung, Vienna.