FASHION MAGAZINE N 3 2024

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C'È POSTO PER TE

Il made in Italy è alla ricerca di un nuovo ciclo vincente. Le proposte della filiera per trasformare gli emergenti nei prossimi Giorgio Armani, Valentino e Dolce&Gabbana

DRIVE ON Jacob Cohën, Stone Island e Miroglio spingono sull'upgrading

CHI L'HA VISTA?

Sulle tracce di Cettire, piattaforma low profile di Dean Mintz

CHE TEMPESTA CHE FA

La crisi del lusso si abbatte sul distretto toscano della pelle: ecco le exit strategy

Illustrazione di Carsten Lüdemann

In copertina

La moda italiana ha avuto i suoi grandi campioni negli anni ‘70 e ‘80 e si è evoluta nei ‘90. Ma chi saranno gli Armani, Valentino e Dolce&Gabbana del terzo millennio, con le nuove condizioni del mercato e del fare impresa? In questo numero ci si interroga sulle possibilità di colmare un evidente gap Illustrazione: Carsten Lüdemann

PROTAGONISTI

9 ROBERT TRIEFUS

Più globale ma selettiva: dove può arrivare la nuova Stone Island?

14 JENNIFER TOMMASI BARDELLE

«Ora ballo da sola. Ecco la mia Jacob Cohën»

18 ALBERTO RACCA

«L’AI renderà uniche le relazioni con le clienti»

IL POLSO DEL MERCATO

24 BUYERS’ SURVEY DONNA SS24

Tante pressioni: i retailer devono investire sull’identità

32 DIGITAL BUSINESS

I segreti di Cettire, il marketplace di basso profilo e alto business

39 PREVIEW PRIMAVERA-ESTATE 2025

Un’estate meno quiet e più wow

50 LA MILANO FASHION WEEK Funky summer

56 MAGLIERIA SPRING-SUMMER 2025 Punto e a capo

COVER STORY

60 NEW GEN DEL MADE IN ITALY: PER CHI C’È ANCORA SPAZIO?

62 I designer che tifano per gli emergenti Domenico Dolce e Stefano Gabbana

66 Il lavoro del private equity Roberta Benaglia

68 Il good deal per l’investitore Massimo Di Amato

70 Il parere del buyer e imprenditore Claudio Antonioli

71 La professione del business angel Stefano Martinetto

72 Gli stilisti che si fanno valere Ilenia Durazzi, Federico Cina, Jordanluca

74 Anche il no profit entra in gioco Camera Moda Fashion Trust

76 La view degli esperti di consulenza strategica Nelly Rodi, Pierre-François Le Louët

77 I consigli della talent scout Barbara Franchin

FILIERA

86 DISTRETTI

S.O.S dalla pelletteria toscana: è solo una crisi ciclica?

NUOVI TALENTI

78 BRAND TO WATCH Institution, Ascend Beyond, Noskra, Sofia, KB Kong

80 NEWCOMERS

Lorenzo Posocco: «Per trasformare una passione in business serve metodo. E non impigrirsi mai»

INNOVAZIONE

82 ABILITATORI DIGITALI

Intelligenza Artificiale: rivoluzione lenta ma inarrestabile

RUBRICHE

7 L’EDITORIALE Dream big

90 CONTROCORRENTE

La mission di Nicolai Marciano per Guess Jeans: «Back to the future»

94 OLTRE IL SOFFITTO DI CRISTALLO Olivia Labella: «Si vince solo con la competenza»

Daniela Holnsteiner: la femminilità non è nemica della carriera

96 LIFESTYLE

Alexander Werz: «Ecco perché i legami forti valgono più del capitale»

DREAM BIG

Direttore responsabile

Tobias Bayer t.bayer@fashionmagazine.it

er il mio compleanno mi è stato regalato un biglietto d'auguri, con la mappa del mondo stampata sul fronte e sul retro. Due parole sono scritte in lettere d'oro: “Dream Big”.

È il leitmotiv del nostro nuovo numero. La storia di copertina, con l'illustrazione realizzata per noi dall'art director di Amburgo Carsten Lüdemann, è dedicata ai designer italiani emergenti. Sebbene in Italia non manchino i creativi di talento, nessuno è riuscito a raggiungere il successo globale dopo Dolce&Gabbana. Abbiamo cercato di capire perché e abbiamo parlato con rivenditori, responsabili di showroom, investitori e designer, a partire da Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Il risultato è una serie di interviste che rivelano un quadro a più livelli. Un messaggio chiave per me è che è una questione non di singoli individui, ma di sistema. L'Italia farebbe bene a fare della promozione della moda e dei giovani designer una priorità strategica. Posizionarsi esclusivamente come centro di produzione per aziende e marchi del segmento lusso e premium potrebbe diventare rischioso per il nostro Paese. Questo si può vedere attualmente a Scandicci. Il nostro reportage dal distretto della pelletteria in Toscana mostra cosa accade quando i grandi marchi riducono improvvisamente i loro volumi di produzione.

Sognare in grande da soli non basta. Se si vuole realizzare la propria visione, occorre essere pazienti e persistenti. Jennifer Tommasi Bardelle si è prefissata il compito di continuare il lavoro di una vita del marito scomparso e di trasformare Jacob Cohën in un marchio di lifestyle. Nell'intervista su questo

numero spiega come si sta avvicinando al suo obiettivo, passo dopo passo. Dal modello di licenza alla joint venture, fino al controllo del marchio, della produzione e della distribuzione. Chiunque abbia un grande sogno non deve farsi scoraggiare dai contraccolpi. Si prevede che l'Intelligenza Artificiale cambierà il nostro modo di vivere e lavorare. Tuttavia, l'euforia iniziale ha lasciato il posto alla delusione, almeno sul mercato dei capitali. La nostra mini inchiesta sottolinea che le aziende italiane della moda credono ancora nell'AI. Giustamente. L'Intelligenza Artificiale sta facendo breccia. Lentamente, ma inesorabilmente.

Può sembrare un paradosso, ma non tutto ciò che è grande può essere riconosciuto immediatamente. L'esempio migliore è Cettire. La piattaforma australiana è cresciuta rapidamente e si è trasformata in un'alternativa a Farfetch, senza che il pubblico se ne accorgesse. Lo stesso fondatore di Cettire, Dean Mintz, evita le apparizioni pubbliche e non concede interviste. Siamo stati alle calcagna del “Martin Margiela dell'ecommerce”. Non c'è dubbio: Mintz ha sognato in grande e ha ottenuto molto, ma continua a presentarsi come piccolo. Meglio così che il contrario, no?

PIÙ GLOBALE MA SELETTIVA DOVE PUÒ ARRIVARE LA NUOVA STONE ISLAND?

SRobert Triefus è amministratore delegato di Stone Island da giugno 2023. Prima di essere chiamato da Remo Ruffini, il manager è stato tra i protagonisti di uno dei casi di rilancio di maggior successo per un brand: ha infatti lavorato per oltre 15 anni in Gucci, mettendosi in luce nel quinquennio d’oro targato Bizzarri-Michele

tone Island è un caso finanziario e industriale. Ha moltiplicato per otto i ricavi in 13 anni e ha chiuso il 2023 superando i 410 milioni di euro. In più, nonostante tre cambi di proprietà (Massimo Osti-Carlo Rivetti-Remo Ruffini), il marchio è sempre rimasto italiano, anche quando erano in tanti gli imprenditori di casa nostra a vendere a realtà straniere. Ma soprattutto è un caso distributivo: da 15 anni, nonostante la crisi cronica del canale wholesale, si è confermato, stagione dopo stagione, un’isola felice per i titolari dei negozi multimarca (specie in Italia, ma anche in Europa), corroborati dagli ottimi sell out e da un’attenzione costante al rapporto qualità-prezzo. Praticamente un

mezzo miracolo. Se si chiede a Robert Triefus quale sia il segreto del successo del brand, di cui è ceo da poco più di un anno, non ha dubbi: essere un simbolo al di là dei capi che produce. «Il bello di Stone Island - dice - è che non ha bisogno di inserirsi in codici, ma accoglie naturalmente le contaminazioni». In effetti la rosa dei venti, simbolo del brand, è un aggregatore tribale, un passe-partout generazionale: parla la lingua delle sottoculture, dei tifosi di calcio, dei rapper e, da adesso, anche quella degli appassionati di design e di arte. «Uno dei punti di forza di Stone Island - conferma Triefus - è la dimensione cross-generazionale dei clienti, che nei mercati più maturi vede una rappresentazione equa tra le diverse

Le ultime mosse distributive, la riorganizzazione della collezione, la ricerca di un consumatore diverso, la prima volta di una donna in comunicazione: come procede la nuova fase del marchio della rosa dei venti dopo l’acquisto da parte di Moncler?

Il ceo Robert Triefus spiega le strategie di crescita e conferma il ritmo degli investimenti. Intanto l’ex patron Carlo Rivetti esce dall’azionariato del gruppo

Stone Island è un legacy luxury urban sportswear brand che crea abbigliamento performance per la vita reale di persone reali, attraverso un’ossessiva cultura di ricerca e innovazione applicata ai materiali e ai trattamenti

Un look della collezione primavera-estate 2025

ROBERT TRIEFUS

L'ANALISI DEI FATTURATI

Dopo anni di crescita è tempo di normalizzazione. Nel 2026 attesi 460 mln

fasce di età». Di recente, la parola trasversalità significa anche per Stone Island piacere alle consumatrici, nonostante l’assenza di una collezione espressamente loro dedicata. «Abbiamo un segmento molto fedele di donne nostre clienti, che costituisce circa il 20% delle vendite globali», svela il manager motivando la scelta della dj Peggy Gou, come prima testimonial donna in un adv del brand.

Il nuovo corso:

format che vince si cambia

Pare dunque che Stone Island, parte del Gruppo Moncler nel 2020, piaccia a tutti. Motivo, questo, che avrebbe potuto indurre il marchio a non cambiare rotta. Ma il brand va controcorrente, introducendo novità su più fronti, a cominciare dalla governance: negli ultimi 12 mesi è stata completata una nuova struttura manageriale, che ha visto il minor coinvolgimento nella gestione dell'ex patron Carlo Rivetti, che da settembre è uscito dall'azionariato del gruppo, in cui invece è entrata Lvmh. Cambiamenti anche nella politica distributiva, focalizzata sul directto-consumer, all’architettura della collezione, passando per la rinnovata identità dei monomarca (firmata da OMA/AMO) e la riorganizzazione manageriale. Ma, soprattutto, negli ultimi 12 mesi Stone Island ha cercato nuovi modi di creare emozioni per ripensare il rapporto con il cliente con una serie di iniziative, tra cui la sponsorizzazione della fiera d’arte Frieze, la prima partecipa-

«Ci

siamo focalizzati sull’architettura della collezione in modo che enfatizzi la ricerca e l’innovazione dei materiali, dei trattamenti e della tintura in capo»

Anche l'e-commerce diventa dtc

«Il nuovo sito web si inserisce perfettamente nella diffusione progressiva del nuovo store concept e in più, grazie agli hub regionali che fanno ora parte della nostra catena logistica, i consumatori possono per la prima volta avere accesso a una nuova gamma di servizi multicanale»

zione alla fashion week di Milano, il lancio della capsule collection con Dior (la prima collaborazione con un luxury brand) e l’ingresso nel mondo del basket, affiancando la squadra canadese degli Scarborough Shooting Stars. «Sono stati mesi intensi - fa il punto Triefus -. Nell’autunno 2023 abbiamo annunciato la sponsorizzazione di Frieze, un progetto importante che ci dà l’occasione di creare eventi per incontrare le nostre community. A Los Angeles abbiamo portato la mostra Stone Island Selected Works, ma anche creato uno spazio di ritrovo con talk, music session, un bar e un pop up store con capi d’archivio, stampe e oggetti di design.

Un successo». La sfilata di gennaio a Milano, poi, «è stata un’occasione speciale, celebrativa di un nuovo capitolo: in futuro creeremo altre circostanze in cui mostrare know-how e dna del brand». Quanto al progetto con Dior, «ha rappresentato un incontro di know-how e di nobilitazione tessile. Non una dichiarazione di posizionamento ma di comune passione per il prodotto, con le sue tinture e i trattamenti».

La sfida del dtc e i criteri di selezione per il wholesale

L’ambizione di Stone Island è entrare nel futuro con nuova energia e nuovi orizzonti,

Dati espressi in milioni di euro Fonte: Bernstein analisi e stime.
2026E

A confronto la presenza di items sui principali siti online dei due marchi Moncler più selettivo di Stone Island sulle piattaforme

Farfetch

Flannels

Ssense

Endclothing

Mytheresa

LuisaViaRoma

Zalando 24Sevres

The BS

Brownsfashion

Giglio

Mr Porter Wanan Luxury

Teneré Store

The Corner Biffi Boutiques 18 Montrose

Residenza725

Net-a-Porter

The Double F Rubino Kids

Al Duca D'Aosta Nugnes 1920

HBX

Amazon

Tufano Moda

Cenere GB

Suit Negozi

Il Faro Uomo Boutique

Parmax

Footdistrict

Rinascente

Filippo Marchesani

Bertini Group

Romeo Boutique

Rione Fontana

Deliberti

Harrison Palermo

Urbanstar

Bertamini

Cargo Abbigliamento SVD

Biagetti

Passaro L'uomo

Brian & Barry L'eliseo

Gianluca Lignini

Liam Gallagher, tornato frontman degli Oasis, è protagonista della campagna

FW24/25 di Stone Island insieme, tra gli altri, alla DJ Peggy Gou, prima testimonial donna nella storia del brand

allargando progressivamente la sua comunità di riferimento, fatta di storici appassionati«i nostri enthusiast», li definisce Triefus - ma anche di nuovi conoscitori del brand provenienti da tutto il mondo, a cominciare da aree geografiche finora poco esplorate come gli Usa e, soprattutto, la Cina. Una strategia di crescita alimentata dal ceo con l’attitudine alla modernità che ha già esercitato in passato da top manager di Gucci e che ha spinto lui e il patron Remo Ruffini a prendere una serie di decisioni cruciali e non sempre indolori: prima fra tutte, adottare un approccio selettivo al canale wholesale, che prima del cambio di proprietà era quello privilegiato. Come già accaduto con il Moncler di 10 anni fa, ora la priorità per Stone Island è costruire relazioni più dirette con il consumatore, come dimostrano gli investimenti stanziati per l’apertura di monomarca di proprietà e il progetto di internalizzazione dell’e-commerce, che fin dal suo lancio, nel 2008, era stato gestito da Yoox (poi diventato Ynap). «Nell’ultimo anno - spiega Triefus - abbiamo rafforzato sia l’headquarter che i team regionali, in linea con le nostre priorità strategiche, che includono l’internalizzazione e il rafforzamento dei nostri uffici overseas. Abbiamo dunque ripreso in mano la gestione della distribuzione in mercati chiave come la Cina e lanciato il nuovo sito web, che è stato fin qui il nostro maggiore investimento nelle attività di marketing». Riunendo quindi sotto un’unica leadership i negozi propri e le vendite del sito, Stone Island punta stare il più vicino possibile al cliente finale, in modo da capirne in fretta i cambiamenti. Il canale multimarca sarà razionalizzato (la sua incidenza è già passata dal 78% del 2020 al 58% del 2023), privilegiando i partner più “attrattivi”. «È nostra intenzione - conferma il ceo

In un anno la presenza su Yoox è quasi dimezzata

A giugno presenti sul marketplace meno di 500 capi

Dati riferiti a giugno

- incrementare progressivamente il contributo proveniente dall’attività dtc, un obiettivo che sarà raggiunto nel tempo». «Il wholesale - prosegue Triefus - continuerà a svolgere un ruolo importante nel nostro modello di business, nell’ottica di un raggiungimento del giusto equilibrio. A tal fine, in concomitanza con il lancio della collezione autunno-inverno 2024, abbiamo introdotto una struttura di distribuzione selettiva, per garantire che i wholesaler con cui collaboriamo ci rappresentino al meglio. C’è un’attenzione sempre maggiore agli spazi espositivi nei multimarca e alle attività di marketing con i partner».

La normalizzazione dei conti e l’eterno confronto con Moncler Questa fase di transizione da un modello di vendita B2B a uno B2C si colloca in un momento delicato della vita commerciale di Stone Island, che fa fatica a trovare i tassi di crescita a doppia cifra del passato. Nel 2023 i ricavi hanno toccato quota 411 milioni di euro con un incremento del 2%, ben al di sotto della media degli ultimi 10 anni. Il 2024 è partito addirittura con il segno negativo: il primo semestre ha visto il fatturato diminuire del 5%. Un calo che l’azienda imputa alla selezione in corso nel canale wholesale (i volumi sono scesi del 24% rispetto all’anno precedente), ma che è stato quasi interamente compensato dalla crescita a doppia cifra del dtc. Resta in sospeso la risposta alla fatidica domanda «Sarà in grado Remo Ruffini con il suo management di fare di Stone Island il nuovo Moncler?». Tra gli scettici spiccano alcuni titolari di multimarca italiani che, forse amareggiati per essersi visti rifiutare gli ordini, ritengono la collezione di Stone Island poco adatta a un’attività retail monomarca (vedi box). Ci

sono poi Luca Solca e gli analisti di Bernstein che, pur prevedendo un futuro di crescita per il brand (fatturato 2026 stimato a 460 milioni), ammettono che non sarà facile bissare il successo di Moncler. Sono quattro gli aspetti, secondo Bernstein, a rendere l’impresa non impossibile, ma in salita: il fatto che lo streetwear non è più il fenomeno commerciale del momento, l’identità di marca di Stone Island ritenuta meno forte rispetto a quella di Moncler, il legame forte con community che però non danno garanzia a lungo termine (ad esempio i tifosi di calcio inglese) e, infine, la produttività dello spazio retail, inferiore di quasi un terzo rispetto quella di Moncler, che in questa fase di potenziamento del business dtc rischia di diluire i margini di Stone Island.

Le prossime mosse e il ruolo del prodotto

Nonostante i malumori dei dettaglianti e la cautela degli analisti, il marchio continuerà a incrementare la sua presenza diretta. In linea con questo approccio il canale retail - che conta quasi 90 negozi gestiti direttamente, più 13 operati da partner - sarà potenziato. Un assaggio di questa accelerazione si è avuto durante l’estate con tre new opening in Cina, più quelli a Vienna e a Londra, presso Harrods. Altre aperture sono già pianificate, tra cui la relocation del flagship di Parigi, attesa a inizio 2025. «Riapriremo in Rue SaintHonoré - anticipa Triefus - ma in uno spazio più grande e introducendo il nuovo concept retail». Un altro argomento clou per il ceo è

l'hype del brand

1. Nell'ultimo anno Stone Island ha cercato nuovi modi di creare emozioni per ripensare il rapporto con il cliente con una serie di iniziative, tra cui la collaborazione con Dior 2. La prima partecipazione alla fashion week di Milano

l’offerta di prodotto, rappresentata secondo le stime per il 97% dall’abbigliamento (con capispalla e maglieria come categorie core), mentre gli accessori sono la merceologia con più potenziale di crescita. Triefus, insieme all’ufficio design, ha perfezionato l’architettura della collezione, costruendo un’offerta ancora più mirata attraverso la creazione di tre subcollezioni. «Stiamo definendo in maniera più precisa i “ruoli” delle subcollection, che sono satelliti alla main line: Ghost è la parte più sofisticata, Stellina ha un’anima urbantech e Marina, di aspetto vintage, si rifà alle radici del marchio», spiega Triefus. Rober-

to Eggs, chief operating officer del gruppo Moncler, ha evidenziato nel corso della presentazione della relazione finanziaria semestrale che il salto di qualità del prodotto è stato accompagnato «da un aumento del ticket medio». Per Stone Island, quindi, il cliente spende di più, ma non a causa dell’impennata generale dei listini delle collezioni, almeno secondo Triefus anche se molti dettaglianti non concordano (vedi box): «Siamo molto attenti a garantire un chiaro rapporto prezzovalore e non abbiamo intenzione di aumentare i prezzi, perché così facendo rischieremmo di interrompere questa equazione». 

«Per ora sul mercato un'alternativa non c'è»

C’è chi si sente minacciato perché teme di vedersi sfilare dagli scaffali uno dei brand best performer, chi invece considera l'attuale strategia di ottimizzazione «una tutela alla qualità». La scelta di Stone Island di adottare una distribuzione selettiva è uno degli argomenti più dibattuti tra i buyer che hanno partecipato al sondaggio pubblicato su questo numero. E non c’è da esserne sorpresi, visto che Stone Island, nella moda maschile, è sempre stato sinomino di "vendite sicure" nei negozi sia fisici che online. «Ci sono stati anni con oltre il 90% di sell out» ricordano alcuni, ammettendo che nelle ultime stagioni è necessario un po’ più di tempo per esaurire le scorte. La difficol-

tà non è legata all’appeal del brand – dicono – ma alla scarsa varietà delle collezioni e all’aumento dei prezzi. «Il cliente storico ora fa fatica a permettersi certi articoli», notano certi dettaglianti. «Più che un calo delle vendite, il caro prezzi sta già portando a un nuovo tipo di cliente» prevedono altri. Sulla possibilità di vedersi tagliati fuori dall’elenco dei partner, molti rispondono «prima o poi succederà». Non stupisce, quindi, che c'è chi già pensa al possibile sostituto. Tutti concordi che al momento sul mercato un'alternativa «non c’è». Il candidato naturale è C.P. Company, in virtù del Dna comune (dato dall'avere lo stesso fondatore), ma per il momento «il rapporto è 10 a 1». an.bi.

Fonte: Google trends, analisi di Bernstein
MONCLER VS. STONE ISLAND: UN ANNO DI RICERCHE SU GOOGLE A CONFRONTO Il calo dello streetwear riduce
Stone Island Moncler
LA PAROLA AI CLIENTI MULTIMARCA

JENNIFER TOMMASI BARDELLE «ORA BALLO DA SOLA. ECCO LA MIA JACOB COHËN»

Da fine 2023 la presidente e creative director del marchio di luxury denim ha portato definitivamente in house produzione e distribuzione, iniziando un percorso en solitaire, supportata dal ceo Luca Roda. Prossimi obiettivi potenziare le collezioni in chiave lifestyle, con il rilancio della donna, e l'upgrading del network commerciale, attraverso una riqualificazione (ma anche razionalizzazione) del wholesale e una accelerazione del retail. Jennifer Tommasi racconta le nuove sfide da azienda "indipendente", partendo dal sogno infranto del fondatore Nicola Bardelle. E spiega come vede la Jacob Cohën del futuro

DI ANGELA TOVAZZI

JENNIFER TOMMASI BARDELLE

NATA A NEW YORK, L'IMPRENDITRICE

VIENE DAL CAMPO ARTISTICO. DOPO UN ANNO ALLA MARANGONI E GLI

STUDI IN LETTERE SI È TRASFERITA

A PARIGI PER FREQUENTARE LA SORBONA E STUDIARE RECITAZIONE. TORNATA IN ITALIA, HA COMINCIATO

A LAVORARE IN TEATRO E CONDOTTO UNA PROGRAMMA SPORTIVO IN TV.

POI IL SALTO NELLA MODA, CON LE ESPERIENZE IN CAMPO COMUNICAZIONE E MARKETING, FINO ALL'INCONTRO CON NICOLA BARDELLE.

C’èun prima e un dopo nella storia di Jacob Cohën, il denimwear che ha bypassato le gerarchie, elevando il jeans a bene di lusso. Dal luglio 2012, dopo la scomparsa improvvisa sulle strade di Saint Tropez del fondatore e direttore creativo Nicola Bardelle, il secondo capitolo della casa di moda veneta è stato scritto dalla moglie Jennifer Tommasi, che a 37 anni e con due figli piccoli ha raccolto la sfida di portare avanti il sogno di un imprenditore «geniale e visionario». A 12 anni di distanza - e dopo l’ultima, importante operazione con cui è stato completato, dopo quasi due decenni, il processo di internalizzazione produttiva e distributiva del marchio - l'imprenditrice ci racconta in che direzione sta andando e gli asset su cui sta investendo «per finire quello che mio marito aveva iniziato».

Partiamo dall'operazione di fine 2023, quando Jacob Cohën Company ha rilevato il 100% di JC Industry, sciogliendo la jointventure con Sinv, che dal 2021/2022 produceva e distribuiva le collezioni. Che cosa ha significato questo ultimo step, che ha portato a superare definitivamente il modello su licenza che avevate da quasi 20 anni?

Portare finalmente in house il controllo di produzione e distribuzione ha rappre-

PARLA IL CEO LUCA RODA
«Dopo Roma e Palma di Maiorca il prossimo goal è uno store a New York»

Jennifer Tommasi Bardelle balla da sola, ma al suo fianco da otto anni come braccio "armato", come lui stesso si definisce, c'è Luca Roda, promosso dal 2020 al ruolo di ceo. Insieme stanno traghettando l'azienda veneta verso un posizionamento ancora più alto, appena al di sotto delle griffe extralusso, grazie anche a una strategica "bonifica" del wholesale, che oggi vale circa il 90% del fatturato. Un'operazione non indolore, che ha impattato sui conti, ma reputata necessaria per allineare in maniera coerente il prodotto e il network commerciale. «Abbiamo iniziato questo percorso di riqualificazione nella stagione 2020/2021 e a oggi abbiamo chiuso i rapporti con circa 500 multimarca, arrivando a quota 950». A essere interessati da questa razionalizzazione è stato soprattutto il mercato europeo, quello più storico e maggiormente presidiato da Jacob Cohën, con l'Italia che oggi è scesa a 200 clienti. A controbilanciare il trend è però il vasto territorio oltreoceano, dove il canale multimarca sta conoscendo una fase di crescita, spinta da nuove alleanze con i department store di Stati Uniti e Canada. «Stiamo lavorando con una cinquantina tra i più bei negozi americani - spiega Roda - e crescendo molto bene, grazie anche a corner e shop-in-shop. A inizio anno abbiamo aperto una filiale nel New Jersey, che ci aiuterà a sviluppare tutta l'area». Anche se il wholesale rimane lo sbocco primario del brand, le attese maggiori sono per il retail, in forte accelerazione. «Oggi vale solo il 10% del giro d'affari, ma vorremmo invertire la rotta», spiega il ceo. In questa direzione sono andati gli ultimi investimenti, con l'apertura di tre negozi in due mesi. Tra giugno e luglio hanno alzato le serrande lo

store Jacob Cohën di Roma, nella centralissima via del Babuino, quelli di Kobe in Giappone e Palma di Maiorca in Spagna, «un mercato, quest'ultimo, che ci sta dando ottimi feedback, insieme all'Olanda e alla Scandinavia - aggiunge Roda - dove siamo amati dai consumatori più giovani e un gruppo musicale ci ha addirittura dedicato una canzone rap». Negozi che si sono aggiunti a quelli diretti di Milano, Parigi, Courchevel e Saint Tropez e ai 12 in franchising sparsi in giro per il mondo. Ora le energie saranno nuovamente convogliate sugli Usa, perché il prossimo goal è aprire il primo flagship a New York. «Crediamo che il retail sia fondamentale per comunicare i valori del brand e la nostra evoluzione - osserva Roda -. Per questo abbiamo appena arruolato una figura che seguirà lo sviluppo dei punti vendita diretti e in franchising. Noi veniamo da una cultura wholesale. Il suo contributo sarà fondamentale per approcciare le nuove strategie con metodo e in maniera scientifica». Luca Roda è convinto che il nuovo corso porterà l'azienda a tagliare il traguardo dei 100 milioni euro di fatturato. «Questo è l'obiettivo nel medio periodo - precisa -. Siamo in una fase di trasformazione e stiamo facendo scelte strategiche che daranno i loro frutti più avanti. Intanto chiuderemo l'anno in positivo a quota 82 milioni, con una crescita di circa il 4%». a.t.

In alto a sinistra, un look uomo FW 2024. A lato, una fase di lavorazione dei jeans. A fine 2023 Jacob Cohën Company ha sciolto la jointventure con Sinv, che a partire dalla collezione FW 2021/2022 aveva gestito produzione e distribuzione del brand, completando il processo di internalizzazione produttiva e distributiva

sentato uno step fondamentale per completare il disegno originale di mio marito: essere non solo il titolare del brand, ma il gestore del brand, potendo esprimere al massimo la propria visione e avere il controllo del posizionamento sui mercati, senza l’intermediazione di un licenziatario, che giocoforza ha prospettive diverse e più a breve termine. Il destino ha impedito a Nicola di realizzare questo sogno. Io ci ho messo 12 anni per conquistare il traguardo, ma questa è stata l’idea che ho coltivato sin da subito.

Arrivarci non deve essere stato semplice…

Considero Jacob Cohën come il mio terzo figlio, visto che il marchio è staro ri-

JACOB COHËN IN CIFRE

5 SOCIETÀ 185 DIPENDENTI

82 MLN FATTURATO

17 MONOMARCA

A sinistra, una proposta della nuova collezione donna. Sopra, i numeri dell'azienda, composta da cinque società: la capogruppo Jacob Cohën Company, Jacob Cohën Industry, Blue Service, Jacob Cohën Corporate negli Usa e Jacob Cohën France a Parigi

lanciato da Nicola nel 2002, prima dei nostri due figli. Dopo lo shock dell’incidente, il primo pensiero è stato quello di salvaguardare l’azienda. Non era scontato che andasse avanti. All'inizio ho pensato anche di venderla. All’epoca ero considerata una ereditiera un po' matta e senza competenze. C’è voluto tempo per guadagnarmi la fiducia dei dipendenti, dei partner e del mercato.

Come è riuscita a farcela?

Grazie alla mia testardaggine, rimanendo sempre ferma sulle mie idee, e circondandomi delle persone giuste, che mi hanno aiutato a fare scelte corrette, senza perdere di vista l'obiettivo finale: diventare indipendenti e gestire autonomamente il marchio.

Ora in che direzione sta andando?

Vorrei che, attraverso il prodotto e i nostri negozi, venisse fuori al 100% il Jacob Cohën-pensiero, ossia che il lusso è prima di tutto comfort. Lusso è un jeans abbinato al blazer, è un capo dal tessuto pregiato e di alta manifattura, portato con nonchalance. Il nostro lusso non è urlato ma understated. Un jeans sartoriale di altissima qualità, con cuciture fatte a mano, dettagli preziosi, all’esterno e all’interno, da vendere non nelle jeanserie ma nei negozi top level. Un concetto che fa da comune denominatore a tutte le collezioni, anche alla donna.

La state rilanciando: una scommessa in questo momento di mercato…

Io ci credo tantissimo, ma stiamo andando con calma perché non vogliamo farci del male. La collezione femminile, a partire dal 2021, è stata al centro di una rifondazione e nelle ultime stagioni abbiamo gettato i semi per far crescere bene la pianta. Mentre il menswear ha fatto presa e continua ad avere successo, grazie anche alla loyalty dei nostri clienti finali, alcuni dei quali dei veri e propri collezionisti di Jacob Cohën, con il womenswear dobbiamo conquistare consumatrici più volubili e solleticate da un’ampia offerta presente sul mercato. Per questo abbiamo puntato sul design delle silhouette e sulla vestibilità dei capi basic del guardaroba, lavorando con tessuti nobili e naturali. Il focus è naturalmente sul jeans, nostro materiale d'elezione, insieme a seta, lino, cotone e lana finissima per camicie, bermuda, polo, trench e pantaloni. L’ultima collezione è stata accolta bene e siamo ottimisti. Per il momento non ci interessa spingere sui fatturati. La linea femminile pesa attualmente per il 14%, ma contiamo di arrivare a una quota di almeno il 30%. Diciamo che l’uomo è un diamante da lucidare, mentre la donna un bocciolo che deve sbocciare. Risultati significativi ce li aspettiamo dopo il 2026/2027. Puntando su una distribuzione qualificata, in grado di "raccontare" nel modo giusto la collezione.

Prevedete investimenti anche nella sostenibilità?

Anche noi, come la maggior parte delle aziende oggi, portiamo avanti progetti eco-sostenibili, come la capsule di denim e carta e i jeans biodegrabili per la FW 2024, oppure la collaborazione con il brand di upcycling denim Scpt, che usci-

A sinistra, il monomarca inaugurato a Roma in via del Babuino lo scorso giugno. Sotto, lo store aperto qualche settimana dopo a Palma di Maiorca, in Spagna, uno dei mercati che sta dando maggiori soddisfazioni a Jacob Cohën. Sul fronte retail il prossimo obiettivo da centrare è New York. Proprio negli Usa, in New Jersey, lo scorso gennaio è stata aperta una nuova filiale, per seguire l'espansione sul mercato nordamericano

rà con la SS 2025. Ma vorrei sottolineare che il nostro è un tipo di prodotto già di per sé sostenibile. Da un lato perché non invecchia ed è fatto per durare. Dall’altro perché è a chilometro zero, visto che il 90% della nostra produzione avviene entro i 100 chilometri di distanza dalla sede veneta. Fuori regione abbiamo solo alcuni fornitori nelle Marche, nella denim valley.

Il periodo più difficile è alle spalle e può guardare al futuro. Come vede Jacob Cohën tra dieci anni?

Come un brand a cui lei non farebbe mai questa domanda. Vedo un’azienda che ha recuperato tutto il tempo perso e che è riuscita a concretizzare l'idea di lifestyle che aveva Nicola. Non stiamo inventando nien-

te di nuovo, anche se questi spazi dove stiamo parlando (la showroom in via San Primo a Milano, ndr) li ho pensati io centimetro per centimetro, mobile per mobile. Mio marito aveva immaginato tutto già 20 anni fa e ha lasciato una grande eredità. Pensi che aveva ideato il total look già nel 2006. Si tratta di portare a termine quello che aveva iniziato. Forse tra dieci anni la Jacob Cohën potrebbe essere pronta alla Borsa, oppure ad aprire il capitale a un importante investitore per crescere più rapidamente. Se però mi chiede qual è il mio desiderio più grande è che da fuori si veda quello che siamo dentro. Un’azienda dove si sta bene. E dove si respira energia positiva. Le cose per fortuna stanno cambiando, ma nel nostro ambiente non è così scontato. 

«L'AI RENDERÀ UNICHE LE RELAZIONI CON LE CLIENTI»

I NUMERI CHIAVE

10MLN

i capi prodotti ogni anno a livello di gruppo

3.600 i dipendenti in italia

41 anni l’età media dei dipendenti, rispetto ai 46 del 2019

1.100 i negozi monomarca attivi nel mondo

530 MLN il fatturato del 2023 rispetto ai 500 milioni del 2022

39,5 MLN l’ebitda del 2023 rispetto ai 29 milioni del 2022

La riorganizzazione in azienda, la rete di clienti-fan, la fiducia nell’intelligenza artificiale generativa, la nuova sfida di Trussardi: in questa lunga intervista Alberto Racca svela il suo approccio per il nuovo corso di Miroglio. Partendo dall'innovazione («I dati fanno sentire il loro impatto in tutti i processi»), ma soprattutto dalle persone: («con le loro idee i nostri dipendenti sono gli imprenditori migliori»)

DI ANDREA BIGOZZI

Se si mettono in fila le scelte e i progetti promossi da Miroglio negli ultimi cinque anni - dall’ultima, l’acquisizione di Trussardi, fino al ringiovanimento del team di lavoro sceso in poco tempo da 46 a 41 anni e all’implementazione dell’intelligenza artificiale generativa - si vede il filo che le collega tutte ed è la spinta al rinnovamento. «Siamo un cantiere aperto di idee», dice Alberto Racca, amministratore delegato del gruppo di moda basato ad Alba. Un cantiere che ha aperto i battenti nel 2019, con la nomina di Racca alla guida della società cui fanno capo i marchi Motivi, Elena Mirò, Fiorella Ru-

bino, Diana Gallesi, Luisa Viola e Oltre «Sembra ieri, ma sono passati quasi cinque anni. È stato un periodo impegnativo per il mondo e che ci ha spinto, come azienda, a guardarci dentro, rivedendo la nostra organizzazione. Ma ci siamo interessati anche a ciò che avveniva all’esterno, perché al centro ci sono sempre le nostre clienti».

In che cosa è cambiato il gruppo? È più veloce e focalizzato su quello che sappiamo fare meglio e sui brand chiave. Un’organizzazione snella, dove chi fa bene può crescere. Lavoriamo per obiettivi e non più per

ALBERTO RACCA

adempimento di compiti di routine. Questo rende le persone responsabili, motivate e appassionate, perché fa vedere che le loro idee sono importanti.

A proposito di elementi motivazionali, che abilità vorrebbe sempre avere nei suoi collaboratori?

Uno spiccato approccio imprenditoriale e la combinazione tra pensiero laterale e capacità di far succedere le cose. Un esempio concreto? Dalla passione di un collega è nato il team che si occupa di sperimentare come la Generative AI poò integrarsi nel nostro business.

Sono parole atipiche, per un manager della moda… Il settore di appartenenza non c’entra. La generative AI abilita cambiamenti radicali nella vita di tutti i giorni. Ne stiamo diffondendo l’uso in azienda proprio perché le persone ne traggano un vantaggio nella vita quotidiana, oltre che nel lavoro.

A livello aziendale come ne state traendo vantaggio?

Siamo impegnati a integrare la generative AI

nei processi: dal tagging automatico dei capi, che abilita descrizioni automatiche sull’ecommerce, alla creazione di immagini, al forecasting. In futuro troveremo altri ambiti in cui metterci alla prova: c’è ancora da esplorare. Immagino un futuro dove la comunicazione con i clienti sarà quasi totalmente personalizzata e dove saremo capaci di garantire loro una vera assistenza virtuale. Oggi gli assistenti virtuali presenti sugli e-commerce offrono funzionalità limitate. L’utilizzo dell’AI amplierà le loro capacità di interazione: saranno davvero intelligenti e capaci di fornire raccomandazioni basate su specifiche richieste dei consumatori. È un futuro molto più vicino di quello che immaginiamo.

Quanto investite in innovazione tecnologica?

Quello della generative AI è un tema soprattutto di persone. La maggior parte dei mo-

1. La sede di Miroglio ad Alba, la società punta di chiudere il 2024 con un fatturato di 570 milioni 2. Oltre sta beneficiando degli investimenti di gruppo sul Crm conquistando anno dopo anno percentuali significative di nuovi clienti 3. Fiorella Rubino sta crescendo, grazie alla sua community sempre più fedele 4. Motivi è uno dei marchi storici di Miroglio: nato nel 1993 continua a innovarsi e in epoca Covid è stato tra i primi a testare le vendite in live straming

delli linguistici dietro un'intelligenza artificiale sono open source, quindi l’investimento maggiore è sul team, non sui sistemi. Cinque anni fa abbiamo deciso di raddoppiare la struttura di ricerca e analisi dei dati. È nato così un laboratorio di talenti, capace di generare innovazione, che per le aziende vuol dire crescita.

A proposito, i conti come vanno?

Siamo soddisfatti dei risultati di questo inizio anno. Nel 2024 stiamo facendo +5%/6% rispetto allo scorso, che ci aveva visto toccare 530 milioni di fatturato. Speriamo di chiudere l’anno a intorno a quota 570 milioni, confermando i livelli di profittabilità degli ultimi anni: il margine operativo lordo è passato da zero nel 2019 a 40 milioni nel 2023.

Da quale dei vostri brand avete ottenuto le soddisfazioni maggiori?

Tutti i nostri marchi stanno lavorando bene, ognuno ha la sua autonomia e indipendenza per focalizzarsi su un pubblico specifico. Se devo sceglierne due che in particolare si sono messi in evidenza, opto per Fiorella Rubino e Oltre. La scelta è caduta su di loro non in virtù delle performance commerciali, ma per i risultati fantastici ottenuti nel costruire e mantenere la relazione con la cliente. Ci siamo riusciti attraverso una pluralità di strumenti: social media, focus group su Teams, segmentazione CRM. Dal 2019 abbiamo dirottato ingenti investimenti dal back office al front office, quindi meno amministrazione e più attenzione alle informazioni sui clienti provenienti da più canali, a cominciare dai nostri punti vendita. La possibilità di scambiare i dati di tipo qualitativo e quantitativo ha portato benefici in termini di acquisizione

Nel 2023 il gruppo Miroglio ha rilevato il 100% di Trussardi. La sfida più impegnativa è la presentazione della collezione full price per l’autunno-inverno 2024/2025, a cui sta lavorando un collettivo di designer, che darà il via a un piano di sviluppo del wholesale, dell’e-commerce e di accordi di distribuzione all’estero

di nuovi clienti, di customer retention e di aumento dello scontrino medio.

Ci dia dei numeri per capire meglio…

Ne cito alcuni: Oltre ha circa il 30% di nuovi acquirenti all’anno, mentre il top 3% delle clienti di Fiorella Rubino genera da solo il 20% del suo intero fatturato. Risultati ottenuti grazie al fatto che abbiamo creato una community di fan interna a questi due brand, con cui dialoghiamo ogni giorno.

Accennava anche allo scontrino medio: l’aumento è dovuto anche alla crescita dei prezzi delle collezioni?

Partiamo da un dato oggettivo: i costi sono aumentati, specie su alcune materie prime, ma il potere di acquisto no. Per questo abbiamo lavorato su due fronti. Sull’offerta “essential”, la parte più quotidiana delle collezioni dei nostri brand, abbiamo cercato di preservare i punti prezzo e non fare aumenti. La parte di collezione più legata ai momenti speciali è quella dove, invece, siamo andati in alcuni casi a intervenire sul pricing, ma a fronte di un upgrade del prodotto. È sulla scontistica che abbiamo lavorato pesantemente, riducendo di circa di 3 punti la promozionalità rispetto al 2019, ma personalizziamo maggiormente le promo, sempre in virtù dell’attività di Crm di cui parlavamo prima.

In che direzione vanno gli investimenti sul prodotto?

Per quanto riguarda questo aspetto ci stiamo concentrando molto sul tema del “transea-

1. Un'immagine dall'archivio di Trussardi, passato sotto il controllo di Miroglio 2. Un negozio monomarca di Elena Mirò, brand che cresce anche nel wholesale. Questo canale a livello di gruppo vale circa 50 milioni all'anno 3. Un look Diana Gallesi, fa parte dell'offerta di Miroglio, che ogni anno produce 10 milioni di capi

sonal”. Sembra un dettaglio, ma non è così. Stiamo lavorando su tutti i brand, ma in particolare su Elena Mirò, per introdurre nelle collezioni capi che offrano maggiori momenti di utilizzo nella vita delle clienti. Abbiamo potenziato l’utilizzo di tessuti tecnici, talvolta derivati dal mondo dello sportswear, per assicurare un prodotto trasversale e adatto a un meteo sempre più difficile da prevedere.

Tra gli obiettivi di Miroglio c’è anche l’internazionalizzazione: a quale area del mondo puntate di più per la crescita?

Attualmente all’estero sviluppiamo circa 200 milioni di fatturato, con la Turchia come primo mercato grazie alla joint venture con Ipekyol Group. Stiamo entrando nei Balcani e in generale registriamo feedback positivi nell’Est Europa, specie in Romania, va bene anche il Sud dell’Europa, Spagna in testa.

L’ultima domanda è per Trussardi, che avete acquisito al 100%. La scelta ha colto molti di sorpresa. Quale è stato il suo ragionamento strategico?

Alzando i prezzi del 70% dal pre-Covid, le aziende del lusso hanno lasciato una fetta di mercato scoperta, che Trussardi può occupare grazie a un marchio credibile con un heritage forte. Trussardi fin dalla sua fondazione è stato all’avanguardia nell’evoluzione del concetto di “lusso”, che si è sempre basato sulla ricerca del significato che ogni prodotto ha per i clienti, posizionandosi quindi come una vera realtà lifestyle. È in questo contesto

che ci vorremmo inserire con il nostro concetto di Progressive Luxury, in cui il valore di ogni articolo non è definito dal prezzo ma dal significato, che è culturalmente rilevante per il cliente. Siamo focalizzati sulla presentazione della prima collezione full price per l’autunno-inverno 2025. Ci stiamo lavorando non con un direttore creativo, perché in passato è stato un elemento che ha oscurato l’heritage del brand, ma con un collettivo.

Non pensa che il clamore legato a un super stilista servirebbe al rilancio? È vero, coinvolgere un super stilista potrebbe creare clamore nel breve termine. Tuttavia, per generare valore duraturo per Trussardi, crediamo che la strategia più efficace sia quella di un collettivo di individui impegnato a rendere contemporanea la legacy del brand. Punteremo sull’eleganza senza tempo e sulla funzionalità, dove gli accessori avranno un posto speciale. Contiamo sia la base per la ripartenza del marchio che genera un giro di affari di 20 milioni grazie ai 15 outlet e alle licenze, ma che con lo sviluppo del wholesale, dell’e-commerce e di accordi di distribuzione all’estero potrà crescere molto di più. 

ETNIA BARCELONA: NELLA

COLLEZIONE CHROMA ESPLODE LA

BELLEZZA

DEL COLORE

Il colore è da sempre un tratto distintivo del marchio indipendente di occhiali, fondato a Barcellona nel 2021. Ora trova la massima espressione nei 14 modelli della nuova linea Chroma, protagonista di una campagna di forte impatto visivo ed emozionale, firmata dalla fotografa Zhong Lin

Debutta con la collezione FW24

Chroma, collezione premium del marchio indipendente di occhiali

Etnia Barcelona che ridefinisce i limiti del colore e della forma con un’esplosione sofisticata ed esuberante di colori e contrasti. Ogni pezzo, creato con meticolosa attenzione ai dettagli e passione per l’innovazione e il design, si distingue grazie a un sapiente gioco di contrasti: forme geometriche audaci, volumi pronunciati e cromatismi estremi. Sono 14 i modelli da vista per donna e uomo, in cui predominano le silhouette femminili in stile cat-eye e gli acetati in nuance lattiginose, trasparenti e solidi per creare eleganti contrasti. La singolarità e il carattere di ogni modello sono esaltati da finiture grezze, che ne sottolineano il carattere unico. All’interno di ogni asta è inciso il logo, con variazioni cromatiche su ciascun paio di occhiali, in nome della massima personalizzazione. Per il lancio di Chroma e della sua prima collezione

FW24 Etnia Barcelona si è rivolto a Zhong Lin, famosa fotografa la cui peculiarità è saper ricreare universi che sfumano i confini tra reale e astratto. Nella campagna è riuscita a comunicare la bellezza del colore, in modo da far viaggiare chi la guarda nella profondità emotiva che il colore stesso può evocare, esplorando nuove dimensioni attraverso il potere dei cromatismi. Le immagini creano universi differenti che, come la collezione stessa, giocano sui contrasti di tonalità, sfumature

e texture. Ogni scena è rappresentata da un colore: rosso, arancione, rosa e blu. Una testimonianza di come il colore possa trasformare, elevare e definire la nostra percezione del mondo che ci circonda. Chroma è disponibile presso selezionati negozi di ottica, sull’e-commerce di Etnia Barcelona (www.etniabarcelona.com) e nel flagship store in Carrer de l’Espaseria a Barcellona. Il marchio, fondato nel 2001, è fiero della propria indipendenza: tutte le proposte sono sviluppate da zero dal team interno di design, che controlla l’intero processo di creazione. Ogni modello di occhiali, contraddistinto dal colore, è realizzato con materiali naturali e di alta qualità, come l’acetato naturale di Mazzucchelli e le lenti HD in vetro minerale. L’azienda è presente in più di 50 Paesi presso oltre 15mila punti vendita ottici nel mondo. Oltre alla sede nella città catalana, sono operative filiali a Miami, Vancouver e Hong Kong, con un team multidisciplinare di oltre 650 persone.

COME SONO STATE LE VENDITE DONNA DELLA SPRING-SUMMER 2024?

TANTE PRESSIONI DALL'ALTO E DAL BASSO: I RETAILER DEVONO INVESTIRE SULL'IDENTITÀ

Mentre i nodi dell'e-commerce vengono al pettine, il wholesale fisico è sempre al centro di una pesante selezione. Buying mirato e brand mix possono fare la differenza. Intanto il quiet luxury resiste, purché non sia un alibi alla ripetitività. Michele da Valentino potrebbe accelerare la svolta

DI ALESSANDRA BIGOTTA

II

punto di partenza del nostro sondaggio tra i dettaglianti - stavolta dedicato alla donna della Spring-summer 2024, con la collaborazione di una quarantina di retailer multimarca italiani - è sempre l’andamento delle vendite, in questo caso anche con una prima proiezione sull’autunnoinverno in corso, che pare all’insegna della stabilità, mentre i budget per la SS25 risultano per lo più stabili o in flessione rispetto a un anno fa. Ma in tutte le puntate (e questa non fa eccezione), si va ben oltre le semplici percentuali, toccando temi che, in questo caso, spaziano dal dualismo tra

CRESCITA

negozio fisico e digitale al mega-trend del quiet luxury ed eventuali alternative: uno spunto, quest’ultimo, per riflettere anche sul valore dello scouting e della ricerca, in un momento in cui non si capisce se sia meglio andare sul sicuro, puntando sui marchi consolidati in modo da evitare errori che poi possono costare cari, o invece accelerare sulla sperimentazione, per stimolare un mercato poco dinamico. Andando per ordine, si nota innanzitutto che per l’abbigliamento e gli accessori femminili la primavera-estate appena conclusa si è chiusa come forse già ci si aspet-

10 CORSO COMO - Milano

tava: solo il 15% degli intervistati parla di una crescita, mentre più della metà indica un andamento stabile e quasi il 30% un calo. Il canale fisico è quello che ha performato meglio (viene segnalato dal 58% del campione) rispetto all’online, che si ferma al 12%. Colpisce quel 18% di interpellati che ancora oggi non fa e-commerce. Chi lo fa ha notato nell’ultimo anno cali a cifra singola (nel 34% dei casi) o addirittura doppia (17%), anche se non vanno sottovalutati il 29% che non ha registrato flessioni e il 20% che parla di una crescita. Senza arrivare ai casi limite di chi ha investito tanto - forse troppo - sull'e-commerce e a un certo punto, pressato dal difficile scenario internazionale, si è trovato fortemente indebitato, in generale lo scenario dell’omnicanalità è mosso e certo più sfidante rispetto agli anni passati. «Il settore dell’e-commerce viene da un decennio di crescite spropositate a tripla cifra, quindi un assestamento è fisiologico», sintetizza Giuseppe Giglio, ceo e chairman di giglio.com, «il primo fashion store italiano online», come lui lo definisce, nato nel 1996 in seno all’attività di famiglia, partita negli anni Sessanta con le boutique Giglio di Palermo, che sono tuttora in essere. Il punto, secondo Giuseppe Giglio, è che

QUALE CANALE HA PERFORMATO MEGLIO?

AVETE REGISTRATO UN CALO DELL’E-COMMERCE NELL’ULTIMO ANNO?

durante il Covid l’online è stato visto da molti negozianti come una ciambella di salvataggio, «ma occuparsi di e-commerce è un altro tipo di lavoro, con le sue regole, complessità organizzative e logistiche e tecniche di marketing. Non è il sito in sé che fa vendere, ma affrontare il mondo digitale a 360 gradi e conoscerne a fondo le dinamiche, che sono velocissime». «Per la mia generazione quando arrivava il sabato si faceva il classico giro dei negozi del centro, ma oggi per tutti, non solo per i giovani, il desiderio non prende più forma all’interno del punto vendita fisico - conclude l'imprenditore, che con la nuova business unit Digital Gateway Giglio sta potenziando i servizi B2B -. Non esistono più le persone che vanno alla cassa senza aver prima consultato il cellulare ed è proprio lo smartphone in mano al cliente, e non la

boutique accanto, il vero concorrente. Per sopravvivere il retailer fisico deve guardare oltre il marciapiede di fronte, giustificando i prezzi con nuovi prodotti, esperienzialità e, certo, anche omnicanalità, affrontata in modo strutturato e organizzato». Giulio Felloni, titolare dell’omonima insegna a Ferrara e presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, lancia un grido d’allarme per quanto riguarda il canale fisico: «Nel 2023 sono spariti dalle nostre strade oltre 5mila negozi di moda, che hanno costretto quasi 10mila persone a cercarsi una nuova occupazione. Se chiudono i punti vendita di prossimità, potrebbero indebolirsi altri anelli della filiera: il governo deve fare la sua parte con provvedimenti mirati al rilancio, che stiamo sollecitando». Eppure è proprio da questo canale che arrivano segnali di vitali-

BERNARDELLI STORE - Mantova
TIZIANA FAUSTI - Bergamo
INCONTRI - Milano

DIDI CORBETTA

Titolare di Valtellini

con la madre Lucia e Segretario dell'associazione Histores

In estate lei ha scritto sui social: «La Spring-Summer 2024 non è in promozione».

Perché ha sentito il bisogno di farlo?

Per lanciare un messaggio forte e chiaro. Io penso che, mentre dobbiamo destreggiarci tra svendite selvagge ovunque, offline e online, il primo segnale non può che partire da noi dettaglianti, anche usando i social: dobbiamo dire da che parte stiamo, distinguerci e trasmettere il nostro dna (per quanto ci riguarda, scontiamo i capi delle stagioni passate e ci serviamo del nostro outlet) senza stare ad aspettare provvedimenti dall'alto. In giro ci sono saldi tutto l'anno e anche le date canoniche sono insensate: dopo un mese di giugno praticamente fermo, anche per il cambiamento climatico, svendere a luglio è follia.

Quanto importante è oggi il prezzo per la clientela?

Non si può negare che ci sia una maggiore attenzione al prezzo e il brand conta. Ma poi capita anche che fai un piccolo investimento su un marchio greco di ricerca di pezzi unici a 1.300 euro e ottiene un riscontro positivo: diversificare serve. L'omologazione ha senso solo negli standard di servizio al cliente, che devono essere sempre alti: e dovrebbe esistere per i saldi. Fondamentali personalizzazione, ricerca. E coerenza, sempre.

Lei è Segretario di Histores, associazione di retailer multimarca nata durante il Covid, che ora conta più di 40 membri: a che punto siete?

Histores è business e famiglia. La rete che si è creata tra noi è forte, il confronto quotidiano spesso rassicurante e sempre prezioso, così come le soluzioni pratiche a livello di riassortimenti e altri servizi "circolari" tra i soci.

tà, a partire dal nuovo concept di 10 Corso Como a Milano: studiato dall’agenzia interdisciplinare 2050+ secondo la visione della titolare Tiziana Fausti, si focalizza sul pianterreno, che ospita appunto l’area donna, dopo aver già messo mano alla Project Room e alla Galleria, inaugurate a febbraio. Una scommessa architettonica e anche curatoriale, all’insegna di collaborazioni con designer internazionali di spicco e con il debutto in esclusiva di Phoebe Philo per il mercato italiano.

A Mantova Bernardelli ha ristrutturato e ampliato la sede di corso Umberto I, trasformandola in uno spazio di un migliaio di metri quadri, dove la moda femminile dialoga direttamente con la moda maschile. E a Palermo Michele Inzerillo, storica insegna uomo, ora è anche un punto di riferimento per la donna. Tornando a Milano, in giugno è stato aperto in zona Porta Venezia da Federica Zambon - già co-artefice di Wok Store in Porta Ludovica - il

QUAL È STATO IL BRAND BEST SELLER SS24 DI ABBIGLIAMENTO DONNA?

1 MAX MARA

2 TAGLIATORE

3 GUCCI

E IL MARCHIO CHE HA VINTO ONLINE?

1 ELISABETTA FRANCHI ZIMMERMANN

2

MAX MARA MONCLER LOEWE

multimarca Wok Gallery, di cui la retailer, che ha affrontato il nuovo investimento insieme a Underscore District, parla in un’intervista in queste pagine. Sempre a Milano, ma in via Belfiore, si trova Incontri, boutique che ha festeggiato il mezzo secolo durante la fashion week: un’insegna fondata da Angela Nava e Massimo Uberti, entrambi ancora in attività, affiancati dalla figlia Alessandra Uberti e dal genero Federico Gardini

QUALE IL CAMPIONE DI VENDITE TRA GLI ACCESSORI FEMMINILI?

1 AUTRY 2 CELINE

3 ORCIANI

«Anno dopo anno ci siamo guadagnati una clientela consolidata - racconta Alessandra Uberti - imponendoci regole precise: prodotti non spinti dal logo a tutti i costi ma da qualità e durevolezza, consulenza personalizzata alla clientela e zero sconti fuori dai periodi canonici. In tempi di ribassi selvaggi questo è ancora più importante». «Chi entra in negozio sa che da settembre a gennaio nei listini nulla cambia - ribadisce Federico Gardini -. Importante è poi concentrarsi molto sulla fase di acquisto: Autry

Max Mara
Elisabetta Franchi
Emporio Armani
Bottega Veneta
BONVICINI FASHION GALLERY & STORES - Montecatini Terme (Pt)
DEFLORIO DAL 1948 - Noicattaro (Ba)
FILIPPO MARCHESANI - Cupello (Ch)
VALTELLINI - Rovato in Franciacorta (Bs)

nel buying dobbiamo essere consapevoli del fatto che oggi le consumatrici comprano meno, ma meglio. Inutile caricarsi di merce di cui magari non siamo convinti. Accanto a nomi come Brunello Cucinelli, Max Mara, Tagliatore, Avant Toi, Herno, Crida, Eleventy e altri, quest’autunno Incontri lancia una novità, un progetto sartoriale e su misura con il brand italiano Veramonteforte, grazie al quale alla clientela viene offerta la possibilità di avere il proprio abito custom made a prezzi non proibitivi.

A proposito dell’attività di buying, da Forte dei Marmi Silvia Bini commenta: «Oggi, in presenza di un’offerta fin troppo ampia e dell’online, dove è il prezzo a dettare legge, per i retailer è tornato il tempo di distinguersi attraverso la selezione dei brand, magari scovando quelli apparente-

FEDERICA ZAMBON

Co-owner di Wok Store e Wok Gallery

Nel 2007 aveva aperto con la socia dell'epoca, Simona Citarella, Wok Store a Milano. A distanza di 17 anni ha da poco inaugurato, insieme all'acceleratore di imprese Underscore District, il concept store Wok Gallery in Porta Venezia. Un atto di coraggio in una fase come questa...

In un certo senso sì, ma io e Underscore District volevamo proprio lanciare un messaggio: non bisogna avere paura. Crediamo nel ritorno allo store fisico come lo intendiamo noi: un luogo dove l'esperienza è one-to-one e la freddezza è bandita. Con una convinzione: ragionare solo in base ai numeri non porta lontano. Esiste un cliente tipo di Wok Gallery?

Mi piace associarlo a un aggettivo, intelligente: una persona che non cerca per forza il lusso, il fashion o il fast fashion. La sua identità è trasversale. Come lo accontentate? Inserendo in uno spazio creativo e stimolante proposte da abbinare in base alla propria personalità, dalla T-shirt da 70 euro alla borsa da 1.000. Vendiamo brand come Barena Venezia, Magliano, Tibi, Lemaire, i total look di Proenza Schouler...Prodotti in cui crediamo e che ci piace raccontare, guidati da una visione personale e dalla volontà di vivere e far vivere il negozio.

mente “inutili”, ma con un rapporto ideale tra qualità e prezzo: la vera eleganza è saper mischiare bene i capi e noi siamo qui per questo. Il wholesale, se fatto da veri professionisti, ha ancora ragione di esistere e sono convinta che giovi alle griffe. Troppo retail porta all’appiattimento della loro immagine». «La nostra clientela ci sceglie perché proponiamo tanti stili diversi - interviene Ginevra Gozzoli di Bernardelli Store -. Mettiamo insieme, tanto per fare un esempio, Margiela, Cucinelli e Pierre-Louis Mascia e mostriamo come possono coesistere». Certo, poi si deve fare i conti con i budget imposti dai big, che restringono il campo d'azione. Ma, nonostante tutto, rifugiarsi esclusivamente nei brand “sicuri” e consolidati non può bastare, anche per una questione di prezzi tuttora altissimi delle griffe: «Il 35% dei

Modamica - Vimodrone (Mi)
MICHELE INZERILLO - Palermo
MORAS - Intimiano (Co)
WOK GALLERY - Milano

nostri brand è rappresentato da marchi di nicchia e indipendenti», dice Ginevra Gozzoli. Del resto, solo il 14% del nostro panel, alla domanda relativa all’importanza dello scouting risponde che attualmente è meglio andare sul sicuro, non rischiare visti i tempi che corrono. Il 49% è convinto invece che ci si debba guardare attorno, ma ben il 37% denuncia: «Non vediamo in giro cose abbastanza interessanti». «È vero - chiosa un intervistato -. Basti pensare alle pre-collezioni della SpringSummer 2025, spente e prive del fattore Moda, quello con la M maiuscola». «Quante volte ci capita di ritrovare da una stagione all’altra, e addirittura da un marchio all’altro, tessuti e stampe già visti e rivisti? - è una riflessione ricorrente -. Gli stilisti devono tornare a poter fare gli stilisti. L’omologazione generata dai grandi gruppi rischia di intimidire la creatività». Creatività che è il segno distintivo di Alessandro Michele: dalla sua uscita da Gucci, avvenuta a fine 2022, sembrava passato un secolo, ma con la prima sfilata per Valentino il tempo si è azzerato. La standing ovation al termine dello show "Pavillon des Folies" è stata un segnale fortissimo

Troppa omologazione non giova alle vendite e resta il nodo prezzi

e dirompente che qualcosa, in uno scenario moda dove finora le voci fuori dal coro sono state messe in sordina, potrebbe davvero cambiare. In altri termini, è parso quasi che si sciogliesse un incantesimo e i commenti a caldo di giornalisti e addetti ai lavori sono stati entusiastici. Il nostro panel, intervistato prima della sfilata ma avendo già visto la Pre-Spring, si è diviso grosso modo in due fazioni: il 38% del campione ritiene che Alessandro Michele traghetterà verso il brand Valentino nuove fasce di consumatori e il 14% che è la ventata di rinnovamento che ci voleva. Il 5% ritiene addirittura che si potrebbe ripetere il miracolo Gucci.

C’è tuttavia una percentuale di oltre il 40% che esprime perplessità: «Lo vedo difficile commercialmente», è una delle osservazioni più diffuse e c'è chi arriva a dire che «Va-

lentino non è più lui», anche se Michele ha precisato che nella collezione non c'è nulla che non provenga dall'archivio. «Nella sua visione di Valentino ho ritrovato lo stile di mia madre, una "Valentiniana" convinta», conferma Silvia Bini da Forte dei Marmi e aggiunge: «Sono fiduciosa nella sintonia tra lo stilista e il ceo Jacopo Venturini. Basti pensare ad accoppiate indimenticabili come quella di Giorgio Armani e Sergio Galeotti e dello stesso Michele con Marco Bizzarri da Gucci». Il mercato deciderà se questa sarà la spallata decisiva al quiet luxury, che nella Spring-Summer 2024 si è difeso ancora bene: il 40% del campione lo descrive come una tendenza tuttora vincente e, al netto della scossa tellurica che il nuovo Valentino potrebbe provocare, destinata a esserlo anche in futuro, con il 15% che sottolinea la sua forza più nell’uomo che nella donna.

Ma è anche vero che, sommando chi dice che «Sta iniziando a stancare» (30%) e chi è convinto che abbia ormai fatto il suo tempo (15%), si arriva a un non trascurabile 45%. «È ancora rilevante ma avvertiamo segnali di decrescita, soprattutto quando si

LAURA PESSINA - Monza
NOHA - Brindisi
LEAM - Roma
CLAN UPSTAIRS - Milano

ZERO - Verbier

L'INCONTRO - Modena

parla di giovani», ribadisce Tiziana Fausti. «Conquista la generazione X e i baby boomer e al momento continua a funzionare, soprattutto nel canale fisico - interviene Paolo Marini di Marcos -. Il rischio è che diventi ripetitivo». Simona Pessina di Laura Pessina si aggancia a questo ragionamento: «I marchi si sono uniformati, mentre ora il pubblico ha bisogno di riconoscersi nelle proposte dei designer». Ernesto Tufano di Tufano Moda pensa che si stia entrando in una fase di transizione: «Penso a una combinazione di eleganza rétro e opulenza moderna, per

GUCCI 5%

Standing ovation per la prima collezione di Valentino disegnata da Alessandro Michele

RINGRAZIAMO PER IL CONTRIBUTO

10 Corso Como Milano

Agnetti Macerata

Bernardelli Mantova

Biffi Boutiques Milano, Bergamo

Bonvicini Fashion Gallery & Stores Montecatini Terme (Pt)

Boutique Cinzia Abano Terme (Pd)

segnare un passaggio verso una ricchezza più visibile e teatrale». Da un retailer arriva l’invito a non fossilizzarsi sui trend: «Bisogna spostare l’obiettivo sui giovani - afferma - che vestono male comprando capi da 39,99 euro. La parola magica deve essere mix, ossia dare al cliente la possibilità di acquistare a 1.500 euro anche due look completi per l’estate e non solo fargli spendere dieci volte tanto per un portafogli o un portachiavi». «I nostri negozi - conclude - non sono gioiellerie: con i prezzi che corrono rischiano la desertificazione». 

Boutique Stella Asiago (Vi)

Clan Upstairs Milano

Colognese 1882 Montebelluna (Tv)

Deflorio dal 1948 Noicattaro (Ba)

Divo Boutique Santa Maria a Monte (Pi) e Pontedera (Pi)

Felloni Ferrara

Fiacchini Forte dei Marmi (Lu) e Portovenere (Sp)

Filippo Marchesani Cupello (Ch)

Galiano Napoli

Palermo

Giordano Boutique Pompei (Na)

Incontri Milano

Laura Pessina Monza

L’Incontro Modena

Roma

Mantovani San Giovanni Valdarno (Ar), Castiglione della

Pescaia (Gr), Greve in Chianti (Fi)

Marcos Mondovì e Prato Nevoso (Cn)

Michele Inzerillo Palermo

Modamica Vimodrone (Mi)

Moras Boutique Intimiano (Co)

Noha (Brindisi)

Nugnes 1920 Trani (Bt)

Papillon Corigliano Calabro (Cs)

Porrini Moda e Casa Besozzo (Va)

Silvia Bini e Càos Forte dei Marmi (Lu)

Tiziana Fausti Bergamo

Tufano Moda Pompei (Na) e Scafati (Sa)

Valtellini Rovato in Franciacorta (Bs)

Vela Shop Cagliari - Sassari

Porto Rotondo (Ss) - Forte Village Pula (Ca)

Wok Gallery Milano

Zero Verbier (Svizzera)

NUGNES 1920 - Trani (Bt)
GALIANO - Napoli
VELA SHOP - Cagliari

I SEGRETI DI CETTIRE, IL MARKETPLACE DAL BASSO PROFILO

E DALL'ALTO BUSINESS

La piattaforma australiana di dropship, che offre a prezzi vantaggiosi capi on season dei brand del lusso, è tra i nuovi protagonisti dell’e-commerce. Ha fatturati a otto zeri, eppure lascia trapelare poco sui suoi affari. In Italia non è attiva, forse per non fare concorrenza ai multimarca del nostro Paese, che sono i suoi supplier di punta. Gli esperti mostrano fiducia nei suoi confronti, specie ora che inizia a siglare contratti di fornitura diretti coi brand: senza fare rumore, è già partner di Staff International e Zegna

Offre un inventario di capi da oltre 2 miliardi di dollari australiani (1,25 miliardi di euro) e nell'ultimo anno ha processato oltre 1 milione di ordini. Vende marchi richiestissimi come Moncler, Jacquemus, Gucci e Valentino. Eppure, in Italia, il nome Cettire è per lo più ignoto al consumatore del lusso. E le ragioni di questa aura di mistero sono molteplici. La prima è che, almeno per il momento, la piattaforma online non è attiva da noi, mentre è presente in 54 mercati tra cui Australia (Paese d’origine), Usa, Gran Bretagna, Germania e Cina, dove opera direttamente dal 2024. Chi dall’Italia prova a visualizzare la homepage di Cettire trova la scritta “coming soon”, mentre per chi digita da altrove si apre un mondo di opportunità: sul marketplace sono disponibili collezioni in season donna, uomo e bambino, con prezzi più vantaggiosi dal 15% al 35% (e di più in alcuni momenti dell’anno) applicati su 500mila articoli di oltre 2.500 brand del lusso, secondo i dati forniti dall'azienda su base annua. Quelli elaborati da databoutique.com in esclusiva per Fashion scattano la fotografia a giugno 2024, quando i marchi presenti erano 714 e gli item oltre 95mila (vedi tabelle). Numeri da stella nascente dell’e-commerce, di cui presumibilmente la clientela italiana dovrà fare

Imprenditore a 20 anni e miliardario a 30: la storia di Dean Mintz Nerd della tecnologia (ma senza precedenti esperienze nella moda), Dean Mintz, australiano, classe 1985, ha fondato Cettire nel 2017 dopo una carriera lunga 15 anni da imprenditore seriale nel settore della tecnologia e dell’innovazione. Schivo e riservato, non ha profili social, non rilascia dichiarazioni se non quelle inserite nei comunicati ufficiali della sua azienda, di cui è ceo e che, in appena sette anni, ha trasformato in una realtà quotata in Borsa con ricavi lordi di 980 milioni di dollari australiani (circa 600 milioni di dollari). Uno stile di vita che contrasta con la sua ricchezza: secondo i media Mintz, primo azionista di Cettire con una quota del 30%, ha accumulato una fortuna personale di 729 milioni di dollari australiani pari a circa 450 milioni di euro.

a meno: nonostante gli annunci pubblicati sulla pagina web, Cettire non dice direttamente (benché Fashion l’abbia domandato) né quando, né se arriverà in Italia, limitandosi a parlare di «continua attenzione verso potenziali nuovi mercati», senza però specificare quali. Il perché di questa assenza potrebbe essere legata alla lentezza del mercato dell'e-commerce in Italia. Ma per molti le ragioni potrebbero anche essere collegate al business model con cui opera la piattaforma online, fondata nel 2017 da Dean Mintz. Secondo alcuni esperti, infatti, se aprisse i battenti qui da noi finirebbe col fare concorrenza diretta agli artefici “anonimi” del suo successo, ovvero i suoi fornitori, in larga par-

te costituiti dai titolari dei multimarca italiani. Sono infatti i wholesaler i veri proprietari della merce presente su Cettire, che non è un marketplace come Mytheresa o Zalando ma fa dropshipping, ovvero vende qualcosa che non possiede, perché non ha nulla in stock, ma acquista all’esterno il prodotto scelto dall’acquirente solo nel momento in cui questo lo richiede.Tutto avviene tramite una piattaforma integrata, che mette in comune virtualmente la disponibilità degli articoli presenti presso i supplier. Di solito ci sono più fornitori per lo stesso prodotto: in tal caso, secondo ricostruzioni, l’algoritmo fa sì che quando un cliente effettua l'ordine, Cettire lo assegni al fornitore che garanti-

Supplied by Cettire

1. Chi dall’Italia prova a visualizzare la homepage di Cettire trova la scritta “coming soon”, ma per i supplier e gli analisti lo sbarco è improbabile

2. Sulla piattaforma si trovano capi con costi inferiori a quelli “ufficiali”, grazie alla capacità di sfruttare le differenze di prezzo tra un mercato e l’altro

sce il miglior margine e i minori tempi di consegna. Di questo meccanismo il cliente finale resta all’oscuro: all’atto dell’ordine percepisce come se il venditore fosse Cettire, mentre la consegna avviene a opera del supplier, che resta segreto agli occhi di chi acquista. All’interno di questo sistema di vendita l’Italia si limita al ruolo di bacino di rifornimento attraverso i negozianti, mentre il consumatore finale è escluso dal gioco. «È infatti improbabile che Cettire diventi disponibile in Italia - dice a Fashion Julian Mulcahy della società australiana di corporate advisory E&P Financial Group -. La maggior parte del prodotto offerto proviene da fornitori italiani o francesi: non sarebbe una buona idea vendere la merce a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati sul mercato interno».

È il booster “nascosto” dei negozianti italiani

Con un fatturato netto che si è moltiplicato di oltre 30 volte in quattro anni (passando dai 22,9 milioni di dollari australiani del FY 2020 ai 742 milioni del FY 2024), Cettire si sta imponendo tra i grandi player dell’ecommerce, ma lascia trapelare poco dei suoi affari e tende a non amplificare troppo i suoi successi di business. Infatti le sue operazioni, seppur perfettamente legali, avvengono al di fuori dei canali di distribuzione ufficiali o autorizzati dai titolari dei marchi presenti nel suo catalogo. Lo sanno bene i dettaglianti che fanno business con il por-

Vendere online ciò che non si ha: cos’è il dropshipping e come funziona

Il fornitore invia il prodotto al consumatore finale

CLIENTI

Il fornitore invia la conferma di spedizione a Cettire 5 1 6 2 3 4

Il cliente finale piazza un ordine su Cettire

Cettire riceve l’ordine

Cettire emette fattura al cliente finale

Cettire inoltra l’ordine al proprio fornitore-dropshipper

• Cettire tramite la sua piattaforma e-commerce raccoglie l’ordine del cliente finale e il corrispettivo per il prodotto ordinato

• Comunica telematicamente l’ordine ricevuto al proprio fornitore (in maggioranza wholesaler basati in Italia)

tale australiano: per loro la collaborazione con Cettire deve restare un segreto, perché spesso è espressamente vietata dai contratti di distribuzione selettiva siglati con le case di moda (vedi box). Non è un caso che tutti i retailer che abbiamo intervistato non abbiano esitato a parlarci della loro esperienza con Cettire («Non ci chiede fee stratosferici ma trattiene per sé una quota del venduto, con lui non ci sono praticamente mai resi ed è sempre puntuale nei pagamenti»), ma a patto di mantenere l’anonimato. Il pericolo, per chi di loro esce allo scoperto, è di "contrariare" le griffe, che non hanno previsto Cettire tra i distributori ufficiali. Nonostante i divieti di rivendita su piattaforme terze, i negozianti continuano a fare affari con l'operatore australiano: lo dimostrano la quantità di scatole e scatoloni con marchio Cettire che capita di veder uscire dai loro negozi con destinazioni principalmente extra Ue. È un rischio calcolato: la tracciabilità dei capi (per ora) è poco utilizzata e quindi le possibilità di essere scoperti dai

• Il fornitore prepara e spedisce le merci ordinate all’acquirente. Sulla confezione sarà indicato il nome di Cettire

• Cettire paga al produttore il prezzo di listino del bene, trattenendo per sé la differenza rispetto al prezzo di vendita al pubblico

brand-owner sono basse. Cosa c'è dietro la diffidenza delle case di moda verso il marketplace australiano? In generale le aziende cercano sempre più il controllo diretto della distribuzione e Cettire non è un rivenditore selezionato direttamente da loro, bensì dai clienti multimarca. Il vero motivo dello scontento, secondo quanto riferito da alcuni supplier, sarebbe che in ogni mercato in cui opera, Cettire applica prezzi più bassi di quelli previsti dai brand stessi. Proprio a causa di questo “disallineamento” la società di Mintz cerca di non attrarre l'attenzione delle aziende su di sé. Il fatto che l'indirizzo Internet di Cettire sia non visibile in Italia e Francia, di fatto rende più complicato per le aziende di questi due mercati sapere a quali cifre vengono offerti i loro prodotti. Ma da cosa derivano i prezzi competitivi di Cettire? Anche su questo tema la società non fornisce indicazioni precise. A incidere è la sua capacità di sfruttare, tramite il modello del dropshipping, le differenze di prezzo tra un mercato e l’altro: acquista un prodotto

Supplied by Cettire

dove costa meno e lo rivende a prezzo conveniente dove ha un costo maggiore. A ciò si aggiunge il fatto che il suo inventario proviene principalmente da clienti all'ingrosso, più disponibili a finanziare le promozioni rispetto ai brand stessi.

Rapporti diretti coi brand: il nuovo ingrediente segreto Ricapitolando, Cettire svolge il ruolo di "intermediario", i nomi dei suoi fornitori restano segreti agli occhi degli utenti ma anche delle maison produttrici dei marchi: sembra davvero che tutto quello che succede negli uffici di Cettire a Melbourne debba essere protetto dal silenzio più stretto. Un modo di portare avanti il business che trova riscontro nel carattere imperscrutabile del fondatore e ceo Dean Mintz che, quasi come un Martin Margiela dell’e-commerce, è praticamente invisibile: nessuna intervista e poche foto che lo ritraggono. Circostanze, queste, che rendono un evento fuori dall'ordinario avere ricevuto alcune dichiarazioni da parte dell’azienda, che ha riassunto così il segreto della sua avanzata nell’e-commerce. «La tecnologia di cui Cettire è in possesso - si legge nello statement - resta al centro del nostro modello di business, poiché gestisce e automatizza in gran parte la gestione dei prodotti e dell’inventario, le strategie di prezzo, l’evasione degli ordini dei clienti e la logistica». Non sorprende quindi che la maggior parte degli investimenti pianificati dal player australiano sia «focalizzati sull’ulteriore sviluppo della nostra tecnologia scalabile e flessibile». Ma l'attenzione si sta spostando anche sulle «attività di marketing mirate e sulla crescente capacità organizzativa» grazie a investimenti raddoppiati nel corso dell'ultimo anno. Se per Cettire l'asso nella manica è la tecnologia, per gli analisti che monitorano la sua strategia la tenuta del business è legata anche ad altri aspetti. «L'azienda - fa notare Julian Mulcahy di E&P Financial Group -

Si è sempre detto che gli unici supplier di Cettire fossero i wholesaler e che non esistessero rapporti diretti con i fashion brand. Non è così: la società sta investendo su questo tipo di collaborazioni e ha già all’attivo partnership con due realtà italiane, Staff International con Dsquared2 (a sinistra) e Zegna (a destra)

Dati riferiti a giugno 2024

i clienti attivi registrati nell'anno fiscale 2024, in crescita del 64%

ha una struttura a costi fissi molto bassi, con soli 72 dipendenti diretti (di cui un terzo ingegneri informatici). Dal punto di vista dei clienti finali, le attrazioni principali di Cettire sono il prezzo e l’ampia gamma di marchi». Basterà tutto questo per dar vita a una crescita aziendale scalabile? Se lo chiede anche Luca Solca global luxury goods analyst per Bernstein: «Cettire sfrutta al meglio le differenze di prezzo tra un mercato e l’altro. Anche Farfetch aveva fatto così all’inizio, con successo. Il problema sarà la tenuta di un business model di questo tipo nel medio termine. Continuerà a trovare stock da offrire a prezzi vantaggiosi? Se non ci riuscirà, rischia di trovarsi ridimensionato». La risposta all’interrogativo di Solca sulla capacità di individuare nuovi clienti potrebbe arrivare dalla strategia intrapresa recentemente dall'operatore australiano: scommettere sulle collaborazioni dirette con le aziende tito692

L'offerta di Cettire ha corso veloce negli ultimi tre anni

lari dei brand. Si è sempre detto che il gruppo avesse come unici supplier i wholesaler e nessun rapporto diretto coi marchi di moda. Invece anche loro fanno parte del puzzle, benché non sia chiaro per in quale misura e, soprattutto, con quali accordi sul prezzo. «La nostra strategia - commenta l’azienda - è lavorare con ogni membro della filiera del lusso. Abbiamo già molti rapporti diretti con i marchi e vogliamo farli crescere». In linea con la riservatezza che contraddistingue la società di Dean Mintz, i nomi delle aziende partner non vengono pubblicizzati. Di sicuro ci sono due realtà italiane, Staff International e il brand Zegna. Entrambe le intese sono state annunciate in sordina rispettivamente nel 2021 e a fine 2022, con scarsa eco mediatica. Confermando il teorema che tutti quelli che lavorano con Cettire faticano ad ammetterlo, le due aziende, contattate da Fashion, non hanno commentato la notizia. La collaborazione con Staff International è gia attiva, ma riguarderebbe solo Dsquared2 che, infatti, risulta il brand con più item presenti su Cettire (vedere tabella con i top50). Sul fronte Zegna, invece, l’accordo sarebbe frutto dell’iniziativa del management dell’area Apac e non risulterebbe ancora operativo. Pare che la partnership sia in fase di test: non ci sarebbero stime precise di quando Cettire integrerà direttamente in piattaforma i prodotti provenienti da Zegna.

I grandi (e piccoli) misteri che restano ancora da risolvere Che succederà quindi quando (e se) la lista delle aziende con cui il marketplace collabora direttamente si amplierà ulteriormente? Sulla carta, con questa mossa, Cettire po-

trebbe veder svettare le sue quote di mercato, che sono ancora inferiori a Farfetch e Italist I buyer italiani sono dei simpatizzanti, in virtù delle condizioni di pagamento più favorevoli rispetto alla concorrenza, ma alcuni di loro lanciano un warning: nel team del gruppo mancano insider della moda: se vuole crescere, l'azienda non può restare una software company. Anche gli analisti sono ottimisti sul suo futuro, ma il paragone con altri player resta prematuro. «Cettire - fa il punto Mulcahy di E&P Financial Group - è ancora relativamente piccola. Attualmente ha 690mila clienti (contro i circa di 4,1 milioni di Farfetch) e le vendite nette sono state di 742 milioni di dollari australiani negli ultimi 12 mesi. Il wholesale rappresenta il 50% del mercato del lusso, quindi è difficile per i marchi impedire

72 dipendenti

assunti da Cettire, un numero basso per una realtà con un business in 54 Paesi

che i prodotti vengano venduti al di fuori dei canali ufficiali. In più Cettire ha aperto il dialogo diretto con i brand e non è ancora chiaro dove questo potrà condurla». «Penso - conclude - che possa diventare molto più grande. Gli ultimi 12 mesi sono stati piuttosto volatili, ma la società sembra esserne uscita forte: è senza debiti e ha molta liquidità». Resta quindi un ultimo interrogativo e non riguarda la supply chain, ma la finanza: quanto potrà svilupparsi il suo volume di affari? Molto, almeno secondo Wei-Weng Chen, analista della sede di Sydney di Royal bank of Canada, che in un recente report ha previsto un triennio di crescita a doppia cifra per la piattaforma, che entro il 2027 potrebbe raggiungere 1,24 miliardi di dollari australiani di ricavi. Nel regno degli e-tailer del lusso (dove la case history vincente sta venendo a mancare dopo le implosioni di Farfetch e Matches, il ridimensionamento di Ssense e il rallentamento di Mytheresa), la corona rischia di essere raccolta da un outsider, che arriva dall'Australia, piace ai buyer e ai consumatori finali. E ora inizia a interessare anche alle aziende. Unico neo: tutto (o quasi) quello che fa è un segreto. 

IL PUNTO DI VISTA/FRANCESCO ANGLANI (BONELLIEREDE)

Il legame brand-distributore: «Selettivi sì, ma niente pressioni sui prezzi»

Gli accordi di distribuzione selettiva condizionano l'intero canale wholesale: possono prevedere norme che vietano ai distributori di rivendere i prodotti acquistati su una serie di piattaforme terze online. Capita sempre più spesso che il nome di Cettire sia tra quelli bannati. Abbiamo chiesto a Francesco Anglani, partner di BonelliErede, team leader del Focus Team Altagamma ed esperto di Antitrust, se le restrizioni alla rivendita (e quali) possono presentare criticità sotto il profilo della tutela della concorrenza.

Attraverso l’uso del contratto di distribuzione selettiva un brand può vietare l’utilizzo dei marketplace online per la rivendita dei propri prodotti?

Sì. La scelta nasce dall’esigenza di tutelare il brand e garantire che la commercializzazione dei prodotti avvenga nel rispetto di alti standard qualitativi. In questi contratti è normale prevedere clausole che vietano l’utilizzo dei marketplace online. Questo divieto può essere modulato a seconda degli interessi del brand: si può scegliere di imporre un divieto totale, o di escludere solo i marketplace, che appaiono meno idonei a tutelare il prestigio del brand. Queste restrizioni valgono anche per le piattaforme di dropshipping?

Sì, con le stesse motivazioni.

Ma è possibile vietare la vendita online tout court?

No. Il canale online amplia la scelta dei consumatori, consentendo loro di accedere a più prodotti e di comparare più offerte, acquistando a prezzi più vantaggiosi. Per queste ragioni, il diritto antitrust non ammette un ban totale alle vendite online. È però possibile prevedere contrattualmente criteri qualitativi ad hoc per la vendita via e-commerce. In quest’ottica, i brand possono chiedere ai propri e-tailer di vendere offline un quantitativo minimo di prodotti (da definire in valori assoluti). Possono anche valutare di applicare prezzi all’ingrosso diversi per gli stessi prodotti, a seconda che siano destinati all'online o all'offline, purché la differenza sia ragionevole.

I contratti di distribuzione settiva possono arrivare anche a fissare i prezzi della merce?

L’imposizione del prezzo di rivendita è sempre vietata: il prezzo è una variabile competitiva cruciale. I brand owner possono fornire ai rivenditori delle mere raccomandazioni di prezzo e/o imporre dei prezzi massimi. Tuttavia, bisogna sapere che il diritto antitrust predilige la sostanza rispetto alla forma: un suggerimento non può mai tradursi in un’imposizione tramite pressioni e/o altre forme di monitoraggio aggressive dell’attività del rivenditore. (an.bi.)

Dati riferiti a giugno 2024

UN’ESTATE MENO QUIET E PIÙ WOW

Mentre ci si chiede in che misura il nuovo corso di Valentino con Alessandro Michele influenzerà la moda del prossimo futuro, il quiet luxury è ancora presente nelle collezioni della SS25, con la sensazione che, più o meno sottotraccia, un posto nel guardaroba lo troverà sempre. Ma è innegabile che emergano correnti di rinnovamento - che nel caso di Valentino sono vere e proprie rapide - tra la riscoperta del romanticismo, le trasparenze e nuove silhouette: i capispalla abbandonano ogni formalismo, le camicie esplorano inediti cromatismi e fantasie, borse e valigie sono più che mai attente all’estetica oltre che alla funzionalità. Le sneaker somigliano a piccole opere d’arte: basterà la loro creatività a contrastare il ritorno dei tacchi, che si stanno riprendendo la scena? Intanto gli orologi si scoprono meno esibizionisti e più essenziali. Il punto sulla stagione in una carrellata fotografica e nelle testimonianze di ceo e imprenditori, che raccontano in prima persona le collezioni della SS25, allargando il focus sul mercato, i progetti e le strategie presenti e future. TWINSET

DI ALESSANDRA BIGOTTA E MARIA CRISTINA PAVARINI

CAPISPALLA Un mondo in trasformazione

PIERPAOLO TEGON

CEO DI SEVENTY VENEZIA

«La giacca scopre la pelle. Per noi tre priorità: sostenibilità, digitalizzazione, estero»

Dal classico trench alla nuova interpretazione della giacca, con molta attenzione a tutto il mondo della pelle: così Seventy Venezia interpreta il capospalla per la SS25, all’interno di una collezione trasversale, che per questa stagione si ispira al mondo business anni ’90 con un design semplice, un look spigliato e nuove texture che mescolano lini, cotoni, viscose e organze ricamate. L’amministratore delegato Pierpaolo Tegon tira le fila della SS24, «che si è chiusa con una crescita a doppia cifra, forte di proposte centrate per stile e offerta, supportate da un corretto posizionamento di prezzo». A livello sellin, come informa Pierpaolo Tegon, «i prezzi medi oscillano tra i 250 e i 350 euro, superando i 400 euro per l’outerwear». Il marchio, al centro di un passaggio generazionale, sta investendo in sostenibilità, digitalizzazione e sviluppo estero, «con il progetto retail che resta sempre la sfida che ci sta più a cuore», sottolinea il ceo, che guida l’azienda fondata dal padre Sergio, affiancato dalle sorelle Francesca, creative director, e Giovanna, che presidia le Global Sales. I monomarca Seventy Venezia sono attualmente a Milano, Bologna e, da metà ottobre, anche a Roma, mentre all’estero si trovano a Madrid, Almaty, Zagabria e Spalato. Da citare poi un progetto di pop up a Forte dei Marmi in estate. 700 i multimarca (di cui il 60% in Italia), per questa realtà da 30 milioni di euro di ricavi, con mercati come Benelux, Francia e Spagna trainanti per l’Europa, gli Usa in crescita e il Giappone che si sta consolidando.

AERONAUTICA MILITARE
ART259DESIGN
MOMONÌ

DIRETTORE CREATIVO DI TAGLIATORE E TAGLIATORE 0205 «Cresciamo nella donna e guardiamo oltreoceano»

Nella nuova collezione donna Tagliatore 0205 il direttore creativo di Tagliatore, Pino Lerario, ha lavorato su tre diversi volumi per giacche, blazer e capispalla: «Uno più sciancrato, che segue la silhouette, uno più over e quello che definisco “in equilibrio”, che sta bene a tutte - spiega -. In comune hanno la fattura e il design, i materiali di prima qualità, il made in Italy e la tracciabilità, che per noi è una garanzia». «In sostanza - precisa - le clienti vogliono essere a proprio agio con ciò che indossano. Un bel tailleur è un capo passepartout che, se ben tagliato, fa la differenza. Detto questo, per la SS25 abbiamo introdotto anche la maglieria e gonne di diverse lunghezze». Lerario fa il punto sul 2024 - «Un anno che in generale è andato bene, dopo il boom del 2023» - e indica i prezzi indicativi sell out della collezione estiva, intorno ai 600 euro per le giacche e agli 800 euro per i tailleur. L’azienda, il cui fatturato è di 40 milioni di euro, sta investendo sull’estero e vorrebbe rafforzare la presenza oltreoceano. Le proposte donna, un quarto del totale ma in crescita, sono presenti in circa 150 boutique italiane, mentre nel mondo le vetrine si aggirano sulle 300, tutte multibrand. L’Italia si conferma il mercato di riferimento, seguita da Germania e Scandinavia.

MARCO BERNI

PRESIDENTE E DIRETTORE CREATIVO DI ANTONELLI FIRENZE

«Intorno al capospalla una collezione che si rinnova di continuo»

Il capospalla è uno dei punti di forza di Antonelli Firenze. «Anche per la SS25 alla voce giacche non c’è che l’imbarazzo della scelta - spiega il presidente e direttore Marco Berni (nella foto con la madre, Enrica Antonelli) - tra sahariane, modelli doppiopetto, giacche-camicia o vestaglia». «Le novità riguardano in realtà tutta le collezione - precisa - considerando che su quasi 500 pezzi di campionario solo quattro sono continuativi». Della primavera-estate 2024 «non possiamo che essere felici, visto che prevedevamo un +10% e abbiamo centrato l’obiettivo, con l’Italia particolarmente brillante, che sta andando ben oltre l’incremento double digit. Abbiamo inoltre cominciato a distribuire da questa stagione il marchio in Giappone, con un partner di rilievo come Yagi Tsusho Limited». Anche l’AI è al centro dei progetti di Antonelli Firenze: «Sono convinto che serva integrare nella nostra realtà nuove tecnologie come l’Intelligenza Artificiale, utile nelle analisi sui macro dati di vendita, in modo da elaborare meglio le proposte stilistiche, con meno dispersioni e inefficienze. Sapere in anticipo cosa interessa davvero alla clientela e qual è il cliente più statisticamente correlato al trend di crescita della collezione ci permetterà di fare scommesse a rischio praticamente inesistente».

HANITA
PIOMBO
MARCIANO BY GUESS
ANTONELLI FIRENZE
TAGLIATORE 0205
MANZONI 24

CAMICIE Carta bianca alla creatività

MARIO BARBA

CEO DI BARBA NAPOLI

«La camicia da donna?

Senza fronzoli e al maschile»

Barba Napoli, brand italiano d’abbigliamento nato nel 1965 a Napoli, è fondato sulla tradizione artigianale partenopea. Crede nel valore dell’eleganza minimalista caratterizzata da una pregiata manifattura, materiali di qualità e dettagli sofisticati. Per la SS 2025 sceglie tessuti leggeri e freschi, come lino, cotone e seta, continuando ad assecondare le esigenze delle sue clienti, donne attive nel mondo del lavoro, spesso fuori casa nel tempo libero e sempre alla ricerca di capi versatili, che uniscono comfort e stile. «Le vendite della SS 2024 sono andate piuttosto bene e cresciute rispetto alla scorsa stagione primaverile. Il nostro best seller? Senza dubbio la camicia dal taglio maschile, oltre al blazer dall’estetica sartoriale, altro caposaldo del nostro core business», dice il ceo Mario Barba. L’azienda, che produce internamente le sue collezioni uomo e donna, ha come mercati di riferimento l’Italia, il Giappone e l’Est Europa. La collezione donna è venduta a prezzi sell in compresi tra 100 euro e circa 400 euro per i capispalla in cashmere: è presente complessivamente in 150 punti vendita, tra negozi multimarca e quattro monomarca a Milano, Roma, Cortina e Londra e le sue vendite rappresentano il 25% del fatturato complessivo, benché l’azienda si sia posta l’obiettivo di farla crescere fino a raggiungere il 40% del totale entro il 2026.

ARTUYT
PESERICO
MALLONI
GOLDEN SEASON
MARTINO MIDALI
XACUS
BARBA NAPOLI

TRACCIABILITÀ E SOSTENIBILITÀ:

IL FUTURO DELLE SCELTE ETICHE

Fare scelte consapevoli per favorire un cambiamento sociale e ambientale autentico, che passa per una catena di fornitura definita a giusto titolo responsabile

Accompagnare i brand della moda e del lusso lungo il cammino verso un futuro più trasparente e sostenibile: questo l’obiettivo principale di Temera – azienda con sede a Firenze, Milano e Parigi, fondata da Arcangelo D’Onofrio e Francesco Pieri –pioniera nelle soluzioni di tracciabilità per il settore. Da quindici anni, la visione di Temera è un futuro dove ogni capo di abbigliamento racconti una storia di approvvigionamenti responsabili, manifattura meticolosa e qualità durevole, contribuendo così a sostenere un’industria più circolare e responsabile, capace di contenere gli sprechi.

Un approccio che per Temera si traduce anche nell’impegno più ampio di diffusione della cultura della sostenibilità, non solo ambientale, ma sociale. In questa direzione va la partecipazione come partner culturale a Imaginarium III. “Come le industrie creative stanno ripensando alla sostenibilità” è titolo della terza edizione dell’evento, recentemente organizzato da Acqua Foundation, un’organizzazione filantropica dedicata alla preservazione e gestione globale dell’acqua. Durante l’evento è stato presentato un importante progetto di beneficenza, volto a fornire acqua potabile a una comunità scolastica in Cambogia, e avviato uno studio sull’impatto dell’industria tessile sulle risorse idriche delle comunità locali, un’importante area produttiva per la moda.

dei dati, l’approccio di Temera è integrato e olistico, con l’unico obiettivo di favorire una vera tracciabilità, presupposto indispensabile per mettere in campo una strategia autentica di sostenibilità.

Cosa vuol dire veramente “tracciabile”?

Nel progetto di ricerca, Temera contribuirà alla raccolta e all’analisi dei dati. Tra i partecipanti all’evento figuravano nomi di rilievo del settore, come Carlo Capasa, Simone Marchetti, Matteo Ward ed Eva Kruse. È stato inoltre presentato il decalogo contro il fenomeno del “Blue Washing”. Dall’analisi dei flussi alla raccolta e certificazione

«La tracciabilità nel nostro settore rappresenta un cambio di paradigma, diventando la base solida per un cambiamento positivo. – afferma la Sustainability Director Maria Fernanda Hernandez Franco - Tracciare la filiera è indispensabile per conoscere nel dettaglio le proprie performance, per identificare gli aspetti migliorabili e per intervenire dove necessario per ridurre il proprio impatto. Oggi più che mai le aspettative in termini di ESG sono altissime: nell’era in cui la consapevolezza dei consumatori è profondamente radicata, promuovere una filiera trasparente diventa una leva fondamentale nel processo di acquisto e un elemento cruciale per mantenere la competitività sul mercato». Trasparenza significa controllare ogni singolo passaggio della catena del valore, facendo leva sulla tecnologia per colmare il divario tra il mondo fisico e quello digitale. In concreto, le soluzioni Temera creano un gemello digitale del prodotto (Digital Twin), una rappresentazione virtuale di un prodotto fisico che identifica univocamente il suo ciclo di vita nel mondo reale, tracciando ogni fase, dall’approvvigionamento delle materie prime alla produzione, dalla distribuzione al suo riciclo. Si tratta dunque di uno strumento dinamico per i brand del lusso per raccogliere e gestire dati affidabili sui prodotti, migliorare la trasparenza e, infine, fornire al cliente finale informazioni concrete a supporto degli sforzi di sostenibilità intrapresi dal marchio.

Maria Fernanda Hernandez Franco Sustainability Director
Ph. Gildardo Gallo

BORSE E VALIGIE Mini, maxi, multitasking

EZIO RACCICHINI

CEO DI GIANNI CHIARINI

«Essere orgogliosamente fiorentini paga anche all’estero»

Quella di Gianni Chiarini è una storia che parte da Firenze negli anni Duemila: un’impresa familiare nata dalla visione dell’omonimo fondatore (attuale presidente e direttore creativo), che nel 2017 ha visto entrare nella compagine sociale il fondo 21 Invest, con l’obiettivo di avviare un percorso di espansione del brand, distribuito in tre flagship (a Milano, Tokyo e Firenze), 19 shop-in-shop e un migliaio di rivenditori nel mondo. «Siamo orgogliosamente fiorentini per l’interpretazione dello stile, con l’artigianalità come punto di forza ma con una distribuzione internazionale che richiama consumatori sempre più variegati, appassionati del savoir-faire italiano», dice il ceo Ezio Raccichini, che dopo una SS24 conclusa positivamente a livello di sell out anticipa qualche highlight della SS25: «Il perno è sempre il know how dell’artigianalità italiana e l’elemento core rimane la pelle, accanto a rafie e paglie - spiega -. Protagonisti volumi over e morbidi e tante lavorazioni: intrecci, intagli e forature». Tra le novità i modelli Aurora e Penelope, mentre si riconfermano Helena Round e Dua, quest’ultima al centro di una campagna con Ambra Angiolini e Janina Uhse come testimonial, pop up da Le Bon Marché a Parigi e Steffl a Vienna e una limited edition da Ludwig Beck a Monaco di Baviera durante L’Oktoberfest. Gianni Chiarini ha chiuso il 2023 con 31 milioni di ricavi (+20%), proiettandosi verso una crescita double digit anche per il 2024.

LA MILANESA
LA CARRIE REBELLE
RUE MADAM PARIS
AMATO DANIELE
GIANNI CHIARINI
PLINIO VISONÀ
ALESSIA SANTI

ATTILIO BRICCOLA

CEO DI BRIC’S

«Le nuove valigie? Funzionali, flessibili e attente all’estetica»

Il settore valigeria è in trasformazione, come racconta Attilio Briccola, ceo di Bric’s, azienda fondata nel 1952 e governata dalla famiglia Briccola, presente ijn una quarantina di monomarca e circa 1.000 multimarca tra department store, negozi in aeroporto e dettaglianti specializzati in oltre 50 Paesi. «Il bagaglio è sì una necessità, ma anche un elemento di stile - afferma -. Le consumatrici, in particolare, cercano soluzioni compatte e flessibili, come lo zaino underseat della nostra X-Collection, che si inserisce perfettamente sotto il sedile dell’aereo oppure il trolley cabina con tasca frontale e porta Usb. Tutti i modelli devono essere leggeri, multifunzionali e resistenti, per grandi e piccole trasferte. E sempre più sostenibili: la X-Collection è fatta con un mix di tessuti riciclati di alta qualità, mentre nella gamma Gondola le pelli sono trattate con processi a basso impatto ambientale». Appartiene a questa linea il modello “sportina”, best seller della SS24, versatile ed essenziale. Nella collezione Bric’s SS25 va citata la reinterpretazione della borsa Bellagio: nata 10 anni fa come valigia elegante che ricorda il baule, viene arricchita da una fodera in tessuto amovibile e lavabile separatamente, con una cover protettiva trasparente e 4 centimetri in più di espansione, «affinché il viaggiatore possa raccogliere ancora più storie e ricordi».

BRIC’S
VALEXTRA
ECOALF
SAMSONITE
BORBONESE
AUTENTICA504
MAISON SICCARDI

CALZATURE

Il ritorno del glamour

GIUSEPPE SANTONI

CHAIRMAN E PRESIDENTE ESECUTIVO DI SANTONI

«Il cliente

non indossa le scarpe,

ci investe. Noi anticipiamo i suoi desideri»

Non solo estetica: dalle calzature oggi la clientela vuole molto di più. Ne è consapevole Giuseppe Santoni, chairman e presidente esecutivo di Santoni, storica realtà calzaturiera che, dopo avere archiviato il primo semestre con vendite pari a 60 milioni di euro (+8,6%), si prepara a chiudere il 2024 con ricavi intorno ai 125 milioni (+10,6%). «Non si va alla ricerca solo di modelli esteticamente belli - sottolinea - ma che rappresentino un investimento nel tempo, realizzati con materiali pregiati e smart e, non ultimo, con una forte componente artigianale». Un esempio è Serpentine, prodotto “hero” della SS25 dove la pelle, lavorata a mano, è nei toni dell’oro e la calzata è sensuale ma funzionale, nonostante il tacco a stiletto. «Si rafforza l’attenzione anche verso la sostenibilità e unicità del prodotto - aggiunge -. Nel primo caso stiamo utilizzando pelli certificate, processi di concia a basso impatto ambientale e investendo nella tracciabilità di filiera. Nel secondo offriamo la possibilità di creare modelli su misura, con dettagli personalizzabili». Ma è l’intera azienda che si ripensa ed evolve, pensando ad esempio al tema della formazione con il progetto educational Santoni Culture - cui fa capo l’Accademia dell’Eccellenza, sviluppata internamente -, che è stato al centro della partecipazione di Santoni a Homo Faber 2024: The Journey of Life. Il brand è presente in 600 negozi tra canali diretti e wholesale, di cui 23 monomarca. In programma entro fine anno inaugurazioni in Vietnam e Arabia Saudita. «Prevediamo una crescita annuale di circa il 30% delle vetrine - conclude l’imprenditore, nominato nel 2022 Cavaliere del Lavoropuntando a 35 boutique entro il 2026».

VOILE BLANCHE
SANTONI
CASADEI
RENE CAOVILLA
FABIO RUSCONI
LE SILLA
AGL

SNEAKER

Tra arte e performance

ENTERPRISE JAPAN (ENTJPN)

TOMMASO SANTONI

CEO DI D.A.T.E.

«Dalla Toscana a Tokyo il passo si fa più breve»

«Ogni modello D.A.T.E. è prodotto con un’attenzione maniacale alla scelta dei materiali, che viene quasi esclusivamente svolta nel nostro territorio»: Tommaso Santoni, ceo del brand da circa 20 milioni di ricavi, con prezzi al pubblico compresi tra i 165 e i 185 euro, tiene a sottolineare la “toscanità” del prodotto, «sinonimo di qualità e originalità che si ritrovano anche nella collezione SS25». Una stagione ispirata agli anni ’80, con due modelli clou (Torneo e il nuovo Athleta), caratterizzata da tomaie in pelle, nylon e mesh, dettagli in spugna, strisce laterali, loghi rétro e una “Color Collision” di tonalità dal forte impatto visivo. Al centro delle strategie più comunicazione e l’espansione della rete vendita, con particolare attenzione al mercato giapponese, da affrontare con partner locali. Tra le figure di vertice spiccano, oltre a Santoni, Emiliano Paci (a capo di design e ufficio stile), Damiano Innocenti (operation e prodotto) e Francesco Bozzi (brand director e responsabile della parte commerciale e comunicazione).

MAURIZIO CROCERI

CEO DI ELI GROUP (ENTERPRISE JAPAN) «Produzione italiana, ispirazione giapponese: così in tre anni Entjpn ha spiccato il volo»

Un brand che si sta imponendo nell’affollato mondo delle sneaker è Enterprise Japan (Entjpn), nato tre anni fa all’interno di Eli Group, azienda fondata nel 2016 a Civitanova Marche da Maurizio Croceri e Marco Marchi, che nel 2023 ha dato vita a Eli Factory, polo produttivo di proprietà specializzato nelle calzature di lusso, che conta su un impianto di 4mila metri quadri e ha una capacità produttiva di circa 120mila paia di scarpe l’anno. In tre anni Entjpn ha bruciato le tappe: «Siamo in 250 top retailer, tra multimarca selezionati e premium department store - spiega Croceri - e stiamo consolidando i mercati attivi come l’Europa, con in testa Italia, Germania e Francia, aprendoci ad aree in forte sviluppo, tra cui Medio Oriente, Corea e Giappone». La collezione, che agli inizi era 80% uomo ma che vede ora la donna al 40%, incrocia l’estetica giapponese Shibui con il made in Italy, posizionandosi nel segmento delle sneaker di alta gamma con una serie di asset: il design riconoscibile grazie al simbolo del “rocket” (tra le linee di punta della SS25 spicca, accanto al modello iconico Egg Rocket, la Rocket Run con tomaia in laminato gommato stampato in digitale, abbinata al mesh tecnico in nylon a trama larga, 100% animal free), il prezzo competitivo (da 100 a 115/118 euro sell-in), la forte componente artigianale e una filiera tracciata e certificata Lwg Gold-Leather Working Group. «Ora entriamo in una seconda fase - conclude Croceri - per affermarci con un’identità chiara e forte, grazie al prodotto e a come lo raccontiamo, ma soprattutto restando intransigenti su qualità e autenticità».

STKN BY STOKTON
VALSPORT
D.A.T.E.
PREMIATA
PANTOFOLA D’ORO
GEOX

OROLOGI Lusso e precisione

VANESSA BRADANINI-AHLQVIST

GLOBAL HEAD OF BRAND & MARKETING DANIEL WELLINGTON

«Per l’orologeria è tempo di minimalismo»

Si sta diffondendo il trend degli orologi dallo stile essenziale, espressione di un’estetica nordeuropea. Ne è prova un dato colto da Daniel Wellington, marchio d’orologi svedese, che tra i suoi best seller ha modelli che si inseriscono in questo trend, come Petite Melrose 28 da donna e, da uomo, Iconic Chronograph. Dalla FW 2024/2025 Daniel Wellington ha anche avviato un progetto di rebranding, proponendo prodotti dallo stile raffinato, maggiormente rivolti al pubblico femminile. Il marchio, nato nel 2011, ha recentemente lanciato Cosmic Essentials, una linea di orologi in metallo color oro giallo e oro rosa oltre a tonalità argento, ma con prezzi in linea con il resto del brand (principalmente compresi tra 179 e 199 euro al pubblico), insieme a una gamma di piccoli gioielli in acciaio e pietre, con segni zodiacali e pietre legate al mese di nascita. «Questa nuova espressione del marchio si ricollega a tutti i nostri valori e si concentra su un design che enfatizza la semplicità e l’eleganza», spiega Vanessa Bradanini-Ahlqvist, responsabile globale e del marketing di Daniel Wellington. «In passato - prosegue - le nostre collezioni avevano un’immagine molto maschile, caratterizzata quasi completamente da toni come blu e oro. Con questo rebranding abbiamo voluto riportare l’immagine alle origini, concentrandoci sul nostro core business, poiché le donne rappresentano il 75% dei nostri consumatori». In Italia negli ultimi mesi si è confermato il trend minimalista, perché tra i best seller ci sono modelli dallo stile essenziale, come i già citati Petite Melrose 28 Iconic Chronograph. La collezione sarà distribuita attraverso i canali propri, tra cui 75 monomarca e un sito di e-commerce, e una rete molto estesa di 750 negozi in Italia, parte di un più ampio network di 7mila punti vendita multimarca nel mondo.

DANIEL WELLINGTON
LUCIEN ROCHAT
MAURICE LACROIX FERRAGAMO
PHILIP WATCH

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FUNKY SUMMER

La settimana della moda di Milano, che ha presentato le novità per la PE25 di marchi consolidati ed emergenti, ma anche di piccole realtà con alti contenuti artigianali, sembra avere fatto centro nell'offrire nuovi spunti ai buyer. Per cominciare, ha preso le distanze dal quiet luxury - come osservano alcuni intervistati da Fashion in questo résumé - in favore di proposte più divertenti e giocose. C’è anche chi ha parlato di lusso assoluto per Bottega Veneta e di quintessenza del glamour per Dolce&Gabbana e i suoi cloni di Madonna-Material girl. Qualcuno ha trovato l’offerta talmente eterogenea da rendere impossibile individuare precise tendenze di stagione (noi ci provamo in questa pagina) o i pezzi must have. Altri notano un impegno generalizzato nell’elevare i marchi. Basterà per risvegliare un mercato sempre più difficile da decifrare a tutte le latitudini? Diego Della Valle, patron del Gruppo Tod's, si è detto fiducioso in una ripartenza del lusso tra sette-otto mesi e ha invitato le aziende italiane a reagire «non cambiando neanche una virgola nella loro qualità, filosofia di prodotto e nel racconto dell’Italian lifestyle». Brunello Cucinelli ritiene necessario un riequilibrio nel settore, con «budget più umani», perché forse si è superato un po’ il limite. Per Marco Bizzarri - ex ceo di Gucci, che ha investito di recente nel marchio Maccapani - bisognerebbe tornare a creare «sulla base più delle emozioni che dei numeri». Meglio ancora se i prezzi al consumatore risultano accessibili, anziché stratosferici.

DONNE CON LA GONNA

L’emblema della femminilità torna in molteplici varianti. Mini, maxi, midi, a ruota, sigaretta, tulipano e palloncino. Goffrata, liscia, multistrato e con gli oblò. E ricoperta di ricami, fili metallici, perline e fiori a rilievo

LA GATTA CON GLI STIVALI

Metamorfosi inattese trsformano il mocassino in stivale e le infradito in boot. Anche le allacciate da boxeur si reinventano. Con le temperature hot, consentito passare alle ballerine, viste a più riprese on stage

BYE BYE, QUIET LUXURY

Basta sobrietà e colori sommessi.

Solo puro divertimento fatto di toni accesi o stili a contrasto, strati sovrapposti e trasparenze, ricami, paillettes, frange, motivi macro, plissé-origami e accessori dissonanti. Girls just wanna have fun!

WHITE DRESS CODE

Ensemble bianchi hanno aperto molte sfilate e quasi tutti i brand hanno presentato almeno un total look candido. Bianco ottico e ghiaccio, ma anche avorio e crema, per esprimere energia e vitalità

O LA BORSA O LA VITA

Tornano le maxi-bag che sfoggiano modelli geometrici e iper-costruiti, o si presentano come soffici never full e pochette XL. Frange, specchietti e decori metallici le trasformano in complici alleate della quotidianità

SPORTMAX
MARNI
FENDI MISSONI N. 21

PARLANO I BUYER

Rinascente Buying and Merchandising Director

Anche in questa occasione i brand hanno giocato sul sicuro, ma Prada e Bottega Veneta si sono superati, con dosi massicce di creatività, molto attese. Dolce&Gabbana ha fatto centro con la collezione ispirata a Madonna, credibile e attuale. Che cosa funzionerà? Le borse maxi e le trasparenze, con ricami e applicazioni.

KaDeWe

Chief Merchandising Officer

Fendi ha presentato un delizioso mix di prêt-à-porter e couture.

De Sarno sta rendendo Gucci più sexy. Prada ha abbandonato l'idea di abbigliamento-uniforme, per un approccio futuristico. Dolce&Gabbana ha mostrato una “bellezza italiana” tra Hollywood e l'Italia classica, influenzata dalla Material Girl-Madonna. Se devo citare una new entry, dico Daniel Del Core.

ASTRID BOUTROT

The Webster Women's Buying Director

Ho adorato la sfilata di Bottega Veneta e il modo in cui ha reinterpretato la vita di tutti i giorni con un tocco di lusso così impeccabile. Anche Fendi ha fatto centro con uno stile romantico, bello e chic. Finalmente Gucci ha portato nuova energia con colori e un approccio moderno agli anni '60. Belle le borse di Ferragamo, Jil Sander e The Attico.

MAYU MOTEGI

Sogo & Seibu Co. Merchandiser Women’s apparel division

Bottega Veneta è stata la sfilata più straordinaria di questa settimana della moda, un’autentica masterclass. Milano è piena di contrasti, tra lusso assoluto, senza tempo e linee focalizzate sui trend. Distillare tendenze chiare è difficile e quelle della PE25 sono più opache che mai. Direi i flapper dress anni '20, gli abiti in generale e l'allontanamento dal sartoriale.

MARTA GRAMACCIONI

LuisaViaRoma

Buying Director

Prada è la collezione che ho amato di più, per la capacità di fondere stili diversi. Quello di Matthieu Blazy per Bottega Veneta è un vero progetto di lusso che ci ha toccato profondamente. Di Gucci mi è piaciuta la palette. Marni è stato uno degli eventi più divertenti. Super forte la sfilata di The Attico, tra piume e sport. Tanti brand, tra cui Bally, hanno cercato di offrire di più e meglio. Tra i giovani, giusto riconoscere il talento di Niccolò Pasqualetti: lavora benissimo sui tagli e vestibilità.

Durante tutta la settimana ho avuto la netta impressione che ci stesse allontanandio dal quiet luxury. Le collezioni erano giocose e mostravano le icone dei marchi ma in modi nuovi. Ho amato molto la collezione di Prada. Anche Jil Sander ha lasciato il segno. Tra gli accessori più belli quelli di Fendi: ho la sensazione che le scarpe Red Wing abbinate ai calzini trasparenti con strass piaceranno moltissimo.

ALIX MORABITO

Galeries Lafayette

Buying & Merchandising Director - Womenswear, Lingerie and Kids

Il trend più forte di stagione è l’ampia proposta di colori, a partire dalle nuance "sunset". Rosa cipria, arancione, giallo, terracotta e bordeaux, passando per i verdi, fino al ritorno del kaki in un ampio ventaglio di toni neutri. Sono di nuovo rilevanti le gonne in lunghezze diverse, indossate da sole o sopra un pantalone, plissettate o stile kilt. Tra i must-have le visiere e gli occhiali space age di Prada, i suoi collant e i leggings.

SIMONE HEIFT
SIMON LONGLAND
DOLCE&GABBANA
BALLY
RED WING X FENDI
GIUSEPPE D’AMATO

NICHOLAS ATTESHLIS

Zalando Designer

Head of Brand Partnerships

Dolce&Gabbana è tornato alle proprie radici con la quintessenza del glamour italiano. I cappotti oversize di Gucci avevano un tocco etereo. Sul fronte degli accessori, Versace ha realizzato delle calzature giocose, con tacchi dai colori pop. Credo che la Rabbit Bag di Bottega Veneta sarà il must have della prossima stagione.

OLGA MIRONOVA

Boutique XXI Secolo Owner

In questa fashion week è stato di forte impatto lo show di Dolce&Gabbana, quasi un piccolo film. Bella la prova di Fendi, dove abbiamo rivisto 100 anni di storia e di know how. Tra le sfilate top anche Versace, con una collezione fresca, destinata a una donna forte, indipendente e sexy. La mia presentazione preferita?

Quella di Brunello Cucinelli: ricca, elegante, facile da portare. Tra i must have di stagione ci sarà sicuramente un abito o un completo di cotone bianco.

LIA PAGONI

Gruppo Pagoni

Owner

Sul podio delle collezioni per la prossima primaveraestate metto Moschino, di cui ho apprezzato i modelli total white, insieme a Diesel (belli il denim invecchiato, le stampe e gli abiti) e a N.21, che ha interpretato in modo fresco le stampe floreali. Interessanti anche le proposte eleganti e i giochi di trasparenze di Del Core.

AL WHITE

HAND MADE CREATIVO E GLOCAL

STEPHANIE MOOR

Level Shoes (Chalhoub Group)

Head of Buying

Ho avvertito davvero una bella energia a Milano, con voglia di fare, ottimismo e molte novità. Relativamente agli accessori, Prada e Ferragamo sono tra i marchi che ho apprezzato di più. Il primo con pezzi iperconcettuali e con colori e texture che catturavano l’attenzione. Il secondo con nuove silhouette dall’appeal commerciale.

L’edizione di White di settembre, nel Tortona District, ha arricchito l’offerta di proposte per la prossima estate dando visibilità a marchi di piccole e medie realtà della moda contemporary, risultato di una costante attività di scouting, specie tra le manifatture con alto tasso di artigianalità e creatività, ma anche attente alla sostenibilità. Tra queste Cavia, marchio fondato da Martina Boero che propone una serie di capi realizzati all’uncinetto, fra la Puglia e la Lombardia, riciclando filati di vario tipo o che assemblano centrini e tele ricamate. Un altro marchio italiano che può vivacizzare la SS25 è le Daf che sigla una serie di borse hand made. Nascono a Lecce, dalla creatività di Fernando Pezzuto, impiegando i tessuti sardi della tipica tessitura a grani, che poi vengono dipinti a mano in tinte fluo e trattati con effetti glitter. Coppola e Toppo è invece un marchio di bijoux classe 1948, indossato da nomi come Jacqueline Onassis, Maria Callas e Marilyn Monroe, che vanta collaborazioni con Dior, Schiaparelli ed Emilio Pucci. Ora è in fase di rilancio con il nuovo proprietario Paolo Longhitano. Tutte le proposte sono realizzate a mano a Milano, reinterpretando i modelli iconici del brand: l'effetto sparkly è assicurato. Arrivano invece dalla Colombia e dallo studio di design Verdi una serie di secchielli, clutch e tracolle ispirate alla tradizionale mochila. Sono lavorati da artigiani locali a crochet con sottili fili di rame, anche abbinati all'alpaca.

CAVIA COPPOLA E TOPPO
VERDI
LE DAF
DIESEL
VERSACE
FERRAGAMO

sales@tuttifruttiinternational.com www.tuttifruttiinternational.com

CSM è un’associazione autonoma, libera ed indipendente.

CSM è dedicata a tutti gli showroom multibrand di Milano più rappresentativi del fashion e con una forte vocazione internazionale.

CSM ha tra i suoi obiettivi fondamentali l’esigenza, resa ancor più forte dalla recente situazione congiunturale, di fare squadra.

CSM ha concretizzato, grazie alla collaborazione con Confartigianato Moda, importanti attività durante le Fashion Week di Milano:

ARTISANAL EVOLUTION + CSM MEETS SUSTAINABILITY PERCHÈ SENZA UNA VISIONE COMUNE,

CAMERA SHOWROOM MILANO ringrazia

1ST FLOOR

999 SHOWROOM

ARETE’ SHOWROOM

ASESTANTE SHOWROOM

BRERAMODE

BOIOCCHI SHOWROOM

CASILE & CASILE

CONTINUO

DANIELE GHISELLI SHOWROOM

DMVB SHOWROOM

ELISA GAITO SHOWROOM

FATTORE K MILANO

GARAGE MARINA GUIDI

K-LAB

MANNERS

MANUEL MENCARELLI SWOWROOM

MODERN SWOWROOM

PANORAMA MODA

PERCORSI OBBLIGATI

PROGETTO MILANO

RENZO VESENTINI MILANO

S5 SHOWROOM

SD SHOWROOM

SHOWROOM A. FICCARELLI

SHOWROOM DUNE

SHOWROOM JE T’AIME

SHOWROOM PAPAVERI

SPAZIO 38

SPAZIO COLTRI

SPAZIO LIBERTY

STUDIO 360 SHOWROOM

STUDIO POGGIO

STUDIO TATO SOSSAI

STUDIO ZETA

STYLE COUNCIL SHOWROOM

THE PLACE SHOWROOM

ZAPPIERI

Thank you all!

PUNTO E A CAPO

Qualità senza compromessi, lavorazioni artigianali eccellenti, filati pregiati e ampiezza dell’offerta, dall’understatement al classico rivisitato fino ai giochi di trafori e alle sinuose geometrie. Così il mondo della maglieria si presenta all’appuntamento della primavera-estate 2025, mentre negli uffici stile e nelle scuole di design si continua a innovare. Come? «Rinsaldando il connubio tra heritage e innovazione, con forme e dettagli che fanno sentire il cliente speciale», rispondono da Alpha Studio, che spazia tra i fili pregiati scegliendoli tra le migliori filature italiane ed estere. «Ormai più dell’80% dei materiali impiegati ha certificazioni di sostenibilità, dal filato alle tinture naturali», precisano dall’azienda di knitwear. «Malo mantiene viva l’arte della maglieria artigianale, un mestiere che rischia di essere dimenticatodichiarano dalla realtà fiorentina -. Le magliaie lavorano con passione, dedizione e maestria, infondendo ai capi un tocco umano e autentico. Crediamo fermamente nel valore del Made in Italy: la produzione interamente italiana non solo assicura un controllo rigoroso della qualità, ma supporta l’artigianato locale, valorizzandone il know-how». A proposito di innovazione, il brand sta investendo per migliorare la qualità dei capi e ridurre l’impatto ambientale, anche scegliendo fornitori rispettosi degli animali e del pianeta. «Ad ogni nuova stagione spaziamo nella ricerca di punti e nella sperimentazione di tecniche alternative - dicono da Ballantyne -. Per rinnovare i modelli iconici ci dedichiamo allo sviluppo di filati con composizioni naturali e nobili.

Le tecniche artigianali, tramandate da generazioni, hanno sempre un ruolo centrale all’interno delle nostre collezioni, come gli intarsi realizzati su telai a mano». Il marchio Cruciani, invece, fa ricerca nelle materie prime affinché i capi si prestino a un uso trasversale, seasonless e sostenibile. «Il design è sempre più essenziale, le forme sagomate e i volumi generosi, per uno stile confortevole e disinvolto», spiegano dall’azienda di Perugia. Filati e i tessuti sono in gran parte organici, biologici e certificati, mentre le tinture sono soprattutto a basso impatto energetico, eco-sostenibili e con un risparmio idrico di circa 40%. «Le collezioni Avant Toi prendono vita da un costante lavoro di ricerca nelle tendenze, nelle lavorazioni e nelle colorazioni per maglieria», sostengono dall’azienda ligure. Da Lorena Antoniazzi contano anche le texture e le sensazioni che un capo in maglia può evocare, «senza dimenticare mai il guardaroba femminile e le sue funzioni fondamentali». Il marchio umbro è attento alla qualità dei materiali e si avvale di una filiera tracciata e del tutto made in Italy. Il suo target è una donna dai 35 ai 60 anni sportiva, che viaggia, amante della natura e dell’arte. I player della maglieria pensano anche in ottica circolare. Per esempio facendo attenzione agli sprechi, evitando la sovrapproduzione, optando per uno stile timeless, ricondizionando i capi vecchi o fallati, occupandosi della gestione degli avanzi di filati, usando i filati «fino alla fine della rocca» e acquistando fili rigenerati o total easy care. Come le lane performanti 4.0, ma anche fili 100% made in Italy. Questa - a sentire gli specialisti della maglieria - è già di per sé una garanzia di longevità dei capi. 

Il pullover AVANT TOI con scollo a barca è in cotone grezzo (84%) e lino (16%) con finitura overdried. Ogni pezzo è unico, perché dipinto a mano

Next Talents

In maggio si è tenuta l’edizione n.8 dei Knit Design Award organizzati da Loro Piana e dedicatI a studenti delle scuole internazionali di design, chiamati a interpretare i filati iconici del marchio. Il tema del 2024, anno del centenario del gruppo, era “Fast Forward Heritage”. Hanno vinto gli studenti Pierre Sauvageot e Björn Backes

La polo CRUCIANI, chiusa da bottoncini e dalla vestibilità morbida, in tonalità vaniglia, ha una lavorazione diagonale delle fibre, al 70% di cotone e al 30% di seta

PittiFilati SS2025Spazi o

Il maglione girocollo color ruggine MASSIMO ALBA, dalla vestibilità regular, mischia il kid mohair con la seta di gelso

Next Talents

Maglieria sotto i riflettori da Stitching Words.Naba Fashion Show 2024 - Roma, evento presso lo Spazio Vittoria della capitale che, in luglio, ha portato in passerella le collezioni di 10 studenti del triennio in Fashion Design del campus romano della nota accademia (nella foto, un look di Sabrina Lombardi).

Il top KANGRA in filato di viscosa, unito a un filo metallico, gioca con i contrasti: scopre l’ombelico ma copre le braccia fino al polso, con effetto sbuffo

Next Talents

Nuovi spunti creativi arrivano

dallo scorso Pitti Filati, con la sfilata Ckd Master Fashion Show 2024 degli studenti del master in Creative

Knitwear Design di Accademia

Costume & Moda e Modateca

Deanna. Nella foto un abito di Francesca Sergenti.

PittiFilati SS2025Spazi

Il completo LORENA ANTONIAZZI è in maglia a coste, in filato di viscosa sostenibile made in Italy Lenzing EcoVero. A spiccare sul total red, una riga intarsiata light beige

La maglia AKEP con scollo bardot è in misto viscosa e filato in lurex lavorati a jacquard. La fantasia geometrica color cielo e cedro si abbina a un pantalone in tinta unita cargo di viscosa a costine, con elastico in vita e tasche laterali, per un fit morbido e over

Next Talents

La 15esima edizione del concorso indetto da Feel The Yarn, Feel the Contest 2024 - Master edition, ha premiato le creazioni di Viola Schmidt (con filati Filatura Tollegno 1900), Hartej Singh (con Industria Italiana Filati, nella foto) e Mattia Zenere (con Casa del Filato)

FilatiSS2025 Spazio Ri

La maglia boxy fit ALPHA STUDIO mixa cotone (74%) e poliammide (26%), per realizzare un punto maglia open work, con effetti tridimensionali. Il cotone è ingabbiato in una struttura ariosa. Il tubolare include un’anima in poliammide

Il cardigan BALLANTYNE nei toni camel e green reinterpreta l’iconico motivo a rombi, mixando la base in filato mouliné, alternata a un intarsio in filo rosato handmade. Le materie prime sono il cotone (95%), il poliestere (5%) e il lino (5%)

Next Talents

All’appuntamento annuale di Ied Roma We are the project Award, lo scorso luglio nella sede dell’istituto, ha sfilato la maglia traforata di Stefania Cerciello, neodiplomata in Fashion Design, che ha progettato la capsule Sènti-mi. ph.

Paola
Labianca
Illustrazione di Carsten Lüdemann

Gli anni Novanta hanno segnato uno spartiacque tra il prima, con una generazione di designer-imprenditori capaci di imporre nel mondo l’unicità dello stile italiano, e il dopo, in cui i nuovi talenti hanno fatto sempre più fatica ad affermarsi con i loro brand. Un’onda lunga che si protrae tuttora. Abbiamo chiesto a un panel di qualificati addetti ai lavori con quali strumenti si potrebbe invertire la rotta

Riunione di redazione: si riflette sul made in Italy e la sua evoluzione negli ultimi 20-30 anni, che la nostra testata ha puntualmente seguito, essendo stata fondata nel 1970 come GT-Giornale Tessile. Il direttore mostra una foto scattata a metà anni Ottanta da Adriana Mulassano: in posa, sorridenti sotto le guglie del Duomo, ci sono Laura Biagiotti, Mario Valentino, Gianni Versace, Krizia, Paola Fendi, Valentino Garavani, Gianfranco Ferré, Mila Schön, Giorgio Armani, Ottavio Missoni, Franco Moschino e Luciano Soprani, i grandi campioni della moda italiana, che allora stava raggiungendo il suo massimo fulgore. In quello stesso periodo Domenico Dolce e Stefano Gabbana gettavano le basi del loro marchio che avrebbe salito, da allora ai giorni nostri, i gradini del successo. Ma già pensando alla loro generazione non emergono altri nomi italiani che abbiano raggiunto simili vette. Certo, il made in Italy dagli anni Novanta a oggi si è evoluto, affrontando le sfide dell’internazionalizzazione, della globalizzazione, della brand extension e della digitalizzazione. Ha forgiato stilisti di alto livello - basti pensare ad Alessandro Michele, Maria Grazia Chiuri o Pierpaolo Piccioli - che però

si sono imposti come direttori creativi di marchi non propri, in capo a colossi esteri del lusso. Chi ha deciso di giocarsi la partita da solo lo ha fatto con la consapevolezza di avere pochi santi in paradiso, nel Paese delle eccellenze a livello di manifattura e di filiera, che tuttavia nella promozione della creatività emergente sembra più indietro di altri. Quali sono i motivi? E cosa si può fare per colmare gap più o meno evidenti? Abbiamo girato queste domande a stilisti, imprenditori, investitori, analisti e talent

scout, creando idealmente la “nostra” foto, o meglio un mosaico trasversale di testimonianze. Nelle pagine seguenti parlano Dolce&Gabbana, Roberta Benaglia, Alessia Cappello, Claudia D’Arpizio, Massimo Di Amato, Claudio Antonioli, Stefano Martinetto, Umberta Gnutti Beretta, Warly Tomei, Nelly Rodi, Barbara Franchin e Olivia Spinelli Oltre ai diretti interessati, i giovani talenti: Ilenia Durazzi, Federico Cina e del duo Jordanluca 

►I DESIGNER CHE TIFANO PER GLI EMERGENTI

FORMIDABILI I NOSTRI ANNI: MA ANCHE OGGI IL SOGNO DEI GIOVANI SI PUÒ AVVERARE

Gestire il passaggio generazionale è alla base della sopravvivenza di tutta la filiera del made in Italy, stilismo compreso. Domenico Dolce e Stefano Gabbana, che celebrano 40 anni di attività, si stanno impegnando con progetti come le Botteghe di Mestiere e Supported by Dolce&Gabbana. Agli aspiranti stilisti dicono: «L’importante è avere fame di arrivare, come è accaduto a noi. Una regola valida sempre, ieri come oggi»

DI ALESSANDRA BIGOTTA

PH

SMISS SOHEE

stato il brand “Supported by Dolce&Gabbana” protagonista alla fashion week di febbraio 2022. Disegnato da Sohee Park, unisce haute couture e upcycling

ono gli incontri a decidere i grandi e piccoli sviluppi della vita, come dimostra la storia di Domenico Dolce e Stefano Gabbana che, dopo essersi conosciuti nei primi anni Ottanta nell’atelier di Giorgio Correggiari, hanno costruito con il loro brand Dolce&Gabbana una storia di successo ora al traguardo dei 40 anni. Mentre nasceva il loro marchio, il made in Italy attraversava la fase del suo massimo splendore e questo di sicuro può avere dato una spinta alla loro attività. Ma poi la situazione per la moda, e non solo, si è fatta più complessa e tanti che avevano iniziato nello stesso periodo sono rimasti indietro. Loro invece hanno continuato a crescere, fino a sfiorare 1,9 miliardi di ricavi, trasformando un marchio in una realtà industriale a tutti gli effetti, per di più indipendente. Difficile sintetizzare in poche parole la chiave di un’escalation che scaturisce da un’identità forte, celebrata tra l’altro dalla recente mostra “Dal Cuore alle Mani” a Palazzo Reale. Più facile, invece, chiedere proprio a loro cosa possono insegnare, in base alla loro esperienza, a chi oggi vuole intraprendere la professione di stilista. Lo abbiamo fatto in questa intervista, in cui i due designer paragonano il successo a una porta che si apre solo dall’interno: nessuno può spalancarla al posto nostro. Poi se dall’altra parte c’è chi ti supporta e crede in te, come stanno facendo loro stessi con una serie di progetti, il percorso diventa meno arduo.

Il 1985 è l’anno a cui risale una famosa foto di Adriana Mulassano con tutti i big della moda, da Armani a Krizia fino a Valentino e molti altri, immortalati sotto le guglie del Duomo di Milano. Anche voi avete fondato il vostro marchio a metà anni Ottanta, partendo praticamente da zero. Oggi sarebbe ancora possibile per un giovane stilista italiano di talento buttarsi con tanto cuore e pochi soldi in tasca in un’avventura del genere?

DD: Più di 40 anni fa sono partito da Polizzi Generosa, piccolo comune nella provincia di Palermo, alla volta di Milano per realizzare il mio sogno. Ero giovane, era la prima volta che mi allontanavo davvero da casa, da solo, e verso una grande metropoli in cui - proprio in quegli anni - la moda stava raggiungendo il suo massimo splendore. Avevo con me solo una valigia, qualche soldo, ma soprattutto un sogno che ho inseguito con passione. Non era facile neppure a quei tempi ma sapevo dove volevo arrivare. Volevo lasciare il segno, raccontare la mia storia. Perché non dovrebbe essere possibile riuscirci oggi? I giovani devono sentire che c’è spazio anche per loro, devono essere stimolati. Non bisogna tarpar loro le ali per paura che possano bruciarsi. Il rischio è parte del percorso, è un passo necessario per arrivare al successo.

MATTY BOVAN

Altro talento “Supported by”, è stato sotto i riflettori nel settembre 2022: un esploratore di texture, fantasie e artigianalità

FEBEN andata in scena nel febbraio scorso.

A convincere Dolce&Gabbana il suo stile energico, vitale e votato al fatto a mano

SG: Ognuno ha i propri tempi, deve trovare il proprio momento…è molto soggettivo. Quello che diciamo sempre è che l’importante è avere una storia da raccontare, un sogno da condividere. Ogni idea, ogni ispirazione, ogni amore richiede il giusto tempo perché nasca, maturi e diventi realtà. Ieri come oggi, come domani. Anche noi temevamo di non farcela, però avevamo anche una fame incredibile di arrivare ed eravamo testardi, ci impuntavamo! Lavoravamo senza sosta, senza vacanze, facevamo sacrifici. Ed è questo che i giovani devono imparare: se ti aspetti di ottenere tutto e subito, ti bruci. La vita non è fatta di rose e fiori e ai ragazzi dico sempre che, comunque, la porta si apre dall’interno: sei tu a decidere cosa fare della tua vita, non puoi prendertela con nessun altro.

Però l’impressione è che, se all’estero gli emergenti riescono magari ad afferrare il successo, in Italia stentino a diventare “grandi”. Non pensate sia così?

DD: In Italia, come all’estero, ci sono ragazzi bravissimi, ma non tutti ce la fanno. Ed è normale che sia così, niente è per tutti. Ma il talento c’è e va coltivato, premiato, perché i giovani hanno bisogno di stimoli; se vengono omologati si perdono, si demoralizzano. A me piacciono i ragazzi curiosi, quelli avidi di imparare, che non si limitano a proporre ciò che funziona per il mercato, ma raccontano quello che sentono. Non è la cosa più bella?

SG: Il nostro compito è dare ai giovani l’esperienza, incentivarli ad avere coraggio e offrire loro opportunità reali. Proprio come è accaduto a noi grazie ad alcuni incontri che ci hanno davvero cambiato la vita. Siamo stati fortunati, perché persone come Beppe Modenese hanno creduto in noi e ci hanno supportati fin dall’inizio. Per questo oggi ci rende molto felici l’idea di poter fare lo stesso, di sostenere ragazzi e ragazze che amano la moda, l’arte, la bellezza... Lo facciamo in azienda con il progetto “Botteghe di Mestiere”, a cui io e Domenico teniamo moltissimo, perché ha l’obiettivo di trasferire alle nuove generazioni la conoscenza e le basi tecniche della sartoria e offrire loro, a fine ciclo, una possibilità concreta di inserimento nel mondo del lavoro. Ma anche con i talenti che scegliamo di coltivare con il progetto “Supported by Dolce&Gabbana”.

A proposito di “Supported by Dolce&Gabbana”, questa iniziativa di mentorship ha già coinvolto giovani come Miss Sohee, Matty Bovan, Tomo Koizumi, Karoline Vitto e Feben: nessun nome italiano, come mai?

DD: Come anticipato da Stefano, negli ultimi anni abbiamo lanciato “Supported By”, un’iniziativa davvero bella che ci ha dato

la possibilità di incontrare e confrontarci con persone di valore, talenti emergenti a prescindere dalla loro origine. In questo progetto, abbiamo sempre potuto contare sul supporto e sull’incredibile esperienza di Katie Grand, che fin dalla prima edizione ha individuato promettenti designer provenienti da tutto il mondo. In loro ha intravisto del potenziale, un’identità precisa e peculiare. Non esiste un criterio geografico nella selezione, l’unica cosa che davvero conta è il talento. Non ci sono corsie preferenziali, è l’arte a parlare. Tutti i ragazzi con cui abbiamo lavorato ci hanno colpiti positivamente perché hanno saputo dar voce alla loro identità, alle loro riflessioni, tensioni e speranze attraverso la loro moda. Quello che ricerchiamo sempre nei giovani è questo, il tocco, l’abilità manuale, ma anche che abbiano uno stile riconoscibile e una creatività coraggiosa e, soprattutto, l’amore per questo mestiere.

SG: Collaboriamo con i ragazzi delle nuove generazioni da sempre: a oggi possiamo dire che siamo riusciti ad instaurare un bel dialogo con loro. In alcuni di questi progetti abbiamo coinvolto talenti italiani, in altri no. Ovviamente siamo sempre più che orgogliosi di supportare, far conoscere e rendere omaggio allo straordinario patrimonio artistico e culturale del nostro Paese, ma non è questo il punto di queste nostre iniziative. E poi c’è da dire che nel 2022 dal desiderio di estendere anche al campo del design la stessa apertura verso il futuro, verso i giovani e le loro idee è nato il progetto Gen D-Generation Designer. Per questa iniziativa ci affidiamo all’esperienza e bravura di Federica Sala: siamo già alla seconda edizione e, anche in questo caso, tra i giovani talenti ci sono stati italiani ma anche profili internazionali.

modelli, dai Make-up Artist agli Hair Stylist e lavoriamo con la stampa, per raccontare e far conoscere le loro collezioni.

SG: Ovviamente siamo ben contenti di appoggiarli anche dopo la sfilata. Ci teniamo a supportarli, condividendo i nostri pareri e aiutandoli nel loro percorso verso il successo. E poi sono tutti ragazzi in gamba: ognuno di loro è riuscito a esprimere la propria arte ritagliandosi il proprio spazio.

Che consiglio dareste a un fashion designer che vuole emergere?

DD: Credere in se stesso, inseguire i propri sogni ed esprimere ciò che ha dentro. Tutti hanno una genialità a modo proprio, che deve essere curata, incentivata, incoraggiata.

SG: L’arte è un dono, è qualcosa di inspiegabile, innato in ciascuno di noi, ma non è detto che non si possa imparare, con impegno e passione. I giovani designer devono credere nelle loro potenzialità e lasciarsi ispirare dal bello.

NEI GIOVANI CERCHIAMO

IL TOCCO, L’ABILITÀ MANUALE, UNA CREATIVITÀ CORAGGIOSA

Oltre alla sfilata durante la fashion week, ai giovani stilisti del vostro progetto di mentorship offrite anche un supporto più a lungo termine?

DD: Il nostro obiettivo è sostenere questi creativi attraverso progetti a 360 gradi, dando loro un aiuto vero e delle opportunità concrete che possano contribuire alla loro crescita professionale. I nostri team li affiancano giorno per giorno in termini sia organizzativi che economici per realizzare veri e propri eventi e sfilate, permettendo a questi giovani di portare le loro creazioni in uno dei contesti più importanti per il mondo della moda internazionale, quale è la fashion week di Milano. Mettiamo a loro disposizione i nostri spazi, i nostri archivi, forniamo tessuti, materiali da sartoria, gioielli e accessori e tutti i mezzi possibili, dal casting director ai

SARA RICCIARDI

Si stanno affacciando nuove generazioni in azienda e con che ruoli? E come vedete il futuro di Dolce&Gabbana?

DD: In azienda abbiamo tanti giovani e giovanissimi inseriti in diverse posizioni, dai nuovi arrivati a quelli che ricoprono ruoli di grandi responsabilità. Cerchiamo di dar loro sempre più spazio: dopo di noi toccherà a loro raccontare nuove storie, raccontare se stessi con la loro personalità, ma attraverso i codici di Dolce&Gabbana.

SG: Di una cosa siamo certi, non si smette mai di imparare. Soprattutto dai più giovani, che rappresentano una fonte di ispirazione incredibile. Lo facciamo ogni giorno con i nostri ragazzi dell’ufficio stile. Ognuno di loro ci ha insegnato qualcosa e noi continueremo a trasmettere loro tutto quello che abbiamo imparato in questi anni. È questo il giusto equilibrio secondo noi.

Chiudendo il cerchio sulla foto di Adriana Mulassano cui si accennava all’inizio, una considerazione: allo stato attuale ricostruire un’immagine come quella di allora sarebbe impossibile. Della vostra generazione voi siete di sicuro quelli che ce l’hanno fatta, mentre tantissimi altri no: cosa ha fatto la differenza?

SG: Non sta a noi rispondere e sicuramente può dipendere da tanti fattori. Noi ci abbiamo creduto e abbiamo lottato per vedere il nostro sogno diventare realtà. 

Ha realizzato per il progetto Gen D del marchio, focalizzato sul design, la linea Luminaria, ispirata ai colori del Sud Italia

THABISA MJO

Designer sudafricana, ha creato per Gen D le sedute Dynamic Tension

RIO KOBAYASHI

È un altro creativo selezionato da Dolce&Gabbana per Gen D: nei suoi mobili confluiscono influssi giapponesi e austriaci

►IL LAVORO DEL PRIVATE EQUITY

I PASSI GIUSTI DA FARE PRIMA DI ATTRARRE CAPITALI

Roberta Benaglia è una dei più noti investitori privati italiani ed è una profonda conoscitrice del mondo della moda e del made in Italy. Ha sostenuto in fase di startup designer come Massimo Giorgetti e Giuseppe di Morabito e continua a monitorare i nomi emergenti. «Lo base su cui lavorare è notevole, ma spesso si tratta di progetti di size troppo piccola per noi. Il private equity ha le sue regole e non investe volentieri sul talento di una singola persona: l’ideale è crearsi una struttura e le giuste business connection»

DI ANDREA BIGOZZI

Perché l’Italia della moda non ha più visto nascere stilisti di largo successo commerciale come Giorgio Armani, Gianni Versace, Dolce&Gabbana o - quantomeno - qualcuno con un impatto così forte anche a livello internazionale? La risposta può essere scivolosa e molteplice ma Roberta Benaglia, ceo di Style Capital sgr, di una cosa è certa: per i giovani che vogliono affermarsi con successo puntando su un proprio marchio il budget finanziario a disposizione è molto, ma non è tutto.

Con il suo fondo di private equity ha investito su Massimo Giorgetti, sostenendo la crescita di Msgm, e più recentemente ha fatto lo stesso con Giuseppe di Morabito. Resta il fatto che, sul piano generale, l’attenzione della finanza è poco rivolta ai giovani designer. È così difficile individuare nomi su cui puntare?

Roberta Benaglia STYLE CAPITAL

IL TARGET DEI 10 MILIONI

RESTA LA TAGLIA MINIMA PER AVERE L’ATTENZIONE UN FONDO

Non è una questione di assenza di talenti o di difficoltà a individuarne. Il fatto è che per attirare certi tipi di investimenti devi avere una size minima. La fase iniziale di startup di un nuovo brand richiede energia, determinazione ma soprattutto tempo, che spesso l’investitore finanziario non ha. C’è un altro aspetto che scoraggia questo genere di investimenti: il valore che si crea in termini assoluti nei primi anni è difficile che ripaghi il commitment dell’investitore finanziario. Portare un brand da 1 a 10 milioni di fatturato è un progetto complesso: devi mettere insieme una struttura organizzativa, trovare le adeguate business connection, individuare la giusta agenzia per proporre la collezione sul mercato e generare visibilità mediatica. Tantissimo lavoro, per creare “solo” 9 milioni di valore.

Qual è quindi la dimensione minima richiesta?

Agli inizi Style Capital prendeva in considerazione realtà con un fatturato a partire dai 10 milioni, ora invece privilegiamo realtà dai 50 milioni in su. Penso comunque che il target dei 10 milioni resti ancora oggi la taglia minima corretta per un fondo. Può sembrare una soglia alta, ma è ragionevole: un investitore cerca un’organiz-

zazione avviata, non investe volentieri sul talento di una singola persona. In questi casi, dove tutto o quasi ruota intorno alla figura dello stilista e il livello di business è ancora ridotto, è consigliabile puntare su strumenti di crescita alternativi.

Quali per esempio?

Faccio parte del Fashion Trust, un’organizzazione noprofit fondata della Camera Nazionale della Moda Italiana e da una serie di filantropi, che è un bel modo di sostenere dei talenti emergenti: brand piccoli, che magari non superano il milione di euro di fatturato ma che sono comunque già avviati, a cui vengono offerti un po’ di supporto finanziario e mentoring aziendale.

Quindi l’idea di un fondo che abbia come obiettivo sostenere i marchi emergenti e indipendenti, promuovendo sinergie tra loro, è un sogno irrealizzabile?

Un progetto del genere è realistico e ci abbiamo anche pensato, ma personalmente lo vedo più come un investimento da permanent capital che da private equity. Al momento non rientra nelle nostre priorità ma chissà, magari in futuro potremmo anche pensare di creare un’unica holding dedicata ai new brand da sostenere. Una realtà del genere, se mai vedesse luce, dovrebbe però trovare una sorta di hub industriale che dia supporto al progetto, perché la creatività e la finanza da sole non bastano. In realtà abbiamo già sperimentato, almeno parzialmente, uno schema del genere. Quando abbiamo rilevato Giuseppe di Morabito abbiamo spostato

tutta la produzione del brand nell’hub di Msgm, che si trova nelle Marche. Così entrambi hanno iniziato a fare riferimento a un’unica struttura produttiva. Si è trattato di un esempio certamente virtuoso, che ha dimostrato la possibilità di fare sinergie, ma allo stesso tempo ci siamo resi conto che Giuseppe di Morabito, che oggi fattura intorno ai 6 milioni di euro, è un progetto che richiede più tempo rispetto a quelli previsti dal private equity.

Allora non prevede altri investimenti su talenti emergenti? Per me fare scouting e conoscere i nomi nuovi è prima di tutto una passione. Per questo non rinuncio mai a incontrare stilisti, anche molto giovani. In alcuni casi ne resto colpita. È successo con Andrea Adamo: è un designer con del potenziale: ha talento, ma anche esperienza derivata dall’aver lavorato per importanti maison prima di creare la sua linea e, non ultimo, ha un’identità riconoscibile. Caratteristiche importanti per dare vita a un brand resiliente. Fa già parte della selezione del Fashion Trust e spero possa espandere il suo business fino a raggiungere un livello considerevole, magari tale da essere interessante per un investitore finanziario come noi.

Indipendentemente dalla sua attività, come vede il futuro commerciale di un brand che debutta sul mercato? È vero che il consumatore, da sempre concentrato sui brand più established, sta iniziando a guardarsi attorno, a causa dei prezzi stellari dalla griffe…

Sono in sintonia con questa visione, nel senso che effettivamente penso che un po’ per un fatto di esclusività e unicità, un po’ per non sentirsi preso in giro da prezzi folli, il cliente, anche quello che ha ampia disponibilità di spesa, è alla ricerca soprattutto nel ready-to-wear (meno nel mondo degli accessori) di brand emergenti. In questo senso c’è più spazio anche per i giovani, a patto che approccino il mercato in una maniera smart.

Cosa intende per smart?

Vuol dire avere talento creativo, ma anche saper en-

MASSIMO GIORGETTI

Ha ceduto parte delle quote di Msgm a Roberta Benaglia nel 2018. Da allora il fondo si è impegnato a valorizzare il brand investendo nel retail diretto e su una nuova sede a Milano

►LE ATTESE DELLE ISTITUZIONI

Alessia Cappello

MILANO TORNI A ESSERE LA CITTÀ DELLE OPPORTUNITÀ. E NON SOLO PER GLI STILISTI

«Quello scatto del 1985 che ritrae 12 talenti italiani - tra cui Armani, Missoni, Versace - sotto le guglie del Duomo di Milano, che hanno scritto la storia non solo della moda italiana, ma internazionale, racconta il forte legame che esiste tra la città di MIlano e la moda. Da quel momento fashion e città sono cresciute insieme intrecciando i loro destini. Però ora serve costruire anche delle nuove generazioni per i prossimi anni e sempre in un’ottica internazionale. Quindi bisogna investire su questi giovani e Milano deve sempre di più essere quella città delle opportunità, perché lo è sempre stata. La città che dava a ognuno la possibilità di realizzarsi e di essere milanese, pur non essendolo di origine. Questa cosa deve continuare a essere attiva e in questo ci devono dare una mano tutti, specialmente i grandi brand della moda per investire nella nostra città, nella rigenerazione urbana nella riqualificazione, ma anche nell’accendere quella passione nel mestiere e investire in tutti questi giovani e raccontare loro la bellezza di tantissime prefessioni della moda, non soltanto quella dello stilista»

IL DESIGNER

GENIALE NON BASTA, HO PIÙ FIDUCIA SU CHI CONOSCE IL VALUE FOR MONEY

GIUSEPPE DI MORABITO

È entrato a far parte del portfolio di Style Capital nel 2023, con le risorse finanziarie ottenute ha da subito riorganizzato la produzione e poi investito sul potenziamento distributivo

trare in contatto con realtà produttive, che nel nostro Paese esistono. Personalmente credo poco nello stilista genio e sregolatezza, che punta tutto sull’originalità delle creazioni. Ho più fiducia nei professionisti la cui creatività è sostenuta dalla capacità di saper fare. Per me uno stilista che sa scegliere il tessuto, ha conoscenze di modellistica ed è capace di sdifettare un prototipo è più portato a realizzare un prodotto che abbia il giusto value for money. Ecco, per questo tipo di talenti oggi c’è spazio sul mercato, perché anche il cliente finale è alla ricerca di questo paradigma. Quindi la novità creativa resta alla base, ma deve essere sostenuta da prezzi corretti, anche in oresenza di un prodotto made in Italy.

In questo scenario, qual è il suggerimento pratico che si sente di dare a chi sogna di ripercorrere le orme di miti come Armani, Ferré, Krizia e Valentino, che negli anni ’80 hanno consacrato la moda made in Italy?

Specie nella mia attività con il Fashion Trust, quello che raccomando ai ragazzi che vogliono lanciare un progetto proprio è di provare prima a lavorare negli uffici creativi di altri brand. Non deve trattarsi per forza di una permanenza in una grande maison, ma è importante che si tratti di un’esperienza all’interno di una realtà ben avviata. Questo passaggio è importante non solo per apprendere una visione più completa dell’azienda, ma anche per crearsi un bagaglio di business connection, che saranno fondamentali quando verrà il momento di lanciare un marchio proprio. Penso che un’esperienza di quattro-cinque anni al servizio della creatività altrui non sia un freno alla propria carriera, ma un trampolino di lancio.

La vera ricetta per far prendere il largo a un brand ? Quale sia non lo so esattamente. È frustrante, e lo dico da appassionata del settore, entrare a conoscenza delle crescenti difficoltà a cui vanno incontro i nuovi professionisti. Dobbiamo fare sistema con banche e professionisti della filiera per far uscire le imprese sane e giovani dai loro problemi, iniettando risorse umane e finanziarie. In sintesi dobbiamo credere nei progetti di sviluppo. 

►IL GOOD DEAL PER L’INVESTITORE

CON J. JARDIN CREIAMO UNA PIATTAFORMA PER CHI HA ESTRO MA NON I MEZZI

Il talento, per uno stilista che vuole emergere, non basta. Così come non bastano il buon prodotto e la determinazione nel promuoverlo. Ci vogliono anche capitali, risorse, spalle larghe a cui affidarsi. È nata proprio per offrire questo supporto J. Jardin, una piccola holding (ma che vuole crescere) con un focus sui marchi emergenti, quelli che hanno le idee ma spesso non i mezzi. A guidarla è Massimo Di Amato, che affianca all’attività principale di manager in Maire, gruppo internazionale attivo nell’ingegneria e tecnologie per la transizione energetica, anche l’impegno nel fashion. Nel progetto con lui una cordata di investitori, tra cui le famiglie Rovati, Bulgari e Riello (e altre stanno che per arrivare), per fare massa critica e lavorare con un modello di business dinamico, basato sulle sinergie.

Siete partiti nel 2018 con l’acquisizione delle borse Hibourama, mentre a inizio anno avete investito nel brand di abbigliamento MVP Wardrobe dell’imprenditrice-designer Maria Vittoria Paolillo. Qual è il vostro disegno?

Stiamo costituendo un raggruppamento italiano di brand emergenti made in Italy. L’obiettivo è realizzare una piattaforma integrata di supporto strategico, favorendone la visibilità e accelerandone lo sviluppo sui mercati internazionali. Spesso i nuovi talenti hanno un buon prodotto ma mancano di disciplina, sia manageriale che finanziaria, e non conoscono o non hanno i mezzi per scegliere le strategie giuste per affermarsi. J. Jardin vuole fare massa critica, offrire la solidità e le competenze indispensabili per crescere in maniera organica.

Quali sono i brand a cui state guardando?

Collezioni contemporary, di fascia entry-to-luxury. Cre do che oggi, e anche in futuro, ci sarà grande spazio in questo segmento, anche alla luce del rallentamento dell’extra lusso. Di Hibourama e MVP Wardrobe ci sono piaciuti i prodotti, ma anche la storia. Hanno tutte le carte in regola per emergere e per creare tra di loro sinergie. Un concetto, quest’ultimo, alla base del nostro modello di business.

In che modo?

L’obiettivo è creare una piattaforma integrata e flessibile, che massimizzi i risultati proprio grazie alle sinergie interne. Le faccio un esempio. A luglio 2023 abbiamo lanciato una capsule, frutto della liaison tra i due brand in portafoglio, che ha dato ottimi risultati, men tre a livello commerciale stiamo promuovendo nel nostro network delle colab che coinvolgono sia Hibourama che MVP, in modo da creare un circolo virtuoso.

Obiettivi dal punto di vista distributivo?

Oggi siamo in circa 150 negozi top level, tra cui LuisaViaRoma, Wise Boutique e G&B. L’Italia resta la nostra grande vetrina anche se la scommessa è l’estero, con Uk e Usa in cima alla lista. Negli Stati Uniti l’intenzione è di individuare un partner forte con il quale sviluppare un progetto strutturato, magari una joint venture.

Che ruolo avrà il digitale?

L’e-commerce è il canale con cui si acquista grande visibilità, ma è il fisico che assorbe la maggior parte delle vendite. Il nostro tipo di clientela ha gusti sofisticati e preferisce vedere e toccare con mano il prodotto. I negozi restano prioritari e fondamentali per creare awareness e la giusta percezione del prodotto, che successivamente possono essere amplificate con il digitale.

Per MVP Wardrobe avete recentemente siglato una partnership produttiva con Gilmar… Anche questo sodalizio, che debutterà con la SS25, va nella nostra direzione, quella di garantire altissima qualità e livello di servizio, aumentando le chance di successo del brand.

TARGET GIUSTO, QUALITÀ, PREZZO FURBO E STILE TIMELESS

I MUST PER EMERGERE

Oggi gli emergenti faticano a emergere. Perché? I brand in erba necessitano di supporto finanziario e manageriale per affermarsi. Che però non è scontato trovare. Attrarre talenti è molto difficile quando si è all’inizio. E oggi è difficile attrarre capitali. Nonostante l’Italia sia il punto di riferimento mondiale per la moda, spesso manca il coraggio di investire. Inoltre questo è un settore complesso e molto competitivo per chi si affaccia sul mercato. Non basta l’estro creativo. Bisogna essere efficaci sul fronte delle operation, giocare bene le cartucce finanziarie, gestire al meglio il network. Pensiamo alle consegne. Tu puoi avere il più bel prodotto del mondo, ma se non consegni bene non vai da nessuna parte. Non era così in passato. Il livello di competizione è cresciuto tantissimo ed è necessario essere all’altezza su tutti i fronti.

Su cosa devono puntare oggi i giovani marchi?

Posizionamento corretto, qualità, prezzo “furbo”, visione e distribuzione omnichannel. Aggiungerei anche un prodotto dall’estetica che non si consuma nel giro di una stagione.

Il vostro focus è chiaro. Ci sono altre acquisizioni nel mirino?

Abbiamo due dossier sul tavolo: un brand di abbigliamento donna e uno di childrenswear, un segmento più difficile ma nel quale abbiamo visto delle opportunità. L’obiettivo è portare in J. Jardin cinque-sei marchi, facendo crescere il fatturato di quelli in portafoglio e arrivando a ricavi per 50 milioni in cinque anni. 

Massimo Di Amato J. JARDIN
MVP Wardrobe

►IL PARERE DEL BUYER E IMPRENDITORE

NOI ITALIANI SIAMO I PRIMI TALENTI CREATIVI AL MONDO

DI ELISABETTA FABBRI

Claudio Antonioli, presidente di Antonioli Group, è stato anche co-founder e presidente di Ngg-New Guards Group (da lui ceduto nel 2019 a Farfetch) e ideatore, nel 2021, di Dreamers Factory, un incubatore con l’obiettivo di «amplificare le visioni di artisti e creatori globali», fornendo competenze e strutture, che al momento include la maison belga Ann Demeulemeester e l’etichetta di club-wear 44 Label Group. Con passioni che comprendono la musica techno e il buon cibo, l’imprenditore milanese è anche proprietario della discoteca Volt di Milano e del ristorante Sogni, avviato nel settembre 2023 in zona corso Genova. E non sembra intenzionato a smettere di mettersi in gioco.

Vista la complessità di essere stilisti originali e imprenditori di sé stessi, di trovare capitali e fronteggiare le incertezze del mercato, l’Italia è ancora un bacino di talenti o è destinata a essere ricordata più che altro come manifattura di alto livello? Noi italiani siamo speciali, fautori del nostro successo ma anche della nostra disperazione. Siamo i primi talenti al mondo. In fatto di creatività penso sia molto difficile batterci. Come manifattura siamo sempre uno dei bacini più importanti e penso che abbiamo tutte le potenzialità di tornare ad essere primi attori.

Oggi ha più senso rischiare investendo su un brand emergente o sul rilancio di un marchio del passato, partendo dall’archivio? Entrambi sono investimenti validi, se si punta sul cavallo giusto.

Il successo dell’operazione Ngg, l’acquisizione di Ann Demeulemeester e poi il lancio del ristorante Sogni a Milano: si è stancato della moda o si rimetterebbe in gioco di nuovo, per costruire un portafoglio di brand promettenti?

Con Ann Demeulemeester ho promosso a direttore creativo Stefano Gallici, giovane talento italiano. Con 44 Label Group e Max Kobosil parliamo al mondo della night life cool partendo da Berlino, patria della musica techno ed elettronica. Non mi stanco mai di vivere. Di scoprire. Di condividere.

Quali aspetti non deve trascurare un progetto industriale a supporto di giovani promesse del fashion design, per avere senso?

Talento e coerenza con la richiesta del mercato sono due fattori essenziali.

C’è una cifra minima che l’investitore partner deve mettere a budget in partenza?

Dare un valore è difficile. Più le due cose sopra citate sono corrette, meno serve.

Nella sua esperienza, si può parlare di Roi medio oppure ogni marchio ha previsto un tempo di ritorno dell’investimento diverso?

Tutto è diverso e imprevedibile.

Vede più difficoltà rispetto al passato? Normative troppo stringenti, ricorrenti problemi nella supply chain, un consumatore annoiato, condizionabile dai social e infedele…

Tutto cambia e la sfida è sempre stimolante. Rispettare le regole è un dovere. Solo che il mondo è grande e spesso ci sono regole che, in un mercato globale, rendono molto difficile la competizione delle aziende italiane con la concorrenza estera.

Tra i designer italiani emergenti, quali pensa potrebbero essere destinati a un successo duraturo?

Segreto professionale! Prossimamente su Antonioli Group. 

►LA MANAGEMENT ADVISOR CI CREDE

Claudia D’Arpizio

LE CHANCE PER GLI

OUTSIDER ARRIVERANNO DALL’ABBIGLIAMENTO, MA A PREZZI INFERIORI A QUELLI DELLE GRIFFE

«Ho l’impressione che il cambiamento questa volta potrebbe davvero essere a portata di mano. Nei prossimi anni compariranno nuovi marchi, capaci di rompere le regole del mercato e fare realmente concorrenza alle realtà più established. Penso che le startup con le maggiori potenzialità di crescita siano quelle basate in Italia. Come mai? Perché è qui che si trova la supply chain, che per di più in questo momento è piuttosto scarica: questo potrebbe essere il momento propizio per un designer giovane e intraprendente, di allacciare collaborazioni con realtà produttive qualificate, che magari solo qualche stagione fa avrebbero scartato l’ipotesi di lavorare con emergenti, ma che oggi invece, dato il calo della domanda, preferiscono diversificare il loro portafoglio clienti. Le chance maggiori per i new talent penso che saranno offerte dal mercato dell’abbigliamento. Se i prezzi delle collezioni dei grandi marchi continueranno a crescere - come sta accadendo -, inevitabilmente il consumatore cercarà alternative. Questo non significa necessariamente che ripiegherà sulla moda premium: ci sarà spazio per un prodotto made in Italy e creativo, ma a un prezzo inferiore rispetto a quello proposto dalle realtà più affermate. Se gli emergenti non saranno in grado di essere più competitivi su questo fronte, continueranno a faticare. Replicare quanto accaduto negli anni ‘80, quando nascevano e si affermavano Valentino, Giorgio Armani e Versace, è quindi possibile, ma di certo non semplice. Per uno stilista agli esordi fare tutto da solo non è facile. Da chi deve aspettarsi un aiuto? Non dai gruppi francesi, che sono interessati a realtà di grandi dimensioni. In Italia lo scenario potrebbe essere diverso. Chi, tra investitori finanziari e industriali, volesse investire su nuovi nomi e su startup non dovrebbe limitarsi a progetti one shot, ma lavorare su ampia scala e creare un polo della nuova creatività. Forse nel mondo dei fondi Roberta Benaglia potrebbe essere la candidata giusta a supportare i nuovi talenti, visto che in passato lo ha già fatto, mentre in ambito industriale vedrei bene Renzo Rosso nel ruolo di talent scout e supporter». (an.bi)

Claudio Antonioli ANTONIOLI GROUP

►PROFESSIONE BUSINESS ANGEL

FOLLOW THE MONEY: SERVONO SOLDI NEL SISTEMA. NON POCHI, MA CENTINAIA DI MILIONI

Èpassato un po’ di tempo, ma Stefano Martinetto se lo ricorda come se fosse ieri. Erano i primi anni ‘90. Il co-fondatore dell’incubatore di moda e showroom londinese Tomorrow aveva 18 anni all’epoca e trascorreva le vacanze estive lavorando per la holding Gruppo Finanziario Tessile, che aveva in portafoglio marchi come Valentino e Armani

L’allora adolescente Martinetto partecipò a una riunione dei vertici del Gft: «Il top management discusse in che misura il marchio emergente Dolce&Gabbana rappresentasse una minaccia per Valentino e Armani», racconta. Da allora sono passati più di 30 anni. Ma nei tre decenni trascorsi, da Dolce&Gabbana in poi nessuno stilista italiano ha raggiunto una rilevanza globale simile. «Purtroppo - dice Martinetto - l’unica eccezione è forse Roberto Cavalli, che ha colmato il vuoto improvvisamente aperto dalla morte di Gianni Versace».

Martinetto, il cui padre aveva un’agenzia che rappresentava marchi come Christian Dior e Valentino, si è dedicato a portare il talento creativo alla ribalta della moda. Nel 2011 ha fondato Tomorrow insieme a Giancarlo Simiri. Un’azienda che si considera un business angel e investe in giovani marchi, oltre a essere anche un’agenzia tradizionale. Il modello di business di Tomorrow è una scommessa contro il concetto di «chi vince prende tutto», secondo il quale le Big Three del mercato del lusso - ovvero i gruppi Lvmh, Kering e Richemont - negano alle etichette indipendenti lo spazio per svilupparsi. Tomorrow punta su nomi come Coperni, A-ColdWall, Athletics Footwear, Charles Jeffrey Loverboy, Colville, Martine Rose e Objects IV Life. Un brand italiano non è incluso. Strano, perché gli stilisti di talento ci sono, dice Martinetto: «L’Italia ha i migliori designer del mondo. Troverete italiani in ogni atelier di una grande maison». Qual è la sua spiegazione sul perché nessuno in Italia ha centrato il successo di Dolce&Gabbana? Innanzitutto, «mancano fondatori che abbiano la giusta combinazione di leadership, carattere e perseveranza». In secondo luogo, manca il capitale di rischio: «Il sistema finanziario italiano tende a essere conservatore e a rifuggire dal rischio». Infine, il nostro Paese è carente nei “punti di contatto” culturali che il pubblico internazionale trova interessanti: nella musica, solo i Måneskin sono conosciuti oltre i confini nazionali «e sono stati subito scritturati da Gucci». La scena hip-hop italiana è locale. Per quanto riguarda il cinema, i film del regista Luca Guadagnino hanno attirato l’attenzione, «ma non sono italiani in senso stretto del termine».

L’ITALIA

HA I MIGLIORI DESIGNER

Non c’è dubbio che l’Italia possa contare su alcune storie di fondatori memorabili, come quella di Massimo Giorgetti con Msgm: «Ha percorso un cammino interessante e ha avuto successo per diversi anni». O come quella dei fratelli Calza con Gcds, «un marchio che ha avuto un successo immediato». Martinetto cita inoltre Simone Rizzo e Loris Messina con Sunnei: «Un brand che ha sorpreso il pubblico più volte con spettacoli fantastici». Tutte e tre le etichette hanno avuto uno sviluppo «molto promettente, ma non si può parlare di vero successo globale». Luca Magliano è al centro dell’attenzione da qualche tempo: lo stilista ha sfilato a Pitti Uomo in gennaio e ha vinto il Premio Lvmh 2023. Martinetto lo tiene d’occhio da tempo con Tomorrow, ma non ci ha ancora investito: «Spero che faccia il passo successivo e che prenda piede in tutto il mondo».

DEL MONDO, MA MANCANO I FONDATORI E IL CAPITALE

Secondo il fondatore di Tomorrow, gli Stati Uniti e la Francia hanno risorse migliori per quanto riguarda la produzione di nuovi brand. Negli Usa stilisti come Tory Burch, Mike Amiri e Jerry Lorenzo con Fear of God hanno creato marchi globali. In Francia, Alexandre Mattiussi con Ami, Isabel Marant e Simon Porte Jacquemus con Jacquemus sono «casi di crescita eccezionali». La sua raccomandazione su come l’Italia possa dare una spinta ai suoi creativi è semplice: «Follow the money». L’Italia dovrebbe dichiarare la promozione dei giovani stilisti «una priorità strategica» e incanalare il denaro nel sistema attraverso un fondo, che potrebbe essere istituito dalla Cassa Depositi e Prestiti: «Non qualche milione, ma centinaia di milioni. 5mila, 10mila o 20mila euro non sono sufficienti. Bastano appena per una cena con la stampa». 

Stefano Martinetto TOMORROW

►GLI STILISTI CHE SI FANNO VALERE

IL CAPITALE UMANO È LA VERA FORZA DI QUESTO MESTIERE

Dilei dicono che ha i piedi per terra e che è armata di tanto entusiasmo. Doti che Ilenia Durazzi mette in luce sin dalle prime battute di questa intervista, dedicata a quanto sia rischiosa la scelta di essere una stilista indipendente. «È vero, costruire un brand dal nulla è un’avventura, praticamente una missione. Però è anche elettrizzante», dice la designer che meno di tre anni fa, insieme all’artista Maurizio Cattelan, ha fondato il marchio di abbigliamento, borse e calzature Durazzi Milano, riuscito a mettere d’accordo critici e appassionati di moda, piazzando ordini in negozi come Boontheshop e 10 Corso Como a Seul, a Andreas Murkudis a Berlino. «Non mi aspettavo - dice - di riuscire ad affrontare tutte le sfide che comporta avere un proprio brand. L’incredibile è che, da appassionata di moda e di arte, sono diventata strada facendo una business woman e un’imprenditrice. A volte tutto questo fa un po’ paura, ma non mi sono mai pentita della scelta. Anche perché non avevo alternative».

ESSERE

L’ALTERNATIVA

AI BIG SIGNIFICA CREARE PRODOTTI

FUORI DAGLI STANDARD

brand nuovo in cui credevano, non sono più disposte a farlo o comunque meno di un tempo. Ormai anche nel settore delle produzioni dominano i numeri: tot pezzi, tot guadagni. Si è persa la voglia di prendere parte a una scommessa, di rischiare.

Come non aveva alternative? Lei ha vissuto a Parigi per 10 anni, lavorando per Balenciaga e poi Maison Margiela. Quindi un’alternativa c’era: restare in un ufficio stile… Prendere certi rischi fa parte del mio dna. Quindi quando ho deciso di abbandonare un posto sicuro per compiere il grande salto ho solo assecondato quello che doveva essere il mio percorso.

Tornerebbe indietro?

Assolutamente no. Ma sono contenta degli anni trascorsi nelle grandi aziende. Senza quel bagaglio culturale e di esperienze professionali non avrei raggiunto nelle mie collezioni certi risultati in termini di qualità. Ora il focus è su Durazzi Milano: farò del mio meglio perché viva una crescita solida e abbia sempre una storia da raccontare.

Quindi basta lavorare per i brand più established del suo?

Ho portato avanti delle consulenze e spero che ne arrivino di nuove, perché sono redditizie e ti arricchiscono professionalmente, visto che ti portano a confrontarti con il mondo fuori. Lo scambio di pensieri e conoscenza tra le persone è, secondo me, la cosa più importante per chi fa questo mestiere. Nella moda bisogna ragionare in modo aperto, non avere paura di confrontarsi. Fare sistema è più essenziale».

Fare sistema è un tema ricorrente nelle analisi su come ridare competitività del settore moda...

Ma la moda non è in crisi, certo non è più percepita come negli anni Ottanta, ma piace ancora. Il cliente finale è ancora pronto a dare valore al made in Italy. Ottenere certi risultati singolarmente non è facile. Gli sforzi sono inutili se compiuti in modo isolato. Servirebbero partnership industriali, iniziative di settore, il supporto della stampa, anche le istituzioni potrebbero contribuire al cambiamento.

Quale sarebbe un bel segnale del cambio di rotta?

Lavoro da tempo in questo settore e posso dire che forse quello della produzione è lo scoglio più grande. Oggi le piccole realtà artigiane che investivano un po’ del loro tempo seguendo lo sviluppo di un

Lei come si è organizzata?

Sono fortunata, ho fino a 15 fornitori diversi per ogni categoria di prodotto e sono riuscita a lavorare con tutti i migliori.

Come è stato possibile?

Capitalizzando tutte le relazioni personali instaurate negli anni in cui ho lavorato per grandi aziende. Chiedevo sempre di viaggiare e andare a vedere i laboratori e le fabbriche per instaurare un link diretto con loro. Spesso questo aspetto del lavoro del designer passa in secondo piano, non per me. Così quando ho contattato alcune di quelle realtà per il mio progetto si ricordavano di me, di come mi ero sempre impegnata ad agevolare certi passaggi e mi hanno supportato.

Oltre l’ostacolo produttivo c’è quello della distribuzione... Nel nostro caso abbiamo sempre privilegiato mercati dove c’è un certo interesse per la creatività e la qualità. Cerchiamo di andare dove c’è un consumatore che ha fame di novità. I nostri trampolini di lancio sono la Corea, ma anche Berlino e certe città del Nord Europa. Ma quello che vale per Durazzi magari non vale per un altro brand. Di certo molti brand emergenti sono ormai pronti ad avere riscontri commerciali all’estero prima ancora che in Italia, dove lo scenario distributivo è complesso. Ho sempre ricevuto feedback positivi dai buyer italiani, che però non sempre si concretizzano in ordini: hanno le mani legate per garantirsi la presenza dei grandi marchi nei loro negozi e devono investire tutto il budget su di loro.

Alla fine, secondo lei, il successo per un designer emergente è una sfida difficile o una battaglia persa in partenza?

C’è spazio per tutti, ne sono certa. Fondamentale è crearsi in proprio stile, non solo nel prodotto, ma anche nella distribuzione e nella comunicazione. Puntare su qualcosa di personale e autentico. Portare sul mercato un progetto speciale e personalizzato è la strada per emergere, perché è quello che i grandi marchi blockbuster, con le loro mega-strutture, non potranno mai fare. 

Ilenia Durazzi DURAZZI MILANO

Federico Cina FEDERICO CINA

FRITAGLIARSI UNO SPAZIO È POSSIBILE

ederico Cina, giovane stilista romagnolo, ha fondato il suo marchio nel 2019 e vinto il Fashion Clash Festival di Maastricht nel 2017. È stato selezionato da AltaRoma nel 2020 e nel 2021 è stato semifinalista del premio Lvmh, come unico italiano tra 1.900 candidati. Ha, inoltre, partecipato alle sfilate milanesi di questo settembre. Cina è noto per il suo gusto romantico e per la capacità di valorizzare elementi della cultura della sua regione. Tra i suoi bestseller c’è la “Tortellino Bag”, una borsa che si ispira al noto piatto dell’Emilia-Romagna.

«Benché la moda sia parte integrante del patrimonio italiano, non sempre le idee giovani riescono a emergere - spiega -. Tuttavia, c’è spazio anche per i designer emergenti, purché sappiano offrire innovazione e raccontare qualcosa di nuovo e più libero. Io il mio piccolo spazio sono riuscito a ritagliarmelo».

C’È SEMPRE MOLTO DA IMPARARE DAI TRAGUARDI E DALLE SCONFITTE ALTRUI

Per affrontare la complessità di questo momento e affermarsi, Cina intende rinnovarsi mantenendo la sua identità. «Penso che il primo passo per affrontare il presente sia partire da dove siamo. Per questo faccio produrre entro circa 100 chilometri dalla nostra sede, qui in Romagna», ha detto. Il rapporto con i negozianti è molto costruttivo. Per il lancio della “Tortellino Bag”, alcune boutique hanno organizzato presentazioni mirate. Lo stilista sta seguen do un percorso preciso: «La concorrenza c’è e si sente - dice -. Ho fondato il mio brand a ridosso del Covid, in anni in cui si sono affermati diversi altri giovani desi gner e progetti interessanti. Penso che sia importan te conoscere chi si dedica allo stesso mio lavoro.

C’è sempre molto da imparare dai traguardi e dalle sconfitte altrui. Io punto all’esperienza, non alla concorrenza».

Un aiuto importante ai giovani stilisti in Italia è il Fashion Trust, piattaforma supportata dalla Camera della Moda, ma Cina pensa che dovrebbero nascere altre realtà simili, anche più piccole, ma sempre utili per farsi conoscere e crescere. Sa che il panorama è molto cambia to negli ultimi 30-40 anni perché sono mutati i consumatori, le loro aspettative e la loro consa pevolezza rispetto alle scelte nell’abbigliamento, ma non solo. «Le condizioni di quegli anni non possono ritornare - conclude - ma possiamo costruire e prenderci cura come brand di una comunità per cui i nostri capi rappresentano qualcosa, hanno valore e sono desiderabili. I fatturati arriveranno di conseguenza, anche senza l’esaltazione degli anni ’80 e ’90».

PRIMO, ESSERE SE STESSI

DI MARIA CRISTINA PAVARINI

Jordanluca, brand anglo-italiano fondato da  Jordan Bowen e Luca Marchetto per la sua estetica tra punk e sartoriale, fra trasgres sione e classicismo, come espresso dai noti jeans volutamente macchiati all’altezza del pube e dalla provocatoria campagna A/I 2023, che ha promosso l’underwear con tripla banda elastica. I due designer non credono che non ci sia ricambio generazionale. Pensano, piuttosto, che siano cambiate le condizioni e occorra rapportarsi con nuovi target e realtà.

«Non pensiamo che non ci sia un cambiamento in atto, né che si possano confrontare i talenti di oggi con i padri fondatori della moda - hanno spiegato -. Le esigenze dei consumatori, le opportunità e l’accesso all’istruzione sono cambiati drasticamente dagli anni ’80 e il panorama è diverso. La nostalgia è un virus e riflettere troppo sul passato non aiuta a formare nuovi creativi». Il duo stilistico ritiene che per rimanere in vita in un panorama come quello attuale occorra prendere decisioni che mantengano vivo a lungo il business, rimanendo fedeli a loro stessi e alla loro identità. In termini commerciali il brand è soddisfatto del supporto dei rivenditori e dei risultati da negozi fisici e dall’e-commerce. Nei prossimi mesi, Bowen e Marchetto inizieranno una serie di attivazioni in area Apac, Italia e UK. Per loro la competizione con gli altri designer non può più essere considerata come una forma di rivalità ma di comprensione del mercato, degli insider e dei consumatori.Va tuttavia affrontata a un livello più profondo e commerciale: «Stiamo cercando di valorizzare il dna del marchio attraverso un design ponderato e l’interazione con la comunità. Non si possono ricreare le condizioni del passato, né cercare di competere con determinate case di moda, ma occorre parlare a una generazione per la quale il linguaggio del lusso è stato ricontestualizzato». 

LA NOSTALGIA È UN VIRUS: RIFLETTERE TROPPO SUL PASSATO NON AIUTA I NUOVI CREATIVI

Jordan Bowen e Luca Marchetto JORDANLUCA

►ANCHE IL NO PROFIT ENTRA IN GIOCO

PER CHI INIZIA PIÙ CHE I PREMI SERVONO I PUNTI DI RIFERIMENTO

Chi pensa che le attività filantropiche non possano fare la differenza nel sostenere chi sceglie il mestiere dello stilista dovrebbe leggere questi numeri: 1 milione e 178mila euro di supporti economici erogati a 35 designer, oltre 200 iniziative attivate tra webinar e collaborazioni di vario genere e centinaia di servizi consulenza offerti. Sono dati e informazioni che emergono quando Umberta Gnutti Beretta e Warly Tomei ripercorrono il lavoro svolto dal 2017 a oggi da Camera Moda Fashion Trust, l’organizzazione no-profit di cui sono co-ceo, nata con l’intento di supportare le nuove generazioni di designer indipendenti di tutte le nazionalità, ma con produzioni basate in Italia. «Il nostro è un programma che aiuta i giovani a trasformare la loro energia creativa in un vero brand - racconta Gnutti Beretta -. Non ci limitiamo a esaudire i loro desideri. Molti si aspettano di ottenere un contributo economico per realizzare uno shooting o per finanziare una presentazione con un cocktail, ma noi li sproniamo a fare un passo indietro e valutare se non siano altre le priorità. Li spingiamo a verificare con i nostri consulenti legali il contratto siglato con la loro showroom e, se non ne hanno ancora una, li supportiamo nella ricerca». «Sempre più spesso - prosegue - ci capita di assistere i giovani creativi in aspetti delicati, che riguardano la tutela della proprietà intellettuale. Sono tanti, ad esempio, quelli che abbiamo aiutato nella registrazione del loro marchio in Cina, specie quando questo mercato offriva opportunità anche agli esordienti. Una volta abbiamo fatto una registrazione di massa, con 10 designer in un colpo solo». Non sempre la nuova generazione di creativi ha ben chiaro il funzionamento del business della moda e approccia il proprio sogno in maniera molto spontanea. «I grandi stilisti del passato - ricorda Warly Tomei - avevano al loro fianco un socio o un partner più esperto di finanza o commerciale, adesso gli emergenti sono spesso soli e noi proviamo a colmare il vuoto». Ne hanno bisogno: «In tanti, quando arrivano da noi, non hanno neppure un conto societario in banca. Pensano di non averne bisogno, perché usano il loro personale». «Per questo - aggiunge Tomei - il board con i tutor si è dato come compito di far comprendere ai talenti supportati l’importanza di compiere questi passi».

Umberta Gnutti Beretta e Warly Tomei CAMERA MODA FASHION TRUST

LE NUOVE GENERAZIONI SONO BRAVE A CREARE, MENO A RACCOGLIERE I FRUTTI DELLA CREATIVITÀ

sfatte anche della selezione fatta nel corso degli anni: nomi come Niccolò Pasqualetti e Setchu sono stati intercettati dai nostri radar prima ancora di diventare finalisti dell’Lvmh Prize».

L’elenco di stilisti beneficiari nel corso degli anni del Grant - il progetto principale prodotto ogni anno dal Fashion Trust - è ormai lungo: Act n°1, Blazé Milano, Coliac, Cormio, Vitelli, e Marcello Pipitone. «I risultati raggiunti sono incoraggianti - affermano Beretta e Tomei -. Abbiamo supportato la crescita personale, prima ancora di quella professionale dei nostri talenti. Basti pensare al lavoro svolto con Francesco Murano: lo abbiamo conosciuto che aveva 23 anni, lo abbiamo aiutato a produrre la prima collezione e convinto a iscriversi a Who is On Next?, che alla fine ha vinto. In questi anni si è costruito una bella credibilità nel settore, grazie alla sua linea e alle consulenze con importanti marchi. Siamo soddi-

Secondo le due co-ceo del Camera Moda Fashion Trust se l’Italia vuole imporsi come habitat ideale per i talenti della moda non servono solo i concorsi con montepremi, ma dei punti di riferimento duraturi: «I beneficiari dei nostri programmi - evidenzia Gnutti Beretta - accedono a un percorso di mentoring che, sulla carta, è di durata annuale, ma nella maggioranza dei casi si estende su periodi ben più lunghi: fino a tre o quattro anni. «Per prima cosa - spiega Tomei - fissiamo insieme gli obiettivi, poi ogni tre mesi ci ritroviamo per un allineamento, ma ci aggiorniamo anche quotidianamente. È questo il nostro metodo per trasformare l’ambizione creativa in successo tangibile». Una traformazione, che implica un salto dimensionale. Ma Beretta e Tomei sono consapevoli che raggiungere l’autosufficienza finanziaria resta una delle difficoltà maggiori. «Ci vorrebbero sovvenzioni statali per startup creative - dice Beretta - ma sono previste solo nel campo della tecnologia». Tomei, dal canto suo, invoca più attenzione da parte degli istituti di credito, che ignorano le logiche specifiche del settore: «I nuovi designer - sottolinea - subiscono le leggi del mercato e sono sempre alle prese con problemi di cash flow, perché necessitano di liquidità per produrre le collezioini seguendo i ritmi delle stagioni. Basta che un pagamento ritardi per compromettere il loro lavoro».

In definitiva, gli ostacoli per emergere permangono, e sono anche di tipo culturale. «Mi chiedo - conclude Beretta - perché il sistema moda sia così poco schierato verso i giovani, anzi diciamo pure che talvolta fa ostruzionismo. I giovani restano il fanalino di coda, in ogni occasione, da quando si tratta di pagare gli ordini o di offrire condizioni di produzione, fino alla retribuzione delle consulenze. Spesso in Italia ci si interroga su quanto si dovrà attendere per rivivere i momenti d’oro della moda anni Ottanta: penso che, se non ci sarà un cambio di mentalità, quei successi difficilmente torneranno. Il talento non basta, se il sistema non è razionale». 

►LA VIEW DEGLI ESPERTI DI CONSULENZA STRATEGICA

CREARE UNA RETE DI PARTNER FIDATI NON È MAI STATO COSÌ IMPORTANTE

Nelly Rodi ha le idee chiare. «Non c’è motivo per cui l’Italia debba essere ridotta allo status di semplice produttore di alta gamma», dice la nota guru di stili e tendenze per le industrie creative, quasi 40 anni fa fondatrice dell’agenzia parigina di consulenza strategica che prende il suo nome, guidata con il figlio PierreFrançois Le Louët. Però la Francia insegna, soprattutto come creare un ecosistema favorevole all’emergere di giovani marchi.

Oggi è più difficile diventare designer indipendenti?

Social media come Instagram e TikTok e l’e-commerce hanno reso più facile lanciare un marchio e costruirsi una reputazione. Il difficile è affermarsi, con un modello di business valido, una produzione di qualità che rispetta le tempistiche e una rete distributiva solida.

Quali sono gli ingredienti principali per lanciare un brand?

I marchi fanno ormai parte di un ecosistema di intrattenimento altamente codificato. I direttori creativi non possono più limitarsi a creare prodotti e campagne pubblicitarie. Devono sviluppare una creatività più ricca, che include la pianificazione di eventi, la produzione di contenuti per i social, la progettazione di pop-up store, la creazione di esperienze online, l’invenzione di nuovi modelli di vendita. Tutto questo raramente è insegnato a scuola e richiede una vera visione, l’interesse per molti mestieri e tecniche diverse, un po’ come un architetto o un regista. La capacità di costruire una rete di partner fidati non è mai stata così importante.

Adesso è più saggio investire in una startup o rilanciare un marchio del passato partendo dagli archivi?

La nostra agenzia ha pubblicato un affascinante studio sugli ingredienti dei marchi di successo (“Hot Brands: the Recipe”). Tra i parametri chiave c’è l’heritage, che non è nulla di polveroso e dormiente negli archivi. Il patrimonio di un brand è in primis il ricordo che ne hanno le persone, ciò che associano spontaneamente a esso. Un brand giovane può avere un patrimonio ricco ed essere molto presente nell’immaginario dei clienti e nell’inconscio collettivo, mentre uno di lungo corso può non avere un vero patrimonio, semplicemente perché la gente non lo ricorda più. Spesso gli investitori pensano che sia meno rischioso investire in nomi del passato, ma molti non dicono più nulla alle giovani generazioni e non hanno una vera identità. Non ha senso farli rivivere, se non si attualizzano e non si dimostra la loro rilevanza. Sono pochissimi i rilanci di successo.

degli stilisti conta poco: il belga Glenn Martens ha fatto un lavoro fantastico per Y/Project e lo stesso vale per lo svizzero Kevin Germanier. L’importante è che l’azienda abbia sede in Francia. Come Milano, Parigi è un centro con creativi da tutto il mondo e un terreno fertile che fa emergere il design eccellente.

L’Italia è ancora un serbatoio di talenti o è destinata a essere ricordata come un produttore di fascia alta? Oggi l’industria della moda ruota intorno a città hub che concentrano grandi gruppi, eventi, scuole, istituzioni culturali, influencer, creatori di contenuti, artigiani... Anche se stanno nascendo poli iper-dinamici come Seul, Dubai o Lagos, le storiche Milano e Parigi mantengono un’influenza eccezionale, soprattutto grazie alla presenza di laboratori e know-how unici, con alte competenze. Milano e l’Italia hanno un enorme patrimonio, a partire da marchi come Prada e Miu Miu, adorati dalla Gen Z e dall’enorme buzz sui social network, e da stilisti brillanti come Alessandro Michele, approdato da Valentino, dopo aver portato Gucci a nuove vette. La settimana della moda milanese attira sempre più giovani marchi. L’Italia è anche una destinazione impareggiabile per quanto riguarda le fiere e l’accesso al mercato: Pitti Uomo per il prêt-à-porter maschile non ha rivali e le showroom di Milano sono altrettanto potenti. Tutti questi fattori sono essenziali per incoraggiare l’emergere di nuovi stilisti, quindi non c’è motivo per cui l’Italia debba essere ridotta allo status di semplice “produttore di alta gamma”.

UN DESIGNER DEVE AVERE UNA VISIONE AMPIA, AGIRE COME UN REGISTA O UN ARCHITETTO

Quali designer francesi emergenti pensate siano destinati a un successo duraturo?

Mi piace molto il lavoro di Jeanne Friot, che ha disegnato il costume della cavallerizza che ha attraversato la Senna, alla cerimonia di apertura dei recenti Giochi Olimpici. Ma a Parigi la nazionalità

Cosa può imparare dalla Francia in fatto di promozione dei giovani talenti?

Grazie al sostegno dei grandi gruppi, delle associazioni di categoria e del governo, la Francia ha creato un ecosistema molto favorevole all’emergere di giovani brand. Gli studenti dell’Institut Français de la Mode beneficiano di generose borse di studio, finanziate da realtà della moda, tra cui anche la nostra agenzia. Abbiamo festival e premi consistenti, apprezzati e riconosciuti nel mondo, per supportare i giovani stilisti tra cui l’Andam, l’Lvmh Prize, il premio del Ministero della Cultura e il Festival di Hyères. Inoltre, le federazioni del settore hanno creato un continuum di acceleratori e incubatori, che facilitano l’emergere dei più talentuosi: dagli atelier di Parigi, all’incubatore dell’Institut Français de la Mode, dal programma Talents della Fédération du prêt-à-porter féminin, fino all’acceleratore di Bpifrance-Banque publique d’investissement. In Francia qualunque sia il livello di maturità del progetto e delle vendite, i giovani sanno che sono disponibili programmi e professionisti della moda per aiutarli. 

Nelly Rodi NELLYRODI AGENCY
Pierre François Le Louët NELLYRODI AGENCY

DIVENTARE IL NUOVO ARMANI NON DEVE ESSERE UN’OSSESSIONE

Oggi voler lanciare il proprio marchio senza prima aver maturato un’esperienza in una casa di moda è quasi una «vocazione religiosa». Se lo si fa, il consiglio è non pensare da subito troppo in grande. Ne è convinta Barbara Franchin, direttrice e supervisore di International Talent Support (Its), piattaforma di scouting da lei fondata a Trieste nel 2002 che offre supporto, visibilità e opportunità ai giovani designer, attraverso l’omonimo concorso internazionale e altri progetti.

Con Its Contest lei ha lanciato le carriere di oltre 680 finalisti: qualche nome italiano?

OGGI È MEGLIO

FARSI LE OSSA

NELLE GRANDI

MAISON CHE

LANCIARE SUBITO UN BRAND

Penso a Virginia Burlina, finalista del 2014, che ha lavorato con Dries Van Noten per molti anni, poi è stata head designer per gli show donna di JW Anderson da Loewe e oggi è da Acne Studios, a capo del womenswear e degli accessori. Ma anche a Christian Boaro, finalista nel 2004, che con il suo marchio Chb ha vestito i Måneskin, Levante, Achille Lauro, Rose Villain. E poi a Marco Baitella, vincitore dell’Its Artwork Award nel 2016, che disegna le scarpe uomo di Prada, e Alithia Spuri-Zampetti, finalista nel 2008, che è stata a capo della donna di Lanvin e creative director di Paule Ka, per diventare associate head of design da McQueen…ma potrei continuare.

Per un emergente meglio dunque entrare in una casa di moda che avviare un’attività in proprio?

Oggi (ma è un oggi, che, secondo me, dura da oltre 20 anni) non è soltanto meglio, ma direi fondamentale, farsi le ossa nelle grandi maison. Sono anni formativi, per poi porsi di nuovo la domanda «Voglio aprire un mio brand?» e darsi una risposta più ponderata. Uscire dalla scuola e voler subito lanciare un proprio marchio è molto difficile e io non lo consiglio, a meno di non sentirlo come una vocazione religiosa…Che poi, perché incaponirsi a voler diventare globali? Ambire a essere il prossimo Armani è un sogno pericoloso, perché si rischia di scoprirsi Icaro e non necessariamente per mancanza di talento o di creatività. Preferisco allora immaginare un designer che apre un suo piccolo atelier, magari unendosi ad altre persone in un collettivo, e che riesce a produrre in piccola scala, senza necessariamente seguire le stagioni o sfilare. Nascondersi e lavorare sulla qualità eccelsa come missione: in fondo anche Cristóbal Balenciaga faceva così.

Guardando la lista dei finalisti dell’edizione 2024 di Its Contest si notano tanti nomi stranieri. E gli italiani?

Dalla Sardegna arriva Ivan Delogu, finalista con una collezione poetica e artigianale che parla dell’ancestralità della sua terra, celebrandone la cultura in maniera sostenibile: abiti ricreati usando le tessere delle tendine antimosche delle botteghe alimentari, pura poesia creativa. Ivan ha vinto anche nella sezione Artwork, dedicata all’arte pura.

Negli anni ‘70-80 si sono imposti i grandi nomi del made in Italy…Un exploit irripetibile ai giorni nostri?

Se parliamo di propri marchi eponimi, sì. Forse è il sistema moda nazionale a non aver saputo mettere in piedi una struttura di suppor-

Barbara Franchin ITS

to finanziario e di promozione dei giovani che volevano lanciare il proprio marchio. Ma se invece si parla di fashion designer del nostro Paese che stanno scrivendo la storia della moda, lavorando in posizioni alte all’interno di tanti marchi del fashion system internazionale, gli italiani ci sono, eccome. Basti pensare a Pierpaolo Piccioli, Alessandro Michele, Alessandra Facchinetti, Maria Grazia Chiuri e altri.

Tra i giovani stilisti italiani chi trova interessante?

Mi piace lo stile di Veronica Leoni di Quira e di Francesco Murano, forse perché ho sempre amato chi, venendo dalla danza, crea con grande tecnica abiti che guardano al movimento. Da citare inoltre Lorenzo Seghezzi, sinonimo di tecnica e capacità sopraffine: deve essere uno spettacolo vederlo al lavoro nel suo studio. 

Olivia Spinelli

IL BUSINESS

SI FA IN TEAM

Olivia Spinelli, direttrice della scuola di moda Ied Milano, pensa che ciascun percorso di studi formi professionisti con competenze specifiche, che si tratti di fashion designer, stylist o marketer. «È il lavoro di team - dice - che può portare a risultati davvero straordinari. Basti pensare al binomio Pierre Bergé-Yves Saint Laurent». Quando cominciano gli studi, gli iscritti non sono preparati sul mercato: «È una generazione che vive la propria individualità in modo esponenziale e non ha idea del dietro le quinte di un prodotto o di un brand. L'espressione «fare impresa» può evocare dei pensieri solo se è già parte del vocabolario di famiglia». Dopo il diploma di designer, un'esperienza in una realtà strutturata è quasi obbligatoria, «per non cadere in errori dettati dall'ingenuità» ed è una scelta naturale, «se durante gli studi si è compresa la complessità del sistema moda». Per chi vuole mettersi in proprio, le possibilità di relazionarsi con l'esterno allo Ied non mancano, anche perché gli stessi docenti sono professionisti. In più ci sono progetti di tesi aziendali trasversali a più corsi, che mettono in relazione diretta tesisti, industria e scuola, anche grazie a un tutoraggio ad hoc. Gli studenti stranieri sono consapevoli di poter avvalersi della filiera italiana? «Hanno le stesse possibilità degli italiani, ma spesso rientrano nel loro Paese. Molti, peraltro, non imparano l'italiano, così non possono interagire con i distretti». In generale, lo Ied incoraggia sempre lo scambio: «Per esempio, da qualche anno partecipiamo a ModaLisboa con una selezione di neolaureati e, grazie a una partnership con Esap-Escola Superior Artística do Porto, offriamo congiuntamente percorsi formativi anche in area fashion». (e.f.)

►I CONSIGLI DELLA TALENT SCOUT

Founder Galib Gassanoff Galib

Gassanoff

Distribuzione

Diretta institutionstudios.com

BRAND to WATCH

INSTITUTION

Quella per la SS2025 è la seconda prova en solitaire per Galib Gassanoff, co-founder nel 2016 di Act N.1. con Luca Lin, sodalizio che si è concluso nel 2023. Battezzato Institution, il marchio del designer georgiano si presenta come un progetto etico che valorizza l'artigianato e le tecniche di tessitura della sua comunità di origine, quella degli azeri, per volumi scultorei e silhouette costruite con lacci di cotone e dai bordi irregolari. Con un prezzo medio sell out intorno ai 1.000 euro, il brand è venduto sul sito institutionstudios.com e ha iniziato il suo percorso nei negozi wholesale, tra cui da Penelope a Brescia.

Co-founder e creative

director

Emanuele Abbondanza

Distribuzione

Diretta ascendbeyond.it

ASCEND BEYOND

Si chiama Ascend Beyond e la sua estetica è frutto di un’operazione di reverse engineering, con l’obiettivo di catturare l’eredità emotiva di abiti del passato per ricrearli in una veste innovativa e sperimentale. Studi all’Istituto Marangoni, il direttore creativo Emanuele Abbondanza, che ha fondato il brand di menswear nel 2021 con Marco Grossi, lavora per giustapposizioni, con un crossover di forme, tessuti e dettagli. Con prezzi sell out compresi fra gli 85 e i 300 euro, la collezione è venduta sull'e-commerce del brand ascendbeyond.it.

A CURA DI ANGELA TOVAZZI

Founder Andrea Lonigro

Distribuzione

Diretta

noskra.com

NOSKRA

Designer senza la canonica formazione accademica in fashion design (ha studiato visual merchandising allo Ied), il barese Andrea Lonigro ha sintetizzato nel brand Noskra la sua idea di moda: uno street sartoriale, con capi ben fatti e made in Italy, realizzati da laboratori che utilizzano ancora processi artigianali e fornitori certificati. Nato nel 2020, il marchio è disponibile, oltre che sul proprio e-shop, su portali come Popseekl e Not Just a Label, oltre a essere distribuito in alcuni concept store. 104 euro il prezzo al pubblico per una T-shirt, 250 per una camicia, 600 per una giacca, 500 per i pantaloni e 1.300 per i parka.

Founder e creative director

Boming Hong

Distribuzione Diretta k-boxing.com

Founder Sofia Nardi

Distribuzione diretta sofianardi.com

SOFIA

Lei si chiama Sofia Nardi e il brand non poteva che chiamarsi Sofia, visto che l'invito della creativa è «esprimere la propria vera essenza, senza paura». Veneta, studi allo Iuav di Venezia, esperienze a Londra come designer da Osman Studio e da Hearst Magazine come stylist, Sofia è stata responsabile dal 2020 al 2022 del marchio Euterpe, finché nel 2023 non ha deciso di scendere in pista en solitaire, scommettendo su borse ergonomiche, dagli echi Sessanta, tutto design e personalità.

Disponibile sull'e-shop con prezzi tra 250 e 310 euro, il brand ha intrapreso un percorso anche nel mondo del wholesale italiano, fidelizzando una decina di negozi.

KB KONG

Rileggere la tradizione con l'innovazione, fondere suggestioni orientali con il design occidentale, ideare soluzioni dall'eleganza essenziale, minimalista, con un'allure genderless. Questa la mission di Kb Kong. premium brand di K-Boxing, gruppo cinese con oltre 2mila store nel mercato domestico. Nato nel 2020 su iniziativa del founder e direttore creativo Boming Hong, con un team stilistico che comprende il design director italiano Massimo Foroni (nella foto in alto a destra), il marchio di menswear ha preso parte alla Milano Fashion Week per cinque anni consecutivi, con l'obiettivo di conquistare anche il mercato europeo, dopo essere approdato in un centinaio di multibrand in Cina, dove è venduto con prezzi tra 1.580 e 7.980 Rmb (tra i 200 e i 1.000 euro circa). Non ha ancora una showroom permanente in Italia, ma one shot si è avvalso della collaborazione con Garage.

LORENZO POSOCCO

«Per

trasformare una passione in business serve metodo. E non impigrirsi mai»

Stylist di fama, con clienti del calibro di Dua Lipa e, in Italia, di Marco

Mengoni ed Elodie, si racconta in occasione della Milano Fashion Week, con la presentazione di una limited edition firmata con Max&Co.. È la sua prima volta in veste di guest designer e anche, come rivela a Fashion, «un modo per iniziare»

DI ELISABETTA FABBRI

Quali competenze l’hanno fatta emergere come stylist delle celebrity? Ho studiato comunicazione e marketing e mi sono avvicinato alla moda facendo esperienza con Neil Barrett e Antonio Marras, al tempo direttore creativo di Kenzo. Ho lavorato per Mtv, vestendo vj dell’epoca, come Victoria Cabello e Camila Raznovich. Da lì sono passato all’editoria, che mi ha portato a vivere a Londra per 13 anni. Due anni fa è iniziata una nuova avventura sempre legata allo styling, con l’apertura di un mio studio a Milano, LPS, dove curo diversi progetti. Nel mio lavoro c’è tanto istinto e tanta disciplina. Serve anche metodo, per trasformare una passione in business e approcciare questo settore. In più le persone che lavorano con me sono come tante mani operative, formiamo una sorta di collettivo di idee.

Quali le soft skill?

Mi dicono che sono molto calmo e questo aiuta, perché una celebrity è esposta allo stress molto più di noi del mondo della moda. Voglio anche essere aperto, non avere mai troppi pregiudizi: un atteggiamento maturato vivendo a Londra, metropoli contaminata anche nello stile, come un frullatore di spunti e creatività. Inoltre sono empatico, capisco fin dove si può arrivare e come fare in modo che le energie si intreccino. Il senso di coinvolgimento è fondamentale, soprattutto con le persone celebri.

Da quali spunti parte per ideare l’immagine di un vip?

Sono molto ispirato dalla strada, mi piace la street culture e rapportarmi con i giovani, apprendere dagli artisti emergenti. Per fortuna viaggio molto: Londra, New York, Los Angeles hanno ancora molto da dire. L’importante è non impigrirsi mai.

Lavora di più con marchi made in Italy, made in Europe o globali?

Sono attento a tutti: identità, valori, cultura dell’azienda, cosa rappresentano nel mercato e sui social network e cosa vogliono spingere. Ma bisogna tenere conto anche della sensibilità della persona celebre da vestire, se è ambientalista, animalista, ecc… Il made in Italy è importante come pure la qualità, ma se un designer propone un’idea forte la sposo anche se non è prodotta da noi: non sempre può permettersi una produzione italiana. Invece, difficilmente abbraccio un suo progetto se non rappresenta il mio modo di essere. Nel tempo si è creato un rapporto speciale con Gilda Ambrosio di The Attico e Giuliano Calza di Gcds, che conosco dagli esordi.

Quanto la condizionano i social media, amplificatori di immagini, apprezzamenti e critiche?

Uso i social ma non ne sono schiavo e raramente leggo i commenti. Guardo TikTok ma non ho un account, forse perché sono di un’altra

generazione. Però i social sono parte della quotidianità, vanno utilizzati, non si può non comunicare. Cerco di farlo nel modo più pulito possibile.

Come è nata l’idea di fare una capsule collection con Max&Co.?

Per qualche stagione ho scattato delle campagne per il marchio, poi mi hanno proposto questa limited edition, quindi il passaggio a collaborare con l’ufficio stile è stato facile.

Coma mai si chiama Found Family?

Ho pensato al concetto di famiglia allargata. Quella che ti ha generato c’è sempre ma, specie quando si è tanto lontani da casa, la famiglia è formata dalle persone che ti scegli per starti accanto e con cui si creano delle contaminazioni. Vedendo una serie di ritratti degli anni ’90 ho notato che avevano vestiti simili e ho pensato a una famiglia che condivide anche gusto e stile.

A chi è indirizzata?

È una collezione trasversale, con vari tipi di silhouette, che include capi agender. Ho pensato a una donna sicura di sé, come se l’abito le desse più potere. La linea è clean ma con vari inserimenti di pezzi forti come la pencil skirt in nylon abbinata alla giacca e i giubbetti con tante zip. Tra i colori principali il rosso, il nero, il grigio, il giallo e un lilla che vira al blu.

Come si è sentito nei panni di uno stilista?

È stato bello avere un'idea e vederla realizzata. Si è trattato di un vero debutto al design, anche se a volte mi capita di far realizzare dei look su misura per le celebrity. Scambi di vedute con vari designer, tra cui quelli di maison come Mugler, Versace e Valentino, mi hanno molto incentivato.

Ci saranno sviluppi? Magari una linea di ciò che vorrebbe e non trova sul mercato?

La collaborazione con Max&Co. è stata un modo per iniziare. Il mio studio è in fase di sviluppo e il brand LPS-Lorenzo Posocco Studio rappresenta uno stile. Quanto all'offerta attuale di moda, sono fan di vari brand e designer tra cui Bottega Veneta ed Hedi Slimane e sul mercato trovo praticamente tutto di quello che mi piace. 

DOPO 15 ANNI CUSTO BARCELONA TORNA A

MILANO PER CONQUISTARE

IL MONDO CON LA FANTASIA

Custo Barcelona, marchio spagnolo noto per gli abiti multicolore e le T-shirt dalle grafiche vibranti che esprimono selfconfidence e individualità, ha partecipato alla Milan Fashion Week dopo un’assenza di 15 anni. «Sono tornato a Milano per rilanciare il marchio anche in Europa dopo gli anni del Covid», spiega Custodio Dalmau, co-fondatore di Custo. Lo incontriamo a riflettori spenti, sorridente e soddisfatto mentre indossa una T-shirt nera e un paio di jeans. Saluta e ringrazia i collaboratori dopo la sfilata, che ha mandato in scena al ritmo martellante di musiche stile disco anni Ottanta oltre 60 modelli che indossavano le iconiche T-shirt con pantaloni colorati e abiti partywear in tessuti multicolor e materiali metallizzati. «La nostra moda è fatta per divertire. Offriamo solo capi speciali, sempre diversi e

PER LA PRIMA

VOLTA A

THEONEMILANO

L’associazione industriale che con i suoi quasi 1.500 associati controlla e promuove l’intero sistema del settore moda ha presenziato al salone dell’haute-à-porter femminile, dal 14 al 17 settembre presso Fiera Milano Rho

Esordio italiano assoluto: per la prima volta, CNGA – guidata da Mr. Chen Dapeng e riferimento per eccellenza del governo di Pechino – ha avuto a disposizione un grande spazio all’interno della manifestazione TheOneMilano, per ospitare una collettiva di 40 brand cinesi, con l’obiettivo di costruire uno speciale ponte tra Italia e Cina. «Oggi la produzione cinese è sottoposta a standard di qualità molto elevati – commenta Francesco Fiordelli, referente CNGA per l’Italia – a fronte di prezzi concorrenziali per i prodotti di fascia media. Per supportare le pmi italiane che desiderano investire in questo mercato,

particolari, perché le nostre clienti hanno già gli armadi pieni di abiti normali», racconta l’eclettico businessman. Il marchio è nato nel 1981 dopo che Custodio Dalmau (da cui il nome del brand), personalità esuberante e creativa di Barcellona, si è trasferito negli Stati Uniti per coltivare la sua passione di grafico. Lui e il fratello David hanno fondato il loro marchio di T-shirt dai motivi inconfondibili, indossato dai protagonisti di serie TV come “Friends” e “Sex and The City”, cresciuto

il governo cinese sta finalizzando misure con l’obiettivo di semplificare e ridurre tasse e dazi». Grazie a un livello tecnologico e una manodopera di qualità sempre più elevati, infatti, il segmento tessile cinese è cresciuto fino a diventare competitivo e al passo con i tempi, spingendo il governo locale a investire in aziende che producono articoli di fascia medio-alta, con design sofisticati e standard qualitativi eccellenti, nel contesto di un mercato caratterizzato da nuove tecnologie e da una transizione che pone maggiore attenzione al rispetto della natura, ai diritti dei lavoratori e alla qualità della vita sul luogo di lavoro.

nel tempo e ininterrottamente presente sulle passerelle della New York Fashion Week. Custo era già tornato a Milano nel febbraio 2024 per festeggiare i 40 anni del marchio con una sfilata e una retrospettiva delle sue magliette più iconiche. Con il secondo show di settembre ha voluto consolidare la presenza del brand in Europa dopo la battuta d’arresto degli anni scorsi e farlo crescere, benché già venda in tutto il mondo e gli Usa siano il primo mercato. «Avevamo 130 negozi monomarca, ma abbiamo dovuto chiuderne molti - afferma -. Gli Usa rappresentano il 30% delle nostre vendite, ma abbiamo margini di crescita. La Spagna occupa il secondo posto e pesa per il 20% del fatturato. Adesso vogliamo tornare in Europa e conquistare il Medio Oriente». Intende sviluppare anche l’e-commerce, un canale strategico, ma ancora esiguo rispetto al fatturato complessivo di 60 milioni di dollari nel 2023, pur volendo crescere in tutti i canali. La collezione conta 64 pezzi dei quali 14 da uomo e 50 da donna. Viene venduta a prezzi che variano da 150 euro per le T-shirt a 400-500 euro per gli abiti più elaborati: prezzi ragionevoli, pensando che sono realizzati in varie zone del mondo, soprattutto in Portogallo, e in parte in Italia. (m.c.p.)

CHINA NATIONAL GARMENT ASSOCIATION for
Francesco Fiordelli
Chen Dapeng

INTELLIGENZA ARTIFICIALE: RIVOLUZIONE LENTA MA INARRESTABILE

Un sondaggio di Fashion rivela che le Pmi della moda mettono tra le priorità la dirompente tecnologia di cui tutti parlano, ma con l’idea di investire cifre minime. I fornitori di soluzioni AI-based e gli advisor sono convinti che non si torna più indietro e tranquillizzano: «Si avrà più tempo da dedicare alle attività con maggiore valore aggiunto»

DI ELISABETTA FABBRI

La più grande rivoluzione tecnologica di questa era. In molti definiscono così l’avvento dell’Intelligenza artificiale o Artificial Intelligence-AI, come si abbrevia più comunemente. Tuttavia, alcune statistiche mostrano un andamento lento delle sue applicazioni concrete nell’industria e anche i mercati azionari sembrano essersene accorti. Dopo il boom della prima metà del 2024, si sta assistendo a una fase di assestamento a giudicare dalle recenti performance in Borsa dei titoli di produttori di chip per l’AI come Nvidia e Broadcom e di aziende esposte al settore come Microsoft, che ha il 49% di Open-AI, azienda privata a cui fa capo ChatGpt, oppure Meta, che con Meta AI sviluppa tecnologie basate sull’AI, sulla realtà aumentata e quella artificiale. In base a un mini-sondaggio di Fashion, somministrato tra fine luglio e i primi di settembre soprattutto a Pmi, oltre la metà (57%) degli imprenditori e degli executive della moda mette l’AI tra le priorità del 2024-2025, ma gli investimenti previsti hanno un peso «minimo», sul totale ipotizzato per il biennio. Per il 35% dei sondati (attivi nei segmenti abbigliamento uomo, donna e bimbo, denimwear e outerwear, calzature, borse e valigeria) al momento l’AI è in «fase di sperimentazione», a cui si aggiunge un 29% che afferma di averla «in valutazione». Un altro 29% invece la dà come «regolarmente in uso», mentre il 7% par-

la di un utilizzo «occasionale». A imprenditori e manager è anche stato chiesto in quali ambiti pensano sia particolarmente utile. Tra le molteplici opzioni, il 79% delle risposte si concentrano sull’analisi dei dati e sulle previsioni. Al secondo posto emergono il marketing nel suo complesso, a pari merito con l’assistenza al cliente (lo dice il 71% dei sondati), seguiti dalla produzione di contenuti e progetti creativi (52%) e dal design e sviluppo prodotto (50%). C’è un 35% che vede un impatto posi-

L’Italia è agli ultimi posti in Europa per l’utilizzo dell’AI nelle aziende

tivo anche nella gestione del magazzino e della logistica, nell’assistenza allo shopping e nella customizzazione della shopping experience. Un altro 14% cita le store operation, mentre solo il 7% ipotizza benefici nel pricing e nelle misure anticontraffazione. Nessuno degli interpellati ritiene l’applicazione dell’AI utile alla gestione delle risorse umane, al risk management e al miglioramento delle prestazioni Esg. Il peso delle medesime voci cambia quando si passa dalle opinioni ai fatti. Alla domanda “In quali ambiti state utilizzando o sperimentando l’AI?”, la maggioranza mette al primo posto la

produzione di contenuti e progetti creativi e il marketing (57% in entrambi i casi). La voce “analisi dei dati e previsioni” è al secondo posto (21%), seguita da gestione del magazzino e logistica, assistenza al cliente, assistenza allo shopping e customizzazione della shopping experience (lo dice, per ciascuna voce, il 14% del panel). Tra chi ha dettagliato i casi di utilizzo/prova, qualcuno ha riferito di «analisi dei dati del venduto per singoli articoli e di formulazione di previsioni in base alle tendenze suggerite dall’AI» o anche di attività di Business Intelligence, come la generazione di report per i manager, allo scopo di controllare l’andamento delle vendite retail e negli outlet o la campagna vendite wholesale. La maggioranza, però, sperimenta la produzione di testi per l’advertising, i social network, il direct email marketing customizzato e le descrizioni tecniche dei prodotti. L’AI è messa alla prova anche per l’elaborazione di immagini e video, lo shooting on model e il visual merchandising per l’e-commerce o anche per la simulazione di vetrine e il setting delle showroom. Nella percezione degli executive, gli aspetti più critici legati a un investimento nell’Intelligenza Artificiale attengono soprattutto alla mancanza di competenze adeguate (per il 71% del campione), all’integrazione della tecnologia in azienda (50%) e ai possibili errori dell’AI (43%). Al quarto posto le normative da rispettare, mentre al quinto e al sesto posto

1. Cegid porta l’AI in negozio: bastano un’app e un device digitale per conoscere in dettaglio taglie e gusti dei clienti

2. Una recente campagna Etro generata con l’AI, nata dall’interazione tra il direttore creativo

Marco De Vincenzo e la digital artist e prompt designer

Silvia Badalotti

2

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NELLA VOSTRA AZIENDA È…

spuntano i costi (29%), seguiti dalla sicurezza dei dati (21%). Non preoccupano, invece, l’impossibilità di prevedere un ritorno dell’investimento e i possibili condizionamenti di policy interne sull’uso di sistemi di Intelligenza Artificiale. Alla voce “altro” c’è chi teme i costi e la disponibilità di tempo per la formazione, ma anche il change management. Però il 100% degli interpellati si dichiara ottimista, rispetto agli impatti dell’Artificial Intelligence sull’economia e sul contesto sociale. Secondo i dati riportati da Eurostat, nel 2023 solo il 5% delle aziende italiane con almeno 10 dipendenti ha utilizzato tecnologie di AI, al di sotto dell’8% della media delle imprese in Ue. Questo ci colloca tra gli ultimi posti in Europa (20esimi su 27). Nel caso di imprese con 1050 dipendenti si scende al 4%, contro il 24% europeo. «Al momento le aziende della moda più lanciate in investimenti nell’AI sono quelle estere, che dispongono di budget ampi - dice Mario Davalli, country manager di Cegid per il Sud e l’Est Europa -. In generale hanno più propensione alle nuove tecnologie, rispetto alle italiane e i loro cio fanno parte del

board. Invece da noi spesso sono sottoposti al cfo, il che fa pensare che la tecnologia sia vista più come un costo che come un abilitatore». In giugno il gruppo francese Cegid, noto nella moda per le soluzioni cloud per il retail, ha presentato a Roma per la prima volta l’integrazione dell’AI generativa nelle sue soluzioni retail declinate per l’esperienza in negozio, la gestione delle operation e l’analisi dell’attività. «Per molte aziende invitate è stata la prima occasione di vedere un’applicazione concreta dell’AI, che va a migliorare le vendite a livello omnicanale - spiega Davalli -. Tra le innovazioni che hanno colpito di più, quella che permette a un addetto alle vendite di riconoscere velocemente il cliente che vuole essere identificato, basandosi sul suo storico. Con l’app dedicata e un device sa subito la taglia, i materiali e i colori che gli piacciono di più e può dare suggerimenti mirati, anche

Country manager

Sud ed Est Europa CEGID

se è appena stato assunto. Così si fronteggia pure il problema del forte turnover dei commessi». Cegid ha proposto anche una app che traduce in tempo reale le richieste degli stranieri che entrano in negozio e che consente di rispondere nella loro lingua madre. In più ha suscitato interesse la possibilità, per gli store manager, di avere una Business Intelligence con cui dialogare direttamente per ottenere, con linguaggio naturale, l’analisi istantanea delle performance dello store. Spesso devono, invece, aspettare che i dati siano elaborati e inviati dalla casa madre. Persino la comunicazione interna beneficia dell’automatizzazione. «Un retail manager che fa una vendita importante può raccontarlo con l’AI, creando un contenuto scritto corredato da immagini, che può essere utile per formare e motivare la forza vendita», spiega Davalli. Viene però da chiedersi se chi lavora in negozio è preparato ad accogliere queste innovazioni. «Le app che sviluppiamo servono per risolvere problemi giornalieri e sono realizzate sentendo direttamente i nostri clienti - risponde Davalli -. Abbiamo un “club” di 120 di loro sparsi nel mondo, che ci informa periodicamente. In più ci facciamo aiutare da psicologi, che studiano gli utenti nelle fasi di test delle nuove soluzioni, valutando persino le espressioni del viso». Serve poi un programma di formazione e di supporto. «L’AI non ruba il lavoro ma permette di lavorare meglio e in modo più performante, lasciando più tempo da dedicare alle attività con maggiore valore aggiunto - precisa Davalli -. L’atteggiamento in genere è sempre un mix di interesse e timore. A preoccupare sono soprattutto la privacy e la protezione dei dati dell’azienda. Nel nostro caso però non sono pubblici ma restano

MARIO DAVALLI

La piattaforma digitale di Data Life integra e orchestra flussi e sorgenti di dati e include un assistente AI, che aiuta nelle attività di analisi e realizzazione di report. Qui sorpra, un cruscotto per monitorare i best-seller, che include l’analisi delle giacenze, delle vendite per negozio e dei trend

di dominio del cliente: l’algoritmo impara da tutti i dati messi insieme e questo rassicura». Alle aziende il manager di Cegid consiglia di «non perdere di vista l’obiettivo strategico, facendo l’errore di scendere troppo nel dettaglio degli aspetti tecnici», e di «procedere per gradi», con obiettivi precisi e piani di ritorno degli investimenti a sei mesi e con kpi da seguire mese per mese. Il futuro che le attende, a suo parere, è uno shopping sempre più integrato e personalizzato per ogni tipo di cliente con cui verranno in contatto, supportato dalla tecnologia.

IACOPO CRICELLI

Fondatore e ceo Data Life

Invece Iacopo Cricelli, fondatore e ceo di Data Life - società di consulenza e sviluppo di tool in ambito Business Intelligence e Analisi Predittiva, specializzato nella moda e nel lusso - prospetta per il settore un futuro in cui il 70% circa delle decisioni saranno demandate a meccanismi semiautomatici o supportate dagli stessi. «Il digitale sarà sempre più presente, specie per comprendere meglio il cliente e valorizzare i dati - anticipa -. Da circa sette anni a questa parte notiamo una progressione dei budget per strumenti volti a valorizzare il rapporto con il cliente. La creatività resterà al centro, ma si assisterà a una sempre maggiore coesistenza di management, dati e AI». «Basti pensare - continua - all’aumento dell’attenzione su un tema come la sostenibilità: senza un buon governo dei dati e una filiera tracciabile, non è possibile ottimizzare il magazzino e gli assortimenti o stimare la produzione per evitare gli accumuli». Rispetto alla Business Intelligence e all’Analisi Predittiva il livello di maturità delle aziende osservato da Data Life è variegato. «Non c’è da sorprendersi se realtà di dimensioni importanti si affidano ancora a strumenti basici come i fogli di calcolo, per analizzare i numeri e prendere decisioni cru-

IN QUALI AMBITI PENSATE SIA PARTICOLARMENTE UTILE L’AI?

Analisi dei dati e previsioni

COME STATE UTILIZZANDO/ SPERIMENTANDO L’AI?

Assistenza al cliente

Produzione di contenuti e progetti creativi

Design e sviluppo prodotto

Assistenza allo shopping

Gestione del magazzino e della logistica

Customizzazione della shopping experience

35%

ciali», dice Cricelli. «Del resto - ammette - lavorare con i dati significa grandi mal di testa per tutti, a causa di questioni tecniche e del delicato compito di definire e “leggere” nelle analisi delle logiche oggettive, spesso complesse da mettere a fuoco. Però osserviamo una crescente maturità delle aziende del fashion & luxury e un’attenzione dei partner tecnici di settore nel supportare questo ambito, anche grazie alla recente ondata di interesse per l’AI». L’azienda fiorentina offre consulenze e soluzioni personalizzabili, con progetti «almeno a cinque anni, per avere un senso». Con il tempo i clienti possono confermare il rapporto di consulenza o rendersi indipendenti. Questo però va a impattare sull’offerta già scarsa di figure come il data scientist. «Il problema del debito di competenze c’è - conferma Cricelli -. I corsi di laurea per diventare data scientist sono molto recenti e al momento si ha a che fare con figure per lo più accademiche e con scarsa attitudine a occuparsi di fashion & luxury». I benefici dall’analisi dei dati sono, a suo parere, molteplici. «Esaminarli con una struttura “intelligente”, pensata per stimolare il ragionamento - dice l’esperto - può cambiare in modo considerevole la reattività di un marchio rispetto ai fenomeni di mercato: dal lanciare produzioni on demand al riorganizzare l’assortimento dei punti vendita; dal valorizzare al meglio il rapporto con i clienti attraverso comunicazioni e proposte d’acquisto mirate, alla definizione di suggerimenti sullo sviluppo

delle collezioni». «Oggi quando si parla di AI ci si riferisce primariamente ai Large Language Model e alla capacità conversazionale e generativa delle macchine - puntualizza -. Espressioni come “me lo faccio dire dall’Intelligenza Artificiale” sono ormai all’ordine del giorno e risultano facili, perché le macchine stanno rendendo semplice e pervasivo l’accesso ad attività estremamente complesse». «Il ruolo dell’AI - sintetizza - è quello di democratizzare l’accesso ai dati, abbattendo le barriere dovute alla complessità tecnica di trovare la giusta informazione nel giusto momento, con il minimo sforzo. Questo sposterà la concentrazione di noi esseri “pensanti” dall’eseguire noiose estrazioni o calcoli, al ragionare sulle possibili azioni conseguenti ai fenomeni osservati». In questo iter, però, vanno placate le preoccupazioni delle aziende che, come elenca il fondatore di Data Life, riguardano soprattutto la sicurezza dei dati aziendali, la privacy e i costi nel tempo, di difficile prevedibilità. Trattandosi di una tecnologia non matura, anche i fornitori di servizi AI-based devono stare sempre all’erta. «Un nostro problema - afferma Cricelli - è governare e monitorare la stabilità e la qualità di risposta degli algoritmi agli stimoli e alle richieste. Un altro sarà, invece, gestire la fase di disillusione, che sicuramente si svilupperà a seguito del grande hype attuale». «Le nostre preoccupazioni non sono tecnologiche ma attengono al fattore umano - ribatte Gianluca Sacchi, Consumer Goods & Retail lead della società di consulenza strategica BearingPoint Italia -. Sono legate

alla capacità di organizzazione delle aziende, di cambiamento e di valutazione corretta dell’impatto. Il cambiamento deve essere sostenibile, altrimenti è sbagliato. Non bisogna decidere un certo percorso senza prima avere compreso le esigenze reali e gli impatti». Un altro tema chiave, secondo Gianluca Sacchi, è il commitment dei dirigenti e della proprietà, che «ha un ruolo cruciale nel favorire il cambiamento e nella gestione dei rischi». Di certo la rivoluzione è già in corso. Nel 2023, in base a stime di Anitec-Assinform, il mercato delle soluzioni AI in Italia ha raggiunto i 570 milioni di euro, in aumento del 31% rispetto al 2022 ed è previsto salire a 1,2 miliardi nel 2026, ipotizzando un +30% medio l’anno. «L’AI e altri abilitatori come cyber security, big data e cloud saranno i driver dello sviluppo digitale delle aziende. Compresa la moda, che immaginiamo tra i settori che vedranno una maggiore applicazione dell’AI, per via della vastità di casi d’uso, anche se ora la percezione è che sia indietro, rispetto ad altri settori». Uno degli investimenti che potrebbe avere la priorità riguarda il machine learning e l’uso dell’AI per l’analisi di grandi volumi di dati. «Permette di prevedere le tendenze in un mercato sempre più dinamico e complesso - spiega l’esperto di BearingPoint -. Non si tratta più della mera analisi di serie storiche: l’algoritmo è capace di identificare dei trend che spesso sfuggono ai sistemi tradizionali, perché tiene conto di fattori esterni, come le tendenze di mercato e quelle che emergono dai social o anche le condizioni atmosferiche. L’affinamento delle previsioni consente una pianificazione migliore e una risposta veloce al mercato». Si tratta di una base a supporto della pianificazione aziendale: «La tecnologia non sostituirà mai l’uomo - rassicura Sacchi -. È al servizio dei processi, facilita il lavoro umano, così le persone possono dedicarsi

1. Maxi car bag a Parigi nella campagna surrealista di Jacquemus realizzata dal digital artist Ian Padgham 2. Un progetto AI-based curato nel 2023 da Pierpaolo Piccioli, Tommaso Garner e Vittorio Maria Dal Maso per la Essential Line di Valentino

TECNOLOGIA E UMANESIMO

Cucinelli adotta l’AI per un nuovo sito

ad attività più strategiche». Dal back al front end, un altro investimento chiave potrebbe essere il miglioramento della shopping experience off e online, per esempio con soluzioni evolute del virtual try on, per offrire esperienze coinvolgenti e personalizzate, anche con impatti positivi sui tassi di reso. «L’AI generativa - aggiunge Sacchi - si sta diffondendo nella realizzazione di contenuti e nell’advertising, come dimostrano le sperimentazioni di Jacquemus e Valentino per la Essential Line. La ragione è che non sono necessari grossi investimenti e si riducono notevolmente i tempi di realizzazione». Attualmente ciò che sembra preoccupare di più le aziende è il Roi, secondo l’esperto di BearingPoint, il cui calcolo non è immediato, perché l’AI va a coinvolgere più aree aziendali. Inoltre, l’integrazione nei processi e nell’organizzazione aziendale è percepita come una sfida notevole. Sacchi consiglia a imprenditori e manager di essere aperti all’innovazione, «diversamente si troveranno in ritardo rispetto ai player più virtuosi» e pronti a procedere per gradi, identificando le opportunità di utilizzo di maggior valore e ragionando in termini di implementazione «di un modello operativo, non di un asset tecnologico». A proposito di commitment, i dirigenti dovrebbero affinare soft skill come motivazione, capacità di adattamento e flessibilità nell’accogliere nuove soluzioni, anche con un pensiero critico. «Non sarà facile - conclude Sacchi - ma è necessario». 

Brunello Cucinelli sperimenta l’AI con brunellocucinelli.eu, sito di nuova concezione che vuole sorprendere e coinvolgere gli utenti nel mondo del gruppo del cashmere. Una particolarità di questo indirizzo web - la cui versione beta è stata presentata a Milano e che va ad aggiungersi al sito istituzionale e all’e-commerce - è l’interfaccia utente, che elimina le canoniche pagine e i menu, per lasciare posto a testi, foto, ma anche disegni (realizzati a mano e digitalizzati) liberi di fluire ed essere combinati, a seconda delle esigenze del visitatore. L’utente può interrogare il portale come se fosse un motore di ricerca, per conoscere meglio l’universo dell’azienda umbra. Brunellocucinelli.eu gestisce più lingue ed è accessibile a utenti con disabilità. Il progetto, frutto di quasi tre anni di studi, ha coinvolto due matematici, un ingegnere, un filosofo e un artista e prelude a nuove sperimentazioni, con l’idea di far andare a braccetto umanesimo e tecnologia. Un’opzione è connettere l’AI con il progetto della nuova Biblioteca Universale di Solomeo, che sta prendendo forma. Inoltre è in previsione l’applicazione dell’AI alle vendite online. «L’AI - ha detto Cucinelli - ci aiuterà molto, per l’immagine e tutto il resto. Per certi aspetti c’è da preoccuparsi, ma sarà qualcosa di affascinante. Fra 500 anni ci ricorderemo ancora di questo inizio del terzo millennio».

TRA LE AZIENDE CHE RINGRAZIAMO PER AVERE PARTECIPATO AL SONDAGGIO: Agl, Antony Morato, Blauer, Bric’s, Doucal’s, Gas, Gruppo Casillo, Incotex, Kaos, Miniconf, Pinko, Telarosa, Valsport e Xacus.

GIANLUCA SACCHI

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S.O.S. DALLA PELLETTERIA TOSCANA: È SOLO UNA CRISI CICLICA?

Il rallentamento del lusso a Scandicci e dintorni ha provocato effetti devastanti: un crollo degli ordinativi delle griffe, stallo della produzione, merce invenduta accatastata nei magazzini, piccole-medie imprese contoterziste costrette a chiudere i battenti. Quali le possibili exit strategy? Rispondono gli addetti ai lavori

Le prime avvisaglie c’erano state già nel 2023, ma è all’inizio di quest’anno che scatta l’allarme nel distretto toscano della pelletteria, con i lampeggianti accesi sull’area di Scandicci, cuore pulsante della produzione made in Italy, legata a doppio filo ai brand del lusso. Qui maison come Gucci e Saint Laurent (Kering), Dior e Fendi (Lvmh) e Chanel, per citarne alcune, realizzano direttamente o si avvalgono delle maestranze locali per la creazione dei loro accessori da esportare in tutto il mondo. Mentre la maggior parte delle trimestrali delle multinazionali che alimentano l’industria del territorio evidenziano una “normalizzazione” dopo l’euforia post Covid e anni di multipli record, dalle aziende della cintura fiorentina - per lo più piccole-medie imprese a vocazione contoterzista - arriva un bollettino che scoperchia uno scenario inquietante: diminuzione verticale degli ordinativi da parte delle griffe, stallo della produzione, merce invenduta accatastata nei magazzini, fatturati in progressiva contrazione, imprese costrette a chiudere i battenti. Da Cna Federmoda giungono i dati di quella che sembra un’ecatombe: solo in provincia di Firenze, nel giro di sei mesi, 112 imprese della pelletteria hanno cessato l’attività.

Senza contare il boom del ricorso alla cassa integrazione, come conferma Gianluca Volpi, direttore di Ebret (Ente Bilaterale dell'Artigianato Toscano): restringendo il campo al settore pelli, cuoio e calzatura il balzo è stato dalle 200mila ore relative all’intero 2023 alle circa 400mila nel solo primo semestre 2024. Con l’ultimo esempio eclatante di tre laboratori (Gt di Scandicci, Gpa di Figline Valdarno e Garpe di Piancastagnaio) partecipati da Gucci, nelle ultime settimane in trattativa per introdurre gli ammortizzatori sociali. Nel ricercare le cause di questa fase recessiva, gli imprenditori locali interpellati dal nostro giornale parlano di una «tempesta perfetta», una combinazione micidiale di fattori esogeni ed endogeni che ha messo sotto scacco tutto il settore manifatturiero, coinvolgendo - chi più, chi menosia le grandi che le piccole realtà. In primis la congiuntura globale avversa, con le guerre in corso in Medio Oriente e tra Russia e Ucraina, importanti sbocchi commerciali per la moda, ma anche la fiammata inflazionistica e l’aumento esponenziale del prezzo delle materie prime e dell’energia. Il rialzo dei tassi d’interesse, la riduzione generalizzata del potere d’acquisto, lo storno dello shopping di moda verso altre categorie di spesa. Senza

Dal punto di vista geografico, tutte le principali regioni mostrano in con un +307% a Firenze) e Campania (+123,5%) figurano ai primi due di 4 mili ,7%) e dalle

1. Una fase di lavorazione da Idee Partners a Scandicci: l'azienda, specializzata nello sviluppo prodotto, design e produzione nel settore della pelletteria di lusso, ha recentemente incorporato realtà come Rgb e Petri & Lombardi 2. Borse protagoniste sulla passerella SS25 di Fendi 3. Un'immagine della modelleria di Tivoli Group a Calenzano, in provincia di Firenze

Il Totale economica ris più mod omento di E’ inoltr luglio , mes sono cre elle ore sale sull’anal

Le attes o sono imp Il 53% d amenti sign nel terz anel che tem

Le previ riferiment tendenz ei due trim con mesi confermata mesi a un Relativament

24, be n il 5 propria azienda ricavi inferiori a quelli 2023, a fronte di una quota d di crescita (14%). Per la ripartenza bisognerà purtroppo attendere qu

Un semestre in sofferenza per la pelletteria italiana

Anche se la Toscana resta una delle regioni più colpite (-17% la produzione nel primo semestre 2024), la crisi della pelletteria rappresenta un problema nazionale. Nei sei mesi da gennaio a giugno, i dati forniti da Istat, elaborati dal Centro Studi di Confindustria Accessori Moda, fotografano uno scenario a tinte fosche, contrassegnato da segni meno: -10% il fatturato delle aziende associate, -19% la produzione industriale (con un -26,4% solo nel mese di giugno), -9,4% il valore relativo all’export nei primi cinque mesiß. Aumenta la cassa integrazione e chiudono le imprese (-84 unità tra dicembre 2013 e giugno 2024), con 1.832 addetti in meno rispetto a un anno fa. E anche le attese circa l’andamento nella seconda parte dell’anno sono improntate al pessimismo: un associato su tre stima un peggioramento nel terzo trimestre. Le previsioni del panel indica inoltre una contrazione del fatturato pari al -4,2%. Relativamente alla chiusura dell’anno, oltre la metà degli imprenditori (il 53%) ipotizza ricavi inferiori a quelli del 2023. Di ripartenza, insomma, non si parlerà prima del 2025.

Base 2 021=100.

Primi 6 mesi 2024: -19,0% su gennaio-giugno 2023

Fonte: ISTAT;

Indice me commerci (riferito ai p calzature”, d Base 2 021=100. primi

NON SOLO IN TOSCANA

contare l’inattesa involuzione strutturale di un mercato chiave come la Cina, fino a poco tempo fa locomotiva dell’export di lusso, in ritardo nella ripartenza e soprattutto sotto un’influenza governativa nazionalista che spinge verso l’autarchia, con una tendenza al consumo domestico anche per quanto riguarda i beni fashion. Fattori che tutti insieme hanno contribuito a un improvviso tonfo, reso ancora più fragoroso se confrontato con il dinamismo a cui era abituato il distretto negli anni precedenti, ritmato da vistosi incrementi a doppia cifra. «Con il rimbalzo del post pandemia il settore aveva grandi aspettative e si è comportato come se ci potesse essere una crescita infinitacommenta Claudio Delunas, fondatore e ceo di Idee Partners, azienda di Scandicci specializzata nello sviluppo prodotto, design e produzione nel settore della pelletteria di lusso, in capo al Gruppo Pattern -. A molte aziende è arrivato l'input di incrementare gli investimenti, di allargare i capannoni, di assumere nuovo personale. E proprio quando doveva concretizzarsi la grande crescita sono piombati invece i segni meno». Nella sola area di Scandicci, in base a quanto scrive la stampa locale, nell’ultimo quinquennio sono state arruolate 4mila persone per far fronte a una produzione da alcuni osservatori considerata ipertrofica, sulla spinta dell’escalation della domanda. Intanto lievitavano i prezzi, secondo molti in maniera ingiustificata. «Accanto alle incognite congiunturali - interviene Andrea Calistri, titolare della storica Sapaf Atelier 1954

1. Una delle borse che hanno sfilato sulla passerella di Gucci per la primavera-estate 2025

2. Un'immagine della lavorazione della pelle da Tivoli Group

sempre a Scandicci - responsabile dell’emergenza è stata in primis la corsa incontrollata all’aumento dei volumi produttivi e dei fatturati degli ultimi cinque-dieci anni». Sono nati grandi insediamenti controllati dai big, che hanno verticalizzato la filiera inglobando tutti i suoi anelli, a partire dalle concerie, fino ad arrivare all’internalizzazione della formazione: giganti alimentati da bilanci stellari che si credeva avrebbero costituito la “normalità” per gli anni a venire. Un modello estraneo, secondo Calistri, al tessuto storico del distretto, perché incentrato più sulle prestazioni finanziarie per massimizzare le performance che sul valore del prodotto e di chi il prodotto lo fa. Se è indubbio che i

Diversificazione e aggregazione tra le politiche intraprese dalle aziende per rispondere alla fase recessiva

grandi gruppi hanno generato da un lato opportunità occupazionali e contribuito all’indotto dell’area, dall’altro hanno creato una sorta di dipendenza, plasmando il territorio con «aziende mono-cliente e mono-mercato - dice Calistri - senza strutture commerciali autonome». «Noi - prosegue - abbiamo seguito la strada opposta: grande qualità e piccoli numeri, senza farci irretire dalle sirene dei fatturati. Certo, questo non può essere il modello per Scandicci, ma la nostra filosofia ci ha permesso di navigare nella tempesta».

FOCUS SULLE EXIT STRATEGY

POLITICHE DI AGGREGAZIONE, PER FARE MASSA CRITICA E RISPONDERE CON PIÙ FORZA E FLESSIBILITÀ ALLE INCOGNITE E ALLE NUOVE SFIDE DEL MERCATO

DIVERSIFICAZIONE DEI BRAND COMMITTENTI, IN MODO DA FRAZIONARE IL RISCHIO E APRIRE NUOVE OPPORTUNITÀ E MERCATI ALTERNATIVI

TORNARE A INVESTIRE SULLA CULTURA DEL PRODOTTO CHE HA FATTO GRANDE IL MADE IN TOSCANA, SGANCIANDOSI DALLA LOGICA COMMERCIALE CHE HA SPINTO I FATTURATI NEGLI ULTIMI ANNI

Negli ultimi mesi istituzioni e associazioni di settore si sono fatte carico della crisi della pelletteria toscana, e non solo, cercando di elaborare exit strategy per gestire l’emergenza (vedi box a fianco), ma molti player coinvolti nel business del distretto pensano che non si tratti di un mero rallentamento ciclico e che per la ripartenza sia necessaria una revisione delle pratiche consolidatesi negli anni d’oro. «Bisogna prendere atto che stanno cambiando i paradigmi, in direzione di un ridimensionamento - osserva Claudio Delunas -. Non si produce più per riempire i magazzini come prima, ma si producono piccoli lotti, quasi just in time, con il supporto anche dell’intelligenza artificiale, nella giusta quantità per essere venduti». Una razionalizzazione che è destinata a scardinare gli equilibri e a richiedere energie supplementari. Ma dove trovarle? Una delle strategie messe in campo è quella di unire le forze tramite aggregazione. «Si stanno salvando le realtà più solide, flessibili e capaci di adattarsi velocemente, ossia quelle - prosegue il ceo di Idee Partners - che a tempo debito, e non come risposta emergenziale, hanno investito in tecnologia, innovazione e organizzazione. Noi facciamo parte di una holding industriale solida come il Gruppo Pattern e a nostra volta abbiamo recentemente incorporato realtà come Rgb e Petri & Lombardi, potendo così contare anche sui plant di Reggello e Bientina». In questa fase down le dimensioni aziendali diventano prioritarie per Delunas: «Il motto “piccolo è bello”sintetizza - non funziona più. D’ora in avanti

1. Scelta colori da Idee Partners: recentemtente l'azienda ha inaugurato la nuova sede, un building da 4mila metri quadri a Scandicci

2. 3. Due immagini della storica azienda Sapaf Atelier 1954, guidata da Andrea Calistri e attiva sul mercato con il proprio brand artigianale

credo sul mercato vedremo più di una operazione che va in questa direzione, forse più salvataggi che vere e proprie aggregazioni». «Noi ci siamo mossi prima che scoppiasse la crisi - gli fa eco Stefano Giacomelli, ai vertici di Tivoli Group, un fatturato di 55 milioni di euro nel 2023, in crescita del 10% - e abbiamo deciso di ampliare e diversificare il nostro portafoglio clienti, arrivando a un totale di 12, con la prospettiva di aggiungerne altri sette a breve nella fascia upper premium e con un'incursione nel mondo degli orologi». Parallelamente è stata portata avanti anche l’acquisizione del ramo industriale di uno dei suoi storici fornitori, Dsr Firenze, specializzato nella produzione di piccola pelletteria. «Si è trattato di un investimento in un’ottica di lungo termine - spiega l’imprenditore - per integrare ulteriore capacità produttiva nella nostra filiera». Del resto, anche se per Giacomelli parlare di rilancio del distretto è ancora prematuro - «questa è la fase della difesa e della tutela» - l’unica arma a disposizione veramente efficace per salvaguardare il polo toscano è quella di tornare a investire sul prodotto in sé e per sé. «Un prodotto - precisa - meno status symbol, meno dipendente dal logo, con maggiore valore intrinseco», ovvero quel

tipo di prodotto che ha contribuito all’affermazione del made in Toscana. È d’accordo Calistri: «Quando il mercato ripartirà, a mio avviso non prima della seconda metà del 2025, lo farà su basi diverse. Le grandi griffe non fuggiranno, anzi credo completeranno la loro verticalizzazione. Ma se si vuole salvaguardare il distretto è necessario mettere aziende, istituzioni e associazioni intorno a un tavolo ed elaborare un progetto territoriale, che rimetta al centro la cultura del prodotto, negli ultimi anni sacrificato ai valori commerciali». In quest’ottica il dialogo tra pubblico e privato può costituire il punto di partenza per elaborare politiche industriali di lungo periodo che tutelino il territorio, secondo Franco Baccani, ai vertici della Scuola di Alta Pelletteria di Scandicci: «I colossi francesi sono venuti a investire qui - commenta - perché hanno trovato qualità, competitività, flessibilità. Una grande expertise costruita negli anni precedenti, che le griffe hanno assorbito in processi di filiera chiusa. Per salvaguardare il distretto con queste multinazionali bisogna dialogare e lavorare in sinergia, con l'obiettivo di tutelare quel patrimonio che ha reso il territorio un’area attrattiva per la manifattura d’eccellenza: il suo prodotto e la sua filiera». 

Claudia Sequi: «La filiera è forte. Ma servono misure straordinarie»

«Il nostro comparto, composto da circa 11.500 aziende, per un fatturato complessivo pari a circa 33 miliardi di euro l’anno, vive un momento complesso che ci porta a dover affrontare situazioni per certi aspetti inesplorate, ma non crediamo sia legato a una crisi della filiera, quanto a condizioni endogene e macro-economiche che tutte insieme hanno impattato sui consumi». Claudia Sequi, dal 2023 presidente di Assopellettieri, l’associazione della pelletteria aderente a Confindustria Moda, resta ottimista sul rilancio del distretto toscano: «Il modello funziona, la nostra filiera è forte, ci sono le competenze. Ma ci vogliono misure straordinarie per tutelarla». Dopo il Tavolo della Moda del 6 agosto scorso, Confindustria Moda ha fatto richieste precise al Governo per fronteggiare la crisi di sistema, tra cui l’estensione della cassa integrazione, una moratoria sui prestiti e il saldo e stralcio per il credito di imposta. «Naturalmente - aggiunge Sequi - oltre alle azioni per gestire l'emergenza, servono alcune politiche industriali di più ampio respiro per rilanciare il settore che rappresenta «un unicum mondiale», come lavorare sul cuneo fiscale e sul mercato del lavoro. Un ruolo di primo piano ce l'ha anche la formazione, in un momento in cui il settore fa fatica a trovare maestranze specializzate. «Bisogna cambiare la "narrazione" su queste professioni artigianali - conclude Sequi - e far capire che entrare nel mondo della pelletteria è una grande opportunità, dal punto di vista della crescita personale ed economica».

IL PUNTO DI VISTA DI ASSOPELLETTIERI

BACK TO THE FUTURE

Nicolai Marciano, il figlio 27enne di Paul, sta reinventando Guess Jeans. Diversamente da quanto stanno facendo molti marchi denim collaudati, riparte da un prodotto “duro e puro” e dallo stone washed anni ’80 degli inizi, che lui nemmeno conosceva. Guess Jeans diventa così un marchio a sé stante nella holding di famiglia ma rivisto in chiave sostenibile, meno sexy, più maschile e rivolto alla Gen Z

NICOLAI MARCIANO

• Entra in Guess nel 2014 a 17 anni

• Per due anni, guidato da Paul Marciano, esplora l’archivio dell’azienda, impara come si realizza un jeans e visita gli hub produttivi

• Nel 2016 fonda Guess Originals lavorando a fianco di A$AP Rocky

• Nel 2018 fonda Guess USA, distribuita da Slam Jam, e coinvolge artisti, creativi e musicisti

• Nel 2023 distingue nell’offerta dell’azienda Guess Jeans e inizia a gestirlo come un brand a sé

• Nel 2024 presenta il nuovo corso di Guess Jeans a Pitti Uomo

Tante aziende del settore denim stanno cercando nuovi orizzonti. Diesel segue un’attitude moda. Replay preferisce l’energia e la funzionalità dello sport. Guess sceglie una direzione diversa, riscoprendo la sua identità denim degli anni ’80. Lo fa grazie a Nicolai Marciano, figlio del cofondatore Paul e chief of new business development officer. È nato nel 1997 - 16 anni dopo la nascita di Guess nel 1981 - e la sua mission “Back to the Future”, iniziata dalla SS 2024, è strategica perché è la sfida più importante della sua carriera, la sua occasione per brillare e imprimere alla holding una direzione nuova. «Il denim è il dna del nostro marchio. È ciò da cui siamo partiti e, per me, è sempre stato qualcosa per cui nutro un enorme amore e rispetto - dice

2. Alcuni capi della collezione Guess Jeans s/s 2024

il giovane. La famiglia Marciano ha fondato Guess nel 1981 come un brand denim, che è cresciuto e si è trasformato in un total look completo dall’attitude “sexy” in grado di offrire di tutto, dagli abiti iperfemminili agli accessori, fino ai gioielli, ai profumi e molto altro ancora. Negli anni l’azienda ha fatto molti passi avanti e si è quotata in Borsa. Ha raggiunto fatturati come i 2,8 miliardi di dollari del 2024 (+3% rispetto al 2023) e un utile netto di 198 milioni (+32% su 2023). Dopo anni di crescita rallentata, l'outlook per il 2025 prevede ricavi in aumento tra l'11,5% e il 13,5%. Guess vuole tornare a raccogliere risultati importanti e lo fa con mosse inaspettate: per la prima volta nella sua storia, acquista un brand, Rag & Bone, e sceglie di rilanciare il Guess Jeans delle origini per conquistare i consumatori giovani e il mercato maschile. Nicolai Marciano si racconta a Fashion nel corso di un’intervista via web - una delle poche che rilascia -, a cui partecipa dalla sede europea di Lugano. Indossa una polo scura, leggermente over, porta i capelli cor ti e sfodera uno sguardo fiero. Risponde in maniera asciutta, andando sempre dritto al punto, come chi alle parole preferisce i fat ti. Inizia presto la sua carriera. Nel 2014, a soli 17 anni, entra in Guess per lanciare il suo marchio, ma scopre un mondo sco nosciuto fondato su caratteristiche uniche come heritage, identità e profonda compe tenza nel denim. Da subito, letteralmente, si “sporca” le mani di blu imparando tutto sul jeans, dalla produzione del denim alla progettazione fino al taglio, alla confezione e ai passaggi della lavanderia. Visita anche gli hub produttivi dell’azienda, andando in Messico, Marocco e Cina. «Per i primi due anni ho imparato le fondamenta di questo business - spiega -. Mi sono occupato di product development, produzione, lavaggi e stone wash. È stato vitale imparare tutto ciò, perché mi ha condotto fino a questo rilancio dieci anni dopo».

mentore. È molto severo, ma

è sempre stato aperto a supportare ogni nuova iniziativa»

In questo percorso ha avuto dei maestri speciali: «Paul è stato il mio mentore principale insieme, ovviamente, a chi si occupava di  denim product development in quegli anni. Lui è molto severo, ma allo stesso tempo ha sempre voluto pensare in grande, essere aperto e saper cambiare, dando sempre grande supporto a tutte le nuove iniziative dell’azienda», sottolinea, spiegando l’importanza di quella fase di formazione. «Il tempo trascorso in azienda - dice - è stato preziosissimo e ci ha permesso di sviluppare vari concetti, ottenere più risultati e por-

tare nuova energia alla società». Nel 2016 nasce Guess Originals e in seguito Guess Usa, due brand di nicchia e aspirazionali che danno ritorni commerciali e d’immagine, raggiungendo un pubblico più giovane del target medio di Guess e negozi di alta gamma, dove il brand non era mai entrato. Guess Originals è un marchio d’ispirazione streetwear creato fianco a fianco con un altro mentore, A$AP Rocky, allora rapper emergente apprezzato da Nicolai Marciano per la sua visione creativa, ma anche perché fan appassionato della Guess degli esordi:

«Guess Usa è stato il primo brand che ho fondato e che ha dato il via alla mia collaborazione con A$AP Rocky. È stata la prima prova che mi ha permesso di sviluppare un concetto di brand nuovo, oltre a conoscere e sfruttare l’archivio dell’azienda». Durante la collaborazione con il rapper Nicolai Marciano ha collaborato con vari talenti e opinion leader, che hanno impresso una direzione più fresca, benché legata alla storia del marchio. «È stata l’occasione che ha segnato l’inizio della mia carriera creativa più strategica in Guess», puntualizza. Guess Usa, nato due anni dopo, coinvolge insider dello streetwear e personalità nel mondo dell’arte, della moda e della musica, oltre a essere distribuito da Slam Jam. Dal 2023 Marciano si concentra su una strategia di segmentazione dell’universo di Guess per costruire una nuova architettura, distinguendo Guess da Guess Jeans, gestendolo come un brand distinto dalla vasta offerta della holding e ridisegnandone l’identità a partire dalle sue origini: «Pensando a cosa ha significato il denim per Guess e Guess per il denim, c’è una storia e una relazione molto forte tra loro». Durante il suo “apprendistato” ha scoperto una Guess completamente diversa da quella presente. Ha voluto far rinascere Guess Jeans dalla SS 2024 offrendo più denim, il 25% del totale, e più autentico.

Nicolai è molto sensibile alle tematiche ambientali. Per questo ha messo a punto una nuova generazione di jeans, simili a quelli delle origini, non più trattati stone wash ma realizzati in maniera più sostenibile, usando materiali organici o riciclati e trattati con Guess Airwash, una nuova tecnica svilup-

1. Iris Law è la protagonista della campagna Guess Jeans s/s 2024 (ph. Rafael Pavarotti)

pata insieme a Jeanologia, azienda esperta nel produrre trattamenti industriali. Nella storia del brand lo stone wash è stato centrale, attraverso continue innovazioni come acid wash e overdye. «Per me l’Airwash è un punto di partenza, come lo è stato lo stone wash negli anni ’80, e può tracciare una nuova l’evoluzione del settore del jeans», tiene a precisare Nicolai Marciano, enfatizzando come questa tecnica usi solo aria e richieda l’impiego di meno energia e acqua rispetto ai metodi tradizionali. Il nuovo corso è partito da Pitti Uomo di gennaio e giugno 2024, presentando due retrospettive sulla storia del brand e Airwash, in esclusiva fino a fine 2025. Per Guess Jeans Marciano ha ridisegnato l’identità del marchio a 360 gradi, attraverso una nuova collezione, nuovi negozi e campagne di comunicazione, oltre a una nuova architettura a livello di prezzi e distribuzione. La strategia che sta attuando si basa sulla segmentazione tra Guess e Guess Jeans. Quest'ultima sarà solo venduta in negozi dedicati, shop-in-the-shop e su guessje-

1. Il Guess Store di Orio al Serio, Bergamo.

2. Guess Airwash, parte della mostra “The Next 40 Years of Denim”, Amsterdam 3. Capi d’archivio esposti alla retrospettiva “The Next 40 Years of Denim” a Firenze

4. Una vetrina di Rinascente a Milano, allestita per l'apertura del pop up store Guess Jeans lo scorso luglio

«Il

denim è il dna di Guess. È ciò da cui siamo partiti e per cui nutro profondo amore e rispetto»

ans.com, rivolgendosi principalmente alla Gen Z e seguendo un approccio strategico più giovane, più democratico e accessibile. Questa direzione è evidente, come mostra la nuova campagna SS 2024, che ha come protagonisti la modella britannica Iris Law, meno esplicitamente sexy che in passato, e il calciatore Trent AlexanderArnold. La collezione offre 105 pezzi per uomo, 94 per donna e 16 accessori secondo uno stile fluido, perché molte donne acquistano volentieri anche jeans e giacche maschili. L’estetica di Guess Jeans «è molto più neutra. ‘Guess is beyond feminine’». La nuova Guess Jeans vuole raggiungere il pubblico maschile, anche attraverso un nuovo concept store. I primi due negozi creati secondo questa filosofia hanno aperto nella Spring 2024 ad Amsterdam e Berlino. Da poco ha inaugurato il primo punto vendita italiano a Orio Al Serio, Bergamo, e nei prossimi mesi altri monomarca apriranno ad Atene, in Kosovo e Dubai, oltre a flagship a Tokyo e Los Angeles nel 2025. Nell’ottobre 2023 il brand contava 1.015

monomarca Guess diretti e 544 gestiti da partner esterni: «I nuovi store sono completamente diversi da quelli già esistenti. Per questo i mariti e i fidanzati delle nostre clienti potrebbero volerle accompagnare più facilmente», ipotizza Marciano, che ha voluto che il nuovo concept seguisse una matrice californiana, utilizzasse materiali ecofriendly, come legno chiaro e arredi essenziali, oltre a ospitare una macchina laser di Jeanologia di dimensioni ridotte, per personalizzare gli acquisti.

I prezzi giocano un ruolo importante. Rivolgendosi a un consumatore più giovane, Guess Jeans si concentra su punti prezzo più bassi rispetto al passato, cioè tra 89 e 98 euro per un paio di jeans e tra 29 e 98 euro per i top. Il nuovo progetto mira in alto, concentrandosi sulla crescita. «Creeremo un’altra nuova corsia per Guess Jeans, ma non ci sarà cannibalizzazione. Mentre Guess continuerà a prosperare nella direzione in cui sta andando, Guess Jeans seguirà un percorso distinto, rivolto a un nuovo pubblico. Parlerà al consumatore uomo e metterà davvero il denim al centro», afferma l'imprenditore. Altri progetti partiranno a breve, sulla scia dell'ambizione di reinventare le origini del brand. «Questo è solo l’inizio. Ci saranno presto altri sviluppi, davvero interessanti. Siamo tornati al futuro, ma il futuro è appena cominciato», conclude Nicolai Marciano. 

PRONTI PER IL RILANCIO

Sul mercato fin dal 1951, il brand spagnolo di moda pelle fissa per gennaio 2025, in concomitanza con Pitti Uomo, un grande rilancio sul mercato internazionale del lusso. Parola d’ordine: diversificare

Standard qualitativi, di design e produzione più alti costituiscono il punto di partenza per il rilancio della marca spagnola che dal 1951 firma capi in pelle. Un rilancio fissato a gennaio 2025, in concomitanza con Pitti Uomo, che parlerà un nuovo linguaggio stilistico intorno ai binomi maglia-pelle, tessutopelle, pelle-pelle, con intrecci nappacamoscio, combinazioni nappa-pitone e nappa-coccodrillo, pelle stampata, accanto a capi dall’allure più classica. Proprio la combinazione della maglia con la pelle è stato il primo cavallo di battaglia di Torras – nata nel 1951 a Caldes de Montbui (Barcellona) – un prodotto allora inedito sul mercato internazionale, che ha permesso all’azienda di differenziarsi, posizionandosi nei mercati di quasi tutto il mondo.

Oggi le giacche Torras riscuotono successo in Stati Uniti, Canada, Russia, paesi dell’ex Unione sovietica, Sud Africa, Medio Oriente, Sud America, paesi Asiatici oltre che in tutta Europa, distribuite in oltre 200 negozi di lusso, nelle migliori città del mondo. Le collezioni vengono disegnate e progettate tra Caldes De Montbui e Milano, con la continua sinergia tra il direttore commerciale Davide Pietrolucci e la stilista Neda Domingo Rahbin, coadiuvata dal proprio team di designer, mentre la produzione è affidata a diversi stabilimenti in Spagna e in Italia.

In azienda dal 2003, Davide ha cominciato come agente per il mercato italiano con tutta la passione e gli insegnamenti trasmessi da suo padre Cav. Angelo Pietrolucci, per poi divenire Export Manager e infine direttore

commerciale, gestendo insieme alla moglie Marina Calazans il monomarca di via Manzoni e lo showroom di via Donizetti e acquisendo con lei, nel 2021, la licenza worldwide del brand.

«Siamo pronti a rilanciare il marchio basandoci su tre assi strategici: riposizionamento, design e internazionalizzazione – sottolinea Pietrolucci – attraverso standard qualitativi più elevati, quanto a materiali e rifiniture; la partecipazione alle principali fiere del settore, da Pitti Uomo a Chicago Collective, da Cpm di Mosca a Supreme di Dusseldorf o Magic Las Vegas e il potenziamento della rete vendita, aprendo showroom a Milano, Parigi, Barcellona e Stati Uniti. Quanto alla distribuzione, infine, puntiamo a espanderci nei mercati asiatico e africano e a rafforzarci in Europa, Stati Uniti e Canada», conclude il manager.

La nostra rubrica dà voce questa volta a Olivia Labella di Herno e Daniela Holnsteiner di Save the Duck. Cosa hanno in comune?

Sono donne ai vertici aziendali in ambito commerciale di marchi partiti dall'outerwear e oggi dalla vocazione lifestyle. Andiamo a conoscerle

OLIVIA LABELLA: «SI VINCE SOLO CON LA COMPETENZA»

Al collo porta una collanina con un ciondolo a forma di aereo e per Olivia Labella non potrebbe esserci gioiello più appropriato. Cinque-sei mesi l’anno li passa in viaggio, soprattutto tra il lago Maggiore e gli Stati Uniti, perché dal 2015 - oltre a ricoprire la carica di Global Sales Director di Herno - è anche ai vertici della filiale Usa. L’abbiamo incontrata a Milano, di passaggio tra un volo e l’altro, per farci raccontare il suo percorso professionale nell’azienda di Claudio Marenzi, che quasi 20 anni fa ha chiamato lei e il marito Gabriele Baldinotti (dal 2023 promosso a ceo) per rilanciare il brand di famiglia.

Lei è umbra e ha studiato da interprete. Come è arrivata a occuparsi di moda e distribuzione?

In realtà sono cresciuta tra le rocche di filo, perché i miei genitori avevano un’azienda di maglieria a Perugia. Sono da sempre appassionata di lingue straniere e viaggi e credo di avere una naturale predisposizione alla vendita. Dopo gli studi ho iniziato con delle esperienze lavorative in Umbria e successivamente mi sono trasferita a Milano per tre anni da Cruciani, dove mi sono fatta le ossa e ho imparato a vendere. Sono approdata poi a Bologna da Wp Lavori in Corso: un’esperienza di cui ho un bellissimo ricordo. Breve, ma fondamentale per la mia formazione. Breve perché è arrivato Marenzi… Ci eravamo conosciuti da Cruciani, poiché Herno era uno dei suoi clienti. «Vorrei ricreare la stessa atmosfera che c’era lì», mi disse

quando mi ha chiamata. Aveva l'idea di rilanciare il brand di famiglia e in questa avventura voleva a fianco me e mio marito. L’offerta lavorativa arrivò infatti a entrambi. Così nel 2005 lasciammo Bologna per il lago Maggiore. Iniziammo quasi da zero, perché all’epoca c’erano attivi solo una trentina di clienti nel mondo. Oggi sono 1.600. Un po’ di strada l’abbiamo fatta.

Anche perché lei è passata da export manager a global sales director e poi, a partire dal 2015, è stata promossa a presidente e ceo della filiale Usa. Non si è mai tirata indietro… L’annuncio della mia nomina ai vertici della società americana è arrivato a sorpresa anche per me, durante un pranzo con i manager dell’azienda. Ero felicissima, ma al tem-

DIETRO LE QUINTE DEL SUCCESSO

«LA PREPARAZIONE È TUTTO. BISOGNA STUDIARE E COSTRUIRE LA PROPRIA COMPETENZA

GIORNO PER GIORNO» 

«METTERSI IN GIOCO E NON MOLLARE LA PRESA SUI PROPRI OBIETTIVI»

«SFRUTTARE LE COSIDDETTE SOFT SKILL: INTUITO E SENSIBILITÀ SONO UN VALORE AGGIUNTO»

po stesso consapevole di dovermi esporre su un terreno a me non familiare. Ho studiato tantissimo per riempire il gap e cercato di meritarmi il ruolo - e anche di difenderlo, soprattutto all’inizio - costruendo con impegno le competenze necessarie. Il fatto di essere donna è stato un deterrente?

Claudio Marenzi mi ha dato fiducia e ha creduto in me, nonostante le mie carenze iniziali. Nel mio caso il genere non ha compromesso nulla. Spesso alle donne viene rimproverata una certa emotività, che però fa pendant anche con la sensibilità, a mio avviso un grande punto di forza. Dopo il Covid, con guerre, inflazione alle stelle, calo dei consumi, il nostro settore è stato messo a dura prova e la capacità di inquadrare velocemente la situazione per rispondere con strategie adeguate è diventata ancora più essenziale, un vero punto di forza.

Da giocarsi anche nella relazione con i partner commerciali…

La negoziazione con i clienti, in primis dello spazio da ottenere all’interno delle loro superfici di vendita, è la parte più stimolante del mio lavoro. Collaboriamo con i negozi più belli del mondo e da qualche anno il nostro brand di capispalla si è trasformato in un marchio lifestyle: conquistare posizioni valorizzanti per dare il giusto risalto a Herno nei department store è una sfida. La vivo come una partita a scacchi. Le carte in tavola cambiano di continuo e bisogna essere veloci a intuire come relazionarsi e quale strategia scegliere, sperimentando anche nuove soluzioni.

Come si portano a casa i successi?

Si vince solo con la competenza. E con il coraggio di mettersi in gioco. “Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere”, aveva scritto Sergio Marchionne ai suoi dipendenti. Anch’io ne sono convinta. L’approccio può davvero cambiare il risultato. 

Una proposta Herno FW 2024

DANIELA HOLNSTEINER: «LA FEMMINILITÀ NON È NEMICA DELLA CARRIERA»

Bavarese di origine, studi in marketing e comunicazione, ha iniziato da Hugo Boss e poi ha fatto le valigie per l'Italia, dove ha trovato la propria strada, ma anche stereotipi e disparità di genere.

Oggi è International Commercial Director di Save The Duck e a chi inizia consiglia: «Uscite dalla vostra comfort zone e prendetevi dei rischi»

Quando

è arrivata nel nostro Paese nel 2003, con un permesso di soggiorno valido fino al 2012, pensava che il problema del rinnovo non si sarebbe mai presentato. E invece, a distanza di 20 anni, vita privata e professionale di Daniela Holnsteiner hanno messo radici tra Firenze, dove vive con la famiglia, e Milano, sede di Save The Duck, di cui è International Commercial Director. «Adoro l’Italia e il calore delle persone», racconta iniziando a parlare del suo percorso professionale, ma ammette che quando ha mosso i primi passi nel mondo del lavoro in Italia, «è stato uno shock». Figlia di un’imprenditrice a capo di una sartoria - una donna emancipata, che ha tirato su da sola due figli e che le ha inculcato l’idea di «non dover mai dipendere da un uomo» - Holnsteiner si è scontrata spesso con ambienti penalizzanti per le donne che ambiscono a posizioni dirigenziali, dove «per farsi rispettare bisognava essere sempre over-performanti». Della sua esperienza ricorda che fortunatamente non è stata toccata dal cosiddetto gender gap, perché in quanto straniera veniva considerata un po’ un’outsider, sottraendola così a categorie stereotipate e permettendole di costruirsi la propria professionalità senza snaturarsi. «Ho sempre pensato che in posizioni di leadership sia sbagliato scimmiottare modelli maschili, con il rischio di perdere la propria femminilità - osserva -. Anche oggi cerco di trasmettere questa idea al mio team. Si può fare carriera, seppur questo termine non mi piaccia, senza rinunciare ai figli. L’uno non esclude l’altro, sebbene l’organizzazione e il bilanciamento con la vita privata siano difficili». Quando arrivò l’offerta di Save The Duck nel 2014, «la motivazione era alle stelle», ma questa era la “condizione” per far parte della squadra: una gestione flessibile del lavoro, per far conciliare l’incarico con la crescita di un bambino di poco più di

LA MISSION PER SAVE THE DUCK

FAR CONOSCERE, TRAMITE I NEGOZI, IL DNA DEL MARCHIO, OGGI UN LIFESTYLE BRAND CON NUOVE CATEGORIE DI PRODOTTO

ADOTTARE UNA FILOSOFIA MULTICANALE, CON UN FOCUS SUL RETAIL, SIA FISICO CHE DIGITALE

AMPLIARE IL RAGGIO D'AZIONE DEL BRAND, CONSOLIDANDO MERCATI IN CRESCITA COME USA E GIAPPONE

In alto, un ritratto della manager. Prima di insediarsi da Save The Duck, Holnsteiner ha fatto esperienze da Hugo Boss e Peuterey. A sinistra, alcune proposte firmate Save The Duck Fall-Winter 2024

due anni. «L’apertura di Nicolas Bargi su questo fronte è sempre stata totale - aggiunge -. Basti pensare che in azienda il 50% dei ruoli apicali è occupato da donne, cinque su dieci dirigenti, e anche tra i manager la quota femminile è in netta maggioranza». Eppure non è sempre tutto rose e fiori: «Andando in giro per il mondo - precisa - mi scontro ancora con mentalità dal retaggio tradizionalista, dove le donne non riescono ad affrancarsi da posizioni subalterne». Nonostante la strada con qualche tratto in salita, Holnsteiner negli ultimi dieci anni ha contribuito a portare il marchio in 44 Paesi, facendo lievitare l’export al 65% del giro d’affari: «La nostra grande sfida è trasformare un marchio 100% animal free di outerwear, dalle performance eccellenti sul fronte dei valori Esg, in un lifestyle brand, veicolandolo non più solo attraverso il wholesale ma con una strategia multicanale, dove il retail recita un ruolo di primo piano». «Siamo partiti piccoli, ma siamo ambiziosi - conclude -. E nel 2025 puntiamo a tagliare il traguardo dei 75 milioni di euro di fatturato». 

Alexander Werz «ECCO PERCHÉ I LEGAMI FORTI VALGONO PIÙ DEL CAPITALE»

Protagonista della rubrica dedicata a chi si è mosso dal mondo della moda per esplorare nuove avventure in ambito lifestyle è il ceo di Karla Otto, che ha lanciato un nuovo progetto tutto suo: una linea wellness, che aiuta a trovare il giusto “work-life balance”

«Per me spirito imprenditoriale, ha sempre significato una sola cosa: voglia di fare. E questa voglia l’ho sempre avuta, anche quando si trattava di far crescere e promuovere i progetti di altri», racconta Alexander Werz, ceo di Karla Otto, ma meglio sarebbe definirlo come uno spirito curioso e tenace che guidando la nota agenzia internazionale ha contribuito alla riuscita di tante realtà nel mondo della moda e del lusso, comprese alcune startup (poi esplose) come Off-White e Ami, solo per citarne alcune. Questa volta, il suo ultimo exploit è un’iniziativa che lo vede coinvolto in prima persona, in qualità di fondatore del brand beauty AWvi - pronunciato “A-vi” -, di cui cura anche la strategia di comunicazione e immagine. La storia di Werz e di AWvi è quella di una avventura che ha sul biglietto da visita un apparente ossimoro: voglia di lavorare e piacere di vivere. «L’idea di lanciarmi in questo progetto – racconta Werz - è nata nei tempi duri del Covid e il fatto che dopo tre anni si sia concretizzata, grazie l’aiuto di un dream team di amici e professionisti rende questa una storia di ottimismo e fiducia nel futuro».

Ci racconti di più...

Tutto è partito da due amici, entrambi ex top exercutive di Lvmh, Jean-Michel Vigneau e Cyrille Callari: sono stati loro a motivarmi. «Con tutta la tua esperienza e i contatti, perché non hai mai pensato do fare una cosa tutta tua?», mi dicevano. Le loro attese erano per un progetto moda, settore che tutti noi conoscevamo a fondo. D’altronde io nella mia vita ho sempre fatto questo: già a 12 anni sognavo di andare a vivere a Parigi e occuparmi di moda. E invece, quando si è

trattato di valutare se lanciare o no una startup, ho sentito che dovevo impegnarmi in qualcosa di diverso, di “consistent”. Cercavo qualcosa che favorisse un buon work-life balance. Ho messo insieme sei elementi che mi rappresentavano (sonno, alimentazione, movimento, natura, passione e relazioni) e ho detto ai miei amici: «Mi piacerebbe fare qualcosa in grado di favorire un comportamento attivo e creare un marchio, che mette insieme integratori e prodotti di bellezza”.

6

pilastri

che rappresentano

il cuore del brand AWvi: sonno, nutrizione, movimento, natura, passioni e le relazioni, vera forza del business

Da lì abbiamo iniziato a fare brainstorming su come avrebbe dovuto essere, anche perché si trattava di qualcosa che a mio avviso sul mercato non c’era. A quel punto è entrato nel progetto Giacomo Santus, che è un biochemist di primo piano e ha definito la formula innovativa AWvi. Tre anni dopo siamo arrivati sul mercato.

Oltre a due manager di Lvmh, del dream team di AWvi fanno parte anche l’ex ceo del brand Susanne Kaufmann, il fondatore dell’agenzia creativa The Sunshine Company e la fondatrice della catena di negozi Space NK. Per non parlare della lista degli investitori che sostengono il progetto. Tutti nomi di primo piano, compresa Karla Otto… Sono davvero soddisfatto delle relazioni create intorno all’iniziativa. È sorprendente scoprire che personaggi così interessanti e con tanta esperienza siano ancora curiosi e sappiano ascoltare, accettando di far parte, chi in veste operativa e chi come investitore, di questa startup. Non c’è dubbio, AWvi non esisterebbe senza le relazioni.

Eppure questo è un aspetto tante volte ritenuto utile, ma non determinante… Invece è una vera forza del business. Non è solo questione di trovare contatti, si tratta piuttosto di coltivare relazioni ricche di comprensione e autenticità. È così che nascono opportunità inaspettate. La mia vita è costellata di esempi, come con il lancio di Ami. Conobbi Alexandre Mattiussi a una cena dove tutti si chiamavano Alessandro, diventammo amici e quando prese la decisione di dar vita al suo brand proprio fu sostenuto dalle persone che lo circondavano, me incluso, ognuno con il suo investimento, che non era solo economico ma di interesse. Benessere, stile di vita, equilibrio vita-lavoro, alimentazione corretta, disciplina, scienza, arricchimento spirituale. Il “mercato” per AWvi sembra avere margini infiniti... È vero, sono ansioso di espandere la linea ad altre categorie, specie alla cura dei capelli. Ma ho anche in mente un progetto più forte, sempre legato al work life balance e alla natura che entra in città. Con il mio amico Derek Castiglioni (noto Outdoor Space Designer, ndr) abbiamo acquistato un giardino appena fuori Milano e vogliamo trasformarlo in qualcosa di nuovo. Non so esattamente cosa diventerà: non sarà un luogo dove tagliare le rose e raccogliere i fiori, ma qualcosa di più dinamico, in linea con la mia natura. Penso a un orto, alla collaborazione tra amici per la coltivazione, forse alla vendita dei prodotti… Se AWvi diventasse qualcosa di grosso, potrebbe pensare a un cambio di carriera?

Amo fare tante cose e continuerò su questa strada, ma una cosa è certa: continuerò a impegnarmi al 200% in Karla Otto. 

INNOVAZIONE TECNICA E AMBIENTALE PER RACCONTARE UNA STORIA DI 130 ANNI

La sostenibilità come vantaggio competitivo e una costante capacità innovativa: questi i due asset del produttore lucchese di fibrati per l’industria calzaturiera, già proiettato verso nuovi progetti

Bartoli spa, con una storia di oltre 130 anni, ha le sue origini a Villa Basilica, una località rinomata per la produzione di carta sin dal XIV secolo. Fondata da Giuseppe Bartoli alla fine del 1800, l’azienda ha iniziato con la produzione di carta asciugata all’aria, per poi trasferirsi a Lucca nel Dopoguerra. Oggi, Bartoli è una realtà moderna e innovativa, leader nella produzione di cartoni fibrati per calzature, collaborando con prestigiose maison di moda con un export in oltre 80 paesi. L’azienda conta circa 80 dipendenti e produce interamente in Italia, distinguendosi per la qualità e sostenibilità delle sue soluzioni, con un forte impegno nell’utilizzo di materie prime riciclate provenienti da filiere certificate. In collaborazione con Intertek, ha implementato un rigoroso protocollo per il controllo delle sostanze chimiche nelle materie prime e nei prodotti finiti, garantendo sicurezza per la filiera e per il consumatore finale nel rispetto delle normative internazionali così come delle più rigorose RSL dei marchi. Un pilastro del successo di Bartoli è l’innovazione continua, che investe sia nei

processi produttivi che nei prodotti. Alla recente edizione di Lineapelle, l’azienda ha presentato una novità per il settore calzaturiero: una versione ampliata della sua linea Duralite®, concepita per offrire una maggiore resistenza nei sottopiedi senza lamina, ideale per le maison che già apprezzano questa gamma. Duralite natural® e HD natural® sono composti da fibre impregnate in resine naturali, studiati per fornire elasticità, rigidità e una maggiore tenuta del tacco della calzatura, con eccellenti prestazioni nella lavorabilità e durata nel tempo. Inoltre, Bartoli prevede

di integrare Duralite® nel progetto di recupero degli sfidi di lavorazione, rendendo l’intera gamma di cartoni completamente riciclabile.

Bartoli spa. si espande anche nel settore del luxury packaging, presentando Infinity RePROJECT®, una collezione di cartoni riciclati e riciclabili, realizzati con una speciale finitura in rilievo. Questo prodotto, elegante e resistente, unico nel suo genere rappresenta una soluzione ecocompatibile in linea con le direttive europee sul riciclo e l’ecodesign. La collezione è stata presentata anche alla fiera FachPack di Norimberga, a settembre, e al prossimo Ecomondo, a novembre.

L’azienda, nonostante i 130 anni di storia e il consolidamento come leader nel settore dei cartoni per sottopiedi, continua a guardare avanti, riconoscendo le opportunità di crescita grazie alla sua filosofia orientata alla sostenibilità -si veda il recente aggiornamento del Report di sostenibilità-. Il suo impegno nella creazione di valore non solo ambientale apre alla costruzione di partnership su progetti innovativi con aziende che condividono la stessa visione di cambiamento.

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