Magazzino di Filosofia n. 21/2012: C7/STRUMENTI

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magazzino di filosofia quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia n째 21, anno VII, 2012/13 (C7): s t r u m e n t i (peer review)


M a g a z z i n o d i F i l o s o f i a Quadrimestrale di informazione, bilancio ed esercizio della filosofia *Direttore responsabile: Alfredo Marini (Pavia) *Redazione: Cristina Boracchi (Gallarate), Gianvito Brindisi (Napoli), Riccardo Lazzari (Milano), Simone L. Maestrone (Bonn), Alfredo Marini (Milano), Massimo Mezzanzanica (Milano), Claudio Paravati (Verona), Alessandra Rauti (Milano), Giacomo Rinaldi (Urbino), Erasmo S. Storace (Milano), Franco Sarcinelli (Milano), Roberto Valentini (Milano), Fabio A. Volontè (Varese), Alessandra Zambelli (Parigi) *Comitato di consulenza e direzione scientifico-editoriale: Gaetano Carlizzi (Napoli), Luigi Ceccarini (Milano), Giorgio Galli (Milano), Franco Gallo (Crema), Lorenzo Giacomini (Milano), Santino Maletta (Cosenza), Carlo Montaleone (Milano), Renato Pettoello (Milano), Valeria Pinto (Napoli) *Comitato scientifico: Laura Boella (Milano), Francesca Bonicalzi (Bergamo), Claudio Bonvecchio (Varese), Silvana Borutti (Pavia), Ronald Bruzina (Lexington, Ky), Giuseppe Cacciatore (Napoli), Giuseppe Cantillo (Napoli), Renato Cristin (Trieste), Gianfranco Dalmasso (Bergamo), Bianca Maria d’Ippolito (Salerno), Dimitri Ginev (Sofia), Elio Franzini (Milano), Giulio Giorello (Milano), Klaus Held (Wuppertal), Hans-Ulrich Lessing (Bochum), Giovanni Piana (Cosenza), Stefano Poggi (Firenze), Frithjof Rodi (Bochum), Gianni Scalia (Bologna), Franz-Anton Schwarz (Freiburg i. Br.), Corrado Sinigaglia (Milano), Guy van Kerckhoven (Bruxelles/ Bochum), Augusta Uccelli (Milano), Mario Vegetti (Pavia), Stefano Zecchi (Milano). *Collaboratori: Sergio Audano (Chiavari), Luigi Azzariti-Fumaroli (Napoli), Jan Bednarich (Gorizia), Fiorenza Bevilacqua (Milano), Pierpaolo Casarin (Milano), Flavio Cassinari✝ (Pavia), Alfredo Civita (Milano), Andrea Cudin (Trieste), Carmine Di Martino (Milano), Miriam Franchella (Milano), Andrea Gilardoni (Milano), Sergio Levi (Milano), Pier Giuseppe Milanesi (Pavia), Walter Minella (Pavia), Luca & Mirela Oliva (Chestnut Hill, Ma.), Fabrizio Palombi (Roma), Emilio Renzi (Milano), Lina Rizzoli (Milano), Amedeo Vigorelli (Milano), Paolo Volontè (Milano). *Recapiti: email: info@filosofiacontemporanea.it; Associazione P.E.M, via Emilia 24, I27100 Pavia (PV), tel.: +39.0382.475098; e-mail: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com; “Riccardo Lazzari” rlazzari@tin.it; “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Rubrica “Aggiornamenti”, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Erasmo S. Storace” <Erasmo.storace@alice.it>. *SCHEDE e RECENSIONI, inviare a: Riccardo Lazzari <rlazzari@tin.it>/ o: “Massimo Mezzanzanica” <massimo.mezzanzanica@gmail.com>. *Leggi nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic su “Expand”). *Acquista copie cartacee dei nn. correnti sul Sito www.filosofiacontemporanea.it (clic sulla copertina, poi su “Copie Cartacee”). Print on demand di YOUCANPRINT (tel. 0833.772652, email: servizioclienti@youcanprint.it). *Leggi una selezione dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) sul Sito www.francoangeli.it (clic su “Riviste”, o telefona all’Ufficio Riviste, tel. 02 2837141). *Acquista le copie cartacee dei nn. arretrati (anni 2001/10, nn. 1-18) con email a: “Alfredo Marini” eawqmbis@gmail.com. *Autorizz. del Tribunale di Pavia n. 508 del 14.04.2000, Quadrimestrale elettr., Dir. resp.: Alfredo Marini. Print on demand presso YOUCANPRINT (Lecce). III° quadrimestre 2012 – Finito di stampare nel febbraio 2013.


verum ipsum factum

Sommario SCHEDE ESSENZIALI (187-198)

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LETTURE – RECENSIONI

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Fabio Landi, Il ‘Doktor Faustus’ di Th. Mann

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FILOSOFIA & TEOLOGIA Luigi Ceccarini, Gesù, il Cristo

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Storia della Medicina Antica Silvia Gastaldi presenta un testo di Paola E. Manuli, Fisiologia e patologia del femminile negli scritti ippocratici dell'antica ginecologia greca

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Giacomo Rinaldi, Attualità dell’Idealismo attuale. Hegel e Gentile

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IDENTITÀ E TERRITORIO Eugenio Pesci, Estetica del paesaggio e identità dei luoghi: le Alpi, un laboratorio concettuale

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Chiuso in redazione il 13.02.2013 da Alfredo Marini


Rivista finanziata dalla

Fondazione Banca del Monte di Lombardia

Print on demand a cura della casa ed. Youcanprint ISBN: 978-88-91108-06-7 ISSN: 1592-5919

Questa rivista prodotta in collaborazione con l’“Istituto Italiano per gli Studi Filosofici” di Napoli, esce per l’“Istituto Lombardo di Studi Filosofici e Giuridici”, ora “Istituto Filosofico Lombardo presso la Società Umanitaria” di Milano ed è espressione della ASSOCIAZIONE P.E.M. – MEDICINA ANTICA & SCIENZE UMANE (Pavia) (prof. Alfredo Marini, via Emilia 24, I-27100 Pavia <PV>, cell. 328.3208089)


SCHEDE ESSENZIALI (187-198)

187. Jacques Lacan, Dei Nomi-del-Padre. Il trionfo della religione, Einaudi, Torino 2006, p. 117 (a) Jacques Lacan (Parigi, 1901-1981) è stato una delle figure di spicco della psicoanalisi e del pensiero strutturalistico. Svolse gli studi di medicina a Parigi specializzandosi in psichiatria. Sotto la guida di Gaetan Gatian de Clérambault, noto per le sue ricerche sull’automatismo mentale, preparò la sua tesi, discussa nel 1932, su La psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, che venne accolta con interesse negli ambienti del surrealismo e in particolare da Salvador Dalì. Dal 1936 al 1939 seguì le lezioni sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel tenute da Alexandre Kojève all’École pratique des hautes études di Parigi e entrò in contatto con alcuni dei più importanti pensatori e artisti del suo tempo, da Claude Lévi-Strauss a Georges Bataille, da Jean Hyppolite e Maurice Merleau-Ponty ai surrealisti. Dopo avere iniziato, nel 1932, la propria analisi personale con Rudolph Loewenstein (interrotta nel 1938 a causa del rapporto conflittuale con il suo analista, una delle personalità di spicco della psicoanalisi ufficiale francese dell’epoca), nel 1934 Lacan rinunciò alla nomina come primario ospedaliero e venne ammesso come membro iscritto alla Societé Psychanalitique di Parigi. Nello stesso anno si sposò con Marie Louise Blondin, sorella di un chirurgo suo collega, dalla quale avrebbe avuto tre figli, Caroline, Thibaut e Sibille, e da cui si sarebbe separato dopo l’incontro, nel 1938, con Sylvia Maklès, già moglie di Bataille. Nel 1936 presentò al congresso internazionale di psicoanalisi, svoltosi a Marienbad, la comunicazione su Lo stadio dello specchio, che non poté portare a termine perché interrotto da Ernst Jones, in disaccordo con le tesi da lui esposte. Questa comunicazione sarebbe poi stata ripresentata, in versione ampliata, in un congresso del 1949, con il titolo Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’“io”. Nel 1937 Lacan si interessò agli studi di Melanie Klein sulla relazione oggettuale nel bambino. Nel 1941, dall’unione con Sylvia Maklès Bataille, nacque la figlia Judith, che non avrebbe potuto portare il nome del padre perché la madre, ebrea, era rimasta formalmente sposata con Georges Bataille per non perdere la protezione derivante da un matrimonio con un non ebreo. Nel 1953 si distaccò dalla Societé Psychanalytique e fondò la Societé française de Psychanalyse. A questi anni risale lo studio della linguistica di Ferdinand de Saussure e dell’antropologia di Claude Lévi-Strauss. Nel 1955, grazie alla mediazione di Jean Beaufret, Lacan incontrò Martin Heidegger. Nel 1964, dopo 5


la messa al bando della teoria lacaniana da parte della International Psychoanalitic Association, fondò l’École freudienne de Paris e, nel 1968, il suo organo, la rivista “Scilicet”. Dal 1953 al 1980 tenne i celebri Seminari, dapprima all’ospedale SainteAnne, poi, a partire dal 1964, grazie alla mediazione di Louis Althusser, all’Ecole normale superieure, e infine presso il Dipartimento dell’Università Paris-VIII. (b) In questo volume, sotto il titolo Dei-Nomi-del-Padre, sono raccolti dal curatore, Jacques-Alain Miller, due testi di Lacan che all’apparenza trattano argomenti eterogenei. Il primo, intitolato Il simbolico, l’immaginario e il reale, è il testo di una conferenza tenuta l’8 luglio 1953, in cui Lacan presenta per la prima volta la triade concettuale che costituirà l’asse portante della sua successiva elaborazione teorica. Il secondo, Introduzione ai Nomi-del-Padre, costituisce la prima e unica lezione, tenuta il 20 novembre 1963, del seminario dal titolo omonimo, interrotto in seguito alla decadenza di Lacan dal rango di “didatta” (lo psicoanalista abilitato a formare altri psicoanalisti) della Societé française de Psychanalyse, e poi ripreso nel 1964 con il titolo I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Entrambi i testi si collocano in momenti cruciali, tanto dal punto di vista dell’elaborazione teorica di Lacan quanto da quello del suo rapporto con l’istituzione psicoanalitica. Il primo risale agli anni in cui Lacan elabora la nozione di simbolico e ripensa l’alienazione del soggetto, situandola non più in rapporto alle sue identificazioni immaginarie, ma al suo inserimento nell’ordine simbolico del linguaggio. Esso si colloca a ridosso dell’elaborazione del testo su Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), che svolge un ruolo centrale in questa nuova fase. Il secondo risale all’inizio degli anni sessanta, quando Lacan elabora la nozione di sinthomo (sinthome), che, diversamente dal sintomo (symptôme) non è un segno che rinvia a un senso inconscio, ma una cifra del persistere nella psiche di un elemento pulsionale che non si lascia inserire nell’ordine del simbolico, e che rappresenta una dimensione che permette di connettere il simbolico, l’immaginario e il reale. Su questa base, nel seminario su L’etica della psicoanalisi, Lacan stabilisce un’opposizione tra le nozioni di desiderio e di godimento e propone una nuova concezione del soggetto, pensato non più in base alle sue identificazioni al livello dell’immaginario o in base al suo collocarsi all’interno dell’ordine simbolico, ma partire da una mancanza originaria. Come osserva Jacques-Alain Miller, questi due testi sono stati accostati non solo per ragioni storiche, ma anche tenendo conto di un’indicazione dello stesso Lacan, secondo cui “il simbolico, l’immaginario e il reale sono i veri Nomi-del-Padre” (p. 4). Oltre a quelli già menzionati, l’edizione italiana riporta altri due testi, che trattano temi per certi versi affini: Il trionfo della religione, trascrizione di una conferenza stampa del 1974 al Centre culturel français di Roma, il cui tema centrale è quello del rapporto tra scienza, religione e psicoanalisi; e il Discorso ai cattolici, che raccoglie due conferenze tenute nel 1960 presso le Facoltà universitarie di SaintLouis dell’Arcivescovado di Malines-Bruxelles, in cui Lacan tratta il tema dell’etica della psicoanalisi. (c) Come afferma lo stesso Lacan, il testo su Il simbolico, l’immaginario e il reale può essere letto come un’introduzione a un orientamento della psicoanalisi basato sul “ritorno ai testi freudiani”, nella convinzione che “non c’è presa più totale della realtà umana di quella compiuta dall’esperienza freudiana” (p. 5). Una delle que6


stioni discusse in questo testo – in cui Lacan formula la propria concezione fondamentale per cui i “registri essenziali” della realtà umana sono il simbolico, l’immaginario e il reale – è quella relativa allo status della psicoanalisi e alla natura dell’esperienza analitica, “questa esperienza che si svolge interamente in parole” (p. 7). Interrogarsi circa l’essenza della parola, ovvero del simbolo, significa per Lacan porre la questione dell’esperienza analitica. Ciò che accade anzitutto in questa esperienza è un’“allucinazione” del proprio mondo da parte del soggetto, allucinazione che rinvia alla categoria dell’immaginario, definita qui attraverso la nozione di “spostamento”: “Noi assumiamo che un comportamento può diventare immaginario quando il suo orientamento su delle immagini e il suo proprio valore di immagine per un altro soggetto lo rendono suscettibile di spostamento al di fuori del ciclo che assicura la soddisfazione di un bisogno naturale” (p. 11). Se nell’analisi si ha a che fare costantemente “con fantasmi” (ivi), l’ambito dell’analizzabile non è però tanto quello dell’immaginario quanto quello del simbolico. Un fenomeno è analizzabile “solo se rappresenta un’altra cosa da se stesso” (p. 12), ovvero se ha una natura simbolica; nello “scambio analitico” si tratta sempre di simboli fungenti in base all’articolazione tra significante e significato, che rappresenta la struttura stessa del linguaggio. Se, come afferma Freud nell’Interpretazione dei sogni, il sogno è paragonabile a un rebus, ogni sintomo esprime “qualcosa di organizzato e strutturato come un linguaggio”, cioè è “plurivoco, sovrapposto, sovradeterminato” (p. 13). Dato che nei sintomi del nevrotico la parola è “imbavagliata” ed esprime anzitutto il registro delle “resistenze”, scopo dell’analisi è di spostare la relazione sul piano del simbolico, di “realizzare il simbolo”, al di là della tendenza del soggetto analizzato a restare sul piano dell’immaginario, tentando di fare entrare l’analista nel proprio gioco. Appare qui ciò che per Lacan distingue il simbolo dal mero segno, cioè la sua “funzione interumana”, per cui la parola è in grado di trasformare i partner di un dialogo. Compito dell’analista è di distinguere nel corso dell’analisi i tre livelli del simbolico, dell’immaginario e del reale, che nel discorso del paziente si presentano uniti. All’interno del campo del simbolico, nel corso degli anni cinquanta, Lacan attribuisce una posizione centrale alla funzione del “Nome-del-Padre”. Grazie al valore di interdizione di tale funzione, nella fase edipica, il bambino rinuncia ad essere l’oggetto del desiderio della madre, e il padre reale diventa il padre simbolico, il significante Nome-del-Padre: un significante cardine, in rapporto a cui si struttura l’intero ordine del simbolico, della legge e della cultura. È nell’incontro con la legge del padre e con la dimensione del linguaggio che secondo Lacan si articola il passaggio dall’immaginario al simbolico, dal bisogno primario e pulsionale al desiderio. È inoltre alla “preclusione” (forclusion) del Nome-del-Padre, cioè al mancato distacco dall’assoggettamento immaginario alla madre tramite la sostituzione del significante originario (il desiderio della madre) con la metafora paterna, che Lacan attribuisce l’origine della psicosi. Nell’Introduzione ai Nomi-del-Padre Lacan passa dalla forma singolare “Nome-del-Padre” alla forma plurale “Nomi-del-Padre”, un passaggio che egli chiarirà solo nel corso dell’ulteriore sviluppo del suo pensiero. Dopo avere spiegato che il Nome-del-Padre, essendo un supporto della funzione simbolica, ha la funzione di sintomo, Lacan affermerà che tutti i sintomi, in quanto hanno la funzione di orientare e localizzare il godimento, possono essere metafore, Nomi-del-Padre. Nella varietà di motivi che si concentrano in questo testo – l’angoscia, il desiderio, la voce dell’Altro e il nome proprio – svolge un ruolo cen7


trale la questione teologica del Nome di Dio. Se la nevrosi è “inseparabile da una fuga dinanzi al desiderio del padre, al quale il soggetto sostituisce la sua domanda”, e se il misticismo è “un tuffo nel godimento di Dio”, la “traccia” del misticismo ebraico, che si ritrova nell’amore cristiano e nella nevrosi è “l’incidenza del desiderio di Dio” (p. 45). Il Dio che si annuncia a Abramo, Isacco e Giacobbe sotto il Nome di El Shaddai non è il fondamento dell’Essere o l’Onnipotente, ma “colui che elegge, colui che promette e che fa passare attraverso il suo nome una certa alleanza” (p. 49). Questi sviluppi dell’elaborazione teorica lacaniana danno rilievo alla questione del rapporto tra psicoanalisi e religione. Di fronte all’estensione del reale, cioè di “ciò che non funziona” (p. 97), e agli effetti angoscianti della scienza moderna, la religione, afferma Lacan nel testo intitolato Il trionfo della religione, trionferà sulla psicoanalisi in virtù della sua capacità di dar senso al reale e di far fronte alle sue angosce. Mentre la psicoanalisi è un “sintomo”, la religione è infatti capacità di “dare un senso a qualunque cosa” (p. 98). “Per un breve momento – dice Lacan – ci si è potuti render conto di che cosa sia l’intrusione del reale. L’analista è fermo lì. Rimane lì come un sintomo. Non può durare se non a titolo di sintomo. Ma vedrete che si guarirà l’umanità dalla psicoanalisi. A forza di annegarla nel senso, nel senso religioso beninteso, si arriverà a rimuovere questo sintomo” (p. 100). (Massimo Mezzanzanica) 188. Fabrizio Palombi, Jacques Lacan, Carocci, Roma 2009, p. 200. (a) Fabrizio Palombi si è formato presso le Università degli Studi di Milano e di Torino, articolando la propria ricerca tra teoria della conoscenza, fenomenologia e psicoanalisi. Allievo del matematico e fenomenologo Gian-Carlo Rota, ha curato le edizioni italiane e inglese dei suoi scritti (Garzanti 1993, Birkäuser 1997 e Città del Sole 1999) e gli atti del convegno internazionale a lui dedicato (Springer 2009). È autore di numerosi saggi di carattere teoretico e di due altre monografie intitolate Il legame instabile. Attualità del dibattito psicoanalisi-scienza (FrancoAngeli 2002) e La stella e l'intero. La ricerca di Gian-Carlo Rota tra fenomenologia e matematica (Bollati Boringhieri 2003 e CRC 2011). Palombi è stato Profesor Invitado della Universidad de La Habana, Visiting Professor del Massachusetts Institute of Technology e attualmente è docente di Epistemologia delle scienze umane e sociali presso l’Università della Calabria e l’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali, membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Filosofia Teoretica e dello Husserl Circle. (b) Jacques Lacan, nato nel 1901 e morto nel 1981, è stato uno psicoanalista parigino che ha segnato in maniera profonda la cultura francese del Novecento. La sua avventura intellettuale inizia sullo sfondo della faticosa penetrazione della psicoanalisi in Francia, quando il clima culturale, influenzato dal nazionalismo, non sembra aperto alle produzioni culturali di lingua tedesca. Un’ulteriore difficolta è costituita dall’impostazione psichiatrica e organicistica che rappresenta, nei primi decenni del Novecento, il modello egemone per la cura delle patologie mentali, che importanti scoperte scientifiche, come la scoperta dei sintomi nevrotici da parte di Pierre Janet nel 1913, contribuiscono a scalfire. 8


La psicoanalisi, nuovo campo teorico e metodologico, si fa strada secondo due orientamenti che possiamo rispettivamente definire medico e intellettuale; il primo intende la teoria freudiana come una branca delle scienze naturali, mentre il secondo rivendica un cambiamento radicale nella prospettiva della cura, prospettando un orizzonte di studi che s’intersechi con l’arte e le scienze umane. Un contesto scientifico complesso che si trascina per alcuni decenni, in cui i dissidi teorici non possono non generare seri problemi di ordine pratico: quale formazione per gli analisti? Quali criteri selettivi per analisti e didatti? Su quali basi impostare le sedute? Jacques Lacan, dopo la seconda guerra mondiale, diventa un protagonista di questo confronto, capeggia conflitti e scissioni interne, conduce un’importante insegnamento seminariale, conosce i più importanti intellettuali del tempo, produce una grande quantità di articoli teorici e, infine, fonda una propria scuola psicoanalitica. (c) La monografia di Fabrizio Palombi ci offre un filo da seguire nella matassa, apparentemente indistricabile, della produzione scritta e seminariale di Lacan. L’oscurità del suo stile è proverbiale, ed è, insieme alla sua personalità carismatica ed eccentrica, la ragione delle reazioni di iniziale sconcerto del lettore dei testi lacaniani. In una prospettiva di comprensione filosofica, che evita agiografie e censure, il saggio di Palombi costituisce uno strumento, utile sia ai neofiti sia agli esperti, per seguire l’evoluzione del pensiero di Lacan. Dietro l’apparente incomprensibilità del testo lacaniano si cela la dinamica, sempre nuova, che permette l’interazione con il lettore e il paziente. Per questo la monografia dedica una consistente e articolata trattazione alla questione dello stile lacaniano, alla decifrazione di citazioni nascoste, alla ricostruzione dei criptici riferimenti teorici e all’analisi critica delle scelte lessicali. L’autore propone una mappa dettagliata della ricerca lacaniana, senza timore d’affrontare anche gli snodi concettuali più ostici, spesso evitati dalle letture introduttive, per ricostruire l’evoluzione teorica di Lacan e seguire le sue incursioni nei più diversi campi del sapere. Il volume esamina l’utilizzo che Lacan fa della topologia e di alcuni principi dell’ottica, che generano concezioni psicoanalitiche e culturali innovative. Inoltre, la fase finale della ricerca lacaniana, nella quale Lacan si dedica alla teoria matematica dei nodi e alle tecniche narrative di James Joyce, viene trattata, a differenza della interpretazione consolidata, da una prospettiva tesa al riconoscimento di importanti elementi di continuità con il resto della ricerca di Lacan e in particolar modo con il suo interesse giovanile per il surrealismo. L’autore fornisce una lettura teoretica della vita e del pensiero di Lacan, influenzata dalla fenomenologia e dalla teoria della conoscenza, che travalica la mera lettura biografica, consegnando al lettore un faro per illuminare i numerosissimi rapporti sociali e culturali di Lacan in una panoramica sull’ambiente culturale europeo dagli anni Trenta fino al post-strutturalismo. La monografia segue il percorso che Lacan ha segnato nei suoi testi con l’aiuto di riflettori strategicamente puntati sui loro nodi concettuali più importanti e di una struttura interna al testo che lega ogni passo teorico alla cornice storica. Dai primi studi, pubblicati da Lacan nel 1931 fino al XXIII seminario, del 1975-1976, il saggio di Palombi offre un’ampia panoramica dei principali modelli e spunti filosofici, scientifici, matematici e artistici utilizzati dallo psicoanalista, corredandola di descrizioni dettagliate per un’interpretazione interdisciplinare della prospettiva lacaniana. Il volume, che nel 2012 ha avuto la seconda ri9


stampa, è inoltre completato da una bibliografia amplia e organizzata in maniera utile a chi intende proseguire le ricerche su una delle figure più interessanti, clinicamente e filosoficamente, del XX secolo. (Deborah De Rosa) 189. “International Journal of McLuhan Sudies” (Barcelona), 1/ 2011 pp. 183: “Understanding Media Today. McLuhan in the Era of Convergence Culture” (direzione scientifica: Derrick de Kerckove; direzione editoriale: Mario Ciastellardi, Emanela Patti). www.mcluhanstudies.com; info@mcluhanstudies.com

a) La rivista raggruppa studiosi di fama internazionale di discipline legate al linguaggio e alla comunicazione, tra cui de Kerckhove, Maffesoli e Abruzzese. De Kerckhove è Professore presso l’Università di Toronto e presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Maffesoli insegna all’Università Sorbonne di Parigi e Abruzzese è ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università IULM di Milano. b) La rivista si propone di contribuire attivamente al campo di ricerca, inaugurato da McLuhan, relativo all’interazione tra messaggio e mezzo, secondo uno spirito multidisciplinare che comprende aree di interesse tra loro eterogenee come lo studio dei nuovi media, l’analisi dei fenomeni politici, della globalizzazione e delle forme narrative, nonché il rapporto tra apparato sensoriale e nuove tecnologie. Tale approccio interdisciplinare si fonda su un comune denominatore, determinato dalla visione di Mcluhan secondo cui: il medium è il messaggio. Tale identità viene, a sua volta, intesa come una modalità di interpretazione dei processi comunicativi, fondata sulla capacità del medium e della tecnologia, in generale, di influenzare psicologicamente, culturalmente e socialmente i loro fruitori. In altri termini, i mezzi di cui la specie umana si serve per comunicare e per trasformare il mondo non sono neutrali, ma influenzano profondamente il modo attraverso cui la realtà viene pensata, compresa e interpretata. Solo grazie a questo minimo comun denominatore si coglie pienamente lo spirito della rivista che contribuisce a contrastare l’idea ingenua, purtroppo ancora socialmente molto diffusa, secondo cui il mezzo non sarebbe altro che un semplice supporto, neutro rispetto ai propri contenuti e alla mentalità del destinatario. Il cammino in tal senso è ancora nella sua fase iniziale e molto resta ancora da fare, nell’intento di costruire una nuova e necessaria consapevolezza critica globale. I mezzi di comunicazione di massa e le nuove tecnologie stanno trasformando radicalmente l’esistenza umana e probabilmente, in un prossimo futuro, si assisterà a cambiamenti epocali di ordine sociale, antropologico e culturale, comparabili, per importanza, con la rivoluzione industriale e l’inizio dell’età moderna. Ciò impone al mondo della ricerca scientifica e universitaria l’esigenza di nuovi approcci, che possano contribuire, anche solo in minima parte, all’edificazione della futura civiltà globalizzata. Esperimenti editoriali, come quello tentato dall’International journal of McLuhan studies, sembrano orientarsi in questa direzione e, lasciandosi alle spalle 10


il linguaggio paludato e prudente di un mondo accademico troppo legato al passato e alla conservazione museale del sapere, tentano nuovi approcci ermeneutici e scientifici, i cui esiti saranno misurabili in futuro, in base alla capacità che gli autori avranno avuto di stimolare il dibattito culturale contemporaneo e di permettere la nascita di nuovi paradigmi di interpretazione del reale. c) Il primo numero della rivista si qualifica come un doveroso omaggio a McLuhan, cui tutti gli autori, a vario titolo, si ispirano. Così si va dalla chiarificazione di alcuni elementi interpretativi relativi al pensiero del grande studioso, allo studio delle connessioni. In particolare per quanto riguarda l’analisi di quest’ultimo aspetto e del nuovo significato che esso assume dopo la rivoluzione digitale, gli articoli che ne trattano evidenziano un’importante trasformazione delle visioni dominanti che, abbandonando progressivamente, in relazione ai fenomeni naturali e sociali, i tradizionali paradigmi lineari e sequenziali, tendono piuttosto a fondarsi su interpretazioni reticolari e connettive. Questo primo numero, tuttavia, tace su un punto fondamentale, relativo alla morfologia di tali connessioni che, secondo recenti e interessanti studi, paiono avere natura assai diversa in funzione della loro struttura e organizzazione interna. Molti autori, infatti, distinguono tra sistemi reticolari egualitari e aristocratici i primi qualificati da un numero di connessioni più o meno costante per ciascun centro o hub della rete; i secondi per una distribuzione sensibilmente diseguale di tali connessioni che rendono alcuni centri molto ricchi in termini connettivi e altri, invece, assai poveri. Il web, per esempio, è un sistema reticolare del secondo tipo (aristocratico). Comunque sia la rivista si qualifica indubbiamente per un ottimo livello di qualità scientifica degli autori e degli articoli, che permettono una nuova modalità di interazione tra studiosi. Essa stimola indubbiamente un dibattito libero e capace di guardare oltre gli steccati disciplinari, spesso così angusti da rendere molto difficile fare scoperte e introdurre innovazioni, le quali si nutrono naturalmente del desiderio di osare e di sfidare le tradizioni più consolidate. (Paolo Bellini) 190. A.A.V.V., Il pensiero di Hegel nell’Età della globalizzazione, c/ di Giacomo Rinaldi e Thamar Rossi Leidi, Aracne Editrice, Roma 2012, p. 536. (a) Il presente volume, curato da Giacomo Rinaldi e Thamar Rossi Leidi, raccoglie gli atti dell’omonimo Congresso internazionale, tenutosi ad Urbino dal 3 al 5 giugno 2010 ed avente come tematica principale la relazione che intercorre tra la filosofia hegeliana e la nostra epoca storica. Giacomo Rinaldi (Bergamo, 1954), docente di Filosofia morale e di Filosofia teoretica presso l’Università di Urbino, in costante confronto critico con l’idealismo tedesco, il neoidealismo italiano, la fenomenologia trascendentale e i più recenti sviluppi della filosofia contemporanea, ha sviluppato un’originale appropriazione dell’idealismo hegeliano in numerosi scritti, dei quali ricordiamo qui almeno Dalla dialettica della materia alla dialettica dell’Idea. Critica del materialismo storico (1981), L’ idealismo attuale tra filosofia speculativa e concezione del mondo (1998), Teoria etica (2004), Ragione e verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere (2010). Thamar Rossi Leidi (Ve11


nezia, 1974), docente di Storia della filosofia medievale all’Università di Vienna, è autore dei saggi Hegels Begriff der Erinnerung. Subjektivität, Logik, Geschichte (2009) e Hegel et la liberté individuelle. Ou les apories de la liberté moderne (2009). (b) L’opera consta di 19 saggi di diversi autori, preceduti da una Introduzione di Rinaldi e suddivisi in tre parti: “Logica, metafisica e filosofia della natura”; “Filosofia dello spirito”; “Hegel e la filosofia contemporanea”. La prima parte del volume si apre col saggio di Rinaldi, “Verità e attualità dell’Idealismo assoluto”, nel quale viene offerta una limpida ed esaustiva caratterizzazione del sistema hegeliano, e in particolare delle ragioni della sua attualità contemporanea. L’idealismo assoluto, egli osserva, consiste nella negazione totale – “assoluta”, appunto – della realtà positiva del finito: la lezione gnoseologica di Hegel è perciò quella di scoprire, tramite il pensiero razionale (e dunque infinito), l’unitarietà che pervade l’intera, sterminata varietà del reale. L’intima essenza comune a tutto ciò che esiste, tuttavia, non è un dato meramente esteriore, un fatto positivo, e quindi inevitabilmente contingente, ma piuttosto il risultato di uno sforzo, dello slancio volitivo della ragione che, negando e dunque superando l’immediata datità delle percezioni, raggiunge la pura forma razionale – cioè quel pensiero infinito che, ubbidendo alla propria necessità interiore, costruisce la sostanza del suo oggetto e finisce per rivelarsi come lo Spirito assoluto, che si auto-produce perpetuamente assecondando la sua perspicua logica immanente. La materia, per Hegel, altro non è che il necessario “riempimento” della forma spazio/ tempo, e quindi l’esteriorità più frivola e inessenziale, la manifestazione sensibile, e dunque illusoria, della categoria logica dell’Essere-per-sé. A dimostrazione di ciò vengono sviluppate quattro argomentazioni, che appaiono tutte calzanti e veritiere. Sulla base dell’interpretazione del sistema hegeliano così definito, Rinaldi coerentemente individua proprio nella critica del materialismo il tratto d’unione tra la metafisica idealistica in esso articolata e la problematica storica della globalizzazione: la confutazione speculativa hegeliana del materialismo fa il paio, infatti, con quella esplicata dall’incedere della storia con la caduta dei regimi comunisti, fondati per l’appunto su una visione materialistica del mondo. Tale analogia può essere plausibilmente ampliata osservando che la virtualizzazione sempre più accentuata della dimensione spazio-temporale operata dall’evoluzione tecnologica, in specie quella informatica, va letta nel medesimo senso. D’altra parte, come ancora osserva Rinaldi, la diffusione planetaria dei valori hegeliani della ragione e della libertà, oltre a rendere la conoscenza del suo pensiero di imprescindibile valore teoretico per l’umana coscienza storica, implica altresì una sorta di “omologazione” etico-politica tra popoli e nazioni decisamente affine all’intima vocazione olistica del sistema hegeliano. Il secondo saggio, “Il problema della ‘fondazione ultima’ nella prospettiva della logica di Hegel” di Dieter Wandschneider (Università di Aachen), evidenzia la stretta interdipendenza che intercorre fra la metafisica dell’assoluto e il concetto logico di “fondazione ultima”: è infatti necessario riconoscere all’idea razionale infinita la prerogativa di farsi immanente al pensiero puro logico; e ciò essa può fare solo se quest’ultimo pone e risolve il problema del fondamento ultimo della validità del proprio conoscere. 12


Il contributo di Luigi Ruggiu (Università di Venezia “Ca’ Foscari”), “La logica jenese di Hegel e il problema del tempo”, analizza la contraddizione che si viene a creare tra l’unità originaria del sapere razionale e la molteplicità dei fenomeni, cioè il problema di come e perché dalla logica si passi alla natura, o, per meglio dire, l’astratta universalità del concetto “trapassi” nella poli-morfologia del particolare sensibile. Centrale si rivela, a questo proposito, il concetto del tempo come metafora di dinamicità che genera varietà: «dobbiamo leggere in questa prospettiva quanto […] Hegel prospetta come compito del filosofare: porre l’essere nel non essere come divenire, la scissione nell’assoluto come manifestazione di esso, il finito nell’infinito» (p. 109). Ruggiu definisce giustamente il tempo come la peculiare dimensione, insieme allo spazio, della manifestazione, nella forma dell’esteriorità sensibile, e quindi finita, parziale, illusoria, dell’attività dello Spirito assoluto. “La ‘Habilitationsschrift’ (1801) e le sue implicazioni filosofiche” è il contributo offerto al Congresso urbinate da Wolfgang Neuser; che affronta in esso il problema della riflessione sul rapporto tra idea razionale e natura e, più in generale, tra la ragione filosofica e le scienze positive, così come esso viene a delinearsi a partire da quest’importante opera giovanile di Hegel. Il compito della ragione in relazione ai fatti della realtà naturale è quello di mostrare l’identità di Idea e natura, individuando sì nelle scienze naturali un punto di vista imprescindibile per comprendere l’immanente logica razionale della natura, il quale non legittima tuttavia, a differenza di quanto sostengono i fautori del neopositivismo logico, una parcellizzazione del sapere del tutto estranea a qualsiasi sintesi unitaria. La seconda parte dell’opera si apre col saggio “Pensiero e natura. Aristotele, Hegel (e Averroè)” di Thamar Rossi Leidi, in cui viene lucidamente svolta la definizione del concetto dello “spirito”: l’aspetto certamente più controverso, ma allo stesso tempo imprescindibile, di tutto il sistema hegeliano. In esso, infatti, lo spirito si dimostra non più come qualcosa di distinto da tutte le altre sostanze e dalle sue stesse attività, delle quali, conformemente all’impostazione della metafisica tradizionale, costituirebbe il “sostrato”, bensì come una totalità infinita e dinamica, l’assoluto che pone se stesso e, nel contempo, l’insieme completo dei propri contenuti, compresa la stessa realtà della natura, che in questo modo viene a risolversi senza residui nello sviluppo immanente dello spirito soggettivo. Rossi Leidi sottolinea giustamente la peculiare ambivalenza della relazione tra spirito e natura, che implica sia la loro sostanziale continuità che la loro non meno necessaria differenziazione. Da un lato, infatti, l’esteriorità spazio-temporale altro non è che la manifestazione primordiale e transitoria dello stesso pensiero razionale; dall’altro, tuttavia, una insuperabile discrepanza qualitativa intercorre tra l’astrattezza della natura e la concretezza dello spirito, che, originariamente immerso nel complesso dei fenomeni naturali, attraverso un intricato percorso, che costituisce il tema specifico della Fenomenologia dello spirito, si libera del contingente e dell’esteriore per realizzarsi nella propria infinità autogenerantesi. Il saggio “I limiti dell’intersoggettività nella filosofia hegeliana dello spirito soggettivo” di Richard D. Winfield (Università della Georgia, USA), che è l’unico autore ad aver fornito un doppio contributo al volume, sostiene la tesi plausibile che l’intersoggettività, intesa come determinazione concettuale dello spirito finito, è – contrariamente a quanto sostenuto da numerosi, ma superficiali, interpreti odierni del pensiero hegeliano – priva di qualsiasi carattere “fondazionale”: in altre parole, 13


egli rivendica la completa indipendenza dell’idea razionale da qualsivoglia condizionamento linguistico o sociale. Nel saggio “Multiculturalità e riconoscimento. Rileggendo la relazione servopadrone”, Massimiliano Tomba (Università di Padova) attribuisce correttamente a Hegel una concezione sostanzialmente apologetica della disuguaglianza sociale come esigenza insopprimibile e necessaria di qualsiasi società civile. Analizzando la celebre dialettica servo/ padrone, Tomba fa notare che la concezione organica hegeliana dell’eticità statuale impone un’articolazione variegata e plurale della connotazione sociale, evidenziando una perfetta sintonia tra essa e la struttura stessa dell’Idea assoluta, anch’essa organica e gerarchica. Norbert Waszek (Università di Parigi “Saint-Deni”) critica opportunamente, nel suo contributo “Hegel e il mare. Il commercio internazionale nella filosofia politica di Hegel”, il vecchio stereotipo che vede nel filosofo tedesco l’autorevole rappresentante teoretico del conservatorismo sociale e degli interessi economici degli Junker prussiani. È evidente, al contrario, per lo studioso l’attenzione hegeliana per la società mercantile, da lui considerata la principale apportatrice di dinamismo culturale e di progresso. “Il contributo della filosofia hegeliana della storia a una definizione del concetto di occidente” è il titolo del saggio di Giovanni Bonacina (Università di Urbino), nel quale l’autore mostra come la riflessione sviluppata dalla filosofia hegeliana della storia offra un valido supporto alla formulazione descrittiva della categoria di “occidente”, così come è giunta a imporsi nel corso dei secoli fino ai giorni nostri; ad onta di quegli aspetti che, osservati con la consapevolezza contemporanea, appaiono differenziare l’occidente hegeliano da quello oggi comunemente accettato, ma che, lungi dall’inficiare la validità del metodo speculativo, sono in gran parte ascrivibili alle tante inesattezze – per certi versi più che comprensibili, stante la carenza di mezzi di informazione e di conoscenze del tempo – degli storiografi e dei geografi coevi. Nel suo secondo contributo, “La normatività della globalizzazione”, Winfield scorge giustamente il carattere saliente di quest’epoca storica nella graduale ma incessante diffusione a tutti i popoli della terra degli ideali e dei valori della libertà e della ragione, inizialmente affermatisi in Europa nell’Età moderna. Il suo proposito è dunque quello di evidenziare l’impulso normativo di quell’insieme di valori, ormai sempre più universalmente riconosciuti, che, instaurandosi a livello planetario, impongono una necessaria “omologazione” di tutte le società coinvolte, rispecchiando in ciò la prerogativa moralmente vincolante propria dell’idea razionale. Helmut Schneider (Università di Kassel e di Tblisi) sottolinea giustamente nel saggio “L’ironia nell’estetica di Hegel” l’atteggiamento polemico assunto da Hegel nei confronti dell’algida perfezione formale, del vuoto manierismo, in cui inevitabilmente finisce ogni concezione meramente formalistica dell’arte: l’arte autentica, infatti, non prescinde dal significato del proprio contenuto, cioè dalla coerenza razionale della verità che fa mostra di sé nella bellezza. Nel saggio “Religione civile vs religione speculativa. Attualità delle riflessioni hegeliane sulla religione”, Stefania Achella (Università di Chieti-Pescara) rivendica la centralità della religione all’interno della riflessione hegeliana: essa, infatti, oltre ad essere un motivo ricorrente in quasi tutta la produzione giovanile del filosofo, ha in comune con la filosofia il contenuto, perché entrambe si propongono come loro 14


finalità, pur perseguendola con metodi opposti, l’esplicazione dell’essenza dell’assoluto. La terza parte del volume si apre col saggio di Klaus-Michael Kodalle (Università di Jena); “Ragione inclusiva e ragione esclusiva. Due concetti di ragione nell’idealismo tedesco e nella scuola hegeliana”, in cui l’A. rivendica alla concezione hegeliana della ragione il carattere dell’inclusività, cioè la forza attrattiva e la capacità di assorbimento delle posizioni filosofiche con essa apparentemente incompatibili, cioè una sorta di benefica elasticità fluida e in divenire, che irrimediabilmente si viene a trovare in antitesi rispetto alla rigidità esclusiva e isolazionista della concezione della ragione elaborata invece tanto da Fichte quanto da Schelling. Il contributo di Douglas Moggach (Università di Ottawa) “Etica e politica nella scuola hegeliana” offre al lettore una accurata ricostruzione del pensiero eticopolitico di Bruno Bauer, massimo esponente, insieme a Ludwig Feuerbach, della cosiddetta “Sinistra hegeliana”. Secondo Moggach la posizione di Bauer costituisce la sintesi tra il perfezionismo della metafisica leibniziano-wolffiana e l’etica deontologica kantiana. Domenico Losurdo (Università di Urbino) nel saggio “Hegel, Marx e l’ontologia dell’essere sociale” assume una posizione decisamente controcorrente rispetto a quelle preferite da tutti gli altri studiosi incontratisi al Congresso, dal momento che tenta di assimilare Hegel a Marx nell’alveo del processo di formazione del materialismo storico, laddove, a una più accurata considerazione ermeneutica, Hegel non può in realtà apparire che come il massimo campione dell’antimaterialismo in sede filosofica. Il saggio “Una visione hegeliana della globalizzazione e di Internet” di Hans-Martin Sass (Georgetown University) cattura assai più l’attenzione del lettore, ponendo al centro della scena un filosofo del XIX secolo finora pressoché sconosciuto, Erst Kapp (1808-1896), autore della cosiddetta “geoscienza” o “geografia filosofica”, che, secondo Sass, merita l’interesse degli studiosi odierni perché incentrata su intuizioni visionarie e anticipatrici della tecnologia informatica e del suo impatto sulla nostra epoca storica. Thomas Posch (Università di Vienna) ricostruisce nel saggio “La filosofia hegeliana della natura nell’interpretazione di Augusto Vera” la lucida e profonda interpretazione e difesa della critica hegeliana del metodo sperimentale, e in specie della fisica newtoniana, svolta da questo significativo esponente dell’idealismo italiano; e analogamente Davide D’Alessandro, nel suo contributo “Hegel e lo Stato nell’interpretazione di Bertrando Spaventa”, concentra la sua attenzione sul pensiero etico dell’altro grande pensatore hegeliano italiano del XIX secolo. Chiude degnamente il volume, lasciando nel contempo aperta la porta a ogni possibile sviluppo futuro, il saggio di Alfredo Marini “La duplice dialettica neoparmenidea e le ipotesi del Parmenide. Sintesi idealista (Fichte, Hegel), riforme italiane (Croce, Gentile)”. Marini affronta in esso l’arduo compito di tracciare una ricostruzione unitaria dello sviluppo dell’ontologia occidentale, individuando nell’idealismo tedesco – il terzo e ultimo stadio di evoluzione, dopo la fase aristotelica e quella scolastica medioevale – il coronamento di un percorso di progressivo approfondimento e perfezionamento del concetto del sé, ossia di disvelamento dell’autocoscienza pura infinita, in quanto compenetrazione vicendevole di oggetto e soggetto, originariamente delineato appunto nel celebre dialogo platonico. 15


(c) L’attrattiva principale del libro risiede, nel suo insieme, nella coralità polifonica, nell’omogeneità mai monotona, nell’armonia che, forse con un’unica eccezione, integra i vari saggi come diversi colori di un unico affresco: il genio ineguagliato di G.W.F. Hegel (1770-1831), e quella filosofia dell’“idealismo assoluto” che ancor oggi, a circa due secoli dalla sua sistematica elaborazione, rimane uno dei culmini indiscussi della storia del pensiero mondiale. Essa è giunta fino al XXI secolo senza minimamente smarrire la propria forza; ha superato, nella sua storia, i periodi rivoluzionari e l’affermazione dei grandi Stati europei, il baratro delle due guerre mondiali e le aberrazioni dei totalitarismi; ha saputo dialogare con la contestazione globale del ’68 e con l’arbitrarietà decostruttivista del postmodernismo; ha fornito il proprio contributo alla comprensione delle due rivoluzioni industriali e di quella informatica: ha palesato con tutta evidenza, in altre parole, una flessibilità e una profondità così vaste, da consentirle di rimanere una lente interpretativa privilegiata della realtà e della storia dell’umanità. Il pregio più grande del sistema hegeliano, l’insegnamento prezioso, è infatti quello di saper dimostrare speculativamente l’unitarietà ultima e definitiva della realtà, inglobando nell’autodeterminazione dell’Idea assoluta ogni possibile manifestazione fenomenica. La sua impostazione gnoseologica si dimostra così fondamento di un sistema dinamico e olistico, che riesce a inscrivere anche i più eterogenei mutamenti storici nell’alveo di un unico sviluppo razionale immanente, il cui motore è lo Spirito assoluto. Di certo un monismo metafisico così delineato non può – contrariamente a quanto i suoi critici a torto ritengono – apparire anacronistico in un’epoca, come quella attuale, dal carattere così spiccatamente universalistico. La loro decisa affinità si manifesta in una serie di atteggiamenti diversi, ma tra loro collegati: primo fra tutti l’attitudine a interpretare tutto ciò che avviene e ogni aspetto dell’esistenza umana alla luce di un unico paradigma complessivo; in secondo luogo, il progressivo affermarsi di un sistemamondo, di una realtà storica onnicomprensiva, caratterizzata dalla bulimìa comunicativa e dall’interdipendenza economica delle varie regioni della terra; infine, una universalità etico-politica, che impone dictat sempre più vincolanti in vista della convergenza dei valori e delle norme che dovrebbero regolare la convivenza degli uomini nel terzo millennio. Il rapporto tra Hegel e la contemporaneità si rivela dunque molto complesso, ricco di varie sfaccettature, zone d’ombra ancora da indagare e coinvolgenti suggestioni futuribili, offrendo certamente più di un valido motivo per affrontare la lettura di questo interessante libro. (Giacomo Cerretani) 191. Giacomo Rinaldi, Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie // Absolute Idealism and Contemporary Philosophy (Bedeutung und Aktualität von Hegels Denken // Meaning and Up-to-dateness of Hegel’s Thought), Peter Lang – Internationaler Verlag der Wissenschaften, Frankfurt/ Main 2012, pp. 290. a) Per quanto riguarda l’A. rimandiamo alla precedente scheda n. 189a. Questo è il volume n. 22 della collana diretta da Helmut Schneider per l’ed. Peter Lang. Il prof. Schneider (che ha lavorato a lungo nello “Hegel-Archiv” di Bochum con Chr. Jamme e sotto la direzione di Otto Pöggeler), intrattiene da tempo intensi rapporti 16


scientifici e didattici con varie Università in Europa. In Italia ha trovato una comune unità di sentimenti e d’intenti col prof. Giacomo Rinaldi che all’inizio del terzo millennio ha avuto, con l’ordinariato, il riconoscimento dell’eccellenza dei suoi studi hegeliani condotti nel precedente ultimo quarto del secolo XX e tuttora in sicuro sviluppo. Un’ampia “Introduzione” presenta la ristampa di 11 articoli* (scritti nell’arco di circa 25 anni in italiano, tedesco o inglese) tutti dedicati al pensiero di Hegel (l’“idealismo assoluto”) del quale illustrano le dottrine e difendono l’attualità. Di questi – ora in lingua tedesca o in inglese –, sei sono dedicati all’idealismo assoluto come tale, alla Logica e alla Filosofia della natura, cinque allo “hegelismo” (a B. Croce, a E.E. Harris, a W. Desmond, a R.D. Winfield, a R. Brandom). b) L’“Introduzione” delinea il quadro storico e teorico della ricezione hegeliana negli ultimi due secoli: da K. Marx, che distinse in Hegel un “nòcciolo razionale” (quello dialettico) da un “involucro mistico” (quello sistematico), a Fr. Engels il quale ne stigmatizzò l’“idealistica stramberia”, che fa della realtà un prodotto del pensiero e non del pensiero il “rispecchiamento” (passivo) della realtà. La critica antimaterialistica di B. Croce (1899), G. Gentile (1899) fino a G. Rinaldi stesso (2012), e soprattutto il fallimento storico e politico del “diamat”, hanno dato spazio anche in America a una lettura del Selbstbewußtsein idealistico meno rozza (vedi B. Zabel) ma non meno forzata (come si può constatare in R. Brandom 1, un seguace del pragmatismo di R. Rorty). Una volta sostituita alla tesi materialistica della “presupposizione” passiva della realtà la tesi idealistica della “posizione” attiva di essa da parte del Sé, alcuni interpreti americani in polemica con l’empirismo e il realismo britannico, oltre che con la filosofia analitica di casa loro (ma ignorando il carattere “metafisico” dello hegelismo, vedi p. 13 e 139ss!) hanno creduto di scoprire in Hegel una sorprendente “compatibilità” con la tradizione pragmatista (da Peirce a Dewey, da James a Putnam) nella quale la dimensione dominante è effettivamente quella attiva e interattiva dei soggetti e dell’intersoggettività, in una contestualità reciproca in costante flusso. Ma la filosofia di Hegel potrebbe mai passare per una forma di pragmatismo? Se si va a vedere, si trova che in questi interpreti pragmatisti o storico-relativisti la filosofia dell’autocoscienza infinita non sarebbe che una mitologia metafisica, da ridurre “criticamente” alla verità empirica della relazione esterna tra un sé finito e un altro sé finito ben lungi, dunque, dall’elevare quest’ultima alla relazione interna tra il sé finito e il Sé infinito! Il suo posto verrebbe occupato dall’“effettualità reciproca” di un’intersoggettività che trasforma la dialettica hege-

* Pubblicati in: Jahrbuch f. Hegelforscung (1996 u. 2000/01), Philosophy & Theology (Wisc. USA 1991), Naturwiss.t u. Methode in Hegels Naturphilosophie (hg. W.Neuser 2009), Idealistic Studies (Mass. USA 1987), Dialectic and Contemporay Science: in Honor of Errol E. Harris (c/of Ph.T.Grier 1989), Being and Dialectic: Metaphysics as a Cultural Presence (c/of W.Desmond and J.Grange 2000), Magazzino di Filosofia (2005-10).  G. Rinaldi, Die Selbstaufhebung d. materialistischen Reduktion d. “Bewußtseins” auf d. “gesellschaftliche Sein” bei Marx, in: W. Grießer (Hg.), Reduktionismus – und Antworten der Philosophie, hg von W. Grießer , Königshausen & Neumann, Würzburg 2012, p. 241-63. 1 R. Brandom, Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism: Negotiation and Administration in Hegel’s Account, in: “European Journal of Philosophy”, 7:2 (1999) 164-89.

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liana del “riconoscimento tra le autocoscienze” e la necessità che domina la “negazione della negazione” nella casualità di una “negoziazione” (un compromesso quantitativo tra l’ego e l’alter ego!). Quanto, così facendo, ci si allontani dallo spirito hegeliano non è sfuggito ad altri validi critici come D. Wandschneider, J. McDowell, W. Schild. Il quale ultimo ha anzi dimostrato che con il concetto dell’intersoggettività non si riesce a fondare non solo l’interpretazione della filosofia di Hegel, ma neppure la vuota idea della personalità giuridica nel “diritto astratto”. c) L’interpretazione di Hegel suggerita da quegli interpreti va rovesciata. Anzi, nel clima prevalentemente filosofico-ermeneutico del nostro tempo, è proprio la filosofia di Hegel a offrire uno schema sempre attuale di interpretazione globale della realtà capace di assumere in un unico destino l’io e il mondo, l’ora e il sempre. La molteplicità di forme empiriche delle autocoscienze storiche (lette secondo le mediazioni dialettiche delineate nella storia ideale eterna della Fenomenologia dello spirito) “possono e devono [… (Vico direbbe: “devono perché possono”)] essere tolte ed elevate alla più alta e più concreta unità spirituale dell’Assoluto” (p. 19). L’attualità dell’idealismo assoluto sta nella persistente necessità del movimento secondo cui “l’uom s’eterna”: quel movimento che passando dallo “spirito libero” allo “spirito objettivo”, svolge la storicità etico-politica dello spirito assoluto nell’arte, nella religione e nella filosofia (nella circolarità del “sapere assoluto”). Questa intenzionalità filosofica, l’essenza della sua attualità, il suo carattere “attuale” (nel senso gentiliano della parola) è illustrato nei primi sei saggi. La sua attualità effettiva (zeitkritisch) per il nostro tempo è difesa negli ultimi cinque. Il punto di passaggio tra i due gruppi (dalla teoria alla pratica) è evidenziato nel sesto. Il primo saggio (Attualità della Logica hegeliana 1996) distingue tre tipi di attualità: fondamentale, fattizia ed effettuale: la prima coincide con la sua coerenza interna, la seconda con la sua mera fattualità. Esse si identificano bensì nella loro astratta opposizione ma diventano la terza (e cioè: attualità effettuale) se applicate al “profondo bisogno della nostra epoca” (p. 47, 52) di superare la stretta della ratio strumentale, tecnologica, alienata e reificata, di cui tanto “la mistica heideggeriana dell’essere”, quanto il “contradditorio concetto di utopia” proposto nella francofortese Dialettica negativa sono per opposte ragioni vittima (e non soluzione). In questa “attualità effettuale” non rientrerebbero invece le interpretazioni di Hegel di contemporanei come Lakebrink, Croce, Adorno, Nic. Hartmann, Whitehead e Gadamer. Il secondo saggio (L’‘idea di conoscenza’ nella Logica di Hegel 1999): l’analisi della categoria culminante della ‘Scienza della Logica’: l’“Idea” permette di rifondare la logica come teoria della conoscenza in modo più adeguato che non avvenga nelle principali correnti del ’900 (empirismo logico, fenomenologia trascendentale, realismo ontologico). Il terzo saggio (Importanza attuale della filosofia hegeliana della natura 2002): con una approfondita discussione delle tesi di Bradley, Gentile e E. Harris l’A. prova a dimostrare che la filosofia della natura non deve essere considerata come “una deplorevole ricaduta dell’idealismo assoluto in una posizione realistica o naturalistica del pensiero”, ma è un momento integrante del sistema e se ne deve comprendere il carattere idealistico. Essa non cerca di fondare la realtà positiva della natura, ma il processo ideale del suo autoannullamento (Selbstvernichtung) e superamento (Aufhebung) nella effettualità dello spirito. 18


Il quarto saggio (Sul rapporto del metodo dialettico con le scienze naturali nell’idealismo assoluto di Hegel 2009): discutendo le opposte tesi di Benedetto Croce, Errol Harris e Renate Wahsner l’A. sostiene che Hegel, riconoscendo il carattere teoretico delle scienze naturali non vìola lo sviluppo immanente del concetto puro, che è una serie graduale nella quale il sapere naturalistico è subordinato alla filosofia speculativa e conserva un suo grado di verità e di effettualità. Nel quinto saggio (Verità e rilevanza attuale dell’idealismo assoluto 2010) si confuta la tesi di autorevoli studiosi marxisti (Gramsci e Lukàcs), che vi sia una derivazione diretta o quantomeno una continuità teoretica tra il pensiero di Hegel e il materialiso storico e dialettico. A questo fine si discute a fondo l’acuta distruzione critica che Hegel conduce, proprio nella sua filosofia della natura, del concetto naturalistico e metafisico di materia e, quindi, della base ultima di ogni visione materialistica del mondo (metafisica o dialettica, naturalistica o storicistica, che sia). Il sesto saggio (Scetticismo e metafisica nel pensiero di Hegel 2010): qui l’A. esamina e confuta in extenso una nuova infelice interpretazione di Hegel sostenuta da alcuni studiosi che non si limitano a ridurre l’idealismo di Hegel a una sorta di pragmatismo, ma negano addirittura che di un idealismo si tratti (p. 13 e p. 139-63)2. L’A. ribadisce che in Hegel si tratta della fondazione e costruzione di una metafisica idealistica dell’assoluto e che questa non è soltanto la pura verità, ma anche l’unica ragione della sua importanza e del suo permanente interesse! Gli ultimi cinque saggi discutono diverse interpretazioni di Hegel: i primi quattro sono dedicati, nell’ordine, 1) allo “storicismo assoluto” di Benedetto Croce del quale si rifiuta la “riforma della dialettica hegeliana” in quanto affetta dal “più contradditorio relativismo storicistico” (1987); 2) al contributo che Errol Harris (il “vero erede dell’idealismo anglosassone”) con la sua Interpretazione della ‘Logica’ di Hegel ha dato allo sviluppo dello hegelismo (1983); 3) al “pensiero metaxologico” di William Desmond, che tende a riassumere, accanto alla dialettica hegeliana, l’ontologia tomistica e l’esistenzialismo religioso. Integrazioni di cui, secondo l’A., la filosofia speculativa di Hegel non abbisogna perché contiene già una critica radicale delle categorie sulle quali si fondano la metafisica antica, l’esistenzialismo religioso e lo stesso pensiero metaxologico di Desmond; 4) al pensiero religioso di R.D. Winfield3. L’A. concorda essenzialmente con la prospettiva politico-religiosa, genuinamente hegeliana, di R.D.W. Ma insiste sul punto che la categoria hegeliana della “necessità assoluta” implica la pura apparenza della

2 Vedi l’originale it. di questo saggio (G. Rinaldi, Scetticismo e metafisica nel pensiero di Hegel. A proposito di una critica fraintendente di ‘Teoria etica’, in: Magazzinodifilosofia, n. 18, 2010, p. 165-83. Esso coglie l’occasione offerta dalla recensione dello studioso belga Lu De Vos al libro di G. Rinaldi, Teoria etica (ediz. Goliardiche, Trieste 2004) per chiarire la propria posizione e insieme il concetto dell’idealismo assoluto. 3 Vedi l’originale it. (G. Rinaldi, Il problema religioso nella ‘Filosofia Sistematica’ di Richard D. Winfeld, in: Magazzinodifilosofia, n. 18, 2010, p. 147-64.

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casualità non solo nello sviluppo dell’idea logica (o “ragione autonoma”), ma anche nel processo reale della Weltgeschichte. 5) Contiene, su sollecitazione dell’amico Schneider, un adattamento della prima sezione del citato volume dell’A. stesso Teoria etica che, in effetti, è indispensabile a una miglior comprensione dei suoi saggi su Brandom e contro De Vos. Le considerazioni conclusive circa questo quadro problematico affrontano il problema se l’apparente estraneità odierna alla posizione-base dell’idealismo assoluto sia dovuta alla nostra inadeguatezza ermeneutica o alla “perfezione” stessa del sistema di Hegel (come suppone Claus-Artur Schleier). M. de Angelis ritiene che molte parti del sistema non abbiano raggiunto la desiderabile perfezione e resti il compito di “ripulirle” e “integrarle”. L’A. è d’accordo ma, visto il fallimento parziale o totale delle riforme della dialettica hegeliana (tentate da Croce, poi da Gentile o recentemente da W. Schild)4 sarebbe utile intendersi in rapporto alla specificità della scienze hegeliane (da un lato la Idealphilosophie: “logica”; e dall’altro la Realphilosophie: “filosofia della natura” e “filosofia dello spirito”). Per la Scienza della Logica, che è apriori e la cui deduzione delle categorie, nell’ultima versione del 1830, non sembra migliorabile, ai tentativi di Kuno Fischer e di Giovanni Gentile l’A. preferisce ancora l’originale hegeliano (cf. G. Rinaldi, A History and Interpretation of the ‘Logic’ of Hegel, The Edwin Mellen Press, Lewinston N.Y. 1992, §§43, 52). Ma la materialità empirica della scienze naturali, dai tempi di Hegel è molto diversa, diversamente articolata e configurata e, secondo l’A., sussiste il compito di una nuova lettura di esse nello spirito di Hegel (solo in parte affrontata da Errol Harris). Ancor più importante è l’attualizzazione della sua filosofia dello spirito (sviluppo dialettico dello “spirito libero” nell’eticità, nell’arte, nella religione e nella filosofia) come base metafisica della storia. La sua filosofia della storia si chiudeva agli inizi del sec. XIX: l’enorme ricchezza degli ultimi due secoli attenderebbe urgentemente una nuova grandiosa “filosofia dell’universo mondo”, la “filosofia del futuro” che, sulla base dei principi metodologici e metafisici della vecchia, sappia sviluppare oggi un “nuovo pensiero filosofico” capace di abbracciare le nuove e specifiche determinazioni dei nuovi contenuti. (Alfredo Marini)

4 Non sarebbero plausibili – se considerate nella logica dello spirito assoluto – le osservazioni recenti di W. Schild (in: “Wiener Jahrbuch f. Philosophie” XXIV, 1992 e in: “Festschrift f. H. Klenner, Freiburg/Berlin/München 1998), che tendono a una riforma della filosofia hegeliana dello “spirito objettivo”, ma coinvolgono problemi fondamentali di coerenza e di priorità (nel rapporto tra eticità e moralità, concreto e astratto, cominciamento e risultato ecc.) – una riforma, che porterebbe alla cancellazione dell’oggetto specifico della “psicologia”.

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192. Giacomo Rinaldi, Ragione e Verità. Filosofia della religione e metafisica dell’essere. Parte I: “Filosofia della religione”. Parte II: “Lo sviluppo storico della Filosofia della religione”. Parte III: “Critica della metafisica dell’essere”, Aracne Editrice, Roma 2010, pp. 757. (a) Vedi recensione n. 189a. (b) La comprensione e l’interpretazione della filosofia di Hegel richiede certamente un notevole impegno intellettuale, non solo per la complessità e la ricchezza delle riflessioni da lui proposte, ma anche per l’objettiva difficoltà che presenta la lettura dei suoi scritti. Il saggio di Rinaldi Ragione e Verità offre al lettore una sistematica Filosofia della religione basata su una consistente interpretazione del pensiero di Hegel, che ha il grande pregio di saper affrontare la totalità – e, parlando di Hegel, non poteva essere diversamente – delle tematiche principali della sua speculazione, tanto da potersi definire come una sorta di enciclopedia che ci introduce nel pensiero del grande filosofo tedesco. Ragione e verità, infatti, si propone di offrire una comprensione genuina del pensiero hegeliano, spogliato di quelle false teorie ottocentesche e novecentesche che hanno preteso, sbagliando, di esserne le vere, finali interpreti, ma che, in realtà, non fanno altro che utilizzare la speculazione hegeliana per avvalorare tesi altrimenti prive di alcun fondamento. La lettura di questo saggio, quindi, si raccomanda anche e soprattutto ai lettori meno esperti, o a chi si avvicina per la prima volta al pensiero di Hegel. Come una sorta di grimaldello, Ragione e Verità ci consente di accedere ad una comprensione più agile delle sue opere, spesso ostiche per il carattere talvolta ermetico della sua scrittura e per la complessità della sua riflessione. Rinaldi, infatti, ha la capacità di guidare con disinvoltura al superamento degli ostacoli che si frappongono fra il lettore e le dottrine hegeliane. Nella sua opera, inoltre, Rinaldi affronta con indubbio vigore le tesi di tutti i più influenti pensatori contemporanei che si sono misurati col pensiero di Hegel, distorcendolo però spesso, e piegando ai loro scopi soggettivi ed arbitrari l’interpretazione delle sue parole. Con onestà intellettuale, l’autore discute e critica le tesi ermeneutiche di coloro che si allontanano dalla vera filosofia hegeliana, e ripropone con forza la centralità della speculazione del filosofo tedesco nella stessa cultura e realtà odierna. Il punto di partenza dell’autore è chiaro: per comprendere Hegel è necessario riferirsi direttamente ai suoi scritti, assumendo come interpretazione autentica solo ciò che è pienamente coerente col suo intero sistema filosofico. In Ragione e Verità emerge qualcosa come una serie di quadri, che rappresentano ciascuno una diversa problematica del pensiero hegeliano, ma tutti assieme sanno rendere il vero significato dell’opera del filosofo tedesco. Qui il pensiero hegeliano trova il suo luogo logico, ovvero l’esperienza di se stesso, in sé e per sé e non per altri. In questa prospettiva, che può esser senz’altro definita idealistica, emerge con evidenza la convinzione tutta hegeliana, ribadita da Rinaldi, che l’uomo è in grado di raggiungere il Sapere assoluto, prendendo le distanze dal sapere delle scienze positive: un sapere, quest’ultimo, che è solo apparenza. È questa una posizione che si distingue certamente dalle convinzioni prevalenti nel panorama culturale contemporaneo, ma che, nello stesso tempo, propone uno sguardo diverso ed originale sulla 21


realtà contemporanea a partire dalla riflessione hegeliana, che così manifesta in esso tutta la sua attualità. Ampio spazio nel saggio è dedicato ad un tema specifico che, oggi forse più di ieri, desta notevole interesse: il rapporto tra filosofia e religione ed il superamento di quest’ultima, così come viene descritto da Hegel. Il cristianesimo, che pur rappresenta il culmine dell’intero sviluppo dello spirito religioso, secondo il filosofo tedesco non è tuttavia in grado di raggiungere pienamente il Sapere assoluto, perché per troppi versi esso altro non è che uno strumento di pressione morale orientato alla salvezza individuale. Secondo l’interpretazione hegeliana del cristianesimo, esso esprime l’identità dell’autocoscienza umana e del divino, ma solo in una forma immaginativa che è irrimediabilmente inadeguata alla sue intima essenza. Il cristianesimo, quindi, è sì per Hegel la religione “manifesta”, “assoluta” o “compiuta”, in quanto più di tutte si avvicina all’autocoscienza dello Spirito assoluto, ma ciò nonostante non è ancora in grado di raggiungere la Verità, come solo la Ragione filosofica sa fare. La religione non sa andare oltre la rappresentazione – l’elemento cioè del mito, del simbolo, della fede –, e tale è inevitabilmente il caso anche del cristianesimo, che per ciò stesso è destinato a dissolversi. Solo la filosofia, passando dalla forma spirituale della rappresentazione a quella del concetto puro, può salvare l’autentico contenuto e significato spirituale del cristianesimo. Il guadagno finale è evidente: lo spirito umano può pervenire a un’adeguata conoscenza di se stesso solo nel Sapere assoluto, che altro non è se non la stessa filosofia in quanto conoscenza pura. Il percorso dello spirito diventa, allora, un processo evolutivo, uno sforzo continuo di conferire al proprio contenuto spirituale una forma sempre più adeguata. Riflettendo sui più recenti eventi della storia contemporaneo, Rinaldi si chiede se, dopo il crollo dei regimi comunisti ed il tramonto dell’ideologia che ne costituiva il fondamento, dopo il ritorno delle masse alla religione, questo vento di rinnovamento non debba riguardare anche il pensiero filosofico e renderlo finalmente capace di produrre una nuova filosofia della religione di ampio ed originale respiro. Forse davvero è giunto il momento di guidare l’umanità verso una nuova e moderna consapevolezza, che porti alla dissoluzione della comunità religiosa, sostituendola con una comunità filosofica globale, nata dalle ceneri della religione. In ogni caso, è finalmente giunto il momento di affermare chiaramente la genuina universalità del concetto. (c) In conclusione Rinaldi, alla luce di questa sua ultima pubblicazione, dimostra di avere la capacità e la maturità per mettere a fuoco un’interpretazione originale e nello stesso tempo autentica della filosofia di Hegel, e anche di saper rileggere la sua filosofia della religione in termini propri. (Cristian Cristofoletti) 193. Vincenzo Costa, Alterità, Il Mulino, Bologna 2011, p. 215. (a) Vincenzo Costa (San Cono, 1964) è professore associato di Filosofia Teoretica presso l’Università del Molise. Ha studiato il pensiero contemporaneo, occupandosi della tradizione fenomenologica, in particolare di Husserl, Heidegger e Derrida. Del primo ha tradotto le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia feno22


menologica I (Einaudi, Torino 2002) e I problemi fondamentali della fenomenologia (Quodlibet, Macerata 2008). Tra i suoi ultimi lavori si segnalano: Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose (Rubbettino, Soveria Mannelli 2007), I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica (Quodlibet, Macerata 2007), Husserl (Carocci, Roma 2009), Fenomenologia dell’intersoggettività. Empatia, socialità, cultura (Carocci, Roma 2010) e Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà (Jaca Book, Milano 2011). (b) Il tema dell’alterità è divenuto, in forme diverse, una questione centrale nella riflessione, non solo filosofica, contemporanea. Pur emergendo soprattutto all’interno delle discussioni attorno all’etica e alla filosofia della società, esso infatti attraversa ormai in maniera tanto pervasiva la fitta trama di ambiti disciplinari così molteplici e svariati che il tentativo di approfondire filosoficamente tale lemma deve già riconoscere come impresa estremamente complessa e delicata quella di individuare un punto di approccio stabile e fecondo a tale questione. Il problema dell’alterità, infatti, si propone ormai chiaramente come una questione interdisciplinare nella quale fenomeni storici, sociali e morali si incrociano allo stesso tempo esigendo un incessante contributo e rilancio ad opera della riflessione filosofica. Tale complessa disseminazione, tuttavia, dicendo la chiara centralità e polivocità del tema dell’altro, allo stesso tempo indica alla riflessione filosofica la necessità di un confronto (e di uno scambio) con quelle discipline attraverso le quali è possibile meglio individuare non solo la sfuggevole varietà dei fenomeni di alterità, ma anche seguirne il complesso movimento. La filosofia, da parte sua, fin dalle proprie origini greche, ha riconosciuto al tema dell’alterità, una posizione centrale, non solo e non tanto in ambito etico, quanto soprattutto proprio nella riflessione sullo statuto ontologico della realtà. Da questo punto di vista un recupero, anche sintetico, di uno sguardo filosofico sulla questione dell’alterità esige non solo che si segua un filo che, sottile o spesso, si insinua fin nel cuore dei più importanti dibattiti culturali dell’età presente, ma anche che si recuperi alla vista quella pretesa di feconda generatività che tale questione, fin dai tempi di Platone, ha posto alla filosofia in quanto tale. (c) Nell’Introduzione al proprio volume l’A. afferma di non voler ricondurre la questione dell’alterità ad una prospettiva semplice e unitaria, quanto piuttosto seguire il “potere disseminativo” di tale lemma nel suo articolato e variegato movimento. Il I capitolo (Alterità e metafisica) mette in evidenza come tale tema sia in azione fin dallo stesso costituirsi del logos filosofico greco. La traiettoria del pensiero del principio, da Eraclito a Plotino si disegna sul reperimento di qualcosa, l’arché, che arresta il domandare “proprio in virtù della differenza che lo separa dagli altri enti e lo rende qualcosa d’altro rispetto ad essi”. Se la tradizione neoplatonica pensa la differenza tra l’Uno e gli enti come una alterità radicale, iniziando così un filone che porta ad Adorno e Barth, in Agostino la ricerca dell’alterità è spostata fino all’interno dell’anima umana stessa e in Tommaso il pensiero dell’alterità viene mantenuto all’interno dell’orizzonte dell’essere mediante la nozione relazionale di analogia. Come mostra il II capitolo (Alterità e differenza), un passaggio-chiave nella storia del pensiero dell’alterità si trova, a giudizio dell’A., nella centralità ontologica che Aristotele assegna alla nozione di fine con la quale egli giunge a indicare 23


nell’alterità il punto di generazione produttiva “interno ad ogni ente”. Hegel, riprendendo Aristotele, rende l’alterità la matrice di una concezione dinamica e vivente del rapporto tra verità e ragione e dunque della storia. Per vie diverse anche il neokantismo (Cohen e Windelband) ed Husserl sostengono il carattere produttivo dell’alterità del telos, seppure qui essa si volga contro la nozione di totalità configurando l’avvenire come un “alterità radicale”; esso “può essere pensato solo come anticipazione di senso e non come presenza del senso”. In Heidegger il tema dell’alterità si manifesta nella tematizzazione della differenza ontologica tra essere ed enti, in Deleuze e Derrida, per vie diverse e non ugualmente feconde, essa è posta all’origine stessa dell’identità. Nel III capitolo (Altre menti) il tema dell’unicità della ragione negli uomini e della possibilità di una apertura intersoggettiva delle esperienze umane viene percorso dall’A. sondando le ragioni e i punti deboli delle diverse teorie moderne e contemporanee (inferenza analogica, comportamentismo) e approdando ad una posizione che rifiuta l’identità monolitica della ragione in ogni essere umano sostenuta da Descartes a favore di una struttura originariamente intersoggettiva di essa. Il IV capitolo (Il fenomeno dell’alterità) si concentra sulla nozione di empatia. L’A. attraversa i tentativi di Lipps, della Stein e di Scheler di approdare ad una soluzione del problema dell’“accesso” all’altro concentrandosi in particolar modo sul carattere irriducibilmente mediato (Husserl) della relazione empatica. Se in Heidegger il problema stesso dell’empatia viene però rifiutato, la critica sartriana al problema della dimostrazione dell’esistenza dell’altro avviene indicando nell’alter ego qualcosa che costituisce innanzitutto la mia struttura di soggetto e che implica la drammatica scoperta dell’essere-oggetto al cospetto degli occhi di un altro. Merleau-Ponty, invece, attraverso la sua non sempre chiara nozione di carne, indica nell’“intercorporeità” la struttura di un originario mondo comune che precede il mio e l’altrui vivere ed esperire. Il V capitolo (Alterità e cognizione sociale) muove da una ripresa delle tesi fondamentali di G. H. Mead, Blumer e Goffman, dalla loro riflessione sull’interazione simbolica attraverso la quale essi prendono le distanze dal tema dell’empatia e dalle riduzioni naturalistiche dell’intersoggettività. Proprio il versante naturalistico della questione è esposto e discusso dall’autore confrontandosi con le tesi di Daniel Dennett. Uno spazio significativo viene poi dedicato al ruolo giocato dalla scoperta dei neuroni specchio nella discussione sull’alterità. Il fondamentale e originario ruolo dell’agire sociale e della sua intenzionalità nella definizione della relazione con l’altro viene analizzato in particolar modo attraverso le riflessioni di Weber e Parsons contrapponendole all’idea luhmanniana secondo la quale, invece, la costituzione di senso precede irriducibilmente l’intenzione soggettiva. Due paragrafi finali sono dedicati, rispettivamente, al dibattito sul problema dell’alterità emerso dalla scoperta dell’America e alla discussione su quella peculiare forma di alterità che è la differenza sessuale. Il VI capitolo (Alterità, riconoscimento e relazione etica) si apre con una densa e sintetica indagine sull’intreccio tra alterità, violenza e riconoscimento nelle riflessioni di Hobbes, Hegel, Marx, Lacan e Schmitt. All’idea che la relazione con l’altro sia essenzialmente conflittuale si oppongono, per vie diverse, i tentativi della Arendt e di Gadamer e, su un altro versante, quelli di Apel ed Habermas nel quale l’idea di un “totalmente Altro” assume la fisionomia di un medium comunicativo sempre presupposto ed operante pur nella sua indisponibilità. Una articolata anche se sintetica ripresa delle concezioni dell’alterità operanti in Feuerbach, Cohen, Natorp e Buber apre la strada alla tema24


tizzazione alla “nuova stagione” aperta dal pensiero di Lévinas. Qui la rilevanza etica della dimensione dell’altro si manifesta nel nostro esporci all’ingiunzione che ci viene dal suo volto. L’A. dà spazio anche alle importanti correzioni che Derrida e Ricoeur ritengono necessario offrire all’impostazione levinassiana. Chiudono il volume alcuni approfondimenti nei quali il tema dell’altro viene collocato tematicamente nel cuore della riflessione sulla politica ed in particolar modo in relazione alle questioni classiche della giustizia e alla virtù (politica) dell’amicizia. (Matteo Amori) 194. Sante Maletta, Il giusto della politica. Il soggetto dissidente e lo spazio pubblico, Mimesis, Milano 2012, p. 133. (a) Sante Maletta (Milano, 1963) si è formato a Milano e Roma, occupandosi in particolare del pensiero tedesco contemporaneo. Ha successivamente trascorso un periodo presso la “New School for Social Research” di New York, dove ha avuto modo di estendere la propria attività di ricerca alla filosofia americana. Attualmente insegna presso l’Università degli Studi della Calabria, in qualità di Ricercatore di Filosofia Politica. È membro della Società Italiana di Filosofia Politica (SIFP) e dell’International Society for MacIntyrian Enquiry, e segretario della redazione scientifica dell’associazione Prologos. Collabora inoltre con l’Institute for the International Education of Students (IES) di Milano, con la rete Storia e memoria e con l’organizzazione internazionale Foresta dei giusti nel mondo (Ga.Ri.Wo.). Autore di numerosi saggi e articoli, apparsi su riviste italiane e straniere, nonché di alcune traduzioni, ha curato l’edizione italiana del saggio di Hannah Arendt Che cos’è la filosofia dell’esistenza (1998) e il volume collettaneo Il legame segreto. La libertà in Hannah Arendt (2005). Tra le sue principali pubblicazioni: Hannah Arendt e Martin Heidegger. L’esistenza in giudizio (2001); Biografia della ragione. Saggio sulla filosofia politica di MacIntyre (2008). (b) L’orizzonte teorico di riferimento cui pertengono le indagini svolte all’interno dell’ultimo studio di Sante Maletta è innanzitutto quello delineato da una “filosofia sociale” volta a sondare il senso dell’agire umano. La diagnosi della condizione umana e la riflessione sul significato del legame sociale nella prospettiva conoscitiva inaugurata dalla modernità, rappresentano, da questo punto di vista, le coordinate teoriche fondamentali per ripercorrere un itinerario storico-politico che culmina, da ultimo, nella crisi dello spazio pubblico. Lo scenario contemporaneo è caratterizzato, in effetti, dal fallimento dei modelli normativi razionalistici delle scienze sociali e dalla dissoluzione della prospettiva soggettivistica dominante, ormai divenuta espressione paradigmatica di un individuo che, nel tentativo di affrancarsi dalla propria tradizione e di accedere alla libera realizzazione di sé, si ritrova invece massificato in una mera forma di vita predisposta all’“auto-oggettivazione”. In questo senso, espressioni quali reificazione, individualismo senza soggetto, fine della soggettività, ecc., non sono semplicemente delle formule sintetiche, seppur efficaci, per descrivere il fallimento dell’essere umano nel tentativo di produrre se stesso; si tratta ben altrimenti di occorrenze in cui il pensiero ha provato a dare voce 25


a una istanza critica che emerge sempre di nuovo in momenti differenti e in percorsi speculativi anche alternativi tra di loro. In questo testo, in particolare, l’autore prende in considerazione quattro prospettive specifiche che tentano diversamente di restituire le condizioni di possibilità teoriche e pratiche per la realizzazione di un ideale di compimento dell’essere umano, il quale tenga conto nondimeno del sostrato antropologico che sottende alla relazione sociale. La componente critica di una indagine conoscitiva siffatta è esibita già nel primo capitolo, dedicato a quella “teoria sociale” di Axel Honneth basata sull’idea hegeliana di riconoscimento e mediata dalla riflessione sull’esperienza dell’ingiustizia. La prospettiva honnethiana, in effetti, rimettendo in questione il rapporto tra individuo e organizzazione sociale, rintraccia l’origine dei legami nell’interazione tra forme creative di razionalità pratica, nelle quali sono messi in gioco anche gli aspetti propriamente culturali della società. Nel secondo e nel terzo capitolo viene esplicitata la componente propriamente aristotelica che sottende a una analisi di questo tipo, attraverso il ricorso a due autori che si collocano su questa stessa linea di pensiero: Hannah Arendt e Alasdair MacIntyre. Arendt si inserisce, difatti, nel contesto di quella Riabilitazione della filosofia pratica che trova appunto nella figura di Aristotele un paradigma di riferimento critico rispetto al rivolgimento operato dall’epistemologia moderna e dal suo progetto di idealizzazione e razionalizzazione di tutto lo scibile umano, non escluso l’ambito della decisione pratica. MacIntyre, a sua volta, pur incarnando inizialmente un percorso intellettuale d’ispirazione marxista, giunge a delineare un approccio etico legato indissolubilmente alla concezione aristotelica di virtù, intesa come esercizio di una prassi razionale volta al bene comune. La lettura offerta da queste due prospettive, seppur a partire da punti di riferimento diversi, tenta in entrambi i casi di rendere ragione del senso di decadenza e di impotenza che caratterizza la società tardo-moderna e l’individuo nella sua essenziale incapacità di agire, con il conseguente oblio dello spazio pubblico. Nel quarto capitolo, si presenta infine una esperienza peculiare in cui sembrano verificarsi le istanze di criticità precedentemente rilevate. Si tratta del dissenso ceco e del ruolo svolto al suo interno da personalità quali Vacláv Havel e Jan Patočka, capaci di restituire, attraverso la loro testimonianza, il significato di una prassi autonoma e generativa di senso. (c) L’indagine di Maletta chiarisce come, nel dibattito sulla possibilità di un nuovo “pensiero critico”, il sentiero tracciato da Honneth indichi una diversa curvatura della trasformazione sociale rintracciabile nello stesso agire preterintenzionale degli esseri umani. Se è vero, però, che l’intento di Honneth è in primo luogo quello di delineare il “fondamento normativo non formale” per la costituzione della società, il quale si rende pure riconoscibile nella creatività inconsapevole delle pratiche sociali, tuttavia la sua lettura rimane ancorata alle idee di reificazione e di razionalità strumentale che gli provengono dal contesto d’appartenenza webero-marxista cui egli rimane in definitiva vincolato. In tal modo Honneth si inserisce a pieno titolo nella prospettiva di una “fine dell’individuo” che tuttavia non è in grado di esaurire l’impensato della politica. La dimostrazione di questa impossibilità viene invece dall’idea di una soggettività dissidente e dalla possibilità che essa apre a una diversa prospettiva sul mondo, nella quale l’umano risulta di fatto irriducibile a mera “forma di vita”. Questa esperienza conoscitiva si rende effettiva nel movimento 26


dell’esistenza di quei pochi individui che dall’impotenza costitutiva della condizione umana sono stati capaci di trarre il negativo del pensiero che non scade nel nichilismo. Maletta riporta l’esempio concettuale dei “non-partecipanti” di cui parla Arendt, così come degli uomini spirituali che si prendono “cura dell’anima” nella prospettiva di Patocka, i quali, avvertendo lo scotimento del senso prodotto nel contesto dei dark times, rimagono nondimeno fedeli alla loro capacità di pensare e di giudicare, rifiutandosi di aderire all’ideologia dominante. Questo modello di “pensiero negativo” è incarnato dal caso di Havel e dei dissidenti cechi, ma anche di quelle persone che sotto il regime nazista si rifiutarono di commettere crimini solo perché imposti dall’alto. In questi individui vi è, in effetti, una percezione attuale dell’ingiustizia che muove al confronto fra sé e sé e che, dai recessi dell’interiorità, libera la capacità di giudicare e di opporsi al male totalitario. In tal senso, l’antropologia filosofica arendtiana è rappresentativa di questa attività di un pensiero libero (dove la libertà non è da intendersi come mera “libertà-di” o “libertà-da”, ma sempre come “libertà-per”) da cui pure può scaturire la prassi autentica. Attraverso queste esperienze è possibile pertanto delineare una “fenomenologia del bene”, speculare alla caratterizzazione antropologica “negativa” incarnata nella figura del soggetto dissidente, per cui la crisi dell’agency individuale e collettiva viene ora interpellata da un punto di vista altro. Giacché gli effetti dell’azione non sono in alcun modo comprensibili dalla razionalità strategica rivendicata dall’aspirazione alla scientificità delle scienze sociali. Attraverso il supporto teorico delle prospettive neoaristoteliche di MacIntyre e della stessa Arendt, Maletta può quindi ricondurre la prospettiva soggettiva al senso peculiare della responsabilità offerto da un’etica della “prima persona” e dal recupero della categoria di virtù in senso classico. D’altronde, la figura del “giusto”, nelle sue prerogative impolitiche e pre-politiche, sembra in grado di fornire quel fondamento normativo non formale ricercato da Honneth, il quale garantisce l’essere della politica e l’irruzione dell’umano alla luce dello spazio pubblico. In definitiva, il contributo più interessante di questo saggio è quello di restituire, attraverso una riflessione su esperienze rappresentative del “giusto della politica”, il significato intimo di quelle categorie antropologiche che formano propriamente l’individuo prima del suo ingresso nella sfera del politico. In questo senso, il soggetto dissidente può reclamare l’esperienza storica di un assoluto che eccede qualsiasi modello “avalutativo” delle scienze sociali, rendendo così evidente come il male politico, l’allontanamento della politica e dalle virtù civiche sia dovuto alla schizofrenia di un individuo e di una società ai quali è stato chiesto di separare l’esistenza e l’agire morale dalla politica. (Saverio A. Matrangolo) 195. François Zourabichvili, Il vocabolario di Deleuze, Negretto, Mantova 2012, p. 90. (a) François Zourabichvili (1965-2006) ha insegnato nei licei dal 1988 al 2001, per poi diventare maître de conférences presso l’Università “Paul Valery” di Montpellier e direttore del programma del “Collège International de philosophie”. Tra le sue opere: Deleuze. Une philosophie de l’événement, PUF, Paris 1994 (tr. it. Deleu27


ze. Una filosofia dell’evento, Ombre Corte, Verona 2002); Le conservatisme paradoxal de Spinoza. Enfance et royauté, PUF, Paris 2002; Spinoza. Une physique de la pensée, PUF, Paris 2002 (tr. it. Spinoza. Una fisica del pensiero, Negretto, Mantova 2012). (b) Sin dagli anni Settanta dello scorso secolo la letteratura critica deleuziana si è concentrata soprattutto sulle opere di maggior impatto nel dibattito culturale coevo sui temi dell’alienazione, quali l’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972) e Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (1980), entrambe scritte con Félix Guattari. Un filone critico assai consistente è quello della teoria del cinema, cui Deleuze ha dato un contributo decisivo sul piano filosofico con Immagine-movimento. Cinema I (1983) e Immagine-tempo. Cinema II (1985). Importanti sono anche le linee interpretative nel campo estetico e critico-letterario che accolgono e sviluppano le opere deleuziane dedicate, tra gli altri, a Bacon, Proust e Kafka. Ovviamente sono pure presenti opere critiche in cui l’interpretazione si pone al servizio di un intento prettamente teoretico, che lavorano soprattutto sui due testi deleuziani decisivi da questa prospettiva: Differenza e ripetizione (1968) e Logica del senso (1969). Una linea più sotterranea ma decisiva dal punto di vista ermeneutico – spesso intrecciata con la precedente – è infine quella che lavora sugli autori di Deleuze e sulle sue interpretazioni (Spinoza, Leibniz, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, senza dimenticare Sartre, figura centrale nella formazione del nostro filosofo) o che lascia interagire le sue opere con quelle di autori coevi, quali Foucault e Derrida. (c) Il lavoro di Zourabichvili si colloca decisamente all’interno della penultima prospettiva. Si tratta di un “inventario” del pensiero di Deleuze che, prendendo sul serio la sua definizione di filosofia, lavora sui concetti da lui prodotti, ordinati secondo una logica casuale e arbitraria: l’ordine alfabetico. Dal punto di vista di una coerente e radicale filosofia dell’immanenza (o, come dice Deleuze, di un empirismo trascendentale) infatti non c’è distinzione tra il piano dei concetti e quello degli eventi: i concetti sono strumenti imprescindibili per arginare il caos che caratterizza l’unico piano ontologico, quello dei corpi che si incontrano/ scontrano secondo una necessità casuale. Il tentativo è quello di pensare l’esperienza facendo epoché dal “senso comune” e dal “buon senso” formati da millenni di tradizione metafisica di origine platonica. Per far ciò occorre riferirsi a esperienze particolari, in cui questo schermo “ideologico” viene infranto dalla forza della realtà e che Deleuze trova in particolare o nella pratica clinica o nella letteratura. Da tale prospettiva l’esperienza è incomprensibile a prescindere dalla coppia concettuale attuale/virtuale, in quanto essa non si esaurisce mai in ciò che percepiamo, pensiamo o diciamo attualmente, ma è sempre accompagnata da forze, istanze emozionali e cognitive (la triade percetto/affetto/concetto), vale a dire da virtualità che determinano e arricchiscono l’attuale. La psiche fa parte di tale piano di immanenza e determina quel “regime cristallino” che struttura l’esperienza, poiché l’attuale si manifesta solo nel momento in cui è riflesso nello psichismo. È chiaro quindi che dal punto di vista dell’empirismo trascendentale un concetto non ha senso se non quando è messo “in situazione”, vale a dire in una “struttura”, intesa come mera combinatoria di elementi formali. Se ciò è vero, lavorare sui concetti deleuziani come fa Zourabichvili, in una situazione per forza di cose differente da quella di Deleuze stesso, significa ne28


cessariamente produrre nuovi concetti capaci di elevare il soggetto – entità producentesi nel processo esperienziale stesso – all’altezza del suo desiderio (anzi, di coincidere con esso), laddove il desiderio viene inteso come flusso a-soggettivo, realtà puramente affermativa priva di legge e finalità, secondo il modello antropologico di origine lamettriana dell’“uomo-macchina”. (Sante Maletta) 196. Vincenzo Rizzo, Vita e razionalità in Pavel Florenskij, Milano, Jaca Book 2012, p. 319. (a) Vincenzo Rizzo è dottore di ricerca in Filosofia e collabora alla cattedra di Filosofia Teoretica presso il Dipartimento di Scienze della Persona dell’Università di Bergamo. Fin dall’inizio della sua carriera di studi si è occupato di pensiero russo dell’età moderna e contemporanea, a partire dalla tesi di laurea su Libertà e nichilismo in Dostoevskij. Ha più volte soggiornato in Russia, dove ha curato una voce per il dizionario enciclopedico Globalistika, promosso dall’Accademia Russa delle Scienze. Il tema del volume che presentiamo, che gli è valso il dottorato, è una ricognizione, sia sul versante teorico che su quello della storia delle idee, delle fonti russe ottocentesche maggiormente influenti sull’itinerario di pensiero dello scienziato, teologo e filosofo Pavel Florenskij. Tale ricerca ha ampliato in maniera consistente la conoscenza del dibattito filosofico nella Russia dell’ultimo scorcio del XIX secolo, focalizzandosi in modo particolare sulle traduzioni e sulle opere enciclopediche e critiche più influenti nel mediare alla cultura russa le acquisizioni dell’idealismo tedesco, dello storicismo, del neokantismo e soprattutto della storiografia filosofica sul pensiero antico, segnatamente sul platonismo e il neoplatonismo, che nella Russia fin de siècle conoscevano un revival imponente; si è inoltre diretta ad una nuova delineazione, non ancora tentata dagli studiosi florenskijani d’Italia, dei problemi filosofici a partire dai quali Florenskij ha edificato le costanti teoriche fondamentali della sua varia, copiosa e sempre geniale polymathia. (b) Vasta per interessi, geniale per intuizioni e stupefacente per ampiezza di fonti che le soggiacciono, la produzione saggistica di Pavel Florenskij si è spesso legata alla pur preziosa e feconda occasionalità dei suoi molti interessi e incarichi: da quella di insegnante dei giovani teologi, a quella di docente presso l’Accademia d’Arte sovietica, a quella di autorevole sacerdote impegnato nelle questioni pastorali ed ecclesiali della Chiesa ortodossa nella terribile prova della Rivoluzione. Ciò ha spinto una prima, preziosa fase degli studi florenskijani verso una ricostruzione innanzitutto filologica e biografica, resa tanto più urgente dal fatto che solo in epoca molto recente la fine della censura, imposta dalla damnatio memoriae del grande filosofo, ha consentito l’accesso alle testimonianze di e su questo martire, nonché alla mole impressionante di inediti e materiale epistolare. Su tali presupposti le monografie florenskijane apparse a partire dagli anni Novanta hanno privilegiato singoli temi o ambiti della theoria florenskijana (l’epistemologia, come negli studi di S. Tagliagambe, o la teologia in rapporto all’estetica dell’icona in casi come quelli di M. Cacciari e N. Valentini). Meno frequentato è stato il versante teorico complessivo di questo affascinante arcipelago. Il lavoro di Rizzo si assume l’onere di abbozzare un 29


ritratto dell’idea di razionalità quale emerge dai temi che il pensiero florenskijano ha fatto propri sin dai suoi inizi e coltivato con sempre maggiore profondità. A questo scopo ambizioso ― ma decisamente utile anche come introduzione ragionata a chi si accosti per la prima volta a questo opus magnum ― perviene riprendendo e superando quanto finora appurato dalla ricerca florenskijana russa sui linguaggi filosofici e sui problemi più drammaticamente presenti nel dibattito culturale russo a cavallo tra ’800 e ’900. Il ricco ventaglio delle fonti florenskijane, finora non centrale in una letteratura critica cui spettava il compito di fare da lungi uno schizzo dell’iceberg e che non aveva il tempo e il materiale per raccontarne la genesi, viene perciò sondato in molte delle sue regioni meno note e più rivelatrici. In ultimo il rapporto tra esperienza vivente di Dio ed esame critico di alcuni aspetti della tradizione metafisica e gnoseologica occidentale non ha trovato ancora, né nella letteratura critica russa né in quella italiana, una definizione che non fosse ritagliata su quelle che il critico di volta in volta presupponeva come la gerarchia di preferenze florenskijana, senza che mai o quasi mai il problema dell’unità vivente delle scienze, dell’esperienza metafisica e della vita trovassero una sintesi documentata nei testi e nel costante sedimentarsi, privo di discontinuità sostanziali, delle pagine e delle riflessioni dello stesso Florenskij. (c) Nella prima parte lo studio di Rizzo colloca con dovizia di riferimenti la ricezione del pensiero di Pavel Florenskij – e anche la dolorosa censura che per decenni gli è stata serrata addosso – nel quadro della nozione di rivoluzione, spiegando l’intollerabilità, agli occhi del programma comunista di riduzione costruttivistica del sapere e dell’investigare, della nozione florenskijana di razionalità come rapporto verso un tutto vivente ad opera di un io finito; la vita del Tutto, partecipata in quanto dono dischiuso alla libertà, individua la parzialità dell’io come proprio membro vivente e irrinunciabile, sicché non può esservi dato di verità che non animi e a ritroso confermi la sacrosantità del soggetto che lo afferma o lo coglie. Ma dinanzi all’inevitabilità della catastrofe umana che si dischiude al compiersi/ pervertirsi del progetto totalitario, la Persona riceve la missione della testimonianza e nella morte donata: il fatto che nessuno sterminio tecnico e impersonale possa conculcare la traccia apparentemente impercettibile dell’io che afferma il Logos dato dall’alto, costituisce la prova anche filosoficamente più certa, e storicamente ricorrente, della menzogna caduca che il male è. In questo senso Rizzo dispiega persuasivamente nelle pagine iniziali del suo studio la documentazione di quei tratti che Florenskij attribuiva, ancor prima che al suo lavoro teoretico, al modo in cui la verità gli si presentava come trascendenza che solo nella vita si fa avvertire come presenza “altra”: “L’incognito non era per me un fenomeno consueto ma sconosciuto, bensì il contrario [...] un’irruzione nel consueto dall’ambito della trascendenza” (p. 3, n. 2); insomma, perché il finito riveli l’infinitezza definita del suo significato, occorre che nella vita si affermi qualcosa di cui nessun ”contenuto” interno alla vita può erigersi a criterio o causa. Nella seconda parte del volume Rizzo ha allora il merito di rintracciare questa nozione di trascendenza vivente nella ricezione del neoplatonismo e dei Padri greci che a fine Ottocento aveva caratterizzato il particolare platonismo di Vladimir Ern e la riscoperta dell’antico di S.N. Trubeckoj. La plenaria ricchezza della libertà vitale come totalità creata, che più intensamente riflette l’unità del Nous, deriva dunque a 30


Florenskij dall’aver partecipato con passione, nei suoi anni giovanili, al rinnovamento che i due interpreti del pensiero antico avevano proposto a una Russia attraversata dai torbidi del nichilismo. È questo il filo d’Arianna che Rizzo credibilmente rintraccia come elemento di unità tra le successive elaborazioni e i moltissimi campi del sapere di cui il genio russo è stato protagonista: innanzitutto la potente, soggiogante teoria di una comune percezione metafisica – ed esigenza desiderante – del vero come chiave all’unità delle culture e delle società prescientifiche, con decenni di anticipo sulle teorie fenomenologiche del sacro e soprattutto con una più luminosa evidenza del nesso tra quanto di implicito si esprime nel patrimonio di culti e segni iconici dell’arcaico e quanto matura nell’esperienza di un uomo che si confronti lealmente con la realtà del proprio decidersi e con la partecipazione al proprio tempo tramite l’appartenenza a un popolo determinato (affascinante è al riguardo la lettura che Rizzo dà di uno scritto non troppo noto di Florenskij, Le radici dell’idealismo comuni a tutta l’umanità). Su questo intreccio tra antropologia filosofica dell’homo naturaliter religiosus e storia del culto – storia tout court degli umani, si potrebbe dire, vista la rilevanza determinante che Florenskij attribuisce al culto come espressione ad extra della totalità partecipata da una comunità che si flette in soggetto d’azione – la parte terza di questa ricerca edifica quella sorta di dialettica dell’esperienza misticamente orientata in cui possiamo racchiudere, in termini florenskijani, l’atto del farsi persona e il suo essere partecipe del Logos: vi troviamo chiaramente delinate le pagine più dense della tematizzazione florenskijana dell’esistenza e della soggettivazione, fino al carattere trasfigurante dell’offerta del sangue, ignara nel martire anonimo e capace di farsi parola da ereditare in chi offre il sacrificio dell’io carnale nella luce della Terra, luogo lucente e animato dalla memoria di tutti i mai dimenticati testimoni del bene. È in questa pagina finale che, accompagnati dal lavoro di Rizzo, scorgiamo affiorare, cuore autentico di tutte le genialità florenskijane, una cristologia messa a dimora nel terreno dell’esperienza umana, criterio della sua intelligibilità e rivelazione incontrata in concreto che rischiara, ordina, conforta ogni memoria. (Paolo Cevasco) 197. Renato Boccali, L’eco-logia del visibile. Merleau-Ponty dell’immanenza trascendentale, Mimesis, Milano 2011, p. 362.

teorico

(a) L’Autore è ricercatore confermato presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione di Milano (IULM), dove insegna Estetica nel Corso di Laurea in Comunicazione nei mercati dell’arte e della cultura. Ha collaborato alla progettazione e realizzazione della Cattedra UNESCO “Studi Culturali e Comparativi sull’Immaginario”, attiva dal 2006 presso l’Università IULM, di cui è coordinatore affiancando il titolare (project leader), Prof. Paolo Proietti. Il suo ambito di ricerca verte sui rapporti tra letteratura e filosofia, sulla relazione tra estetica, teoria delle arti, letteratura. Ha inoltre indagato l’ambito delle teorie dell’immagine, della cultura visuale, dell’immaginario e delle teorie della traduzione. Tra le sue pubblicazioni, La narrazione come traccia: percorsi e forme del raccontare attraverso lo sguardo del novecento (con A. Fioravanti e G. Saccoccio), EDUP, Roma 2002; Bachelard et D’Annunzio: les maîtres du Feu, in: L’imaginaire du feu. Approches bachelardien31


nes, Jacques André Editeur, Lione 2007; ha curato con P. Proietti Le frontiere dell’alterità. Immaginari del prossimo, dell’estraneo, dell’esotico, Sellerio, Palermo 2009; Sur les traces de la mémoire perdue du Pacifique. Segalen entre ethnographie et littérature, in: Alain-Michel Boyer (c/ di), Littérature et Ethnographie, Cécile Defaut, Nantes 2011; Fenomenologie dell’immaginario. L’oggetto estetico tra coscienza d’immagine e immagine materiale. “Polifemo. Nuova serie di Lingua e Letteratura”, vol. 1, 2011; Il selvaggio in maschera. Lo spazio polinesiano nel caleidoscopio d’Europa, in: P. Proietti (c/ di), Orizzonti europei dell’immaginario, Sellerio, Palermo 2011; Gaston Bachelard e l’estetica tattile: poesia della mano e resistenza della materia, in: Bachelard e le ‘provocazioni’ della materia, il melangolo, Genova 2012. (b) Il testo si inserisce nella ricca e complessa ripresa dell’opera del pensatore francese che caratterizza l’ultimo ventennio almeno e che si concentra in particolare sullo sviluppo di un’antropologia filosofica che insiste sulla centralità del “corpo vivente”. Da tale prospettiva l’approccio filosofico di Merleau-Ponty si presenta come uno sviluppo di potenzialità già presenti all’interno della tradizione fenomenologica e allo stesso tempo come una soluzione di continuità per la portata che tale mossa teorica ha sul pensiero contemporaneo, tanto sul suo versante propriamente gnoseologico quanto su quello etico ed estetico. Il volume di Boccali si concentra sulle conseguenze che tale approccio antropologico ha sul piano ontologico; non può quindi mancare un confronto con Heidegger e in particolare con la figura del Geviert. (c) Il testo annuncia la filosofia di Merleau-Ponty come riflessione ecologica e cioè come abitazione (oichos) della ragione (logos), mettendo così a tema il sensibile come luogo di visibilità dell’Essere che nell’immanenza al sensibile può rivelare la sua trascendenza. Il sensibile, da sempre luogo dell’interrogazione filosofica, vive, in questa rilettura che Boccali offre della filosofia di Merleau-Ponty, una considerazione che lo sottrae alla alternativa di una contingenza da abbandonare o una datità da assolutizzare per accedere a una sua “riabilitazione”, così come annuncia nel capitolo conclusivo. Il percorso di questa riabilitazione, che obbliga a mettere in primo piano il tatto rispetto alla vista (come sarà svolto nel capitolo sesto), attraversa la discussione di Mondo, Terra e Natura. Centrale allo svolgersi di questa riflessione è il capitolo terzo, “Per una storia del concetto di natura”, che riprende criticamente le riflessioni svolte da Merleau-Ponty durante i corsi su La Natura, tenuti al Collège de France dal 1956 al 1960. Durante quelle lezioni, viene messa in questione, in modo rinnovato, la lettura cartesiana della natura trovando una risorsa di pensiero nella fisica contemporanea, che supera l’immagine di un oggetto spazio-temporalmente collocabile e permette un accesso all’essere non più frontale, ma trasversale in virtù di una messa in questione sia delle relazioni tra osservatore e osservato che delle particolari condizioni dell’osservatore. Se il confronto con Descartes e la meccanica quantistica permette a Merleau-Ponty di risalire verso l’originario, cioè verso una evidenza antipredicativa che precede ogni attività trascendentale, il confronto con Schelling gli permette di cogliere, in modo immediato, il mondo della vita e permette di condurre verso l’Essere ‘selvaggio’ che si trova nel sensibile attraverso un’ascensione verticale che si dà senza pretendere, in alcun modo, uno strappo dal 32


sensibile stesso. Come osserva Boccali, questa lettura che fa giocare Schelling tra Bergson e Husserl, tra una natura intesa come vita, come slancio vitale e una natura intesa come mondo della vita, è debitrice anche a Whitehead per svelare quel residuo barbaro, fondo oscuro e irriducibile della natura. Attraverso un percorso che ha incrociato alcune tappe del pensiero occidentale, siamo stati condotti alla riscoperta della Natura come casa dell’Essere bruto e selvaggio, per poi riflettere sul senso di questa riscoperta e cioè della Natura foglio o strato dell’Essere stesso, che introduce alla dimora dell’Essere dove riscoprire quel livello originario in cui il sensibile accumuna uomini, animali e cose. La proposta teorica di Boccali è quella di accedere al senso di questa nuova ontologia della carne attraverso l’idea di chiasma che opera unità e alterità, dove si incrociano e si invertono le dimensioni dell’Essere. Questo luogo dell’incontro è il luogo della profonda reversibilità di visibile e in-visibile. In questo senso l’eco-logia che il volume annuncia, se da un lato prefigura la dimora del logos e dunque la visibilità dell’in-visibile, d’altro canto pone nell’immanenza del sensibile l’invisibilità del visibile. (Francesca Bonicalzi) 198. Enrico Guglielminetti, La commozione del bene. Una teoria dell’aggiungere, Jaca Book, Milano 2011, pp. 234. (a) Enrico Guglielminetti (Torino, 1963) è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Torino. I suoi studi si sono concentrati sul pensiero moderno e contemporaneo tedesco (Schelling, Benjamin) e, più recentemente, sul poliedrico nesso tra salvezza e ambiguità. È membro del comitato scientifico del Centro Studi Filosofico-Religiosi “Luigi Pareyson” e della Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino, nonché coordinatore della redazione nordoccidentale della rivista “Filosofia e Teologia” e fondatore (e direttore responsabile) della rivista “Spaziofilosofico”. Tra i suoi volumi più recenti, tutti usciti presso la casa editrice Jaca Book, si segnalano: Metamorfosi dell’immobilità (2001), Il mondo in eccesso. Scambio dei doni in Hölderlin e Novalis (2003), “Due” di filosofia (2007). (b) Il tema del Bene attraversa in un certo senso carsicamente il dibattito contemporaneo. Nell’ambito della filosofia morale esso sembra infatti aver da tempo perso una condivisa posizione di centralità tematica o anche solo problematica. Lo stesso recupero di istanze classiche (aristoteliche o tommasiane) quale si può rilevare, ad esempio, nella Virtue Ethics, spesso sceglie di incrociare il problema morale ruotando attorno ad altre questioni antropologico-fondamentali (agire, vivere in società) o a urgenze giudicate maggiormente condivise o pressanti (basti pensare al tema della giustizia). Se si guarda poi alla sporgenza metafisica della questione del Bene, segnalata fin da Platone e Aristotele come un tratto epistemologicamente e metodologicamente imprescindibile nella problematizzazione di tale questione, essa cade preda dello stato di crisi della ragione metafisica, uno stato ormai da lungo tempo consolidato. Da alcuni filoni dell’ermeneutica, in particolare da quelli meno ostili per principio alla metafisica, viene tuttavia l’invito a riconsiderare in termini consistenti la questione del Bene proprio come questione che si manifesta 33


nell’intersezione stessa degli sfasamenti e delle peripezie aperte dalle vicissitudini contemporanee della razionalità filosofica. Tale questione può così emergere con un rigore altro da quello caratteristico di un pensiero deduttivo o che si pretende semplicemente ostensivo, ma che è quello di una riflessione che si impegna con la questione dell’origine della sua stessa tenuta. (c) Il volume si articola seguendo una peculiare struttura in tre parti: Entrate, Posti, Uscite. L’A. intende dar corpo, attraverso una molteplice varietà di strategie, a una concezione del Bene nella quale esso non opera come qualità eminente o semplicemente prima, ma come “ciò che sopporta l’aggiunta”. Nell'entrata prima l’A. mette a fuoco teoreticamente il problema del Bene nel contesto dell’oscillazione tra ontologia e metafisica che attraversa la storia del pensiero dell’essere, da Aristotele a Heidegger e Derrida. Questo “imbarazzo” viene assunto dall’A. come sfasamento produttivo, come impossibilità di una neutralizzazione del pensiero del fondamento in rapporto al Bene. Si delinea così una doppia via di indagine. Da una parte l’A. argomenta contro una Regola di pensiero che escluda come patologica ogni eccedenza, ogni commozione, dall’altra, in sede teoretica, viene proposto un pensiero del fondamento, di Dio, che dia spazio al “contro-tempo” che gli eventi irriducibili della generazione e del perdono suggeriscono come irrinunciabile. Il luogo stesso della filosofia si trova tra Regola paralizzante e Mondo. In questa doppia distanza/“doppio legame” con la verità della Regola (del Fondamento) e con la totalità del Mondo, la filosofia è chiamata a costringere il senso ad essere il senso di qualcosa e allo stesso tempo a muovere il mondo ad accettare lo “scambio” con il Fondamento. Nella seconda parte del volume (Posti) la collocazione plotiniana dell'Uno al di là dell’Intelligenza – dunque al di là del “due” – pur consegnando alla tradizione successiva un Fondamento imprendibile, a giudizio dell’A. lascia aperta, proprio nel suo stesso non aver luogo, tempo o forma, la possibilità di una “addizionabilità universale”. Possibilità invece preclusa nella teologia tommasiana. Rifiutando ogni ricettività in Dio, la riflessione di Tommaso esclude esplicitamente da Esso ogni possibile aggiunta o “complessità”, rendendosi così un vero e proprio paradigma del pensiero anti-aggiuntistico: ogni sospetto di “complessità” introdurrebbe disordine nel cosmo. L’antropologia dell’Aquinate è invece, secondo l’A., aggiuntista: la natura umana, infatti, necessita dell'estensione decisiva del “preter naturale” che riempie la mancanza (caduta) con un’eccedenza indispensabile. Le pagine finali, dedicate alla prima “allocazione” del pensiero dell’aggiunta sono dedicate al “dispositivo ontologico” della distinzione tra essenza ed esistenza. L’A. indica nella proposta di Enrico di Gand in favore di una “distinzione di intenzione” lo spazio percorribile per una “ontologia della non coincidenza” nella quale “C'è davvero, solo quello che c'è in più” e la reale dimensione dell’essere appare come quella dello stare presso, più che non quella di una sterile identità o di un problematico equivocismo. La seconda sezione dedicata ai Posti mette in scena il tema delle aggiunte innanzitutto in quel luogo la cui forma stessa è quella dell’empasse tra azione e verità: il Convito. Le molteplici impossibilità del convito espresse da Platone, da Da Ponte e da alcuni passi del Vangelo di Matteo mostrano un luogo definito da paradossi e confronti incomponibili. Il Convito può però rendere fluida ogni contrapposizione e fungere così da “asse di ribaltamento” di ogni impossibilità, inclusa quella di una scelta, di un invito che non esclude chi resta fuori. La figura di questa doppia mossa 34


è messa in risalto dall’A. fin nello stesso Prologo giovanneo. Il Verbo in Principio dice la paternità originaria del Fondamento, una “vita” che garantisce movimento e reale drammaticità al Mondo, ossia una sempre possibile aggiungibilità alla parte della Luce. La filosofia dell’aggiunta si propone dunque come una via ermeneutica che è metafisica proprio per la sfasatura che attraversa questo termine e quell’essere che essa tratta. Se la metafisica classica è, osserva l’A., metafisica dell’Ego sum qui sum, ad essa deve aggiungersi la metafisica del “secondo nome di Dio”, “Jahweh, Jahweh, Dio di pietà e misericordia”, un nome non a caso ripetuto, segno di una sfasatura nella quale può trovar spazio e storia una imprevedibile aggiungibilità. Le Uscite che nelle brevi pagine finali del volume rimettono in circolo il percorso fatto con una serie di suggestivi e veloci spunti di direzione dedicati al linguaggio, al legame ed all’esistenza autentica, “propria”. (Matteo Amori)

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LETTURE – RECENSIONI

Alessandra Rauti Inquadramento storico-sistematico delle opere di Dilthey e criteri di pubblicazione: Wilhelm Dilthey, Gesammelte Schriften, Bd. XIX, apparso a cura di Frithjof Rodi e Helmut Johach per la casa ed. Vandenhoeck & Ruprecht di Gottinga nel 1982. La sistemazione delle opere di Dilthey presenta numerosi problemi, a causa della loro frammentarietà e della mole degli inediti disponibili. In questo articolo proponiamo un quadro generale storico dei testi pubblicati da Dilthey, di quelli postumi, degli inediti e dei progetti. Mostreremo inoltre la differenza tra il criterio di suddivisione e pubblicazione adottato dai primi curatori, Misch e Groethuysen, e quello proposto dai curatori attuali, Rodi e Johach. Ci concentriamo qui principalmente sul volume XIX delle Gesammelten Schriften, edito da questi ultimi nel 1982 e non ancora tradotto in italiano. Esso contiene come nucleo centrale due progetti per la continuazione dell’opera principale di Dilthey, l’Einleitung in die Geisteswissenschaften1, comparsa nel 1883. Il primo è noto come Breslauer Ausarbeitung e sulla sua traccia si possono ordinare tutti i lavori diltheyani degli anni ’80, come dimostrano Rodi e Johach, il secondo porta il titolo di Berliner Entwurf e fornisce il filo conduttore per i testi degli anni ’90. Analizzando questi due progetti e mostrandone le differenze vedremoome essi diano per la prima volta la possibilità di leggere tutta l’opera diltheyana in modo unitario, come svolgimento di idee che ritroviamo già nei testi anteriori all’Einleitung e che conducono fino alla dottrina delle categorie presente nelle ultime opere.

1. L’Einleitung in die Geisteswissenschaften L’intento di Dilthey è principalmente quello di rivendicare l’autonomia delle scienze storico-sociali, le scienze dello spirito, rispetto a quelle della natura. Esse si diffe-

1 W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften, “Ges. Schr.” I. (prima tr. it., Introduzione alle scienze dello spirito, c/ di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974 – nuova trad. it. c/ di G.B. Demarta, RCS, Milano 2007.

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renziano innanzitutto in base al loro oggetto: le scienze della natura si basano sull’osservazione dei fenomeni esterni all’uomo, quelle dello spirito sui fenomeni interni, dati nell’esperienza interna. “Per la costituzione in forma autonoma delle scienze dello spirito occorre innanzitutto che [...] da quei processi che sono formati mediante un collegamento concettuale sulla base del dato sensibile, e soltanto di questo, si distinguano, come un ambito particolare di fatti, quegli altri processi che sono invece dati primariamente nell’esperienza interna”. 2 Questi ultimi processi sono dati alla coscienza in modo immediato, “senza alcuna cooperazione dei sensi”. Essi vengono “vissuti” dall’interno, non osservati come i fatti che sono oggetto delle scienze della natura. Ciò è sottolineato dall’uso indifferente dei termini esperienza interna (innere Erfahrung) ed Erlebnis, esperienza vissuta. I fenomeni che stanno alla base delle scienze dello spirito vanno “compresi”, non spiegati mediante leggi causali come i fatti della natura. E poiché essi sono dati direttamente nell’esperienza interna, l’unico modo di averne conoscenza è l’introspezione. A questo punto Dilthey distingue le scienze dello spirito nelle due grandi classi di scienze dell’individuo e scienze della realtà storico-sociale e afferma che le prime sono fondanti nei confronti delle seconde. Secondo Franco Bianco: “La psicologia diltheyana si presenta come l’indagine di quella realtà individuale che rappresenta l’elemento atomico, il reperto più semplice cui l’analisi della realtà storico-sociale possa pervenire. In questo senso essa è la prima e più elementare tra le scienze dello spirito e assolve rispetto alle altre ad un compito di fondazione”. 3 Se l’unico metodo di conoscenza dei fenomeni spirituali è l’introspezione, allora lo studio dell’uomo concreto intrapreso dalla psicologia e dall’antropologia deve precedere lo studio sia dei sistemi di cultura (arte, religione, filosofia, scienza), che dell’organizzazione esterna della società, cioè delle istituzioni politiche, economiche, giuridiche, che insieme costituiscono le scienze della realtà storico-sociale. A questo proposito scrive Pietro Rossi: “L’analisi della struttura della vita psichica, condotta dalla psicologia, viene perciò a coincidere con l’indagine critica delle condizioni di possibilità delle scienze dello spirito”. 4 I caratteri di questa nuova psicologia vengono delineati da Dilthey nelle Idee su una psicologia descrittiva e analitica5 del 1894. La psicologia deve analizzare l’esperienza interna, mantenendosi nei limiti di una scienza descrittiva e analitica, senza pretendere di derivare da assunti ipotetici la

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W. Dilthey, Einleitung..., cit, “Ges. Schr.” I, p. 8-9. F. Bianco, Introduzione a Dilthey, Laterza, Bari 1995 p. 29. 4 Pi. Rossi, Introduzione a Lo storicismo tedesco, Utet, Torino 1977, p. 22. 5 W. Dilthey, Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, “Ges. Schr.” V, p. 139-240, tr. it. Per la fondazione delle scienze dello spirito, c/ di A. Marini, FrancoAngeli, Milano 1985, p. 351-446. 3

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descrizione della vita spirituale, come invece fa la psicologia esplicativa. La psicologia deve essere: “Descrizione e analisi di una connessione che è data originariamente e sempre come la vita stessa”; essa non può valersi dell’esperimento come le scienze positive, ma “ogni connessione da essa utilizzata può essere univocamente verificata per mezzo della percezione interna”. 6

2. I progetti per il II° volume dell’Einleitung È noto che Dilthey dopo la pubblicazione nel 1870 del primo volume della biografia di Schleiermacher, e quella nel 1883 del I° volume dell’Einleitung, non pubblicò nessuno dei rispettivi secondi volumi. I critici hanno perciò parlato di fallimento o di svolta del pensiero diltheyano. Il II° volume dell’Einleitung doveva fornire una fondazione gnoseologica, metodologica e logica la cui necessità si era prospettata a Dilthey durante le ricerche sulla società e sulla storia contenute sia nel I° volume dell’Einleitung, sia nel testo Lo studio delle scienze umane, sociali e politiche7 del 1875: “L’opera di cui pubblico qui la prima metà combina un procedimento storiografico con uno sistematico per risolvere il problema dei fondamenti filosofici delle scienze dello spirito al più alto grado di certezza [...]. Così l’esposizione storica prepara quella fondazione gnoseologica che sarà oggetto della seconda metà di questa ricerca”. 8 Johach e Rodi nella prefazione al volume XIX° delle Gesammelten Schriften forniscono un contributo essenziale per la comprensione della mancata pubblicazione del II° volume, sia mostrando nuovi dati biografici, sia mettendo in luce le difficoltà teoretiche implicate dal progetto diltheyano. Per la prima volta viene resa nota l’esistenza di un contratto formale con l’editore dell’Einleitung (Dunker & Humblot) in cui Dilthey aveva stabilito di non pubblicare il II° volume dell’Einleitung prima del II° volume della biografia di Schleiermacher, che sarebbe dovuto apparire presso un altro editore, Georg Reimer. Ciò aveva impedito formalmente la pubblicazione della Breslauer Ausarbeitung, che era già pronta nel 1882 e costituiva il nucleo dell’intera fondazione, secondo le parole di Dilthey stesso nella Althoff-Brief, un documento importante contemporaneo all’Einleitung: “Che nell’esperienza interna e nella corrispondente comprensione degli altri sia data la realtà (Wirklichkeit), cioè l’intera unica realtà (Realitaet) che noi posse6

W. Dilthey, “Ges. Schr.” V, p. 152, tr. it. Per la fondazione..., cit., p. 363. W. Dilthey, Über das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, “Ges. Schr.” V. p. 31-73, tr. it. Lo studio delle scienze umane, sociali e politiche, c/ di G. Cacciatore, Morano, Napoli 1975. 8 W. Dilthey, “Ges. Schr.” I, p. XV, tr. it. Introduzione alle scienze dello spirito, cit., p. 6, sottol. nostra. 7

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diamo, costituisce la prima parte della teoria della conoscenza delle scienze dello spirito. E la seconda è costituita dalla logica. Queste esposizioni costituiranno il terzo e il quarto Libro del mio lavoro; esse contengono il nucleo del tutto (Grundstock des Ganzen), che fu steso per primo” .9 Possiamo fare allora due considerazioni interessanti. La prima è che la Breslauer Ausarbeitung fu stesa prima dell’Einleitung. Essa non copre l’intero progetto del II° volume (fondazione gnoseologica e metafisica) e neppure l’intera fondazione gnoseologica, ma solo la prima parte di questa, relativa all’esperienza interna e alla comprensione degli altri. L’Einleitung fu stesa rapidamente tra il 1882 e il 1883, e infatti di essa non si ha notizia nella corrispondenza anteriore al 1882, probabilmente perché la possibilità di una chiamata alla cattedra di Berlino rendeva urgente che Dilthey pubblicasse un lavoro accademicamente importante. Dilthey venne poi chiamato a Berlino alla fine del 1882 e accettò la cattedra. Il secondo punto degno di nota è che mentre nella Althoff-Brief come abbiamo visto Dilthey prevede di dedicare il terzo Libro alla fondazione gnoseologica e il quarto alla logica, nella prefazione dell’Einleitung prospetta invece un piano più ampio in cinque Libri. Secondo questo nuovo progetto, il primo Libro è dedicato al quadro dei rapporti tra le scienze particolari dello spirito (Quadro sommario delle relazioni fra le scienze particolari dello spirito, in cui si espone la necessità di una scienza fondante), il secondo Libro tratta del primato e declino della metafisica nell’età moderna (Primato e declino della metafisica come fondamento delle scienze dello spirito), il terzo Libro espone lo stato attuale delle ricerche gnoseologiche (Lo stadio delle scienze dell’esperienza e della teoria della conoscenza. Il problema attuale delle scienze dello spirito),10 il quarto e il quinto Libro sono dedicati alla vera e propria fondazione gnoseologica. Nell’Einleitung leggiamo: “Il II° volume seguirà da prima il decorso storico nello stadio delle scienze particolari e della gnoseologia, e così passerà ad esporre e valutare le ricerche gnoseologiche compiute fino ad oggi (Libro terzo). Poi tenteremo una nostra fondazione gnoseologica delle scienze dello spirito (Libri quarto e quinto). L’ampiezza e la ricchezza di particolari della parte storiografica non è stata detta-

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W. Dilthey, “Ges. Schr.” XIX, p. 390, traduz. nostra. 1) Übersicht über den Zusammenhang der Einzelwissenschaften des Geistes, in welcher die Notwendigkeit einer grundlegenen Wissenschaft dargetan wird; 2) Metaphysik als Grundlage der Geisteswissenschaften. Ihre Herrschaft und ihr Verfall; 3) Das Stadium der Erfahrungswissenschaften und der Erkenntnistheorie. Das heutige Problem der Geisteswissenschaften. I primi due Libri costituiscono la redazione definitiva del I° volume dell’Einleitung, pubblicato nel 1883. Il terzo Libro non fu invece portato a compimento. I testi che dovevano costituire il terzo Libro furono raccolti da Misch nel II° volume delle “Ges. Schr.” con il titolo Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renassance und Reformation e sono tradotti in italiano in: L'analisi dell'uomo e l'intuizione della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII (!), c/ di G. Sanna, Venezia 1927 (2ª ed. Firenze 1924). 10

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ta soltanto dalla necessità pratica di un’introduzione ma anche dalla mia convinzione del valore che l’autocosciente riflessione storica ha accanto a quella gnoseologica. [...] Sul piano dell’evoluzione storica umana la legittimità di tale convinzione diviene anche più evidente, perché la storia dell’evoluzione intellettuale mostra il crescere alla luce del sole di quello stesso albero la cui fondazione gnoseologica deve andare a cercare le radici sotto terra”. 11 Inizialmente la Breslauer Ausarbeitung doveva essere il proseguimento diretto del primo Libro dell’Einleitung. Invece il secondo Libro del I° volume (sulla metafisica), che doveva costituire solo un capitolo introduttivo dello stesso II° volume, divenne poi un libro autonomo. E così fu anche per il terzo Libro che riguarda la storia della gnoseologia. Crescendo quindi la parte storica, la fondazione gnoseologica slittò al quarto Libro e questo piano rimase valido anche in seguito. Nei progetti di Breslavia e di Berlino contenuti nel volume XIX° 12 le due parti della gnoseologia e della logica divennero poi definitivamente tre e cioè: 1) la gnoseologia, che tratta i fatti della coscienza, la percezione interna ed esterna e l’esperienza intersoggettiva (Libro quarto); 2) la logica, che tratta le leggi del pensiero e le categorie della vita (Libro quinto); 3) la metodologia, che tratta i metodi delle scienze dello spirito (Libro sesto). Sulla base di questa suddivisione Johach e Rodi sostengono che in una risistemazione ideale delle opere di Dilthey i due progetti di Breslavia e di Berlino dovrebbero costituire il III° volume delle Gesammelte Schriften. Il I° volume contiene l’Einleitung, cioè la redazione definitiva del primo e secondo Libro, il II° volume contiene l’opera Weltanschauung e antropologia dopo il Rinascimento e la Riforma da Dilthey stesso prevista come terzo Libro, e infine le due elaborazioni di Breslavia e di Berlino contengono appunto i progetti per il quarto, quinto e sesto Libro. A questi progetti si riallaccerebbero poi direttamente il V° e VI° volume delle Gesammelte Schriften che contengono le parti destinate da Dilthey nel 1911 alla pubblicazione.

3. L’edizione delle Gesammelten Schriften. Gli allievi di Dilthey, che curarono l’edizione delle Gesammelte Schriften dal 1914 in poi, pubblicarono per prima cosa le ultime opere di Dilthey, raccolte nel volume VII°: Studi per la fondazione delle scienze dello spirito, La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito.13

11 W. Dilthey, Einleitung..., cit., “Ges. Schr.” I, p. XIX-XX, tr. it. Introduzione alle scienze dello spirito, cit., p. 11. 12 W. Dilthey, Breslauer Ausarbeitung, “Ges. Schr.” XIX, p. 58-173. Id., Berliner Entwurf, “Ges. Schr.” XIX, p. 296-332. 13 W. Dilthey, Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften; Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenshaften; Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften. “Ges. Schr.” VII°, tr. it. Critica della ragione storica, c/ di Pi. Rossi, Einaudi Torino 1954.

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Gran parte delle interpretazioni contemporanee del pensiero di Dilthey dipende da questa sistemazione dei testi e degli inediti compiuta da Georg Misch, 14 Herman Nohl e Bernhard Groethuysen, che curarono l’edizione dei primi dodici volumi delle Gesammelte Schriften fino al 1958. Nell’Introduzione del 1924 al V° volume Misch afferma che nelle ultime opere Dilthey “prende distanza” (Abstand) dal piano originario previsto per la continuazione dell’Einleitung e parla inoltre della “rinuncia” (Verzicht) alla pubblicazione del II° volume dell’Einleitung e della “rassegnazione” (Resignation)15 di Dilthey alla pubblicazione dei testi del periodo medio (relativi soprattutto alla psicologia, come ad esempio le Idee su una psicologia descrittiva e analitica del 1894 e i Contributi allo studio dell’individualità del 1895-9616). Misch propone poi una datazione per la Breslauer Ausarbeitung intorno al 1880 e per il Berliner Entwurf tra il 1890 e il 1895.17 L’Einleitung (1883) e i Contributi allo studio dell’individualità (1895-96) sarebbero il punto iniziale e quello finale del periodo medio. Gli inediti riguarderebbero secondo Misch solo la produzione di questo periodo medio, mentre gli ultimi lavori conterrebbero l’elaborazione finale del pensiero di Dilthey, a cui egli sarebbe giunto dopo una presunta svolta. Negli anni ’60 assistiamo a una ripresa dell’interesse per le opere di Dilthey segnato dalla ristampa nel 1967 dell’opera di Misch Lebensphilosophie und Phänomenologie, dalla pubblicazione della Breslauer Ausarbeitung in appendice a un testo di Peter Krausser18 del 1968 e soprattutto dalla ripresa della pubblicazione delle Gesammelten Schriften che Misch e Nohl consideravano conclusa col X° volume. 19 Nel 1966 Martin Redeker pubblica la Vita di Schleiermacher. Dal 1970 al 1974 escono a cura di Karlfried Gründer i volumi XV°, XVI° e XVII°, che comprendono articoli e recensioni pubblicati da Dilthey dal 1858 al 1908. Nel 1977 esce il volume XVIII° e nel 1982 il volume XIX° a cura di Frithjof Rodi e Helmut Johach. Il volume XVIII° ricostruisce il progetto dell’Einleitung raccogliendo i testi e gli inediti precedenti ad essa, mentre il volume XIX° cerca di rendere visibile la struttura della fondazione gnoseologica, logica e metodologica prevista da Dilthey per il II° volume dell’Einleitung. I Curatori seguono qui un ordinamento sistematico e non puramente cronologico di divisione del materiale: “Accanto al compito di una ricostruzione genetica, portato a termine soprattutto nel volume XVIII°, emerge quello di una ricostruzione sistematica, che, proprio

14 Cf. G. Misch, Lebensphilosophie und Phänomenologie. Eine Auseinandersetzung der Diltheyschen Richtung mit Heidegger und Husserl, Bonn 1930 (5ª ed.,1967). Cf. inoltre G. Misch, Introduzione a “Ges. Schr.”V°. 15 G. Misch, Introduzione a “Ges. Schr.” V°, p. VII-VIII. 16 W. Dilthey, Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894), “Ges. Schr.” V, p. 139-240, tr. it. Per la fondazione..., cit., p. 351-446. Beiträge zur Studium der Individualität (1895-96), “Ges. Schr.” V, p. 241-316, tr. it. Per la fondazione…, cit., p. 447518. 17 Cf. “Ges. Schr.” V°, p. XXIII e p. 428. 18 P. Krausser, Kritik der endlichen Vernunft, Frankfurt a.M., 1968, p. 223-235. 19 Questa circostanza viene riportata in: F. Rodi, Zum gegenwärtigen Stand der DiltheyForschung, in: “Dilthey Jahrbuch“, Band 1, 1983, p. 263.

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a partire dai testi qui pubblicati, non ha più l’intento di rendere riconoscibile il sorgere del progetto dell’Einleitung, bensì fa vedere soprattutto come doveva essere strutturata l’architettura [...] della fondazione delle scienze dello spirito”. 20

4. Il volume XIX° delle Gesammelten Schriften Per quanto riguarda la Breslauer Ausarbeitung Johach e Rodi propongono una datazione completamente diversa da quella di Misch e dimostrano qui per la prima volta che essa fu composta in diverse redazioni durante l’intero decennio 1880-1890: secondo la nuova impostazione tutti i testi di questo periodo possono essere considerati come parti dello sviluppo del progetto della Breslauer Ausarbeitung. Il Berliner Entwurf risale circa al 1893 e ad esso si riallacciano i lavori degli anni ’90, a cominciare dai Contributi alla soluzione del problema circa l’origine e il diritto della nostra credenza alla realtà del mondo esterno 21 del 1890, includendo anche Esperienza e pensiero22 del 1892-93, i Contributi allo studio dell’individualità del 1895-96 e le Idee del 1894. Per illustrare queste relazioni tra i testi e i progetti Johach e Rodi nella loro Introduzione al volume XIX° propongono uno schema, 23 che rende visibili i rapporti tra: 1) il progetto della fondazione in cinque Libri, che Dilthey presenta nell’introduzione dell’Einleitung; 2) gli scritti pubblicati nei volumi I°-XVIII° delle Gesammelten Schriften; 3) le parti corrispondenti nel volume XIX°. Grazie alla risistemazione tematica e cronologica delle opere di Dilthey data da Rodi e Johach nel volume XIX° risulta chiaro che già nei Primi progetti di teoria della conoscenza e logica delle scienze dello spirito precedenti il 1880, quindi l’Einleitug, sono contenuti i temi delle teorie più tarde e che si ritrova una sostanziale continuità in tutto il pensiero di Dilthey. Così il frammento Filosofia dell’esperienza: empiria, non empirismo 24 del 1879 costituisce un precedente fondamentale di tutta la logica diltheyana, fino alla dottrina delle categorie esposta nelle opere dell’ultimo periodo. Vediamo più in dettaglio la suddivisione del volume XIX°. Nella parte A Johach e Rodi raggruppano sotto il titolo di Primi progetti di teoria della conoscenza e logica delle scienze dello spirito (pre- 1880)25 una serie di manoscritti che non fanno parte della Breslauer Ausarbeitung, ma costituiscono degli abbozzi originari autonomi della teoria della conoscenza. Essi completano i testi 20

stra.

F. Rodi e H. Johach, Prefazione a: W. Dilthey, “Ges. Schr.” XIX°, p. IX, traduz. no-

21 W. Dilthey, Beiträge zur Lösung der Frage vom Ursprung unseres Glauben an der Realität der Außenwelt und seinem Recht, “Ges. Schr.” V°, p. 90-138, tr. it. Per la fondazione..., cit., p. 228-276. 22 W. Dilthey, Erfahren und Denken, “Ges. Schr.” V°, p. 74-89, tr. it. Per la fondazione..., cit., p. 277-292. 23 Cf. F. Rodi e H. Johach, Prefazione a: W. Dilthey, “Ges. Schr.” XIX°, p. LIX. 24 W. Dilthey, Philosophie der Erfahrung: Empirie, nicht Empirismus, “Ges. Schr.” XIX°, p. 17-38, tr. it. Per la fondazione…., cit., p. 86-108. 25 Il titolo è tratto dall'antologia di scritti diltheyani Per la fondazione delle scienze dello spirito, c/ di A. Marini, FrancoAngeli, Milano 1985.

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raccolti nel V°, VI° e VII° volume e sono contemporanei ai Frammenti di teoria della conoscenza (1874-79)26 contenuti nel volume XVIII°. È importante, appunto, vedere come questi scritti precedenti l’Einleitung, integrati con la corrispondenza e con i diari27 tra il 1852 e il 1870, permettono di ritrovare delle linee di continuità in tutto il pensiero di Dilthey. Soprattutto il frammento Filosofia dell’esperienza: empiria, non empirismo28 del 1879 costituisce, come abbiamo già detto il precedente fondamentale di tutta la logica diltheyana. Nella parte B viene pubblicata come primo capitolo 29 la Breslauer Ausarbeitung e ad essa vengono collegati direttamente come secondo e terzo capitolo i due testi La percezione del mondo esterno30 e La percezione interna e l’esperienza della vita spirituale,31 che sono composti mediante fascicoli diversi degli inediti e i cui titoli non sono originali, ma tratti da un progetto del 1884. Sempre nella parte B vengono raccolti alcuni testi sulla logica che costituiscono un progetto per il quinto Libro. La logica è la parte più problematica dell’opera diltheyana, sia dal punto di vista contenutistico, sia da quello strettamente sistematico. Essa infatti necessita di un completamento mediante i manoscritti delle Lezioni, che sono stati poi raccolti nel volume XX°. Considerando solo i progetti presenti nel volume XIX° non è invece possibile cogliere l’articolazione del sesto Libro, che doveva riguardare la metodologia delle scienze dello spirito, ma bisogna riferirsi agli scritti sul diritto, l’economia, lo stato, i costumi, l’etica e la storia del diritto naturale, raccolti nel V°, VI° e XVIII° volume. 32

Nella parte C, i curatori presentano il Berliner Entwurf, il progetto per il II° volume dell’Einleitung, datato circa 1893 e anch’esso articolato in terzo, quarto, quinto e sesto Libro come la Breslauer Ausarbeitung. Questo progetto, che non è comunque paragonabile alla Breslauer Ausarbeitung, né per la mole, né dal punto di vista

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“Ges. Schr.” XVIII°, p. 186-212, tr. it. Per la fondazione..., cit., p. 53-70. Der junge Dilthey. Ein Lebensbild in Briefen und Tagebüchern 1852 bis 1870, c/ di C. Dilthey Misch, Leipzig 1933 (2ª ed., 1960). 28 W. Dilthey, Philosophie der Erfahrung: Empirie, nicht Empirismus, “Ges. Schr.” XIX°, p. 17-38, tr. it. Per la fondazione..., cit., p. 86-108. 29 W. Dilthey, “Ges. Schr.” XIX°, p. 58-174. 30 W. Dilthey, Die Wahrnehmung der Außenwelt, “Ges. Schr.“ XIX°, p. 174-194. 31 W. Dilthey, Die innere Wahrnehmung und die Erfahrungen vom seelischen Leben, “Ges. Schr.” XIX, p. 195-227. 32 Per capire come doveva essere articolato il sesto Libro bisogna fare riferimento ai seguenti testi: 1) W. Dilthey, Über das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, “Ges. Schr.” V, p. 31-73, tr. it. Lo studio delle scienze umane, sociali e politiche, c/ di G. Cacciatore, Morano, Napoli 1975. 2) W. Dilthey, Beiträge zum Studium der Individualität, “Ges. Schr.” V, p. 241-316, tr. it. Per la fondazione..., cit., p. 447-518. 3) W. Dilthey, Die Entstehung der Hermeneutik, “Ges. Schr.” V, p. 317-338, tr. it. Le origini dell'ermeneutica, tr. di M. Ravera, in: “Rivista di estetica”, 1973, n. 18, p. 5-33. 4) W. Dilthey, Abhandlungen zur Poetik, Ethik, und Pädagogik, “Ges. Schr.” VI. In parte tradotte in: Esperienza vissuta e poesia, c/ di N. Accolti Gil Vitale, Milano 1949. 5) W. Dilthey, Fortsetzungen der Abhandlung vom 1875, “Ges. Schr.” XVIII, p. 57-111. 27

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dello stadio di lavorazione, non è tuttavia meno importante, poiché fornisce lo schema per la comprensione dei testi degli anni ’90 e dell’evoluzione del pensiero diltheyano dopo il 1900. Nella parte D è contenuto il testo Leben und Erkennen 33 che si collega strettamente per tematica e periodo al Berliner Entwurf e si colloca tra i Contributi alla soluzione del problema circa l’origine e il diritto della nostra credenza alla realtà del mondo esterno34 del 1890 e le Idee del 1894. L’Appendice infine contiene l’Althoff-Brief (1882) e la recensione alla logica di Sigwart (1881) che permettono di integrare con annotazioni bibliografiche i testi diltheyani. (Alessandra Rauti) Claudio Rozzoni, I segni del giovane Proust, Alboversorio, Milano 2010, pp. 206. In epigrafe al suo primo studio dedicato all’autore della Recherche, Claudio Rozzoni ricorda le parole di Proust che, con accenti malinconici, affermano: “Quel fanciullo che gioca in me sulle rovine non ha bisogno di alcun nutrimento; si nutre semplicemente del piacere che gli procura la scoperta di una idea; egli la crea, essa lo crea, egli muore, ma un’idea lo fa resuscitare”. Ora, in questo suo secondo lavoro, Rozzoni ambisce a definire il senso che, come “frontiera incoporea che insiste nelle proposizioni e negli stati di cose”, sembra abitare nell’evocata immagine proustiana del fanciullo, secondo le direzioni proprie di una analisi non più solo rivolta a definire l’essenza, quale frammento d’esistenza che, reale senza essere attuale, ideale senza essere astratto, si libra in un apparire che pare riuscire ad affrancarsi dall’ordine del tempo, onde concentrarsi in un momento in cui la vita dell’individuo raggiunge un grado d’impersonalità assoluto e, nondimeno, singolare, sì da costituire un vero e proprio “campo trascendentale” nel quale il principio d’individuazione antecede l’Io della tradizione idealistico-metafisica, ma tesa a scorgere lo spazio d’immanenza che giace inesplorato nelle profondità della superficie, là dove è ormai lecito identificare il fanciullo di cui scrive Proust non già con una vaga identità ontologica, bensì con una più esatta identità personale, radicata nel moi stesso dell’autore francese. Nelle pagine centrali del suo saggio, Rozzoni, ricordando l’influenza che sul giovane Proust ebbero le Leçons de philosophie del Rabier, argomenta con particolare efficacia in favore d’un pensiero che sia capace di riconoscere nella Recherche il luogo in cui trova emblematica conferma l’idea di identità come essenzialmente correlata a quella di durata. Più esattamente è necessario, nota Rozzoni, che la prospettiva suggerita dal Rabier e secondo la quale “la continuità della coscienza risulti dalla memoria che, nella coscienza presente, fa echeggiare, prolunga e fa […] penetrare

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W. Dilthey, “Ges. Schr.” XIX, p. 333-388. Tr. it. Per la fondazione.., cit., p. 293-350. W. Dilthey, Beiträge zur Lösung der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an der Realität der Außenwelt, “Ges. Schr.” V, p. 90-138, t. it. Per la fondazione..., cit., p. 228-276. 34

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la coscienza immediatamente precedente”, sia ricondotta entro la prospettiva poetica proustiana e segnatamente a quel “fenomeno di memoria” per il quale, come attesta la scena del bal de têtes a palazzo Guermantes, è dato osservare ciò che rende somiglianti due oggetti senza essere presente in alcuno di essi. Ma se in Rabier, come in tanta parte del pensiero che caratterizza la temperie storica nella quale si forma la sensibilità artistica ed estetica di Proust, l’idea del moi nel suo trascorrere dal passato al presente si scopre identica in ragione di una congruenza che risiede in un principio di somiglianza di matrice aristotelica e per il quale “simili sono le cose che hanno proprietà del tutto uguali”, nella Recherche il criterio di somiglianza vige in forza d’un elemento sintetico, sicché – puntualizza Rozzoni – l’idea di moi alla quale Proust ci inizia non sortisce da una immagine identica cui di volta in volta ricondurre le sue successive rappresentazioni, bensì da differenti ripetizioni d’un io frammentario che si suppone essere un individuo le cui sue varie e molteplici trasformazioni possono trovare la propria assisa in un fondo identitario che coincide con la “forma vuota del tempo”. È nella sintesi operata dal Tempo, e nella quale – come già osservava Deleuze – “il presente è solo un attore, un autore, un agente destinato a scomparire, ed il passato non è altro che una condizione operante per difetto”, che è infatti dato osservare quel rapporto di reciproca indipendenza non più soltanto di ciascun singolo “io” del Narratore all’interno della diegesi romanzesca, ma del Narratore medesimo rispetto all’autore Marcel Proust; e, si vorrebbe aggiungere, di Marcel Proust rispetto a se stesso, con ciò aprendo l’orizzonte dello studio di Rozzoni sino al punto da fargli abbracciare il diastema che, retrospettivamente, separa l’autore d’uno dei maggiori capolavori letterari del XX secolo da sé, da chi egli fu anteriormente al suo essere scrittore, alla sua Opera, al suo rappresentare un nome sulla costa d’un libro, al suo fungere da suntuoso e riconoscibile modello per Jacques-Emile Blanche. Quanto si scopre leggendo in filigrana l’appassionata ricerca svolta da Rozzoni, è un significativo quanto raro ritratto dello scrittore da giovane, quando ancora non si era per lui posta la scelta di prendere una professione intellettuale, foss’essa quella dell’artista o dello studioso, ma già andavano prendendo forma le sue inclinazioni e convinzioni, incoraggiate dapprima dall’insegnamento di Alphonse Darlu, filosofo morale dalle robuste convinzioni metafisiche, e in seguito dal confronto con Henri Bergson, divenuto nel 1892, per aver contratto matrimonio con una sua cugina, parente acquisito di Proust, allora appena ventenne. Alla minuziosa rassegna delle prime prove letterarie del futuro autore della Recherche, il lavoro di Rozzoni accompagna una vigilata disamina delle principali influenze alle quali fu esposto il pensiero proustiano negli anni della sua formazione, così, accanto ai nomi di Darlu e Bergson, si rinvengono quelli di Rabier, di Taine, di Ribot, autori tutti che ebbero non poco rilievo nei dibattiti di fine Ottocento attorno alla natura della memoria. Nondimeno l’intento che caratterizza lo studio di Rozzoni supera i confini della indagine storiografica, per attestarsi su un terreno da un punto di vista teorico assai più ambizioso. Si tratta – lo si è accennato – della volontà di verificare cosa separa una certa Idea di Proust, paludata, oleografica, vagamente romantica, dalla sua nuda vita, colta nei momenti esaltanti ed intrepidi dell’adolescenza e della prima maturità, cercando di cogliere il punto di intersezione fra piano trascendente e piano immanente. Se Ricordarsi è creare (Mimesis, Milano 2008), opera precedente a questa di 45


cui ora si sta offrendo lettura, si chiudeva ricordando le pagine dell’ultimo testo di Deleuze, L’immanence: une vie…, i cui contenuti sembravano, pur lasciando trapelare la necessità di comprendere che l’immanenza non è in niente e perciò essa è una vita, eccessivamente brachilogici per permettere una soluzione che non fosse l’apertura ed il rilancio d’una questione ancora da approfondire, l’ambizione coltivata in I segni del giovane Proust è quella di raccogliere la sfida lanciata da Deleuze, tentando di determinarne la posta, vale a dire l’indirizzo che ha assunto quella “vocazione” cui Proust accenna nel Tempo ritrovato, e nella quale pare concentrarsi sì quella singolarità scevra di accidenti soggettivi ed oggettivi, alla quale alludeva Deleuze, ma pur dotata di un destino e di un carattere che non possono osservarsi in se stessi, ma soltanto in segni, poiché, come già Benjamin ebbe modo di rilevare, la connessione indicata da quei concetti è posta al di sopra dell’immediatamente visibile. A loro volta questi segni nei quali parrebbero potersi comprendere i concetti di destino e carattere si raccolgono, nel caso di Proust, in una tensione verso un superamento del concetto di rappresentazione, che se da un lato concerne l’atteggiamento mimetico diretto ch’egli prova rispetto al puro dato, dall’altro concerne il rapporto ch’egli stesso intrattiene con il proprio “io”. Rapporto costantemente perduto e ritrovato, perché scandito da un tempo che, via via che le stagioni della vita si succedono, lascia, con la medesima costanza, che l’illusione del possesso anche d’un solo istante non abbia mai luogo, ed anzi diventi sempre più bruciante a causa del ricordo, che, lungi dall’unificare l’Io – sostiene Proust – lo disgiunge ulteriormente da sé, lo squarcia, accentuandone così la sofferenza. La vita, nella sua porosa immanenza, diventa in tal modo succube del tempo che la attraversa, lasciando dietro di sé l’eco, sempre più sorda e greve, dei ricordi che ammantano ogni cosa di malinconia non soltanto del lontano passato, ma pure del presente che passa, e costringono l’avvenire a non essere altro che passato, l’esistenza nient’altro che un’opera non necessariamente riuscita. (Luigi Azzariti-Fumaroli) Gabriel Danzig, Apologizing for Socrates. How Plato and Xenophon Created Our Socrates, Lanham 2010. Questo stimolante volume, in cui l’autore ha rielaborato alcuni saggi precedenti alla luce di una prospettiva globale che conferisce loro un approccio e un taglio unitario, dichiara fin dal titolo lo scopo ultimo della ricerca: individuare, anche in testi in cui le finalità apologetiche sembrano giocare un ruolo marginale, le tematiche e le preoccupazioni da cui mossero sia Platone sia Senofonte per costruire e presentare un’immagine di Socrate che affrontasse e demolisse le accuse mosse contro di lui non soltanto in sede processuale, ma anche dopo la sua morte. Per quanto riguarda queste ultime, lo studioso, nei primi tre capitoli, prende in esame innanzi tutto le due Apologie, quella di Platone e quella di Senofonte, per poi passare ad analizzare la strategia difensiva di Platone nel Critone e nell’Eutifrone, mentre nei due capitoli successivi si sofferma su una delle accuse del processo, quella di corrompere i giovani. Infine l’ultimo capitolo presenta una serie di osservazioni su un testo che, nell’ambito degli scritti socratici di Senofonte, risulta per molti aspetti atipico, tanto da sembrare esente da connotazioni apologetiche, cioè l’Economico, per dimostrare 46


che invece, a un esame più attento, lo si può considerare una sorta di apologia non soltanto di Socrate ma anche di Senofonte stesso. Nel primo capitolo (Plato and Xenophon on Socrates’ Behavior in Court) Danzig affronta una delle accuse che vennero mosse a Socrate dopo la sua morte: è utile infatti ricordare che la figura di Socrate e le vicende che portarono al processo contro di lui e alla sua condanna a morte non cessarono di alimentare feroci polemiche tra i detrattori di Socrate e la nutrita schiera dei suoi discepoli, polemiche che senza dubbio ebbero un peso determinante nella nascita e nella straordinaria fioritura di un genere letterario profondamente innovativo quale fu quello dei logoi Sokratikoi. Le più note, tra tali accuse, sono quelle formulate da Policrate in suo pamphlet che dovette godere di vasta e controversa notorietà (lo cita anche Isocrate, Bus., 1-5) e che in seguito è andato perduto, ma di cui possiamo ricostruire il contenuto, oltre che da una tarda orazione di Libanio, anche e soprattutto da Mem., I, 2, 9-61, dove Senofonte si impegna a smentire e a controbattere le accuse di Policrate, accuse di natura prettamente politica. Tuttavia non è di queste accuse che si occupa lo studioso, bensì di un’altra accusa, di cui è ancora Senofonte a informarci: infatti nell’incipit della sua Apologia fa esplicito riferimento al linguaggio arrogante (megalegoria) tenuto da Socrate davanti ai giudici, un linguaggio arrogante che, alla luce dell’esito del processo, non poteva non apparire decisamente sconsiderato (aphronestera). Da questo passo, in realtà, come ha ben visto Danzig, emergono due accuse distinte, anche se strettamente correlate, quella di arroganza e quella di fallimento, di incapacità di ottenere l’assoluzione (o quanto meno una condanna più mite) che lo avrebbe salvato. Sempre in Ap., 1, Senofonte anticipa in modo chiarissimo quella che sarà la sua strategia difensiva: lungi dal negare l’accusa di arroganza, che presenta come un incontrovertibile dato di fatto, ne contesta tuttavia la lettura che ne veniva data, cioè quella di un comportamento sconsiderato che avrebbe condotto Socrate alla sconfitta e alla condanna a morte: Senofonte infatti si propone di chiarire che si trattò invece di una scelta consapevole da parte di Socrate, finalizzata proprio ad attirare su di sé la condanna, poiché il filosofo era ormai convinto che per lui la morte fosse preferibile alla vita. Più complessa, invece, e mai enunciata (a differenza dell’Apologia di Senofonte, quella di Platone è priva di una cornice narrativa) la strategia difensiva di Platone, che riproduce nella sua Apologia l’atteggiamento arrogante di Socrate, ma cercando di attenuarlo, di spiegarlo, di giustificarlo: il suo Socrate, infatti, a differenza di quello di Senofonte, non cerca deliberatamente la condanna a morte, il che impone a Platone di smussarne in qualche misura l’arroganza. Ma proprio perché il suo Socrate non cerca deliberatamente la condanna, Platone viene a trovarsi in una posizione assai più difficile di Senofonte: infatti se da un lato non può e non vuole eliminare del tutto l’arroganza del suo Socrate, dall’altro però si trova a dover affrontare l’altra accusa, quella di una condotta processuale sconsiderata che lo aveva condotto al fallimento (un’accusa che non poteva essere mossa al Socrate di Senofonte, che aveva lucidamente previsto l’esito della sua condotta processuale). Danzig quindi fornisce un dettagliato riassunto (p. 36-39) del contenuto dell’Apologia di Platone, al fine di dimostrare che essa, in ogni sua parte, mira a fronteggiare e controbattere le accuse di arroganza e di fallimento mosse a Socrate dopo la sua morte e che questo obiettivo informa il piano di base e la struttura dell’opera (p. 39): un simile obiettivo può spiegare, in particolare, i motivi che indussero Platone a inventare il terzo discorso di Socrate (invenzione tanto più necessaria in quanto Platone, a dif47


ferenza di Senofonte, non disponeva di una cornice narrativa): in questo ultimo discorso, infatti, Socrate può affrontare l’accusa secondo la quale la sua morte rappresenterebbe una vergognosa sconfitta. Quanto all’accusa di arroganza, Platone, secondo lo studioso, cerca di presentare in modo sfumato quelli che potevano essere ritenuti gli esempi più vistosi di arroganza da parte di Socrate (il rifiuto di supplicare i giudici, la citazione dell’oracolo di Delfi, la proposta di una pena alternativa alla morte): a questo proposito mi è sembrata degna di nota la posizione assunta da Danzig riguardo alla tormentatissima questione della storicità dell’oracolo (il cui testo, come è noto, non è uguale nelle due Apologie). Lo studioso sostiene che non vi è motivo di non credere che Socrate abbia citato l’oracolo in questione durante il processo, in quanto, nella versione che compare nell’Apologia di Senofonte, esso si limita a confermare l’eccellenza morale di Socrate; ciò che invece crea problemi è, secondo Danzig, il fatto che nell’Apologia di Platone l’oracolo venga a collocarsi all’origine della missione filosofica di Socrate: ma questo, a detta dello studioso, non è altro che una invenzione di Platone, con il duplice obiettivo di fornire una legittimazione divina all’attività filosofica di Socrate e di attenuare l’arroganza di chi si permette di citare un oracolo altamente elogiativo per la propria persona: in effetti il Socrate di Platone, a differenza di quello di Senofonte, interpreta l’oracolo come “a reminder of human limitations and an imperative to seek for wisdom” (p. 50). Anche le differenti versioni del testo dell’oracolo sono, a giudizio di Danzig, funzionali alle diverse strategie difensive di Senofonte e di Platone (p. 49); lo studioso, per altro, sembra incline a ritenere che sia Senofonte e non Platone a fornirci un testo più vicino a quello citato in tribunale dal Socrate storico (n. 93, p. 53). Non è questa ovviamente la sede per entrare nel merito della questione: è però certo che chiunque intenda riprenderla non potrà non tenere nel debito conto le osservazioni di Danzig. Quanto all’accusa di fallimento, che Platone, a differenza di Senofonte, era costretto a fronteggiare, dato che il suo Socrate non aveva cercato deliberatamente la morte, viene smentita da varie spiegazioni presenti nell’Apologia al fine di allontanare da Socrate “any blame or shame” (p. 57), ma soprattutto dal fatto che Socrate, nel suo ultimo discorso, sostiene che la morte, lungi dall’essere un male, può invece risultare un bene in base alle due possibili ipotesi che vengono formulate. Tuttavia, aggiunge Danzig, Platone non si limita a liberare Socrate dall’onta del fallimento, ma si propone anche di renderlo un oggetto di invidia: a tale scopo non solo ritrae il maestro come un eroe, paragonato a quell’Achille che non tenne in alcun conto il rischio di morte (Ap., 28b-d), ma insiste anche sul fatto che l’ostilità nei confronti di Socrate affonda le sue radici da un lato nella missione affidatagli dal dio di Delfi, dall’altro nel contrasto insanabile tra l’eccellenza morale di Socrate e la natura della vita politica (ma forse sarebbe più corretto parlare non tanto della natura della vita politica, quanto della natura della vita politica di Atene, cioè della democrazia ateniese): in tal modo Platone riesce a trasformare la morte di Socrate “from a source of shame into a source of pride” (p. 59). Il suo Socrate dunque è un vincitore, non un perdente: perdenti sono i giudici che lo hanno condannato e non solo per il biasimo che in futuro ricadrà su di loro (Ap., 38c), non solo perché hanno commesso ingiustizia e fare del male è molto peggio che subirlo (Ap., 30d), ma soprattutto perché Atene avrà perduto Socrate, il più grande dono degli dei alla città, un dono pressoché impossibile da rimpiazzare (Ap., 30d-31a): in tal modo Platone rovescia sui giudici quell’accusa di fallimento che, dopo la sua condanna, era stata mossa a So48


crate. Danzig conclude quindi questo primo, densissimo capitolo affermando che, mentre possiamo non essere in grado di apprendere molto sulle idee di Socrate dagli scritti di Platone e Senofonte, possiamo invece apprendere molto su Platone e su Senofonte esaminando come reagirono al dibattito che seguì la morte del maestro (p. 68). Il secondo capitolo verte specificamente sul Critone, un dialogo di cui lo studioso evidenzia l’impianto retorico e la fondamentale finalità apologetica: il suo scopo primario, a giudizio di Danzig, non è quello di impartire un insegnamento filosofico o di offrire una lezione di metodo dialettico, bensì di presentare la decisione di Socrate di non evadere dal carcere sotto una luce tale da influenzare favorevolmente gli atteggiamenti del pubblico nei confronti del filosofo e dei suoi seguaci. Anche nel caso del Critone Danzig ritiene che Platone si sia proposto di controbattere le accuse che, dopo la morte del maestro, colpirono non soltanto lui ma anche i suoi discepoli. Fin dall’inizio del dialogo Socrate, infatti, è presentato non come uno sconfitto in preda alla sofferenza, bensì come un modello di eudaimonia e, quindi, come un oggetto di invidia; quanto ai suoi amici, accusati di non essere riusciti a salvarlo e/o di non aver neppure tentato di farlo, essi risultano efficacemente difesi dalla figura di Critone e dal suo piano che prevedeva di far fuggire Socrate, con l’eventuale aiuto di altri amici, per poi offrirgli un sicuro rifugio in Tessaglia. Inoltre, nota ancora lo studioso, se le azioni di Critone servono a rispondere alle critiche mosse agli amici di Socrate, le parole di Socrate servono a rispondere alle critiche al comportamento di Socrate stesso: la seconda metà dell’opera ci mostra infatti un Socrate che accetta liberamente una pena ingiusta per la sua devozione alla giustizia e alle leggi, un Socrate che sceglie di morire. Danzig mette in luce come le argomentazioni addotte da Socrate per dimostrare che fuggire dal carcere sarebbe commettere una ingiustizia siano ben poco convincenti (e come ben poco convincenti risultino anche quelle esposte dalle Leggi nel loro celebre discorso): ma ciò, secondo lo studioso, è dovuto al fatto che l’obiettivo di Platone era quello di presentare non argomentazioni stringenti dal punto di vista logico, bensì argomentazioni che servissero a ridurre gli effetti delle calunnie contro Socrate e i suoi amici, offrendo l’immagine di un Socrate straordinariamente devoto alla giustizia e alle leggi della città, un Socrate disposto a morire pur di non commettere un atto, la fuga dal carcere, che per altro ben difficilmente sarebbe sembrato ingiusto a molti Ateniesi. Se le argomentazioni sono deboli, tuttavia il ritratto di Socrate che emerge dal dialogo risulta estremamente efficace e incisivo: il Critone, infatti, “aims to explore, explain, and extol Socrates rather than to clarify a perennial philosophical problem” (p. 92); in particolare l’enfasi sulla soddisfazione di Socrate nei confronti delle leggi di Atene mira a combattere l’immagine di un Socrate cittadino insoddisfatto e propugnatore di soluzioni non democratiche (p. 112). Anche l’Eutifrone, a cui è dedicato il terzo capitolo del volume, è visto da Danzig come un testo fondamentalmente apologetico: infatti, secondo lo studioso, se lo consideriamo come un dialogo filosofico, dobbiamo comunque ammettere che non giunge a conclusioni definite; come dialogo metodologico, pur mostrando che cosa è sbagliato in alcune definizioni e pur fornendo alcune indicazioni per formulare una buona definizione, non tratta l’argomento a fondo e rimane lontano dalla complessità dei successivi dialoghi di Platone in tema di definizioni; inoltre la presenza di non pochi argomenti tangenziali, pur in un testo così breve, rispetto al tema centrale della 49


santità rende necessario individuare un principio unificatore che, a giudizio dello studioso, è dato dallo scopo complessivo del dialogo, quello di difendere Socrate nel contesto del suo processo. Tale scopo è perseguito soprattutto attaccando uno dei suoi accusatori, Meleto: Danzig infatti sostiene una tesi originale e stimolante, secondo la quale Eutifrone altro non sarebbe che la maschera di Meleto; l’interrogatorio (o meglio: l’elenchos) di Socrate a Eutifrone ricorda in effetti quello di Socrate a Meleto nell’Apologia e in entrambi i casi Socrate mira a squalificare l’interlocutore dimostrandone l’ignoranza: ed è proprio l’ignoranza che induce Eutifrone ad accusare suo padre, così come è l’ignoranza che induce Meleto ad accusare Socrate. Nell’Eutifrone, inoltre, Eutifrone viene sistematicamente messo in difficoltà, confutato, smentito, addirittura ridicolizzato, e non a caso: infatti, afferma Danzig, “By illustrating the humiliation of Euthyphro, it allows the reader the vicarious pleasure of a virtual refutation of Socrates’ accuser” (p. 143). Ma l’intento apologetico dell’Eutifrone si manifesta non solo nel colpire Meleto sotto le spoglie di Eutifrone: esso si delinea anche nel presentare Socrate come un difensore del rispetto per i padri, in opposizione all’immagine popolare che lo voleva maestro di disprezzo per l’autorità paterna (vedi in particolare Aristofane, Nub., 1405-1436; Senofonte, Mem., I, 2, 49-55); ma soprattutto Platone ci mostra un Socrate campione dell’unica vera pietà: in effetti una delle definizioni di pietà che emergono nella parte finale dell’Eutifrone è quella di servizio reso agli dei (13d: hyperetike tis) e ciò, come nota a ragione Danzig, non può non richiamare alla mente il Socrate che nell’Apologia dichiara che la sua ricerca filosofica è un servizio al dio (23b-c: latreia; 30a: hyperesia). I due capitoli successivi, il quarto e il quinto, si propongono poi di illustrare come Senofonte e Platone abbiano implicitamente difeso il maestro da una delle accuse processuali, quella di corrompere i giovani: implicitamente, perché questa imputazione viene intesa da Danzig come una espressione ambigua che intendeva insinuare che Socrate intrattenesse relazioni sessuali con i suoi giovani amici (in effetti il verbo diaphteirein nel suo ampio spettro di significati può assumere anche quello di corrompere qualcuno nel senso di avere con lui/lei una relazione sessuale illecita). Nel proporre questa chiave di lettura lo studioso non si lascia condizionare dal fatto che, a quanto ci risulta, un’accusa di questo genere non fu contestata nel corso del processo: ciò, a giudizio dello studioso, si spiega con il fatto che nessuna famiglia avrebbe avuto interesse a rendere pubblico che uno dei suoi membri era stato corrotto da Socrate in qualsiasi senso e soprattutto in questo (p. 152); quanto al silenzio al riguardo di tutti coloro che si impegnarono a difendere Socrate dalle imputazioni a lui mosse, la spiegazione più semplice è, secondo Danzig, che la prudenza impone di ignorare la parte peggiore di qualsiasi accusa: pertanto i discepoli di Socrate preferirono intendere l’accusa di corrompere i giovani come riferita alla sua attività filosofica, il che consentiva loro di presentare il maestro come un devoto seguace del dio di Delfi, impegnato in una missione volta al miglioramento degli Ateniesi (p. 153). Tuttavia, sostiene lo studioso, i discepoli di Socrate si spesero in una difesa del maestro che mirava a confutare implicitamente l’accusa di relazioni sessuali con i suoi giovani amici, fornendo una versione innocua e rassicurante di comportamenti che potevano apparire inquietanti. A sostegno di tale tesi, in questi due capitoli Danzig si sofferma ad analizzare la dimensione erotica della personalità e del comportamento di Socrate, le sue modalità di seduzione nei confronti di alcuni interlocutori, così 50


come vengono delineate in Senofonte e in Platone: i testi presi in esame sono per Senofonte la conversazione con Teodote (Mem., III, 11) e la prima conversazione con Eutidemo (Mem., IV, 2), per Platone il Liside. L’analisi di questi testi è ricca di osservazioni interessanti, condotta con grande finezza (si vedano, ad es., le notazioni relative agli importanti risvolti psicologici del dialogo tra Socrate ed Eutidemo), tuttavia l’assunto di fondo suscita delle perplessità: non si vede, infatti, come in questi testi emergano reticenze che possano suffragare l’ipotesi di relazioni sessuali, vere o presunte, tra Socrate e i suoi giovani interlocutori, né dietro la rappresentazione della seduzione intellettuale esercitata da Socrate sembra potersi leggere il tentativo di Platone e di Senofonte di trasformare in una seduzione “innocente” una seduzione destinata e/o finalizzata a tradursi in una relazione sessuale. Sarebbe opportuno, inoltre, tenere presente la differenza che intercorre tra la componente erotica che entra comunque in gioco all’interno di una seduzione intellettuale, quale fu senza dubbio quella praticata da Socrate nei confronti dei suoi discepoli, e una seduzione che sfocia invece in una relazione sessuale. Socrate stesso, in non pochi passi sia di Senofonte sia di Platone, ci viene presentato come apertamente consapevole della componente erotica che caratterizzava assai spesso le sue relazioni con i suoi giovani amici e proprio tale consapevolezza, manifestata con nonchalance, di un atteggiamento che viene dato come ovvio e naturale ci induce ad accettare questa componente erotica per come viene dichiarata, senza ipotizzare che si tratti di un mascheramento, della presentazione in versione soft di quelle che erano invece relazioni sessuali vere e proprie. Inoltre non si può passare sotto silenzio il fatto che l’accusa processuale di corrompere i giovani sembra alludere a una corruzione da intendersi in senso squisitamente politico: proprio la doverosa attenzione alla controversia che, dopo la morte di Socrate, oppose i suoi discepoli ai suoi detrattori dovrebbe indurre a tenere ben presenti le accuse di Policrate, che Senofonte si impegna a confutare in Mem., I, 2, 9-61: si tratta di accuse di natura squisitamente politica, tra le quali spicca quella secondo la quale Socrate era ostile alla procedura democratica del sorteggio delle cariche pubbliche e pertanto induceva i giovani a disprezzare l’ordinamento vigente, cioè le istituzioni democratiche, e li istigava alla violenza (Mem., I, 2, 9): in altre parole, al di là della reticente cautela con cui si esprime Senofonte, Policrate aveva accusato Socrate di incitare i giovani ad abbattere la democrazia con la violenza, un’accusa del tutto in linea con un’altra accusa prettamente politica mossa da Policrate, quella che rimproverava a Socrate di essere stato il maestro di Crizia, l’esecrato leader dei Trenta (Mem., I, 2, 12). Non mancano poi altri passi, sia in Senofonte sia in Platone, che possono corroborare una lettura politica dell’accusa di corrompere i giovani e non è certo questa la sede per prenderli in esame: è però opportuno ribadire che una simile chiave di lettura non può comunque essere ignorata. L’ultimo capitolo, infine, prende in esame l’Economico, un’opera complessa sia strutturalmente (forse anche perché non rivista dall’autore) sia dal punto di vista del contenuto sia dal punto di vista del genere letterario, a metà strada tra il logos Sokratikos e il trattato tecnico: ed è proprio questa sua complessità che rende ragione anche della variegata pluralità degli approcci critici. L’approccio di Danzig è quello di chi vede nell’Economico un logos Sokratikos, di cui sottolinea la valenza apologetica: si tratta dunque di una impostazione innovativa (evidente fin dal titolo del capitolo, che recita: Why Socrates Was Not a Farmer: Xenophon’s Apology for Socrates 51


in Oeconomicus), così come innovativa e stimolante è la conclusione a cui perviene lo studioso. Premesso che l’intento apologetico è molto più accentuato nell’Apologia e nei Memorabili rispetto al Simposio e all’Economico, Danzig dichiara tuttavia che anche quest’ultimo non è esente da finalità apologetiche, in quanto affronta una delle questioni più rilevanti nell’ambito della controversia sull’eredità di Socrate, cioè “the value of the life of indigence, indolence and philosophy that Socrates was reputed to have led” (p. 239). Partendo dalla constatazione che la scelta di Socrate come locutore principale può apparire poco felice, dato che Socrate non poteva costituire certo un modello come amministratore di un oikos, Danzig rivendica invece tale scelta come del tutto appropriata, in quanto Socrate offre una critica etica che mira a correggere le aspirazioni economiche di uomini come Critobulo, cercando di convincerlo ad adottare il sano stile di vita di un gentleman-agricoltore quale Iscomaco: pertanto lo studioso non esita ad affermare che “Oeconomicus is an ethical dialogue disguised as an economic treatise” (p. 246). Il tema più importante di questo dialogo non è tuttavia l’impegno di Socrate a trasformare Critobulo in un Iscomaco, ma l’opposizione tra Socrate il filosofo e Iscomaco il rispettabile gentiluomo ateniese: tale opposizione viene presentata e indagata allo scopo di difendere Socrate dall’accusa che vedeva in lui un fallito come amministratore del proprio oikos. Lo studioso individua nel testo alcune linee di difesa, ma la più efficace consiste proprio nel rivendicare il valore dello stile di vita di Socrate rispetto a quello di Iscomaco: Iscomaco, per tenere fede al suo nome di gentiluomo, non ha mai un momento libero: la sua devozione al dovere è encomiabile, “but his lack of leisure is a serious matter. Leisure was not only a valued feature of anyone’s life in Athens, it had a particularly high status among Socratics” (p. 253). Inoltre Iscomaco è afflitto dai guai che colpiscono i ricchi ad Atene, poiché è costretto ad affrontare liturgie e processi; quanto al suo successo come amministratore del proprio oikos, esso è ottenuto al prezzo di un indefesso lavoro e di un incessante impegno (epimeleia), che appunto non gli permette di avere del tempo libero: pertanto, secondo Danzig, la sua vita non appare certo invidiabile. Inoltre, in base a notizie che ricaviamo da una serie di altre fonti, risulta non solo che la moglie di Iscomaco divenne protagonista di un celebre scandalo, intrecciando una relazione con il marito della propria figlia, ma anche che Iscomaco finì per perdere buona parte del suo patrimonio: Danzig pertanto suggerisce che Iscomaco sia stato scelto come presunto amministratore modello proprio per mettere in evidenza che “the kind of success Ischomachus has achieved is not very reliable” (p. 259). Socrate risulta quindi aver gestito molto meglio la sua vita, dopo averne apprezzato e goduto ogni giorno e aver affrontato la più facile delle morti, come scrive lo stesso Senofonte in Ap., 7-8; Mem., IV, 8, 8-10. Iscomaco appare pertanto come una sorta di anti-Socrate; eppure molti studiosi lo hanno considerato come una maschera, un trasparente alter ego dell’autore, che in effetti per un lungo periodo della sua esistenza, nel buen ritiro di Scillunte, visse una vita da agiato gentiluomo assai simile, presumibilmente, a quella di Iscomaco. Senza dubbio la vita di Senofonte fu comunque diversissima da quella del suo maestro: lui stesso ne era consapevole e non è un caso, nota Danzig a ragione, che nei due unici passi in cui Senofonte ritrae se stesso a colloquio con Socrate (An., III, 1, 4-7; Mem., I, 3, 8-13), quest’ultimo lo rimproveri severamente: in entrambi i casi, dunque, Senofonte ci appare come un discepolo che non segue i consigli del maestro. Più in generale, possiamo affermare che Senofonte non scelse il modello di vita di 52


Socrate, bensì quello di Iscomaco: ma, come precisa Danzig, “if he is an Ischomachus, he is a regretful one” (p. 261). Ciò non toglie che se l’Economico è un’apologia dello stile di vita di Socrate davanti al tribunale dell’opinione pubblica, è anche un’apologia dello stile di vita di Senofonte davanti a un tribunale ben più alto, quello dell’opinione di Socrate (p. 262). Infine Danzig conclude ribadendo la finalità doppiamente apologetica dell’opera, una indicazione preziosa e che trova conferma nel fatto che Senofonte nutrì grandi preoccupazioni apologetiche non solo per Socrate, ma anche e soprattutto per se stesso (si pensi, in particolare, all’Anabasi, in cui l’impegno a giustificare ed esaltare il proprio operato gioca un ruolo di primissimo piano). Come si può vedere, il volume di Danzig rappresenta un contributo prezioso sia per alcuni aspetti specifici sia per il tipo di approccio ai testi presi in esame. Per quanto riguarda il primo punto risultano senz’altro di grande interesse le acute osservazioni relative alla controversa questione della storicità dell’oracolo di Delfi, nonché la tesi che vede in Eutifrone il travestimento di Meleto, così come mi sembra stimolante e innovativa la lettura che viene proposta di un’opera atipica e complessa come l’Economico. Quanto all’approccio ai testi (e mi riferisco in particolare a due testi di grande rilevanza quali l’Eutifrone e il Critone), risulta senza dubbio positiva la costante attenzione alle finalità che si proponevano, al pubblico a cui intendevano rivolgersi, alle circostanze in cui vennero pensati e scritti: più in generale è apprezzabile l’impegno a non leggere questi due dialoghi come se fossero dei trattati sotto le mentite spoglie di un dialogo, andando quindi a ricercare soltanto dei punti di dottrina. Si potrebbe obiettare che né l’Eutifrone né il Critone sono riconducibili a una lettura in chiave esclusivamente apologetica, dato che comunque presentano tutta una serie di problematiche di notevole spessore filosofico: ma non mi sembra che Danzig intenda negare questo aspetto per fornire una lettura riduttiva, appiattita sulla valenza apologetica, di questi due testi: il suo objettivo è infatti, a mio avviso, quello di inquadrarne la genesi e le finalità nel contesto della controversia che si sviluppò dopo la morte di Socrate tra i suoi discepoli e i suoi avversari e di sottolineare quanto i due dialoghi non scaturiscano da mere preoccupazioni di tipo filosofico, per altro senz’altro presenti, ma nascano da ben precise preoccupazioni apologetiche nei confronti di un pubblico assai più vasto della cerchia dei Socratici. Se poi una ipotesi prospettata in questo volume, quella secondo la quale l’accusa di corrompere i giovani avrebbe mirato a insinuare che Socrate intrattenesse relazioni sessuali con i suoi giovani amici, non appare molto convincente, essa ha comunque il pregio di richiamare l’attenzione sulle modalità e le caratteristiche della seduzione esercitata da Socrate, un tema di grande rilevanza e di grande complessità, che richiede senza dubbio ulteriori approfondimenti. Anche questo, dunque, può ascriversi tra i non pochi meriti di questo prezioso volume. (Fiorenza Bevilacqua) Vincenzo Costa, Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà, Jaca Book, Milano 2011, p. 157. Che cosa si intende per volontà? E la volontà che rapporti intrattiene con il nostro Sé? Sono questi gli interrogativi a cui il volume di Vincenzo Costa vuole risponde53


re. Ma può avere senso affrontare tali questioni in termini naturalistici o psicologici? Non si rischia, come dice l’autore riprendendo Herman Cohen, di ridurre la volontà a un gioco, a un equilibrio di forze? In effetti, all’interno di un’interpretazione naturalistica, la questione della volontà perderebbe di senso: se siamo «macchine», se i nostri comportamenti non possono che essere spiegati secondo un meccanismo causale del tutto deterministico, le ragioni del nostro agire non sarebbero altro che “razionalizzazioni (o maschere) di cause” (p. 12). Se ogni evento può essere spiegato a partire da eventi precedenti e se non vi è nessuna ragione per dubitare che l’uomo sfugga a questa legge generale della causazione universale, ci troveremmo di fronte ad una concezione del soggetto che “dissolve la nozione stessa di volontà” (p. 27). Se, infatti, seguiamo rigidamente il principio deterministico dovremmo dire che la volontà è una semplice illusione soggettiva, vapore, “fumo” e in questo modo il suo stesso significato etico e umano andrebbe inevitabilmente perduto, il riferimento al dover-essere verrebbe meno e con esso la volontà e il Sé. Anche la prospettiva compatibilista, che vorrebbe conciliare determinismo e libertà, finisce con il mostrare tutte le sue incongruenze. In fondo essa – sulla scia di Hobbes – non fa altro che identificare il desiderare con la volontà. Nella misura in cui il nostro agire è determinato da certi desideri la deliberazione si costituisce come la vittoria di un desiderio sugli altri desideri. Dunque la volontà non sarebbe altro che l’affermazione di quel desiderio che ha avuto la meglio sugli altri. A nulla vale la distinzione che il compatibilismo istituisce fra costrizione esterna e costrizione interna. Neanche in questo caso infatti, avrebbe senso parlare di libertà del volere se comunque le cause fossero sufficienti a spiegare il mio comportamento. Se vi è una costrizione interna e se ciò che chiamiamo soggetto non è altro che un campo di forze in conflitto fra loro, non ha senso affermare che volendo avrei potuto agire diversamente. Il compatibilismo in sostanza si riduce a una variante del determinismo. Anche in questa prospettiva, infatti, l’idea fondamentale che sostiene il nostro sentirci liberi, vale a dire il sentimento che avremmo potuto agire diversamente non può che rimanere un’illusione della coscienza soggettiva. Contro il determinismo, soprattutto nella sua versione compatibilista, si è sempre schierato Kant che nelle sue analisi sulla differenza antropologica ha caratterizzato l’essere umano come appartenente a due mondi. In quanto appartiene alla natura, l’uomo, da una parte, è soggetto alle leggi causali, ma in quanto essere razionale sfugge, dall’altra, a queste leggi. L’uomo infatti per Kant può agire liberamente seguendo la propria ragione invece che i propri impulsi ed è dunque un essere libero poiché può dare la legge a se stesso. Ma se la razionalità ha una semplice funzione correttiva e strumentale come possiamo essere sicuri che il suggerimento di differire da un certo impulso o da un certo godimento, non sia a sua volta determinato da altri influssi, da cause efficienti più alte e più remote? Si può parlare di autonomia se invece di essere schiavi di desideri momentanei, noi fossimo determinati da cause più remote? Neanche in questo caso potremmo dire di trovarci di fronte ad un atto libero se comunque questo è una conseguenza di qualcosa. Un’azione è libera solo se sorge dall’io, da un agente, da un soggetto, mentre non lo è se deriva da cause. Il nucleo teoretico che lega insieme la nozione di volontà, di legge e di Sé e che rende possibile un soggetto responsabile, indentificato da Kant con il concetto di autonomia intesa come condizione di possibilità della volontà stessa, qui verrebbe meno. In realtà, la libertà pratica presuppone per Kant una libertà trascendentale, vale a dire 54


un atto che sia inizio assoluto. Ora se tutti gli eventi del mondo sensibile devono sottostare alla legge di causalità, un atto che sia inizio assoluto, deve oltrepassare il piano della sensibilità, vale a dire deve oltrepassare il piano dell’esperienza fenomenica poiché nel campo fenomenico ogni apparire deve essere ricondotto a una causa. Se le cose stanno così allora, il problema della libertà, l’idea stessa di un soggetto del volere mette in gioco un soggetto il cui atto non dovrebbe essere sottomesso neppure alla legge di ogni determinazione nel tempo. Il senso in cui si potrebbe parlare di soggetto del volere ci rimanda allora a qualcosa di esterno al tempo, a un noumeno non reperibile nell’esperienza, ma che dobbiamo presupporre. In altri termini, l’idea trascendentale di libertà che fonda il concetto pratico non può essere data in nessuna esperienza possibile, e diviene una sorta di concetto regolativo, qualcosa che non esperiamo ma che dobbiamo presupporre. Da quanto si è detto è evidente che il tentativo kantiano di sfuggire al determinismo e di salvare la possibilità stessa della volontà si regga sull’idea di due mondi, vale a dire sulla duplice natura dell’essere umano. Proprio questa duplice natura lascia però aperto un interrogativo decisivo: in che senso e in che modo la parte razionale può produrre l’azione? In che modo le ragioni possono cioè diventare moventi determinando così le nostre azioni? Si tratta di un interrogativo che investe l’intera impostazione critica del problema della volontà. Infatti, Kant distingue fra ragioni e cause, e in questo modo indica che solo asserzioni che pretendono di essere praticamente vere sono ragioni per agire che danno luogo a una volontà autonoma. E tuttavia interpretando le ragioni come qualcosa di puramente intellettuale, come pure ragioni discorsive e considerando l’intera vita emotiva come una sorta di caos che deve essere ordinato dal dovere e dalla volontà che conseguono dalla nostra facoltà razionale, espone questa giusta distinzione tra cause e ragioni, a delle obiezioni difficilmente risolvibili. In effetti, come in tutte le prospettive che cercano i moventi della volontà e le condizioni del soggetto nella pura ragione e nella pura facoltà argomentativa, l’impostazione critica non riesce a rispondere all’esigenza di spiegare come le ragioni possano determinare il comportamento. Ma se, da una parte, la prospettiva kantiana non sembra poter sfuggire a quello psicologismo da cui pure voleva prendere le distanze, dall’altra, sembra difficile abbandonare l’idea che tale prospettiva ha fatto emergere di una volontà intesa come un aderire a ciò che la ragione riconosce come valido senza perdere del tutto la nozione stessa di volontà. Contro una volontà intesa hobbesianamente come la pulsione più forte e non come una manifestazione del Sé e contro una volontà eteronoma che proviene dall’esterno, il nucleo irriducibile della filosofia kantiana sembra rimanere la costatazione che vi è volontà se nell’agire si esprime il Sé e non il movente più forte. Le domande dunque che vanno accolte come eredità della filosofia critica possono essere sintetizzate in questi termini: che cosa rende possibile un simile soggetto? E a quali condizioni saremmo disposti a parlare di atto volontario? Per rispondere a queste domande occorre tuttavia sottrarsi sia a quel dualismo, punto di avvio dell’analisi kantiana del soggetto della volontà, sia al presupposto che un’azione possa essere libera e volontaria solo se deriva da una spontaneità pura, da un atto che non ha alcun precedente nella serie fenomenica e dunque non derivante dalla nostra esperienza del mondo, ma solo dalla nostra pura facoltà razionale, da una idea di carattere intelligibile. Tali premesse comportano infatti una dissociazione tra il piano 55


trascendentale e il piano dell’esperienza fenomenica. L’idea fondamentale di Kant che vi sia un rapporto fra la volontà e il Sé dovrà essere declinata allora a partire da un’analisi della vita del soggetto concreto. Si tratterà, quindi, di spostare la problematica trascendentale kantiana su un nuovo terreno, quello della fenomenologia e di cercare all’interno di questo terreno le strutture trascendentali della volontà. In sostanza, per mostrare la validità dell’idea kantiana secondo cui solo di fronte ad un dovere o ad un’obbligazione o ingiunzione vi può essere volontà in senso pregnante, invece che procedere prendendo le mosse dalla legge, e dunque dal livello del giudizio e di una razionalità formale, occorrerà retrocedere al livello dell’esperienza, vale a dire al livello della vita soggettiva nei suoi concreti modi di espletamento, cercando in questa le origini del soggetto dell’azione e le strutture dell’esperienza del volere, per giungere solo in seguito al piano in cui la volontà si stabilizza attraverso un atto di giudizio, e dunque si lascia guidare dal dovere. L’analisi fenomenologica che da qui prende le mosse mostra da subito che se ci chiediamo a quali condizioni la volontà sia possibile ci rendiamo presto conto che essa può emergere solo in riferimento a un essere che si rapporta a un mondo di significati, e non di cause. Se rimaniamo fedeli a ciò che l’esperienza ci offre dobbiamo prendere atto che ogni vissuto di coscienza ha un correlato intenzionale, che in ogni esperienza qualcosa viene esperito e che nelle nostre esperienze si manifestano significati in cui ne va di noi stessi. Il soggetto si muove, dunque, all’interno di un mondo di significati, che rappresenta l’ambito dell’azione possibile, e questo fa sì che la motivazione non sia determinata dalla condizionalità psico-fisica, perché la comprensione dell’azione riconduce a significati per agire piuttosto che a cause che determinano il soggetto. L’io è qui inteso come un soggetto di volontà, un soggetto per il quale, nell’azione, ne va di se stesso. Esso si trova inserito in un “sistema simbolico”, in ciò che la tradizione fenomenologica chiama “mondo”. Il soggetto del volere deve, dunque, essere inteso come il correlato egologico di un mondo, vale a dire di una totalità di possibilità d’azione. In questo senso, “il Sé è la possibilità di rispondere al poter essere che lo interpella, prendendo posizione nell’azione” (p. 61). Dal punto di vista dell’esperienza del volere, il soggetto si manifesta come la capacità di sentirsi in gioco nel rapportarsi alle possibilità. Davanti a questa apertura al possibile che eccede ciò che si può essere, davanti alle possibilità che permangono, che non cessano di essere disponibili come orizzonte del presente anche quando si abbraccia una singola possibilità, sorge la necessità di definire se stessi e dunque la volontà. Ora, la volontà sembra possibile solo dove si apre una struttura disgiuntiva, solo dove vi è un sovrabbondare di possibilità e scegliere qualcosa significa anche rinunciare ad altre possibilità. Questa articolazione disgiuntiva è strutturale all’azione, ne rappresenta cioè la condizione di possibilità e fa sì che agire significhi definirsi. Così, si può parlare di azione solo all’interno di una rete semantica in cui passivamente viviamo e che ci interpella. In questo senso l’azione prima di essere attività è risposta, presa di posizione rispetto a ciò che vogliamo essere; essa è in sostanza una scelta fra significati possibili. Vivendo e agendo, infatti, mettiamo necessariamente in rapporto le cose con il loro senso per noi. È la comprensione delle possibilità a rendere possibile la volontà. È, dunque, il volere che si radica nella comprensione, e non viceversa. Solo un ente che comprende il possibile può volere e può agire. 56


Ma perché questa apertura al possibile suscita nel soggetto qualcosa come il volere? Le cose interpellano l’uomo in quanto possibilità di azione perché il Sé – ci dice Costa seguendo alcune indicazione di Heidegger – “è un rapporto al tempo”. L’essere umano è aperto a una totalità di significati perché è sempre oltre il proprio presente, perché esiste dovendosi rapportare a se stesso come a un essere possibile. Il Sé è cioè un rapporto al futuro, e dunque alle proprie possibilità. Esistere, pertanto, significa essere invitato a volere. Questo carattere di apertura alla dimensione del tempo fa sì che il soggetto sia, in ogni istante, oltre il proprio presente e oltre la singola possibilità d’azione, poiché questa gli si manifesta come qualcosa che emerge da uno sfondo complessivo di altri significati, vale a dire di possibilità pratiche di esistenza. Ora, proprio queste possibilità pratiche di esistenza si costituiscono come un poter-essere, perché attraverso essi si manifesta chi o ciò che un soggetto può essere, costituendo il Sé come rapporto al possibile, e dunque come ciò che non è ancora, cioè come soggetto chiamato al volere. Ma indirizzandosi verso una certa possibilità e accogliendola come il possibile che si vuole essere, il soggetto si costituisce come una distanza tra sé e sé; come una scissione originaria. L’apertura al possibile difatti fessura la coscienza, la divide, distanzia il soggetto da se stesso, lo pone dentro e oltre il proprio presente, scinde questo presente aprendolo al non ancora, che lo intacca e che lo costituisce, alterandolo, modificandolo cioè all’origine, poiché diventa un presente strutturalmente costituito dal rapporto al non presente, al già stato e al non ancora. È questo il motivo per cui il possibile inquieta il soggetto, perché essendo possibilità nel fondo del suo essere, il Sé è in gioco nell’azione. Nella volontà, dunque, ciò che entra in gioco non sono i desideri in competizione fra loro, ma la stessa identità del nostro Sé. Nell’atto di volontà ne va del tipo di persona che vogliamo essere. Questo mostra che la forza che sta alla base della volontà non nasce dagli impulsi sensibili che gli oggetti esterni esercitano su di noi, ma sgorga dall’interno stesso del Sé, da quella comprensione che il Sé ha di se stesso come di un essere che nell’azione determina chi vuole essere. In questo contesto il pro-posito si caratterizza come un porsi in anticipo, un anticipare il futuro, un anticiparsi, vale a dire un rapportarsi a se stesso come a una distanza che va colmata. È da questa distanza che si viene a creare fra il soggetto chiamato ad agire e il soggetto posto come scopo della volontà che scaturisce il sentimento di sé. In questo modo si delinea il nesso che sussiste fra la volontà e il Sé, e cioè che il movente essenziale del volere è il rapporto a sé, l’energia pura che scaturisce quando si produce uno scarto nell’interno della coscienza e il Sé si viene a costituire come differenza e unità fra il Sé che pone il compito e il Sé posto come compito della volontà (p. 72). Nel rapporto al mondo dunque il soggetto non conosce soltanto il mondo, ma conosce anche se stesso. Comprendere, infatti, non significa soltanto comprendere l’oggetto, ma esperire la relazione tra l’oggetto e sé stessi, cioè esperire il possibile come il proprio poter essere. Ciò che chiamiamo Sé è dunque un rapporto ad un poter essere che si manifesta nell’atto stesso della comprensione, nella quale non comprendiamo solo ciò che si manifesta, ma l’oggetto in quanto possibilità del mondo che, tuttavia, è anche il nostro poter essere, ciò che noi possiamo essere. Dunque il Sé è questo rapporto alla propria dimensione temporale come a una totalità di possibilità. In ogni attimo e in ogni vissuto, viene ritenuto il passato e anticipato il futuro. In ogni istante ha luogo una comprensione di sé come totalità, perché in ogni singolo vissuto viene rispecchiata la connessione totale dei vissuti. Tutto ciò implica che lo schema 57


causale che in molte formulazioni si identifica con l’idea secondo cui il passato è la causa che determina il futuro, si lascia sfuggire un dato fenomenologico decisivo: nella vita di coscienza il futuro viene prima del passato. Ogni elemento passato è, infatti, un elemento ricordato, ma il ricordo non è altro che un’attesa che è stata soddisfatta o contestata. Il passato non è che il ricordo di anticipazioni che hanno luogo prima che il flusso temporale le trasformi in ricordi. Questo privilegio dell’anticipazione è all’opera nell’istante; rappresenta la coscienza stessa perché senza questa struttura di anticipazione niente potrebbe apparire, quindi neanche la volontà. È dunque il movimento dell’anticipazione che fa sì che il soggetto del volere, ponendo il compito ponga se stesso. È lo scarto temporale a rendere possibile il Sé. Questo, da un lato, rapportandosi al futuro, viene invitato a prendere posizione nel presente, cosicché il futuro fessura e scinde la presenza pura del presente, costituendolo a partire dal futuro. Io sono dentro e fuori del mio presente perché è adesso che devo scegliere chi sarò in futuro. Così l’apertura al tempo si mostra, nello stesso movimento, origine della volontà e dell’autocoscienza. La temporalità genera una soggettività scissa e dunque viva. La volontà si mostra qui come il tentativo di colmare lo scarto temporale che costituisce il Sé come distanza da sé. Essa rappresenta quella cerniera e quel movimento capace di tenere insieme questa distanza nel cuore dell’io. Il Sé non è altro che “il rapporto tra un già e un non ancora, e la volontà e ciò che tiene insieme questi due momenti, dunque l’origine dello stesso Sé” (p. 83). Ma in base a che cosa la volontà sceglie? Che cosa caratterizza la volontà razionale, in quanto volontà rispetto alla quale, per il soggetto, ne va di sé? Se nel mondo dell’esperienza le possibilità si presentassero come indifferenti, allora non vi potrebbe essere alcuna volontà razionale, ma solo un volere arbitrario, che è come dire nessun volere, visto che il soggetto non potrebbe dare ragione del perché qualcosa piuttosto che qualcos’altro. In realtà giungere a queste conclusioni significa lasciarsi sfuggire un dato decisivo: le possibilità sono strutturate in maniera gerarchica. La totalità di possibilità in cui l’uomo vive non forma un sistema olistico, le possibilità non vivono una accanto all’altra, ma si collocano attraverso rapporti di inclusione, esclusione e implicazione, che sono i tre momenti che rappresentano la struttura antepredicativa, cioè la base d’esperienza che rende possibile distinguere tra azioni volontarie e azioni non volontarie. È in questa gerarchia assiologica che la volontà trova la sua condizione di possibilità. La volontà “emerge solo quando si tratta di definire se stessi, cioè quando il soggetto è chiamato a prendere posizione rispetto ai valori” (p. 113). La volontà razionale può, dunque, essere riconosciuta solo all’interno di un sistema strutturato e gerarchico di valori, in cui tutte le possibilità stanno in rapporto reciproco, secondo quelli che l’autore definisce rapporti di inclusione, esclusione e implicazione, e in ogni atto di volontà ne va del soggetto nella sua interezza. È qui che la prospettiva fenomenologica converge con quella kantiana o neokantiana: si può parlare di volontà solo dove questa persegue un valore riconosciuto dall’intelletto, che può, dunque, assumere la forma di un giudizio (p. 117). Con un linguaggio chiaro, dove il gusto dell’esempio rende comprensibile anche concetti difficili, il testo di Costa si snoda tutto quanto in un movimento pendolare tra neokantismo e fenomenologia, tra dover-essere ed esperienza, così da derivare il dover essere e la sua necessità per la volontà dalle strutture stesse del soggetto concreto. (Matteo Amori) 58


Andrea Di Miele, Antonio Banfi Enzo Paci: Crisi, Eros, Prassi. Presentazione di Giuseppe Cacciatore, Prefazione di Fulvio Papi, Mimesis Edizioni, Milano 2012, pp. 256. Il tono profondo di questo libro è l’attenta volontà di comprendere. Due figure centrali nella filosofia italiana del secolo scorso sono stati tra loro maestro e allievo: rispettivamente, Antonio Banfi ed Enzo Paci. Scena, l’Università Statale di Milano, con estensioni spazio-temporali nelle Università tedesche, nella belga Lovanio, nell’italiana Pavia. Il pensiero dell’uno si genera nei dolori della Grande Guerra e si prolunga sino al secondo dopoguerra; il pensiero dell’altro nasce negli anni della crisi entre-deux-guerres e si prolunga sino alle crisi sociali degli anni Sessanta del secolo scorso. Due vite filosofiche che per quanto dislocate su scale storiche asimmetriche sono destinate a continuare a incrociarsi nelle domande teoretiche di fondo. A una condizione: che si adotti un metodo di indagine storiografica che sappia scegliersi le cartine di tornasole, in grado di far reagire tra loro le pagine di Banfi e quelle di Paci, con risultati di reciproca illuminazione. Di Miele fa così focus su tre temi-chiave: crisi, eros, prassi. Per ognuno dei tre temi-chiave Di Miele rilegge le rispettive pagine di Banfi e di Paci. Questo implica saper muoversi in bibliografie ormai vaste, affidate soprattutto più che alle rispettive grandi opere concluse a saggi brevi e sparsi, a interventi nelle battaglie culturali delle diverse fasi storiche, a documenti autobiografici (per inciso, una ventina di lettere inedite tra i due sono riprodotte a fine volume). Ne risulta una giustapposizione feconda, per così dire un dialogo non dialogato. Crisi. Scrive Paci nel 1968 a proposito della nozione di crisi negli anni Trenta: “All’incirca dal 1932 al 1934 questi problemi divennero tragici. Lo furono a tal punto che la loro tensione ci permetteva appena di vivere”. Non nozione dunque che si colloca in un’astrazione culturalistica, ma sentimento che agiva nel profondo. La crisi di Banfi inizia con le giovanili tormentate riflessioni sul cattolicesimo di prima della Grande Guerra, quando la religione si fa delusione perché non sa rispondere all’assoluto. Prosegue con le impasses del pacifismo di matrice tolstoiana, del socialismo riformista; si risolve nell’accoglienza di Hegel, il viaggio in Germania, la conoscenza di Simmel, lo studio di Husserl. Crisi allora è processo di creazione di forme nuove della vita spirituale. Il manoscritto La crisi di Banfi è del 1934-35: gli stessi anni in cui Paci scrive la prefazione per la pubblicazione della tesi sul Parmenide, la sua prima opera. La crisi di Paci nasce dunque nei mesi stessi della crisi storico-politica d’Europa e ha movenze filosofiche: il “negativo” non è ciò che assorbe tutto, la crisi la si può vivere rendendola “creatrice e positiva”. Crisi come positività: Paci la ricercherà per tutta la vita, dando rilievo al mito e alla poesia e a Mann, traducendo Jaspers, cercando l’esistenzialismo con Abbagnano, su sino a Vico e al relazionismo come filosofia del soggetto tra soggetti e alla rilettura di Husserl e a quella di Marx. Avendo sempre a stella polare l’immagine, l’“istante”, l’eidos come trascendimento continuo. “Infinita inquietudine”, quella di Paci – “infinita certezza”, quella di Banfi. Che dopo il 1945 si risolverà nell’adesione al comunismo 59


vittorioso nella guerra contro il nazismo. Così ritenendo di inverare la linea della scienza moderna che si è fatta razionalismo storico. Eros. Di Miele sceglie di rileggere questo tema in Paci prima che in Banfi, la successione cronologia è capovolta. In Paci il tracciato è ininterrotto, dalla riflessione su Platone al relazionismo come centralità della sua speculazione, alla più tarda fenomenologia del bisogno. Punto focale è il mito. Paci lo ritrova nella “sapienza poetica” di Vico; in Whitehead esalta l’organicismo; in Husserl il “mondo della vita”; in Kierkegaard l’angoscia e al tempo stesso la “ripresa”. Da Husserl trae la Paarung: il corpo, l’intersoggettività. Sino a quella “società di soggetti libera dall’alienazione”, per la quale la fenomenologia di Paci decide di incontrarsi con il marxismo. Banfi risolve negli anni Quaranta l’eros inteso come esistenza dapprima nell’interessamento per il cattolicesimo dei protestanti italiani, in seguito persino in stentati tentativi di comprensione del nascente esistenzialismo. Prevale il rifiuto, progressivamente sempre più reciso, dell’irrazionalismo, che a suo giudizio ne costituisce il grave, insuperabile limite. A esso contrappone il suo razionalismo hegeliano, che “di principio”, ribadisce, è “critico e non dogmatico”. Prassi. Le strade che conducono Banfi e Paci a scegliere il marxismo sono, come si sarà compreso attraverso questi pur rapidi cenni, diverse. Per Banfi avrà contato molto la rilettura di Galilei e la delineazione dell’“uomo copernicano” come esito storico dei rapporti tra esperienza e ragione e prassi di trasformazione dell’umanità nella storia data a metà Novecento. Paci legge la storia in divenire intorno a sé e nella sua Università e nelle Università di mezzo mondo: le lotte studentesche del Sessantotto. Intersezione tra la fenomenologia come telos dell’umanità e le soggettività come prassi di liberazione dall’estraneazione o alienazione capitalistica. Lo stile di lettura di Di Miele fa dunque riemergere con vivezza gli intrecci tra la vita e la riflessione speculativa, i tempi storici e le reazioni personali dei due filosofi. Di Miele ha già pubblicato studi su Goethe, Santayana e, più recentemente, su Gramsci. Come si vede si muove su un campo che comprende le spinte della filosofia europea e dello storicismo italiano, comunque inteso. In quest’opera, convoca un lettore che voglia intraprendere un itinerario storico-critico a passo doppio tra due filosofi le cui problematizzazioni ancora ci parlano dal pieno Novecento, il Novecento della crisi europea e del travaglio italiano. (Emilio Renzi) Francesca Bonicalzi, Paolo Mottana, Carlo Vinti, Jean-Jacques Wunenburger (c/ di), Bachelard e le ‘provocazioni’ della materia, il melangolo, Genova 2012, p. 361. Il volume Bachelard e le ‘provocazioni’ della materia curato da Francesca Bonicalzi, Paolo Mottana, Carlo Vinti e Jean-Jacques Wunenburger recentemente pubblicato da il melangolo raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Milano e Bergamo nel 2012 in occasione del cinquantennale della morte del grande epistemologo francese. I curatori firmano anche i primi saggi della raccolta che funzionano da “introduzio60


ne” alle sezioni successive. Questa prima parte (p. 9-68) intitolata “Pensare e immaginare. Le provocazioni della materia” dischiude infatti il campo delle tematiche che verranno svolte in modo analitico nelle parti successive del volume. Essa cerca, cioè, di cogliere l’aspetto augurale e profondamente unitario dell’intenzione bachelardiana di pensare la materia come “provocatrice”: si tratta infatti di un rapporto che coinvolge nozioni fondamentali, per il pensiero di Bachelard e per la filosofia in generale, come quelle di “immaginazione” e “ragione”, di “soggettività” e “oggettività”, questi ultimi affrontati rispettivamente da due saggi di Carlo Vinti e di Francesca Bonicalzi. È soprattutto nell’intervento di Francesca Bonicalzi che viene chiarito “l’aspetto generativo e non passivo inerziale della materia” (p. 33), ovvero di un concetto che Bachelard non considera affatto “come un’esteriorità” rispetto al pensiero, al modo della metafisica dogmatica di cui l’epistemologia bachelardiana non ha mai cessato di denunciare l’astrattezza (p. 35). L’impianto generale del volume e la sua ricca e stratificata articolazione, infatti, permettono di cogliere la complessità e, per molti versi, l’imprendibilità di una nozione di “materia” che sfugge a facili dicotomizzazioni, restituendo al genitivo “provocazioni della materia” tutta la sua valenza oggettiva e soggettiva, sottolineando “l’estrema peculiarità di una sostanza in grado non solo di essere provocata ma anche e soprattutto di provocare: non solo, dunque, oggetto di provocazione, ma soggetto attivo di induzione, produzione e promozione di senso, realtà, poesia”, come scrive Valeria Choire nel saggio “La materia tra provocation e promotion (Bachelard, Merleau-Ponty, Dufrenne)”, p. 283. Il saggio di Wunenburger (“Materia, elemento, archetipo in Gaston Bachelard”) si impegna a tal proposito a delineare l’ampiezza e la complessità dei rimandi di Bachelard alla nozione di “materia” mostrandone la polivocità ma anche l’intima coerenza, giungendo ad una triplice caratterizzazione del materialismo: un materialismo “proprio del senso comune”, “una costruzione propria del razionalismo aperto dalla modernità” e una dimensione “onirico-poetic[a]” (p. 16). Tali elementi costitutivi della nozione complessa di “materia” in Bachelard verranno, come detto, sviluppati nei saggi successivi organizzati per nuclei tematici: “Pensare la materia. Regionalità” (p. 69-180), “Immaginare la materia” (p. 181-300), fino alla tavola rotonda “Immaginare le provocazioni della materia” (p. 301-354) dedicata al confronto tra il pensiero immaginale di Bachelard e le pratiche artistiche che ad esso possono più o meno esplicitamente richiamarsi. È impossibile nel limitato spazio di una recensione rendere l’ampiezza dei temi e delle prospettive offerte dal libro entrambe testimoni della vastità di interessi e della profondità dello sguardo teorico bachelardiano, costantemente volto alla chiarificazione dei problemi dell’impresa scientifica ma mai sordo alle molte sollecitazioni che, al di fuori dell’ambito strettamente epistemologico, potevano impegnarne la riflessione. Non a caso la prospettiva filosofica di Bachelard si è incontrata e ha dialogato con diversi autori e correnti del XX secolo: dalla fenomenologia (qui affrontata nel saggio di Vincenzo Costa “Materia e corpuscoli”, p. 115-126) alla psicoanalisi, affrontando problemi come quelli dello statuto dell’immagine e della parola poetica – si pensi alla vastissima produzione bachelardiana dedicata al tema della rêverie – arrivando ad influenzare profondamente il pensiero francese successivo (si veda, per tutti, il bel saggio di Cristina Zaltieri “Dal ritmo al ritornello. Deleuze lettore di Bachelard”, p. 241s.). Nonostante tale ampiezza di temi e di interessi una forza soggiacente profondamente unitaria salva la riflessione bachelardiana da uno 61


sterile eclettismo e dalla mera erudizione: si tratta del tentativo, mai abbandonato, di rendere conto di ciò che Bachelard chiamava “l’uomo delle ventiquattro ore”. L’interesse in entrambe le due dimensioni dell’esperienza umana (la scienza e la rêverie, il dominio solare della ratio e quello notturno dell’immaginazione) qualifica infatti il progetto bachelardiano senza dare origine ad alcuna aporia, poiché è proprio dall’interno di questi due campi che il pensatore francese tenta di mostrarci l’unità dell’esperienza umana, mostrando che il limite, già sempre posto tra le due inconciliabili metà della nostra vita, è in realtà un limite che necessita di essere sempre nuovamente scoperto e ri-pensato. Al movimento razionalista di continuo “risveglio” del soggetto che inaugura e sostiene l’attività scientifica, infatti, fa da contraltare l’atteggiamento dell’anima umana che si vuole sempre in contatto con un’origine, una matrice: se razionalismo diurno è l’attività di un insistente ricominciare, l’uomo notturno è in perenne contatto con l’origine. L’immaginario in Bachelard indica questo momento originario, questo cominciamento, questo inizio assoluto che si impone alla coscienza. La “provocazione della materia” indica allora, in questo senso, il tracciato di un’unità dell’esperienza che si tratta di riscoprire. Come scrive Francesca Antonacci (“Immaginazione ludica come respiro della materia”), “l’immaginazione ludica del bambino è il riverbero dell’immaginazione ludica del mondo, del corso del mondo, poiché il bambino è per natura più vicino all’essere e alla sua sostanza materiale e danza al ritmo del mondo. Nell’adulto questa forma immaginativa si trasforma in rêverie” (p. 211). L’esperienza della rêverie è determinata da Bachelard nella sua specificità e non coincide con un mero sprofondamento nel sogno. È il consegnarsi al potere dell’immagine che si impone con la forza di un mondo all’io, un mondo popolato di “materie” e che viene qui analizzato nella sua natura proteiforme in una serie di affascinanti saggi sull’immaginazione della materia. In tali saggi la materia viene mostrata nella sua capacità di sollecitare il pensiero nel suo darsi “tattile” (Renato Boccali, p. 181s.), “tenebroso” (Vincent Bontems, p. 261s.) e “cristallino” (Ionel Buse, p. 261s.), come “ritmo” (Julien Lamy, p. 225s.) e “metamorfosi (Antonio Allegra, p. 203s.). Il “materialismo” o “surmaterialismo” bachelardiano, dunque, si inserisce nel progetto complessivo di una scienza in grado riorganizzare l’esperienza, di segmentare e dialettizzare i concetti, di un’incessante esigenza ridestare il “tono” razionalista e sottrarci al sogno dogmatico della metafisica tradizionale. Al tempo stesso, esso, nella sua potenza imaginale (p. 285) marca l’esigenza di delimitare il confine tra ragione e rêverie non solo dal punto di vista epistemologico ma anche da quello esistenziale. È con lo stesso gesto con cui mostra la propria necessità epistemologica che il materialismo bachelardiano svela la necessità di una materialismo della rêverie. Ed ecco che nei saggi dell’ultima parte del volume, dedicati all’immaginazione della materia e ai rapporti tra il pensiero di Bachelard e il poiein artistico, viene in evidenza tutto l’interesse di Bachelard per il mondo immaginativo in cui la materia si mostra nella regione della psicologia del profondo, attraverso le seduzioni della libido. Ciò che altrove costituisce la genesi di un “ostacolo epistemologico” cui una posizione autenticamente razionalista deve guardare con sospetto, praticando una sorta di “etica” e una forma di “ascesi” concettuale (Luigi Cerruti, “Prima dell’incontro: l’ostacolo epistemologico”, p. 88-91), diventa qui il motivo dominante di una disposizione a lasciarsi provocare e addirittura sedurre dall’affettività che si lega profondamente alle forme polimorfiche della materialità inconscia. Non siamo 62


infatti noi a dominare l’immagine della materia come traccia mnestica e ontologica originaria, ma è piuttosto lei che ci si impone nel suo darsi “alchemico” e polimorfo. La dimensione della rêverie materiale si dischiude pienamente solo quando cessa il tentativo di controllo cosciente sulle immagini. Ed ecco che la soglia tra concetto di materia e immagine della materia si pone in questa equivalenza come un confine già sempre tracciato eppure ogni volta da riscoprire. Il volume si chiude con una “tavola rotonda” in cui, come già accennato, le teorizzazioni di Bachelard vengono a intrecciarsi con l’esperienza dell’arte nel suo concreto e multiforme darsi (poesia, pittura, musica), nel tentativo di mostrarne la cogenza e la capacità ermeneutica rispetto al fatto artistico, al di fuori dunque di una mera e talvolta astratta teorizzazione estetica. In alcuni interventi, addirittura, ci troviamo di fronte alla testimonianza diretta di artisti che si sono confrontati direttamente ed esplicitamente con il pensiero di Bachelard, rendendo così il lettore partecipe dell’uso più o meno ortodosso che delle posizioni bachelardiane essi hanno fatto nelle proprie opere. È importante sottolineare che non si tratta di una mera “appendice” alle precedenti parti del libro. Proprio in Bachelard, infatti, è da escludere l’idea di un pensiero che si lascia chiudere in una teoresi priva di agganci con la prassi, ché anzi esso abbisogna del costante intreccio ad un’alterità che lo seduce, provoca e gli resiste, per sorgere e strutturarsi come tale (seppure, osservano giustamente tanto Renato Boccali che Viviana Reda, l’homo faber bachelardiano non possa essere piattamente sovrapposto al suo omologo bergsoniano, p. 189 e 277). In tal senso, attraverso un orientamento totalmente diverso dell’agire, l’arte nel suo porsi come parola, figura e suono dell’Immaginale, svela una dimensione del rapporto tra l’umano e la materia che è forse più radicale e profonda della stessa scoperta scientifica dei costituenti dell’universo fisico, poiché in questo sprofondarsi e lasciarsi attraversare cui l’uomo si consegna nel proprio rapporto con la materia onirica di cui è fatto egli sembra entrare in contatto con una forza “capace di eterizzare il presente […] per farne continuo avvento dell’essere” (Fabio Scotto, “Bachelard e Bonnefoy: lezioni di poesia”, p. 322) e dunque di completare la propria eterna ricerca del vero nel segno di una radicale e paradossale “apertura” in cui l’incompletezza si rovescia da carenza di sapere e mancanza di controllo in pienezza di senso e disponibilità all’ascolto di ciò che incessantemente ci genera. (Marco Maurizi) P. Colonnello, S. Santasilia (c/ di), Intercultura, democrazia, società. Per una società educante, Mimesis, Milano 2012, pp. 252. Il volume è frutto di un lavoro sviluppatosi a partire dal 2007 presso l’Università della Calabria all’interno di un Master dedicato ai problemi dell’intercultura e dei suoi nessi con la democrazia e ospita contributi di autori italiani, spagnoli e latinoamericani che si possono grosso modo includere in due principali filoni. Il primo è quello della “filosofia della liberazione” latino-americana, il quale riflette innanzitutto sulla natura e il compito di una filosofia che si pone al servizio di una prospettiva progressiva di emancipazione in un’ottica post-coloniale. Il secondo filone, di natura maggiormente teoretica, lavora sulle categorie che ci permettono di pensare e ripensare il rapporto con l’Altro, incarnato soprattutto nella figura del migrante. 63


Sta proprio nella stretta interazione tra questi due filoni il principale punto di forza dell’opera. Non è infatti esperienza rara riscontare nella riflessione filosofica sull’interculturalità l’uso di categorie (in primis et ante omnia quella di “cultura”) assunte in maniera a-critica dalle scienze umane. I contributi di taglio più teoretico in codesto volume (penso soprattutto a quelli di Romeo Bufalo, Fortunato Cacciatore, Pio Colonnello e Luca Parisoli) invece impediscono tale deriva in quanto offrono un lavoro serio e approfondito di tipo autenticamente filosofico. Il primo punto che emerge da tale lavoro teorico è l’impossibilità di pensare un’origine pura – e ciò già a partire dalla classicità greca: l’origine, fonte dell’identità autoctona, è sempre pensata a partire da o in polemica con un’alterità che viene “prima”. In altri termini, l’alterità è imprescindibile nel movimento di auto-definizione identitaria e chi non accetta di correre il rischio della relazione con l’altro finisce per costruire un’identità culturalmente fragile caratterizzata da una reattività timorosa e quindi tendente a una degenerazione violenta. Ecco perché diviene centrale – e ciò costituisce il secondo punto – la categoria di metaxy (medio), che alcuni autori associano alla figura del pensiero meridiano proposta da Franco Cassano, e la conseguente paradossale idea dell’originalità del medio. In entrambi i filoni suddetti è poi centrale la categoria di meticciato, pensato non tanto come una condizione stabile quanto come un processo in fieri legato alla lingua e allo stile di pensiero che coinvolge non solo gli individui ma soprattutto le culture. Si tratta di una prospettiva assai interessante, che è percorsa con sensibilità e prospettive diverse da molti autori del panorama culturale contemporaneo. La categoria di meticcio applicata all’universo delle culture permette di evitare le derive più comuni del multiculturalismo contemporaneo: quella differenzialista, che postula la fissità delle (etno)culture e predica il loro rispetto reciproco nell’assenza di qualsiasi prospettiva di incontro e di “contaminazione” reciproca; e quella dell’ibridismo indiscriminato, che pensa al rapporto tra le culture come un processo indefinito di mescolamento in cui ogni identità perde i propri caratteri peculiari. Non identità senza flusso, quindi, e nemmeno flusso senza identità, bensì relazione tra identità che si definiscono nel loro reciproco rapporto. Un rapporto che non può essere pensato al di fuori della figura del dramma, vale a dire che non può essere programmato politicamente ma che al limite può essere prescritto come dovere morale, senza con ciò poter predeterminare il suo esito, essendo questo legato al movimento delle libertà in gioco. Da questo punto di vista risulta interessante la prospettiva aperta dal contributo di Pio Colonnello che inquadra il meticciato all’interno della figura dell’impolitico, per come questa è stata sviluppata da Roberto Esposito. Il meticciato infatti è per sua essenza estraneo al regime della rappresentazione, partecipando piuttosto a quello della figliolanza. Il meticcio è figlio, una nuova identità che partecipa di un origine e traduce le identità dei genitori, effetto di un rapporto che eccede sia l’uno che l’altro. Il meticcio non è fatto, a partire da un’idea-modello che lo trascende, ma è bensì generato. Il compito oggi è ripensare le condizioni di tale paradossale generazione. (Sante Maletta)

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Marco Deodati, La dynamis dell’intenzionalità. La struttura della vita di coscienza in Husserl, Mimesis, Milano 2010, pp. 246, € 18.00. Non troviamo parole più adatte per introdurre alla ricerca di Marco Deodati che quelle che Jacques Derrida impiegò in apertura del suo celebre commento del 1962, dove la trama del testo husserliano veniva descritta nei termini di un mouvement en vrille, “movimento di avvitamento” nel vortice del quale un singolo e circoscritto nucleo tematico finisce col gettare nuova luce sulla vita di coscienza in generale, al punto da esigere una globale re-interpretazione del significato della stessa fenomenologia, cosicché, direbbe ancora Derrida, “i rapporti architettonici ora evocati si trovano complicati, se non capovolti”. Tale il capovolgimento che Deodati si prefigge, se non già di portare a compimento, per lo meno di mostrare come esso si annunci a partire da un folto gruppo di manoscritti inediti accuratamente passati al vaglio e minuziosamente analizzati. Sono le cosiddette Studien zur Struktur des Bewusstseins, un insieme di testi risalenti al primo quindicennio del Novecento e catalogati da Landgrebe-Fink nel gruppo “A” del Nachlass, quello afferente alla “fenomenologia mondana” (mundane Phänomenologie). Tra questi, particolare attenzione viene dedicata al gruppo “A VI” (Psychologie (Lehre der Intentionalität)). Husserl, come afferma Deodati, “si cala in una ricerca vertente sui vissuti afferenti ai tre titoli fondamentali intelletto, sentimento, volontà, sviluppando finalmente quel discorso relativo alla coscienza emotivovolitiva cui nelle opere edite si accenna ripetutamente, senza che tuttavia lo si affronti mai sistematicamente” (p. 25). Se è da tale specifico, e apparentemente circoscritto, nucleo tematico che l’indagine prende le mosse, essa ci spinge ad “ampliare la prospettiva sull’intenzionalità, sottraendola definitivamente ai possibili fraintendimenti teoreticisti”. Alcune di queste analisi husserliane, tale la convinzione dell’Autore, “hanno la peculiarità non solo di far luce su una specifica modalità intenzionale tra le altre, ma anche di contribuire a un ripensamento generale dell’intenzionalità nel suo complesso” (p. 27). Sarà in particolare la “tendenza” a imporsi, da crisma di un delimitato insieme di fenomeni, quale “struttura trasversale [...], nella misura in cui ogni vissuto è caratterizzato da un movimento, ovvero da un processo di decorso e compimento” (p. 28). La fenomenologia, al di qua del suo scindersi in “statica” e “genetica”, si scoprirà allora come dinamica, nella misura in cui la dynamis fonderà una interpretazione dello psichico “nei termini di una vita trascendentale in cui siano connessi io e mondo”; dal momento che, “come già sostenuto da Aristotele, ogni vita sembra necessariamente caratterizzata da aisthesis e kinesis”. Dal punto di vista specificatamente testuale, il volume può idealmente suddividersi in tre sezioni. La prima, introduzione e primo capitolo (“Il concetto di intenzionalità come tendenza”), si sofferma sulle Studien, ripercorrendone sì alcuni dei motivi caratterizzanti, ma già operando una preliminare generalizzazione dei risultati così ottenuti (in particolare per quanto concerne le nozioni di Trieb e Tendenz). Il secondo (“Tendenza e affezione”) e il terzo (“Affezione originaria e intenzionalità istintiva”) offrono le basi, nei termini di una ulteriore e più radicale generalizzazione della dinamica della tendenza, per un prima globale interpretazione della vita di coscienza secondo differenti declinazioni ruotanti intorno al plesso ego-hyle. Il quarto e ultimo capitolo infine (“La prospettiva di un’intenzionalità intesa come rapporto 65


vivente”) congiunge la prospettiva dell’intenzionalità istintiva e la Zeitfrage, la spinosa questione della costituzione del tempo per avviarsi poi a tirare le conclusioni generali dell’indagine. Il testo prende le mosse dal fenomeno del Trieb, l’impulso che muove, “la spontaneità volitiva originaria senza riferimento, vale a dire una tendenza pratica che emerge a partire da se stessa, senza essere motivata da un oggetto in particolare” (p. 31). L’affezione stimolante l’impulso non viene esercitata da un qualche oggetto rappresentato, ma dalla coscienza su se stessa: essa porta con sé i germi di una primordiale auto-affezione della coscienza; meglio: la coscienza medesima è, nella dinamica del Trieb, la sua stessa cieca affezione, il suo costante “mettersi in moto” che tende a una distensione continua e sempre ripetuta. L’autocoscienza, nella sua forma germinale, è impulso: questo non si presenta, e il testo lo pone progressivamente in luce, come una preliminare fase della vita della coscienza, presto superata e rimossa dagli strati superiori, quanto piuttosto come il cuore pulsante della dinamicità della coscienza. Così, se l’Autore può a ragione sottolineare che “anche nella pulsione […] può essere rinvenuta la struttura binaria intenzioneriempimento, che nel contesto presente diviene più esattamente tensione-distensione (Spannung-Entspannung, Tendenz-Entladung)” (p. 34), vero è geneticamente il contrario, e questo soprattutto al fine di evitare quelli che l’Autore ha chiamato “fraintendimenti teoreticisti”: e cioè che, anche ai livelli superiore della vita di coscienza, laddove quest’ultima assume il volto di una coscienza conoscitiva atta a risolvere il proprio flatus vocis nella visione intuitiva, si ritrovano i meccanismi primordiali del Trieb. Se staticamente, secondo le necessità di una teoria della conoscenza che per prime hanno messo in moto la fenomenologia, paradigmatico è il plesso intenzioneriempimento, geneticamente sarà il Trieb, non solo a rappresentarne lo sfondo di provenienza, ma anche a fare in modo che, compresa a partire dall’impulso, quella stessa intenzionalità non venga (male) interpretata come atto e volontarietà. Il valore metonimico viene espresso dall’Autore nei termini di una “potenzialità motrice originaria”; il Trieb non è infatti semplicemente fisico, bensì psichico e fisico insieme così da caratterizzare la coscienza ai suoi livelli più originari come un “potersi-mettere-in-moto”, ma anche tale da ripetersi in tutti gli strati superiori: “Essere, come soggetto di coscienza incarnata, la dynamis di un ‘fare’ appagante originario che si replica in tutti gli altri tipi di movimenti superiori” (p. 40). La ripetizione metonimica assume le forme della tendenza come generale spinta in direzione di un compimento: “Il termine tendenza nomina pertanto quell’impulso strutturale che spinge la coscienza al compimento degli atti attraverso i quali si realizza la nostra esperienza del mondo. Ogni atto, in quanto fare peculiare che porta a manifestazione un certo senso d’essere, è mosso da una tendenza che lo mette in moto e lo sostiene fino al suo completo compimento” (p. 42). Come Deodati puntualizza, Husserl ascrive lo Streben a tutti i vissuti intenzionali della coscienza, mentre riserva il Trieb ai fenomeni più originari caratterizzanti i movimenti involontari “attraverso i quali comincia il mio fare esperienza del mondo circostante”. La tesi che l’Autore si prefigge di esporre e difendere è che “il concetto stesso di intenzionalità viene riletto alla luce proprio di quel tendere che la coscienza è in ogni vissuto” (p. 45); lo Streben, ripetizione metonimica del Trieb, si prepara con ciò a farsi “struttura generale e onnipervasiva della coscienza, come una sua forma (Form)” (p. 46); “Tale fenomeno comincia ad essere identificabile come quello rappresentante la struttura fondamentale della coscienza, vale a dire l’intenzionalità stessa” (p. 53). 66


La nozione di tendenza serve all’A. anche a trovare il cardine, per così dire, attorno al quale ruota la stessa fenomenologia nel suo evolversi da statica a genetica: proprio la nozione di Tendenz permette a Husserl un’interpretazione duplice dell’idea di intenzionalità come coscienza-di... Essere coscienti non è uno stare a guardare (nonostante la fenomenologia statica dia sovente l’impressione di stare a guardare lo “stare a guardare” della coscienza), ma “un venire all’apparenza”. La Leistung della coscienza trascendentale viene letta come una dinamizzazione della Erscheinung, cosicché “il compimento dei vissuti della coscienza in quanto phainomena è possibile solo nel modo di una coscienza operante nel senso di una dynamis” (p. 60). La Tendenz, da fenomeno particolare in primis ravvisato negli strati profondi del Trieb, caratterizzando ogni vissuto come una forma di tendenza dinamica, costringe la fenomenologia a farsi genetica per venire incontro alla dinamicità intrinseca alla coscienza: “La tendenza è il modus nel quale si estrinseca originariamente ogni coscienza in quanto Bewusstsein-von” (p. 61). Ma il testo non si accontenta di accennare a tale generalizzazione del fenomeno della tendenza, piuttosto ne segue gli sviluppi e le ripercussioni su tutti gli strati dell’attività di coscienza, come ad esempio quella relativa all’“interesse teoretico”, quella che spinge e muove l’impulso conoscitivo e la sua abitualizzazione nel soggetto che ricerca, lo scienziato: “la conoscenza, nella sua forma più alta di teoresi, non è un sapere ‘puro’ e ‘neutro’ – una visione distaccata –, bensì un’attività resa possibile da uno Streben nach Erkenntnis, che sentendo il vuoto di un che di determinato e saldo, tende al suo riempimento” (p. 80). A partire dal secondo capitolo Deodati segue nelle Sintesi passive, quindi nello Husserl degli anni Venti, la prospettiva apertasi con le Studien. La tendenza, e il suo riempimento, vi si ritrova nella sua primordiale duplicità: da un lato il tendere è quello dell’in-tendere, un accadere che spinge da vissuto a vissuto e si configura dunque come una dinamica di compimento dei vissuti in quanto tali; dall’altro la tendenza è quella del passaggio dal vuoto alla pienezza dell’intentum, la presenza in carne ed ossa. La tendenza, puntualizza nuovamente l’Autore, si conferma essere “una dinamica onnicomprensiva della vita di coscienza: essa si estende in ampiezza e in profondità, ovvero risale in modo capillare ai vissuti passivi fino ad arrivare agli atti egologici superiori” (p. 95). Di qui l’analisi della “somiglianza”, “societas sui generis”, in virtù della quale tutti i vissuti si connettono “nell’unità di un’implicazione reciproca” che è anche e soprattutto l’unità della coscienza di tempo, la quale, nel suo aspetto formale, riceve ora un riempimento descrittivo materiale-contenutistico. È l’asse protenzionale quello in cui si esplica il nesso associativo, “nel senso specifico di una connessione continua di dati impressionali simili sulla base dello stile di riferimento [...] della corrispondente scia ritenzionale” (p. 101). presenta come una grande sinfonia di cose” (p. 105). Da questa sinfonia di sfondo si stagliano le unità iletiche che esercitano un’affezione sull’io La somiglianza determina ogni vissuto sulla base dell’associazione costitutiva dell’appercezione in una continuità temporale di fasi differenti che si susseguono: grazie alla linea ritenzionale, l’operazione associativa che domina il versante protenzionale costituisce l’oggetto come un questo-qui, il quale a sua volta, risvegliando un vissuto passato, rimanda ad un altro molto simile. L’unità del campo di coscienza è attraversato, strutturato e retto da nessi di somiglianza, fusioni di omogeneità e contrasti sensibili; il mondo si rivela, allo sguardo 67


fenomenologico, come un’armonia e una risonanza sensibile: in esso tutto riecheggia, e l’esperienza “si e lo costringono a presentare loro attenzione: in questa “dinamica Affektion-Zuwendung si può notare, ancora una volta, la pervasività dell’intentio in quanto tendenza: avendo la possibilità di colpire l’io, suscitando così in esso un nuovo impulso, l’intenzione tensiva passiva trova la via per replicare e riprodurre se stessa su di un piano superiore, quello appunto della vita desta del cogito, ai gradi più alti della quale lo spingere viene assunto deliberatamente dall’ego come un passare continuo di manifestazione in manifestazione, che non si arresta fino a quando non trova piena soddisfazione nella presenza in carne ed ossa dell’intentum” (p. 108). La tendenza si conferma essere una chiave interpretativa in grado di garantire l’unità della vita di coscienza, dai suoi impulsi primordiali fino alle attività superiori cogitative: “il tendere della coscienza riproduce se stesso ai livelli superiori della costituzione trascendentale”. Dato l’inestricabile intreccio di “io” e “hyle”, Deodati si prefigge si spingere l’analisi fino alle radici della genesi trascendentale, e ivi di ritrovare la Triebsintentionalität come “dinamica motrice originaria, il differenziale primigenio della vita di coscienza” (p. 155). Distinguendosi dall’intenzionalità vuota che tende al riempimento, l’intenzionalità istintiva si dirige verso un vuoto non traducibile in pieno, si tratta di un “orizzonte vuoto” (Leerhorizont), quindi di un’intenzionalità di un orizzonte potenziale e indeterminato. Lo Stufenbau genetico della vita di coscienza si presenta così come basato sugli istinti originari in cui affonda le sue radici l’intenzionalità classica del prendere-di-mira e dell’avere qualcosa in rappresentazione; a fare da tramite, ripetendo e quindi generalizzando la dinamica del Trieb, è la Tendenz. La profondità dell’analisi individua nell’idea di io-istinto il fulcro della dynamis geneseos: il soggetto ultimo è un fungere non oggettivabile per descrivere il quale l’Autore, seguendo Husserl, si trova costretto a moltiplicare l’uso del prefisso “Ur” e a parlare di Ur-Kern, Ur-Gefühl, Ur-Kinästhese, Ur-Hyle. Siamo qui ai limiti della descrizione fenomenologica, in cui la ricerca dell’originario approda a un’arché che “non è una semplice nascita, nel senso mondano di un momento iniziale [...] bensì fonte zampillante che irrora costantemente col suo getto il flusso dell’esperienza”. Ne consegue che il “rapporto intenzionale con le cose non ha un principio, inteso come qualcosa che gli si ‘applichi’, che lo indirizzi dall’‘esterno’, ma è già sempre al principio, sempre all’inizio, sempre sgorgante da sé e, con ciò, continuamente replicantesi su piani molteplici – ininterrottamente uranfänglich” (p. 163). L’assunzione della terminologia aristotelica della dynamis, già anticipata dal titolo del volume, permette all’A. di parlare di una potenza trascendentale e proporre, sulla scia di altri eminenti studiosi come la Montavont, una più ampia interpretazione dell’intenzionalità, così come presentata da Husserl dai tardi anni Venti fino a tutti gli anni Trenta, in termini di “forze” e “tensioni” e in cui a legarsi l’una all’altra sono la già nota Triebsintentionalität e la Ur-Zeitigung: “Le dimensioni specifiche della temporalizzazione [...] appaiono riconducibili alle movenze basilari in cui si esplica originariamente il fungere istintivo dell’ego” (p. 179). L’intera struttura temporale si lascerà allora ritradurre nel linguaggio dell’intenzionalità istintiva e delle tendenze da essa istituite: l’“ora”, ad esempio, non sarà altro che “questo fungere nel modo dell’essere-presso, del portare a presenza la hyle patendone l’impressione”. 68


Collocata alla radice della temporalizzazione e della genesi, l’“intenzionalità istintiva originaria” permetterà di parlare della soggettività come attraversata da un desiderium mundi, “un sentire da cui promana il movimento attraverso cui l’ego si trascende sul piano del mondo” (p. 191). Se la tendenza era stata esibita come potenza della costituzione, il sentire istintivo si manifesta come potenza della stessa genesi trascendentale originaria: “Il telos immanente dell’intentio pulsionale primordiale è il riempimento del vuoto, la distensione in un certo fare e la soddisfazione conseguente. Nel caso invece di un orizzonte rappresentativo vuoto, il fine è sempre il riempimento, ma stavolta concepito come un continuo arricchimento della cosa intenzionata” (p. 193). Il cerchio sembra chiudersi: lo scavo analitico ha condotto la fenomenologia, prima dalle descrizioni statiche a quelle genetiche, quindi a scoprire una dimensione dinamica la quale, piuttosto che aggiungersi come terza alle precedenti due, le attraversa longitudinalmente da parte a parte rappresentandone la stoffa più intima, la fibra della stessa soggettività. L’Autore conclude la sua ricerca lasciando aperta la possibilità di un globale ripensamento, al di là del contributo di natura metonimica offerto dalla nozione di tendenza, dell’idea di trascendenza e trascendimento della coscienza come vita, “rapporto vivente di io e mondo” (p. 221). Questa vita congiungerebbe, o ricongiungerebbe, sensazione e percezione, potenza e movimento, forza ed impressione, come modi originari e reciprocamente interconnessi del rapporto intenzionale con il mondo. La fenomenologia, non potendosi più ridurre a un’estetica intesa come teoria degli elementi conoscitivi sensibili, dovrà necessariamente considerare anche il movimento e la dinamica che li innescano. Essa si farà dunque esplorazione della natura “orectica” della soggettività, vale a dire – anticipando temi e questioni che altri nel corso del Novecento avrebbe poi inteso sviluppare anche in aperta antitesi alla teoresi husserliana – il “dominio di una fenomenologia intesa come cinestetica trascendentale”. (Daniele De Santis) Alexander Schnell, En deçà du sujet. Du temps dans la philosophie transcendantale allemande, Presses Universitaires de France, Paris 2010, p. 323, € 26. Dopo aver già dedicato diversi studi all’idealismo classico tedesco (nelle figure, soprattutto, di Fichte e Schelling) e alla fenomenologia (tanto di Husserl quanto di Heidegger), Alexander Schnell licenzia un volume che sembra voler fare il punto, (quasi riassumere nel precipitato concettuale di una sola nozione, quella di “tempo” appunto!), il valore stesso della filosofia trascendentale, così tentando “di difendere l’idea che il tempo [sia] un concetto chiave del trascendentalismo” (p. 19). Per chiarire che cosa intende col termine di “trascendentale”, nello stesso tempo tracciando il percorso dell’indagine, Schnell si richiama alla celebre definizione kantiana – quella secondo la quale trascendentale è “ogni conoscenza che, in generale, non si occupa tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti in quanto essa deve essere possibile a priori” – per subito commentare: “Si possono in effetti identificare cinque realizzazioni essenziali (noi diremo cinque “figure”) della filosofia trascendentale: quelle di Kant, di Fichte, di Schelling, di Husserl e di Heidegger”. Ponendo l’accento sui “termini di ‘conoscenza’ e di ‘a priori’, otteniamo il trascenden69


talismo kantiano [...]. Il concetto centrale del trascendentalismo fichtiano è il ‘Soll (deve)’ [...]. Se ci si focalizza sull’‘oggetto’, si ottiene il trascendentalismo tale quale Schelling l’ha esposto nel suo Sistema dell’idealismo trascendentale [...]. Se si mette l’accento sull’espressione ‘nostro modo di conoscienza’, [...] ci si piazza nella fenomenologia trascendentale husserliana”. Ma quale termine per Heidegger? “È il termine di ‘possibile’ (con tutte le sue varianti: possibilità, poter-essere, possibilizzazione, ecc.)”. Ma i punti ancora più interessanti, speculativamente e storiograficamente, sono due. Il primo riguarda la decisione di aggiungere, a queste cinque classiche “figure”, un sesto profilo: “Eugen Fink, allievo di Husserl e di Heidegger, che fu il più importante prosecutore in materia di fenomenologia del tempo e che riuscì nel modo più potente a far entrare in comunicazione la fenomenologia contemporanea e la tradizione classica tedesca” (p. 22). Il secondo punto è quasi una sfida a molta storiografia contemporanea, e sta nel fatto che se i lavori che mirano a chiarire “le ‘fonti’ austro-ungariche della fenomenologia cercano, oramai già da molti anni, di avvicinare alcune letture della fenomenologia alla tradizione analitica (se non quando cognitivista), noi pensiamo invece sia tempo di mostrare che ci sono numerose ragioni per procedere a un confronto filosofico tra la fenomenologia, laddove questa si intende come ‘idealismo trascendentale’, e i primi idealisti trascendentali” (p. 23). Se “trascendentale” sarà allora la filosofia in questione, il tempo ne rappresenterà, non tanto il singolo oggetto d’indagine, quanto l’intelaiatura medesima: “Il trascendentalismo si piazza, lo si sa, su di un piano al di qua di ogni oggetto. Ciò che tenteremo di mostrare è che, a partire dal momento in cui incontra il tempo, esso si piazza ugualmente al di qua del soggetto, vale a dire al di qua della costituzione soggettiva degli oggetti d’esperienza; [...] il tempo, vi insistiamo, è la dimensione di apertura del rapporto soggetto-oggetto” (p. 24). Ed è proprio “nel e attraverso le analisi del tempo che si cristallizzano i differenti modi di concepire ‘il’ trascendentale” (p. 32). Diviso in due sezioni, la prima dedicata al tempo nella filosofia classica tedesca, la seconda al tempo nella fenomenologia tedesca, il libro si articola in sei sottocapitoli: si procede, nella prima metà, da “la mediazione temporale dell’oggettività in Kant” (p. 37-78), passando per la “genesi trascendentale del tempo nella Dottrina della scienza di Fichte” (p. 79-126) fino all’“emergere del tempo e dell’essenza del tempo nel Sistema dell’idealismo trascendentale di F. W. J. Schelling” (p. 127-55). Nella seconda metà l’A. prende le mosse dalla “descrizione della temporalità immanente e costruzione della temporalità pre-immanente in Husserl” (p. 159-94), per passare poi alla “temporalizzazione del tempo in Heidegger” (p. 195-261) e chiudere con l’analisi della “fenomenologia del tempo di Fink” (p. 263-303). Non potendo rendere giustizia all’intero percorso così come sviluppato da Schnell, cercheremo di presentarne la struttura essenziale considerando i risultati che l’A. stesso trae dalla propria disamina storico-speculativa. Al termine della Iª sez., quella dedicata ai “primi idealisti trascendentali”, Schnell ne riassume l’esito principale, quello per cui il tempo è apparso essere il “termine chiave” che media tra “il soggetto e l’uomo, la coscienza e il mondo”, giocando quindi un ruolo centrale “nel rapporto tra la coscienza trascendentale e la coscienza empirica” (p. 156). Di qui l’eredità, ma anche il compito, che i “filosofi tedeschi classici” ci lasciano: “il tempo è oramai considerato come ‘costituente’ la stoffa, la struttura intrinseca della coscienza”, in tal modo assumendo “una ‘funzione trascen70


dentale’ ancora più precisa: esso si presenta come la prima ‘iscrizione’ del trascendentale nel reale”. A partire da Kant infatti, dall’A. giustamente considerato come colui che “inaugura” la “filosofia trascendentale del tempo” (e del quale si discutono brevemente il ruolo del tempo nella deduzione trascendentale delle categorie, lo schematismo e le analogie dell’esperienza), il “tempo non è più, sin dall’inizio, questo o quello, ma opera – tra il soggetto e l’oggetto, la coscienza e il mondo, l’idealità e la realtà” (p. 37). Forte di una tale eredità, Schnell si appresta a rintracciarne la filiazione nella fenomenologia, laddove questa pretenderebbe “proseguire e approfondire in molteplici modi la direzione inaugurata dalla filosofia classica tedesca: si tratta, primariamente, di chiarire lo statuto di differenti ‘livelli’ di temporalità; in secondo luogo, si deve precisare l’essenza temporale della soggettività trascendentale; terzo, bisogna meglio stabilire il legame – temporale – tra la ‘soggettività trascendentale’ e la sfera ‘oggettiva’ [...] e infine, quarto punto, bisogna essere più precisi quanto al ruolo che il tempo gioca nella metodologia stessa dell’idealismo trascendentale”. Se l’approccio propriamente fenomenologico alla questione del “tempo” viene presentato come indagine concernente l’“origine” di un fenomeno, il tempo appunto, costituente l’intelaiatura stessa di ogni esperienza descrivibile, allora quello non è più oggetto tra altri oggetti di descrizione, ma “co-originarietà tra la coscienza e il mondo, tra il soggetto e l’oggetto” (p. 159). Se questa la prima tesi che Schnell tenta di difendere in apertura della IIª sez. del volume, l’altro argomento introdotto è quello dell’“appartenenza” della fenomenologia husserliana del tempo alla tradizione della filosofia trascendentale, kantiana in primis: “Le analisi degli ‘oggetti-tempo’ (Zeitobjekte) in Husserliana X e del ‘processo originario’ (Urprozess) in Husserliana XXXIII hanno in effetti per scopo quello di mostrare che non si può render conto della costituzione del tempo che precisandone la struttura formale” – struttura “formale” che rinvia direttamente “alla dottrina kantiana del tempo come ‘forma pura del senso interno’”, così da poter “sufficientemente insistere sul modo in cui le analisi husserliane relative alla costituzione del tempo si iscrivono nella tradizione della filosofia trascendentale inaugurata da Kant” (p. 162). La disamina che l’Autore sviluppa in questo 4° cap. si presenta tuttavia come una sintesi di un più lungo commento già dedicato ai Manoscritti di Bernau (Temps et Phénomène. La phénoménologie husserlienne du temps (1893-1918), Hildesheim, Olms 2004); commento teso a seguire la discesa husserliana in una temporalità “pre-immanente” o “prefenomenologica” che, inaugurando l’indagine genetica, possa “rendere conto del carattere temporale delle componenti stesse della sfera immanente” (p. 175). Ci si sofferma sul “processo originario” nella sua struttura fatta di “noccioli percettivi” nel continuo loro intrecciarsi ritenzionale-protenzionale, nonché sulle “forme noematiche” che, in tale processo originario, si costituiscono come irriducibili alle oggettualità costituite nell’immanenza. In chiusura del breve percorso husserliano, l’Autore tenta di “mettere in evidenza il rapporto tra la temporalità e l’oggettività in due pensatori [Kant e Husserl] che sembrano essere i più ferventi e conseguenti difensori della tesi in favore del carattere formale del tempo” (p. 193); prossimità, dunque, in cui si fa tuttavia necessario rinvenire una differenza: perché se Kant difende l’infrangibile e “intrinseco legame tra la temporalità e l’oggettività”, mai abbandonando “l’idea di una mediazione irriducibile” tra le due, Husserl, agli antipodi, “malgrado la sua prossimità con Kant [...], cerca di disconnettere temporalità e og71


gettività. In effetti, è attraverso la distinzione tra differenti livelli costitutivi di temporalità [...] che opera questa disconnessione”. Se Schnell può in tal modo concludere che la costituzione “di un oggetto-tempo si situa al di qua di quella di una oggettività immanente”, così rimettendo in causa, nella sfera della costituzione ultima, il carattere oggettivante dell’intenzionalità, bisognerebbe tuttavia domandarsi se, al di sotto dell’oggettivazione immanente, Husserl riesca veramente a liberarsi, non già dell’oggettivazione medesima, ma del suo paradigma forse sempre operante (questo, ci sembra, il persistente sospetto che Eugen Fink avanza, anche nei confronti della più tarde riflessioni husserliane sul “presente vivente”). Dopo Husserl, anche Heidegger viene scorto alla luce dell’eredità dell’idealismo tedesco, e Schnell, per legittimare l’avvio della propria disamina, cita strategicamente un passaggio di Essere e tempo (GA 2, p. 208) in cui si ribadisce che se “Il titolo idealismo vuol dire che l’essere non è mai esplicabile con l’ente, ma è già per ogni ente il ‘trascendentale’, allora nell’idealismo riposa l’unica e giusta possibilità di problematizzazione filosofica”. Di qui, allora, bisogna “mostrare in quale misura Heidegger apporti un contributo originale alla filosofia trascendentale” (p. 195), quest’ultima come radicalizzazione onto-fenomenologica della categoria di “possibilità”: “La questione fondamentale è di conoscere ciò che rende possibile l’essere del Dasein, dunque il suo poter-essere, che è sempre una esistenza fattuale e ‘mia’” (p. 200). Perché, continua l’A., se “la filosofia trascendentale si occupa di ciò che rende possibile, di ciò che possibilizza (la conoscenza degli oggetti d’esperienza)”, allora il filosofare heideggeriano è trascendentale nella misura in cui “trova nel progettare il principio ontologico della filosofia trascendentale” (p. 201). Il capitolo si sviluppa passando in rassegna molteplici forme di temporalizzazione – quella all’opera nella “cura” con il suo “tempo preoccupato”, l’“istorialità” originaria del Dasein, il livellarsi delle sue strutture temporali nel tempo volgare e l’esperienza fenomenologica della “noia” – domandandosi in chiusura del “perché” Heidegger abbia poi deciso, nella sua opera ulteriore, di rinunciare alla “figura del trascendentalismo (dominata dalla ‘possibilizzazione’)”. La risposta non potendo essere che perché “si tratta di un procedimento quasi ‘formale’ che serve un progetto ‘fondazionale’ – ma Heidegger rinuncerà per l’appunto, a partire dagli anni 1930, a ogni ‘fondazionalismo’” (p. 261). Se in Husserl e in Heidegger la “fenomenologia del tempo” arriva a porre in questione “il legame costitutivo tra la temporalità e l’oggettività”, situando la prima al di qua e dell’oggetto e del soggetto – in Fink la continuità (e la rottura) con i suoi due grandi maestri si stabilisce a partire dalla messa in questione dello stesso legame che stringe “i fenomeni costitutivi in modo ultimo del tempo” e l’intenzionalità (p. 263). L’A. formalizza la critica finkiana a Husserl in quattro punti: “1) la continuità del tempo; 2) lo statuto dell’intenzionalità d’atto; 3) il ‘presenzialismo’ e 4) il ‘pensiero oggettivista’” (p. 265-66). Viene criticata l’identificazione dell’intenzionalità con l’atto, quale restringimento “del significato originario dell’intenzione”, sulla base di un passo di Idee I (Husserliana III/1, p. 273) dove Husserl asserisce che “la coscienza di tempo originario ‘opera’ (fungiert), in modo analogico, come una coscienza di percezione”; viene quindi rifiutata l’idea secondo cui la ritenzione e la protenzione sarebbero dei vissuti intenzionali e quella (il “presenzialismo” in senso stretto) per cui il passato si costituirebbe fenomenologicamente come continua modificazione intenzionale del presente percettivo. Prendendo quindi le distanze, Fink 72


rimarca come “la sua propria analisi del tempo si distingua da quella di Husserl in merito all’intenzionalità della costituzione della connessione temporale (Zeitzusammenhang)” (p. 270); questa ultima sviluppandosi a partire dalle due nozioni di “depresentazione” e di “orizzonte” che forniscono la materia per “ridefinire l’intenzionalità” e per “risituare questa ultima in una struttura che permetta di render conto della costituzione della temporalità immanente senza ricorrere, vi insistiamo, a una gerarchizzazione tra differenti livelli di temporalità” (p. 289). L’intenzionalità in senso ampio arriva dunque a includere: 1) l’intenzionalità d’atto e le sue trasformazioni modali, 2) le abitualità, 3) l’estensionalità = intenzionalità di campo e 4) le de-presentazioni (“coscienza che non è relativa a un contenuto”). Se questi i molteplici significati di intenzionalità, i cinque momenti strutturali (quintuplice temporalità) che Fink riconosce (bisogna comunque dirlo: in modo, se non a-sistematico, comunque frammentario – e l’argomentazione di questo ne risente) come costituenti il tempo originario sono lo “spazio”, il “futuro”, il “passato”, l’“intenzionalità di campo (presente)” e il “possibile”: “Questa struttura quintuplice rovescia d’altronde lo schema classico ente/ non ente o effettivo (wirklich)/ non effettivo (unwirklich): questo schema poneva da un lato ciò che dipende dall’ente presente, reale o esistente e, dall’altro lato, il non ente (per esempio ciò che non è ancora ente (il futuro), ciò che non è più ente (il passato), l’ente possibile, ecc.)” (p. 298). L’intenzionalità di campo è ciò che, mediando non solo con il presente, ma anche con il passato e il futuro, determina “l’estensionalità che dispiega le dimensioni temporali nelle quali appare l’oggetto”. Non senza lasciare il lettore innanzi a una certa oscurità che si leva dalle argomentazioni finkiane, l’A. si porta verso la conclusione ricordando come questo percorso, implicando gli orizzonti nella costituzione più originaria della temporalità, avrebbe poi condotto Fink alla sua, più propria, fenomenologia cosmologica/ me-ontica. Alla fine, dunque, che cosa è il tempo nella prospettiva della filosofia trascendentale? Una tale domanda, puntualizza Schnell, “ammette due differenti risposte: riguardo allo statuto del tempo e riguardo alla sua funzione. In merito a questa ultima, bisogna ancora distinguere tra, da una parte, la sua funzione propriamente trascendentale e, dall’altro, la sua funzione per il senso stesso ‘del’ trascendentale” (p. 305). Il tempo appare essere “la dimensione d’apertura al mondo”, esso è costitutivo dell’oggettività (Kant, Fink) nonché intelaiatura originaria della soggettività (Fichte, Schelling, Husserl, Heidegger). Ma il tempo appare anche come “legame tra il trascendentale e l’empirico (Kant) o come prima iscrizione del trascendentale nel reale (Fichte); esso si articola intorno al concetto di possibilizzazione (Heidegger) e dispiega anche una struttura temporale specifica del trascendentale (Schelling)” (p. 306). Il punto comune allora, quello che permette di avvicinare la fenomenologia (nelle sue molteplici e variegate sfumature) e l’idealismo classico tedesco, così potendosi afferrare il senso di un più unitario idealismo trascendentale costitutivo, è che sia il tempo, e solo il tempo, ha rappresentare il fondamento o principio “della coscienza di sé e della coscienza del mondo esterno”. (Daniele De Santis)

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Piero Martinetti, Lettere (1919-1942), c/ di P.G. Zunino, con la collaborazione di G. Beltrametti, Olschki, Firenze 2011. Pier Giorgio Zunino, docente di Storia contemporanea nell'università di Torino, autore di studi sull’ideologia del fascismo e di un non dimenticato volume, anche se troppo frondoso, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea (Bologna, Il Mulino, 2003), ha curato la raccolta delle lettere di Martinetti finora ritrovate. Già nell’opera di nove anni fa Zunino aveva dedicato a Martinetti un lungo paragrafo, Un altro cristianesimo, nell’ultimo capitolo. In quella sede accennava (cf. p. 638) alle lettere inedite del filosofo a Guido Cagnola, “un aristocratico già ambasciatore in Turchia e in Portogallo assai vicino a Buonaiuti”, possedute da Lorenzo Bedeschi. E proprio dal desiderio di pubblicare quel nucleo di lettere è nata l’iniziativa di raccogliere nella sua completezza ciò che resta della corrispondenza di Martinetti. Sulla posizione del filosofo nei riguardi del regime fascista e della chiesa cattolica l’autore si era già soffermato nel libro sopra menzionato, nel quale non mancavano i riferimenti a scritti importanti dal punto di vista teoretico quali, per esempio, Il compito della filosofia nell’ora presente, Gesù Cristo e il Cristianesimo, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, ecc., di cui forse sopravvalutava la lucidità critica in rapporto al presente e alla cosiddetta “ribellione delle masse”, per ricordare il titolo di un libro celebre apparso all’inizio del terzo decennio del Novecento. In realtà certe osservazioni di Martinetti sui totalitarismi ineunti sono dettate meno da una lungimirante analisi delle dinamiche sociali che da un aristocraticismo il quale lo accomuna ad altri intellettuali italiani, da Croce a Pareto (quest’ultimo però, pur fra ambiguità, cinico ma acuto osservatore della politica e della società nel primo ventennio del secolo). Già il titolo dell’ampia introduzione, Tra dittatura e inquisizione. Piero Martinetti negli anni del fascismo, è indicativo del taglio di Zunino, non filosofico in prima istanza e più attento invece alle relazioni tra Martinetti, rigoroso oppositore del regime e avversario coerente delle ingerenze vaticane nella vita nazionale, e la storia politica italiana durante il ventennio. In questa prospettiva anche la vicenda ben nota del VI Congresso di Filosofia, tenutosi a Milano tra il 28 marzo e il I° aprile 1926, assume nell’introduzione un’importanza particolare come momento della definitiva saldatura tra il fascismo e la destra clericale. Come sottolinea Zunino, sulla scorta di vari studi e in special modo rimandando a quello di Rambaldi (2001), Martinetti si mosse abilmente dietro le quinte per organizzare il congresso così da includere i nomi di De Ruggiero, di Vidari e di Buonaiuti, nessuno dei quali amato dai cattolici milanesi, anzi l’ultimo inviso per i noti motivi. Martinetti, incurante delle aspre critiche cui era stato sottoposto nel febbraio 1926 dalla stampa cattolica della città per aver tenuto un corso universitario di cristologia (memorabile la replica del filosofo nella lettera a Mangiagalli, pubblicata nel 1969 da Emilio Agazzi, che in questo volume si legge alle p. 51-3), accentuò il carattere politico del congresso, inaugurandolo il 28 marzo col discorso La funzione sociale e religiosa della filosofia, nel quale insisteva sulla centralità dell’argomento religioso di cui avrebbe dovuto discorrere anche Buonaiuti, da poco scomunicato (il 25 gennaio). Com’è noto, il congresso, disertato dai cattolici e dai seguaci di Gentile, fu sospeso dopo soli tre giorni, il 30 marzo, dalle autorità che avevano ravvisato in alcuni 74


interventi (soprattutto nella relazione di Francesco De Sarlo, intitolata L’alta coltura e la libertà) allusioni critiche troppo scoperte al governo fascista. Lo scontro fra il mondo cattolico milanese, che trovava un punto di riferimento essenziale in padre Gemelli, e Martinetti ebbe echi ben al di là della metropoli lombarda, dove peraltro provocò le dimissioni di Mangiagalli, secondo Zunino non del tutto volontarie, dalla carica di sindaco e di rettore della neonata università. Tutta la vicenda era, ripeto, ampiamente nota, ma Zunino aggiunge di suo la documentazione del Sant’Uffizio, da qualche anno consultabile, sulla base della quale risulta che Gemelli ebbe un ruolo cruciale nella storia del congresso. Fu infatti il fondatore dell’Università cattolica a rivolgere al Sant’Uffizio la domanda circa l’opportunità della partecipazione di filosofi cattolici, vista la presenza di Buonaiuti. Per la maggior parte non si tratta di materiale inedito: a parte le già ricordate lettere al nobiluomo lombardo Guido Cagnola, raffinato collezionista d’arte (sua la villa del XVIII secolo a Gazzada, nei pressi di Varese, e la raccolta di quadri, donate nel 1946 alla Santa Sede), vicino al movimento modernista, e qualche altro lacerto epistolare, proveniente da altri fondi archivistici, il rimanente della corrispondenza era già noto ed era stato pubblicato in varie sedi. Le lettere al Cagnola, comprese fra il 1924 e il 1942, sono d’interesse diseguale. Trattando di molti e svariati argomenti, rappresentano ora un mero documento, com’è nel caso della contrastata visita di Tagore in Italia (Cagnola quale membro del comitato di accoglienza si era rivolto a Martinetti), ora un contributo significativo alla conoscenza della personalità del filosofo. Naturalmente, vista la figura di Martinetti, emergono qua e là, anche nelle lettere di servizio, per così dire, giudizi acuminati, come per esempio questo sul Borgese, definito “oratore noto e letterato filosofeggiante” (24 agosto 1924). Ma è su un altro versante, quello appunto personale, che troviamo gli spunti più notevoli. Il tema ricorrente è la solitudine del saggio o, se si preferisce, dell’uomo fuori dell’ordinario. Si legga questo brano (p. 27s.), di poco successivo (29 settembre): Pecca un uomo di valore (l’esistenza di quest’uomo di valore è naturalmente un Suo presupposto ipotetico) se, specialmente in questi tempi, si astiene dal comunicare con i suoi simili e dal combattere con essi e per essi in pro del bene? La risposta è molto più complicata di quello che possa a tutta prima sembrare. Quando io sento o leggo di queste esortazioni nobili, ma ottimistiche penso sempre che Cristo fu accompagnato alla croce da due o tre povere donne, penso alle accorate parole con cui S. Paolo, in carcere, lamentò di sentirsi così solo, penso all’amarezza di Lutero nei suoi ultimi anni, a Mazzini ed a tanti, tanti altri! Di questi giorni ho dovuto rileggere, per certi miei studi, l’epistolario di Kant: quanta miseria morale in ciò che lo circonda e specialmente nella sua “scuola”! Io sono fermamente persuaso che tra gli uomini soltanto una minoranza assolutamente esigua […] si interessa realmente e sinceramente di fini ideali ed è capace, per essi, di qualche sacrifizio. […] Una sola eccezione deve fare l’uomo dabbene: è cioè per i suoi simili. Vi è qua e là nel mondo, dispersa in questa massa di perdizione qualche anima buona: e rispetto a queste non è nemmeno necessaria una legge, perché un istinto naturale le richiama e le unisce. Certo, si potrebbe osservare che i modelli del filosofo erano quanto mai elevati: Cristo, San Paolo, Mazzini, Kant… Ma i nomi menzionati ben corrispondono agli inte75


ressi di studio di Martinetti: il futuro libro Gesù Cristo e il Cristianesimo, i coevi lavori su Kant. Come si ricorderà, nel 1924 ricorreva il centenario della nascita, celebrato anche dal nostro col discorso commemorativo letto al Circolo Filologico milanese il 4 maggio 1924, E. Kant nel secondo centenario della nascita. Martinetti dal 1924 al 1928 tenne ininterrottamente corsi kantiani, com’è noto, editi postumi, e nel 1925 pubblicò l’Antologia kantiana. Al di là del tono quasi schopenhaueriano, tra l’altero e il disilluso, spiccano il rigore e l’orgogliosa non meno che realistica consapevolezza della limitata influenza degli intellettuali e la ritrosia a parlare di sé, del proprio pensiero. Come appare ancora più chiaramente nella lettera del 22 giugno 1926 allo stesso Cagnola (p. 65s., il corsivo è nel testo), in questo pudico autoritratto: Ma in fondo ho sempre considerato il mio pensiero come cosa mia; per timidezza, per riserbo e per orgoglio ho sempre disdegnato di cercare d’imporre agli altri il mio modo di vedere le cose e i principi pratici sui quali mi dirigo. Ho sempre anche considerato quest’opera come implicante responsabilità e doveri gravissimi che mi farebbero tremare le vene e i polsi. Dove sono d’altronde gli uomini che lo meritino – solo in quanto danno realmente a questi problemi il valore e il posto che io non posso dare loro? Io ho trovato pochissime, di queste anime nobili ed inquiete, nelle quali io abbia potuto riconoscermi e sentire uno spirito fraterno, un’anima sperduta in un mondo che non è più il suo Per la corrispondenza già edita, variamente e in un lungo arco di tempo, il compito era piuttosto quello di armonizzare i criteri editoriali e le note da un lato, di verificare sugli autografi il testo vulgato dall’altro. Non si può dire che il risultato sia stato conseguito appieno. Le note rielaborano o riassumono quelle a suo tempo stese dai diversi curatori, e qualche volta si avverte che le annotazioni di partenza erano troppo differenti. Lo stesso dicasi del testo. Non sempre si è potuto confrontarlo con gli autografi, essendo questi talora irreperibili e, nel caso notevole delle lettere a Nina Ruffini, inaccessibili. Le datazioni, talvolta congetturali, sono state rivedute e, quando possibile, corrette. Un esempio. La lettera (p. 211s.) a Nina Ruffini, nipote di Francesco Ruffini e destinataria privilegiata di molte lettere degli ultimi anni di Martinetti, datata 22 V 1940 nell’edizione curata da Carlo Terzi, già citata in La Repubblica e il suo passato (cf. p. 657) da Zunino che aveva manifestato dubbi sulla datazione proposta, è ora corretta in 22 VI. Data più plausibile, trattandosi di un documento molto indicativo del suo atteggiamento verso gli eventi bellici della tragica primavera del 1940. Pur essendo ben nota, giova forse rileggerne un brano da cui emerge netto il giudizio del filosofo anzitutto sulla cultura tedesca e trapela, ripeto, un senso di ancora più angoscioso sgomento, se la lettera fu scritta dopo la disfatta della Francia: Ma il pericolo non sta esclusivamente, io credo, nella barbarie teutonica. Io ho l’impressione che questo non prevarrà: ché vi sono ancora negli Alleati e nell’America energie compresse, le quali dovranno lottare duramente ed a lungo, ma alla fine vinceranno. […] Il male è che anche l’altra parte, la parte nostra (diciamo così), è corrosa profondamente da un’altra forma di barbarie, dalla barbarie bizantina, di basso impero. Se nella Francia e nell’Inghilterra le energie 76


morali fossero state intatte, a quest’ora esse avrebbero già vinto e stravinto. Esse hanno il vantaggio d’aver conservato le forme della civiltà: e la forma è anche qui sostanza, cioè residuo sostanziale: dal quale potrà rinascere ancora la civiltà. D’altra parte invece, sparita per sempre la Germania umana, che ci aveva dato Kant, Goethe, Beethoven, ma che era soltanto una fioritura superficiale senza ripercussione profonda (anche Nietzsche è già un barbaro), non resta che un accozzo di barbari. Martinetti che, profondo conoscitore della filosofia classica tedesca, aveva soggiornato alla fine del secolo (1894-95) a Lipsia, nell’università di Wundt, indulge qui a un certo moralismo, ma nel complesso ricorda l’articolo di Croce La Germania che abbiamo amato (agosto 1936) col quale presenta qualche singolare consonanza (il giudizio su Nietzsche, considerato anche nello scritto crociano “non […] certo insigne per vigore logico e speculativo”). Insomma, se l’epistolario di Martinetti, di cui Zunino ha comunque dato un’edizione pregevole, non riveste una grandissima importanza filosofica, rappresenta tuttavia, pur decurtato dalle molte perdite nel corso del tempo, una testimonianza imprescindibile per ricostruirne la personalità. (Guido Lucchini) Luca Parisoli, La Summa fratris Alexandri e la nascita della filosofia politica francescana. Riflessioni dall’ontologia delle norme alla vita sociale (Palermo, Officina di Studi Medievali 2008 [ISBN: 88-88615-69-8 € 25,00]

L’università e il ‘rientro dei cervelli’ Nel clima di «austerità» richiesto dalla situazione economica in cui versa l’Italia e a fronte dei «sacrifici» ai quali tutti saremmo chiamati, certi «sprechi» universitari (per usare un eufemismo) assumono una dimensione ancor più gravemente inquietante. L’episodio che qui di seguito richiamo può offrire materia significativa di riflessione. Si tratta di una chiamata, pochi anni or sono, a ricoprire una cattedra di seconda fascia nel quadro del cosiddetto programma di «rientro dei cervelli». *** La prima cosa che ragionevolmente si richiede a un libro che pretenda di essere «scientifico» è di essere scritto in una lingua sintatticamente corretta e stilisticamente chiara, giacché l’una e l’altra prerogativa concorrono a far sì che si comprendano ciò che l’autore intende sostenere e il ragionamento che sviluppa per sostenerlo. Non si tratta di un’esigenza estetica o, meglio, non è – innanzitutto e primariamente – un’esigenza di armonia espositiva, la quale – ben inteso –, ove lasci intatta la precisione concettuale dell’elaborato, non soltanto non guasta, ma rende l’elaborato stesso più piacevole a leggersi. In quest’ordine di considerazioni si pensi a quanto è piacevole leggere un dialogo di Platone o uno scritto di Benedetto Croce, nei quali l’alta teoresi, magistralmente espressa in una sequenza concettuale perfetta, si ammanta altresì di una forma meravigliosa. E così non si vorrebbe chiudere il libro se non quando si sia giunti all’ultima parola dell’ultima pagina; e se poi, a proposito di Platone, le pagine sono quelle di Dialoghi come il Fedro o il Simposio, alla penetra77


zione teoretica e al gusto formale dell’espressione si aggiunge anche il nitore dei costrutti sintattici e delle forme grammaticali, giacché essi sono cosi perfetti da avere persino valore paradigmatico in ordine al greco classico. Ma anche senza giungere a tanta altezza, l’espressione sintatticamente corretta e stilisticamente non arruffata è un requisito ineludibile persino dal punto di vista metodologico, dal momento che in assenza di queste condizioni non è facile intendere che cosa si sia voluto dire, di modo che il contributo non è scientificamente giudicabile: né per ciò che attiene alla dottrina che propone, né per quanto riguarda i percorsi che adotta nel proporla. Ebbene, entrambi questi requisiti – intendo la correttezza grammaticale e la chiarezza espositiva – risultano fortemente e gravemente mortificati nel libro di P.: fin dalle pagine iniziali, ove parrebbe che l’autore, delimitando la materia dell’analisi con progressive eliminazioni (non si tratterà di questo, né di quello, né di quell’altro, e cosi via. Ma non sarebbe stato più chiaro dire, direttamente e subito, di che cosa si tratta invece di elencare ciò di cui non si tratta?), lascia subito ammirare la sua preparazione nel campo della lingua italiana. E con non poco disgusto, se si pensa che quest’individuo fino ad alcuni anni or sono aveva funzioni di assistente (maître de conférences, per la precisione) presso l’Istituto di cultura italiana dell’Università di Paris X Nanterre, ossia prima di essere chiamato a insegnare, in qualità di «cervello» rientrante in patria e nel ruolo degli associati, Storia della filosofia medievale nell’Università della Calabria, per via di un oculato matrimonio con la figlia di un allora ben ammanigliato impiegato di questa università. Ed ecco che subito a p. 11 il «cervello» ci offre questa perla: in campo esegetico «la sede apostolica che produce un’interpretazione che è in realtà un atto normativo produttivo (sic!)». La pagina successiva è un capolavoro. Prima il cervello scrive che «la società cristiana, imperiale o comunale, si allontana nelle sue strutture fondamentali della società» (sic!, forse voleva dire che le strutture fondamentali della società cristiana, sia di quella imperiale che di quella comunale, declinano da ecc.); indi usa un orrendo iperbato: «senza una fiducia assoluta nel primato, logica e ontologica, di tale ordinamento ecc.». Una figura retorica, questa dell’iperbato, che egli mostra di prediligere, dato che qualche riga dopo, a p. 13, così scrive: «coloro che non sanno in alcun modo razionale esplicare i fondamenti della democrazia» e a p. 32 parla della «volontà senza limiti divina». E ancora, a p. 79: «Giovanni Duns Scoto addebita una interpretazione erronea della loro legge agli Ebrei». Un’infinità di passi mette in luce l’enorme difficoltà espressiva deł cervello. Gustiamone qualcuno. P. 21: «il servo introduce la sua mano in casa con qualcosa in essa» (in luogo di: la sua mano contenente qualcosa). Sempre a p. 21 si parla di «tutti quelli elementi (sic!)», cui a p. 20 corrisponde: «le dispute tra convertiti al cattolicesimo e rabbini sono stati (sic!) l’occasione». Si tratta soltanto di refusi?. A p. 22 si legge che «il tribunale rende (sic!, in luogo di pronuncia) una sentenza erronea». La successiva p. 23 andrebbe chiosata per intero. Mi limiterò soltanto a notare che alla quint’ultima riga il cervello parla della «presenza enescapabile (sic!) di fatti normativi» (“inescapabile” nella testa del cervello sta forse per “ineludibile”? Azzardo quest’ipotesi). Nella frase precedente si parla del «ruolo filosofico giocato 78


(sic!) dal peccato originale nella comprensione normativa del mondo», e poi della Summa «che certo riprende spunti risalenti nella (sic!, in luogo di “alla”) tradizione cristiana – tra cui sant’Ambrogio (sic!) – che radicalizzano quella che è una verità di fede cattolica». Splendido vedere sant’Ambrogio annoverato «tra gli spunti», e splendido il periodare che nel giro di due righe presenta quattro relativi. Nell’esordio di p. 25 si legge che «questa realtà (scil. quella nella quale la volontà divina «ha tratto dal nulla» il mondo) non solo è fattuale, essa è innanzitutto fatta di norme». Dunque, una realtà fattuale fatta di norme! A p. 39 troviamo: «si noti che vedremo come la legge giustifichi». Nella medesima pagina si ha modo di constatare anche un errore di italiano che il cervello abitualmente compie, e che segnaliamo qui una volta per tutte: l’uso di «cosa» in luogo di «che cosa» nelle interrogative, dirette e indirette. Scrive infatti: «preliminarmente, cosa significa giustificare?». Ma torniamo alle espressioni più significative del suo stile arruffato. P. 47 a questo riguardo è esemplare: «Alessandro non è implicato dalla mera sfera de dicto» (sic!, in luogo di “non è interessato alla ecc.”), bensì dalla più piena sfera ontologica che rinvia ad un linguaggio (sic!, in luogo di “comporta un linguaggio”)». Ancora: «Dio agisce contro la natura nel significato “solitus cursus naturae” (sic!, in luogo, forse, di “nel significato di ‘solitus cursus naturae’ “; l’espressione è talmente ingarbugliata da essere pressoché incomprensibile e lasciare spazio solo congetturale a chi cerca di decifrare che cosa il cervello abbia mai inteso dire)». E poi: «...dal passo di Ilario di Poitiers che concede che Dio possa fare (sic!, in luogo di “rendere”) il bianco nero». Inoltre, questa stessa pagina 47 attesta esemplarmente che l’uso della virgola è del tutto ignoto al cervello: «la Summa non concede la realizzazione dei contraddittori da parte di Dio dato che (sic!, senza virgola) la non contrarietà ecc.»; ed ancora: «quando si predica una impossibilità per Dio questa (sic!, senza virgola) predicazione ecc.». A p. 48 leggiamo: «l’affermazione per cui vi sono cose che Dio non può fare, per empio mentire, non implicano (sic !) che Dio ecc.». Alla labile conoscenza di quando è richiesto il plurale e quando il singolare si aggiunge quella di quando è richiesto l’indicativo e quando il congiuntivo. Cosi, a p. 49 troviamo: «nulla toglie che le strategie [...] evocano (sic!) la teoria». Vi fanno eco le ultime parole di p. 53 e l’evidente ignoranza della regola che in italiano non è consentito l’uso dell’impersonale con il complemento oggetto, ma questo diviene il soggetto e il verbo vi si accorda al passivo. Cosi, invece di «si includono anche le creature inanimate», il cervello scrive «si include anche le creature inanimate». A p. 55 egli prima parla di una «risposta non maneggevole (sic!) perché si scontra con l’onnipotenza divina», indi usa il pronome relativo “che” due righe dopo il termine al quale – a quanto si riesce a indovinare – dovrebbe riferirsi. Scrive infatti il cervello: «l’antropologia francescana insiste sulla rottura tra l’assenza di proprietà privata prima della Caduta e sulla opportunità di tale proprietà dopo la Caduta, che non è una comunione ecc.». A p. 67 l’uso del relativo mette in bella mostra una sgrammaticatura. Si parla, infatti, della venuta di Cristo «che gli Ebrei disconoscono ma delle quali (sic!) non possono disconoscere l’annuncio». Un errore così grossolano da far passare quasi inosservata l’assenza della virgola prima di “ma”. 79


In quest’ordine di preziosità stilistiche va ricordata anche quella che si ammira a p. 57: in luogo di “Dio può sempre dispensare dalle norme”, ecco il complemento oggetto: «Dio può sempre dispensare le norme (sic!)», finendo in tal modo nel ridicolo, perché la norma “che” Dio avrebbe dispensato è la poligamia dei Patriarchi. Francamente debbo confessare di non essere andato molto più in là nella lettura del libro. Quanto ho visto mi è bastato, e per un verso mi ha disgustato, per un altro divertito. Mi ha divertito perché il cervello, credendo di fare un gran complimento alla moglie Antonella, a p. 24 dichiara che costei «ha letto con passione il manoscritto», non accorgendosi di addebitare così anche alla “utile” consorte le preziosità che abbiamo parzialmente documentato e che sono sotto gli occhi di tutti. Ma soprattutto ne sono rimasto disgustato, al pensiero che un tale individuo insegna, istruisce, dirige tesi di laurea, è persino membro del collegio dei docenti di un dottorato di ricerca. E non basta pensare, per farsene una ragione, che la sua chiamata è il risultato di una di quelle operazioni poco gloriose che in campo universitario non mancano di succedere e che alla fine lasciano pentito anche chi l’ha avallata, come immancabilmente è successo. Un libro di tal fatta quale quello di cui sto parlando è l’attestazione di un grave infortunio sotto molti profili. (Marcello Zanatta)

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Fabio Landi

Il “Doktor Faustus” di Thomas Mann

Il 4 gennaio del ’43, stando a quanto lo stesso Thomas Mann racconta, la quadrilogia sulle storie di Giuseppe è conclusa. A metà marzo compaiono i primi striminziti appunti su Faust: l’idea è quella “della diabolica e rovinosa liberazione d’una natura d’artista mediante intossicazione”1. I primi progetti risalgono addirittura al 1901. Ora però il contesto è fortemente mutato. Non sono intercorse soltanto le due guerre, ma tutto quanto, di biografico e di letterario, va da La montagna incantata a Il Nutritore. Mann è ormai pronto per cimentarsi con quella che ha sempre ritenuto essere la sua ultima opera, il suo “Parsifal”. Il progetto appare fin dall’inizio immenso e cresce nella consapevolezza che costerà dura fatica. Il mito in quanto tale ha esigenze di “radicale universalità”2 e d’altra parte Faust è tipicamente tedesco: misurarsi con esso è misurarsi con Goethe e non solo. Un poco alla volta e inevitabilmente il romanzo diviene “un libro sulla Germania, sul suo passato e l’avvenire” (ivi, 80). L’“accostamento parallelo” dei due temi – da una parte “l’esodo dalle difficoltà della crisi culturale verso il patto col diavolo, la sete di uno spirito orgoglioso sotto la minaccia della sterilità, avido di liberarsi ad ogni costo dagli impacci” e dall’altra “l’euforia rovinosa soffocante nel collasso e l’ubriacatura dei popoli fascisti” (ivi, p. 83) – è alluso fin nel sottotitolo: La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, dove “compositore tedesco” corregge e precisa il più vago “La strana vita di” ipotizzato nella prima stesura (ivi, 102). Della vocazione particolare della Germania il romanzo parla riprendendo categorie ampiamente collaudate nei precedenti lavori, concetti che sono pilastri portanti del pensiero manniano. Si tratta anzitutto della celebre antitesi tra Kultur e Zivilisation, un binomio già presente, seppure ancora implicito, ne I Buddenbrook, che si precisa nei decenni successivi, declinandosi di romanzo in romanzo. Se la sua definizione teorica trova nelle Considerazioni di un impolitico (1918) la più nota codifica, è già nell’ottobre del 1914 che il valore tecnico delle due espressioni viene espli1 Th. Mann, Romanzo d’un romanzo. La genesi del “Doctor Faustus”, Mondadori, Milano 1952, p. 74. 2 Ibidem. Successivamente scrive ancora: “Desunsi il monito ad essere spiritualmente cauto e a risolvere il tema del libro, che in verità ha un’intonazione molto tedesca ed è il tema di una crisi, in una possibilmente perfetta generalizzazione contemporanea ed europea” (ivi, p. 102).

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citato e puntualmente circoscritto sulle pagine della rivista berlinese “Die neue Rundschau”: Civilizzazione e cultura non soltanto non sono un’unica e stessa cosa, ma termini antitetici; formano una delle molteplici manifestazioni dell’eterna discordia della nostra umanità e del contrasto tra spirito e natura. […] La cultura può comprendere l’oracolo, la magia, la pederastia, il cannibalismo, culti orgiastici, inquisizione, autodafé, ballo di san Vito, processi di streghe, fiorir di venefici e delle più varie atrocità. Civilizzazione è invece ragione, illuminismo, distensione, ritegno, compostezza, scetticismo, chiarificazione… spirito. Sì, lo spirito è civile, è borghese; è il nemico giurato degli istinti, delle passioni, è antidemoniaco, antieroico, ed è solo un controsenso apparente quando si afferma che è anche antigeniale. Il genio, specie nell’incarnazione del talento artistico, può sì possedere spirito e l’ambizione di questo, può sì pensare di accrescere, mediante lo spirito, la propria dignità e pensare di servirsene d’ornamento e d’effetto, ma non toglie che esso, per essenza e provenienza, stia del tutto dall’altra parte; nasce infatti da un mondo più profondo, più oscuro, più caldo, la cui trasfigurazione e il cui addomesticamento sono da noi chiamati cultura. […] L’arte, come tutta la cultura, è sublimazione del demoniaco. […] Il suo senso umano è di natura completamente apolitica, il suo sviluppo indipendente da forme statali e sociali. E quando prende atteggiamenti rivoluzionari lo fa in maniera elementare, non nel senso del progresso. L’arte è una potenza che coglie, trattiene e dà forma, ma non risolve. L’abbiamo onorata dichiarandola affine alla religione e all’amore sessuale; e la si può affiancare anche a un’altra forza fondamentale della vita che proprio ora scuote il nostro continente e i cuori di noi tutti: intendo la guerra3. La citazione, pur lunga, merita attenzione: vi compaiono già tutti i temi del Faustus, sia pure con uno slancio e un’ingenuità che l’opera della vecchiaia sarà chiamata a meditare con ben altra ponderatezza e non senza dolore. È noto, del resto, che Mann prenderà a suo tempo le dovute distanze dalle Considerazioni. Non per questo rinnegandole, anzi continuando a indicarle come un punto fermo per la comprensione del suo pensiero. L’opposizione tra cultura e civilizzazione assume per altro molte vesti e tra queste, in modo eminente, quella tra musica e letteratura o tra musica e compostezza borghese. Se ne rintracciano le avvisaglie nella decadenza della famiglia Buddenbrook; la figura di Gerda e il destino del piccolo, malaticcio Hanno offrono un quadro già sostanzialmente chiaro anche se non ancora formalizzato. Ne La montagna incantata – ma in mezzo ci sono state le Considerazioni4 – l’umanista Settembrini

3 Th. Mann, Pensieri di guerra, in: Tutte le opere, XI: Scritti storici e politici, Mondadori, Milano 1957, p. 35-7. 4 “In quegli anni scrissi le Considerazioni di un impolitico, un faticoso esame di coscienza e un faticoso superamento delle antitesi e delle controversie europee, un libro che fu la mia immane, annosa preparazione all’opera d’arte, la quale poté diventare appunto opera d’arte, gioco, sia pure un gioco molto serio, soltanto in grazia dello sgravio materiale che le era derivato dalla precedente fatica polemico-analitica. ‘Questi scherzi sono molto seri’, dice Goethe

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espone ormai i concetti con ferma e limpida chiarezza. La musica ha “un momento indubbiamente morale”, razionale, tecnico, numerico; sottomette il tempo umano ad un ordine, lo costringe, lo regola ed articola in modo che “ogni attimo riceve un significato suo proprio al quale ci si può afferrare”. Ma perché questo avvenga “la letteratura deve averla preceduta. La musica sola è pericolosa”, “è qualcosa di semiarticolato, è l’elemento dubbio, irresponsabile, indifferente”. Agita i sentimenti, smuove in profondità le passioni; si sottrae al “vomere del progresso” e più in generale alla consequenzialità degli atti che rende l’uomo libero e padrone di sé. Ecco perché è “politicamente sospetta”. Il suo effetto è in definitiva incontrollabile e per questo “demoniaco”5. Il Doktor Faustus è il romanzo sul demoniaco e per questo è il romanzo sulla musica. Ma per questo anche è il romanzo sulla Germania e sulla guerra. Impossibile scindere questi elementi tra loro. Musica e germanicità sono sinonimi fin dal 19186 e in questo senso per Adrian Leverkühn essere compositore ed essere tedesco è tutt’uno. Anzi leggenda e poesia hanno commesso “un grave errore nel non collegare la persona di Faust, rappresentante dell’anima tedesca, a quella di un musicista, in quanto ‘la relazione di un tedesco col mondo è di ordine astratto e mistico, vale a dire musicale’”7. Qui musicale è il contrario di sociale8; esprime semmai l’eco di voci profonde, intime, provenienti da cavità dell’animo umano molto prossime ai domini del religioso – divino o demoniaco che sia. E non rinuncia a questa ambiguità: resta vera fino in fondo, anzi, la precoce scoperta del piccolo Adrian che “la musica è l’ambiguità elevata a sistema”9. Qualche anno più tardi, il giovane Leverkühn, nel tentativo di definire la propria vocazione, scrive al maestro Kretzschmar: “Il mio luteranesimo è d’accordo con lei, poiché vede nella teologia e nella musica territori vicini e molto affini, e oltre a ciò la musica è sempre sembrata a me personalmente un’unione magica di teologia e di matematica divertente” (ivi, 149). Musica e religione come contigui, dunque, ma con questa importante differenza: la musica conserva nonostante tutto il correttivo che le viene dall’aspetto matematiuna volta a proposito del suo Faust, ed è la definizione di ogni arte, anche della Montagna incantata. Ma io non avrei potuto scherzare e giocare senza averne vissuto prima tutti i problemi nella loro sanguinosa umanità, sui quali poi mi elevai da libero artista. Il motto delle Considerazioni dice: ‘Que diable allait-il faire dans cette galère?’. La risposta è: ‘La montagna incantata’”: Th. Mann, Introduzione alla “Montagna incantata” per gli studenti dell’Università di Princeton, in: Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, Milano 1997, p. 1512. 5 Th. Mann, La montagna incantata, Dall’Oglio, Milano 1930, vol. I: p. 126-8. 6 Th. Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997, p. 51. 7 È un’affermazione di Mann in un discorso alla radio del 1945, cit. in: G. Devescovi, Il “Doktor Faustus” di Th. Mann. Problemi e considerazioni, Borsatti, Trieste 1955, p. 9. 8 “Mai il tedesco intenderà la vita come società, mai anteporrà il problema sociale a quello morale, al fatto interiore. Gli oggetti del nostro pensare e del nostro poetare sono l’io e il mondo, non la parte che un io qualunque si compiace di recitare in società, né il mondo di una società razionale e matematica che costituisce – o almeno costituiva fino all’avantieri – l’oggetto del romanzo e del teatro francesi”: Th. Mann, Considerazioni di un impolitico, p. 55. 9 Th. Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, Mondadori, Milano 1949, p. 52.

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co, che anche Settembrini accoglieva, in quanto razionale e quindi morale e politico. La musica insomma non è solo travolgente sentimento, ma anche equilibrio, misura e proporzione10. Non solo entusiasmo, ma anche gioco tecnico. L’esaltazione, l’oppio, il delirio, la malattia stanno accanto alla scrittura calcolata, allo studio e alla fredda necessità dei numeri. Questa miracolosa facoltà di tenere insieme l’una cosa e l’altra fa la peculiarità e la grandezza della musica. E – bisogna subito aggiungere – della Germania. Perché, analogamente, l’animo tedesco vive il grandioso sogno di una possibile conciliazione, di una sintesi alchemica, di “un’unione magica” di Natura e Spirito, di Oriente e Occidente, di Nord e Sud. Naphta e Settembrini insieme. Contro la necessità di scegliere, lo stesso Mann aveva inneggiato ad un germanesimo capace di valorizzare entrambi i poli e, in questo senso, “più aperto, più ricco, più completo”11, cosmopolita che è il contrario di internazionale12. La tesi era enunciata con serena fiducia: guai a quel germanesimo che si fosse accontentato di essere “soltanto tedesco”; e la stessa ristretta definizione di tedesco avrebbe dovuto essere infine rivista. Del resto una lunga tradizione, autenticamente germanica a dispetto dei suoi detrattori, suggeriva una vocazione particolare dello spirito teutonico, per la quale, in passato, altri “tedeschi tra i Tedeschi ‘cercavano tremanti il sole’”. E se anche questo fosse appartenuto alla Germania? Se una buona volta i Tedeschi avessero potuto dire, consapevolmente, autorevolmente: “Guardate, queste cose le abbiamo anche noi”? E Mann chiosava: “Che in Goethe, accanto a quella romantica, vi sia la ‘Notte di Valpurga classica’, è e resta un dato simbolico”13. Ma il nazismo e la guerra impongono ora uno sguardo diverso. La follia nazionalista ha sostituito “a una Germania europea sognata dagli intellettuali, la realtà un po’ angosciosa, un po’ incrinata e, a quanto pare, insopportabile per il mondo, di un’Europa germanica”14. L’antico ideale è rievocato con mesta ironia. Se ne fa convinto portavoce il giovane Deutschlin (un nome certo significativo, come tutti nel romanzo). In una impegnata discussione tra compagni di scuola, egli riafferma in modo lapidario i termini noti della questione: “I Russi hanno profondità ma non hanno forma, gli occidentali hanno forma ma non hanno profondità. L’una e l’altra le abbiamo soltanto noi Tedeschi” (ivi, 141). Eppure ormai è chiaro quanto questo equilibrio sia pericoloso perché instabile e, in definitiva, impossibile. Ha giusto la consistenza del sogno e presto diviene un incubo. Adrian lo sa fin dall’inizio: – I Tedeschi pensano su due binari, facendo combinazioni illecite, vogliono sempre l’una cosa e l’altra, vogliono aver tutto. Sono capaci di scoprire arditamente nelle grandi personalità princípi antitetici di pensiero e di vita. Ma poi ne

10 L’anello di von Tolna che Adrian indossa per comporre unisce il simbolo dello smeraldo e del serpente, con la sua lingua a forma di freccia, ai versi di Callimaco sulla purificazione del tempio di Apollo. 11 Th. Mann, La professione di scrittore tedesco nel nostro tempo. Allocuzione al fratello, in: Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, Milano 1997, p. 1605. Il discorso fu tenuto nel marzo 1931 in occasione del sessantesimo compleanno di Heinrich Mann. 12 Già in Th. Mann, Considerazioni di un impolitico, 51. Cf. anche Id., “Cosmopolitismo”, in: Nobiltà dello spirito e altri saggi, p. 1585-92. Il saggio è del 1925. 13 Th. Mann, La professione di scrittore tedesco nel nostro tempo, p. 1606-9. 14 Th. Mann, Doctor Faustus, p. 198.

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fanno un pasticcio, usano le definizioni dell’uno secondo gli intendimenti dell’altro, mescolano tutto insieme e credono di poter conciliare libertà e nobiltà, idealismo e puerilità naturale. Ma forse non è possibile. Questa fede nella singolare virtù tedesca di far convergere e tenere insieme gli opposti si alimenta a una visione grandiosa e certamente entusiasmante. Per questo, tanto più cocente è constatare la caduta. Anche se quella della Germania è una rovina che era prevedibile da lontano, scritta fin dal suo remoto inizio: “questa perdizione (e uso questa parola nel suo più rigido significato religioso), era senza salvezza dovunque, in ognuno dei suoi tratti e delle sue svolte”15. Il destino è in un certo senso segnato dai tempi di Lutero. In quella stagione storica il popolo tedesco ha ceduto al fascino del musicale, dell’irrazionale, delle forze primordiali che sono strutturalmente immature, impolitiche, antiumanistiche. Là la Germania, sia pure inconsapevolmente, si è lasciata attrarre da un demoniaco che si esprime non a caso in altdeutsch e anzi elegge l’antico tedesco a sua lingua preferita, qualche volta addirittura capisce solo quella16. È sempre lo studente Deutschlin a spiegare come stanno le cose: La gioventù rappresenta, in quanto gioventù, lo stesso spirito popolare, lo spirito tedesco che è giovane e ricco di avvenire… immaturo, se vogliamo, ma che cosa importa? Le gesta tedesche sono sempre nate da una certa potente immaturità, e non per nulla noi siamo il popolo della Riforma. Anche questa fu un atto di immaturità. Maturo era il fiorentino del Rinascimento che prima di andare in chiesa diceva alla moglie: “Ebbene, facciamo la nostra riverenza all’errore popolare!”. Lutero invece era abbastanza immaturo, abbastanza popolo, abbastanza popolo tedesco per recarci la fede nuova, purificata. Dove sarebbe il mondo se la maturità dovesse avere l’ultima parola? Con la nostra immaturità gli regaleremo ancora qualche innovamento, qualche rivoluzione. E ancora, poco oltre: Esser giovani vuol dire esser primitivi, essere rimasti vicini alle scaturigini della vita, poter insorgere e scrollare le pastoie d’una civiltà sopravvissuta quello che gli altri non hanno l’ardire di fare, cioè rituffarsi nella elementarietà. Il coraggio giovanile è lo spirito del “muori e diventa”, la coscienza della morte e della rinascita. (ivi, 134.)

15 ivi, p. 514. Scrive in modo illuminante Enzo Paci: “Lo storicismo più che giustificazione del passato, più che valutazione del cammino percorso, si impone come esigenza di una sintesi cosmico-universalistica: volontà di tutto raccogliere, di tutto collegare, di tutto giustificare. È ricerca storica in quanto ricerca di un’origine unitaria che sembra perduta. Il tema dell’origine prima è prepotente in Wagner come in Mann: è come la ricerca dell’origine del Leitmotiv, e, nello stesso tempo, la fede di nascita del Leitmotiv” (E. Paci, “Musica mito e psicologia in Thomas Mann”, in: Relazioni e significati II – Kiekergaard e Thomas Mann, Lampugnani Nigri, Milano 1965, p. 247-8. 16 Th. Mann, Doctor Faustus, p. 259.

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Si può objettare. Adrian ricorda che la rinascita è italiana e si chiama Rinascimento. Il “ritorno alla natura” prende avvio in Francia, per non parlare della Rivoluzione. Ma in tutto questo, risponde Deutschlin, manca l’aspetto religioso, che solo Lutero, solo la Germania hanno saputo cogliere. La religiosità, che è giovinezza dell’anima, spontaneità, fede nella vita, cavalcata düreriana fra la Morte e il Diavolo, è dote spiccatamente tedesca. Viene citato Kierkegaard, ma in questa esaltazione dell’immediatezza, del coraggio e della profondità della vita, della volontà e della capacità di vivere con pienezza la parte naturale e demoniaca dell’esistenza, c’è molto Nietzsche, il cui nome peraltro “non appare deliberatamente nel libro, appunto perché a lui si sostituisce l’euforico musicista, sicché quello non deve più esserci”17. Deutschlin accusa Adrian di essere troppo freddo per essere giovane e troppo intelligente per essere religioso. Colpisce nel segno, ma non s’avvede di quanto più lucidamente di lui, lo stesso Adrian sia consapevole di ciò che gli manca e lo cerchi con ogni mezzo. Quando lo studio della teologia risulterà inutile allo scopo, non esiterà a volgersi nella direzione opposta. Il diavolo appartiene comunque alla sfera del religioso18. Il patto con lui è la via dura, ma l’unica praticabile, per attingere le forze più vive dell’esistenza, per riguadagnare un calore e un’ingenuità, una verginità nei confronti delle cose e del mondo, che consentano di superare i noiosi artifici della parodia. Che tutto questo si ottenga sub contrario è esigenza inevitabile: il genio creativo nasce dalla malattia, la primitiva innocenza dalla depravazione, il calore dalla rinuncia ad ogni calore: “l’amore ti è vietato in quanto riscalda”, dice Satana, “la tua vita dev’essere fredda, […] freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione basteranno appena a scaldarti. In esse ti rifugerai dal gelo della tua vita…” (ivi, 288). Il demoniaco è il mezzo estremo per conseguire una fecondità altrimenti impossibile, è l’esito di uno slancio disperato oltre lo sterile e perfetto gioco di una razionalità geniale certo, ma del tutto senza sapore19. Il “dente morto”: così Adrian

17 Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 85. Su precisi riferimenti alla biografia di Nietzsche (l’episodio del bordello, la conseguente malattia, la pazzia finale) è costruita la vicenda di Adrian. Ma in termini più generali tutto il romanzo risuona del pensiero nietzschiano. Scrive Thomas Mann in una lettera del 12 dicembre 1947 a Emil Preetorius: “Il saggio su Nietzsche, vorrei ripetere, non è ciò che io stesso, e credo anche altri, si aspettavano da me su questo tema. Lo è assai di più il romanzo sul Faustus”: Th. Mann, Lettere, Mondadori, Milano 1986, p. 670. 18 “Dove c’è teologia – specialmente poi quando va unita a un individuo così sapido come Ehrenfried Kumpf – anche il diavolo fa parte del quadro e sostiene la sua realtà complementare a quella di Dio”: Th. Mann, Doctor Faustus, p. 111. In questo senso bisogna intendere anche le bizzarre riflessioni del prof. Schleppfuss riportate nel cap. XIII. Lo stesso professore per altro è ironicamente descritto con tratti satanici (“piede strascicante” di nome e di fatto). Nella lunga confessione finale, Adrian stesso insiste sulla tangenza di divino e demoniaco: lo studio della teologia è stato per lui “un segreto inizio dell’alleanza e il mascherato cammino non verso Dio, bensì verso quell’altro, il grande religiosus”: ivi, p. 566. Del resto, Satana stesso dichiara: “La religione è di mia competenza, com’è sicuro che non è di competenza della società borghese”: ivi, p. 281. 19 Non a caso Kretzschmar spinge Adrian a dedicarsi integralmente alla musica con queste parole: “Pregevole è la vergine, ma deve diventar madre, altrimenti è una distesa di sterile terreno!”: ivi, p. 154.

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chiama il vigore ormai esaurito, la forza esausta di una musica che non ha più niente di nuovo da dire. Ad essa si dedica con impareggiabile abilità tecnica, ma senza passione. L’opera che ne esce, la fantasia sinfonica Luci sul mare, non è che “un insigne esempio di come un artista possa impegnare la sua parte migliore in una causa alla quale non crede più nell’intimo del cuore” (ivi, 174). Giunto a questo punto, non gli resta che gettarsi nelle braccia del maligno 20. Ma questa conclusione – la sua perdizione (più che mai nel significato religioso della parola) – non ha, proprio come quella della Germania, radici più lontane? Non è la conferma di un destino ancora una volta coerente in ogni passo? Fin troppo facilmente si può qui ricordare l’esplicito rimando del dialogo di Palestrina al più antico e fatale incontro con Esmeralda. Il patto col diavolo è solo la cresima di un’iniziazione che ha avuto ben altro battesimo21. Ma, confessa Adrian, “gran pezza prima che folleggiassi con la venefica farfalla, la mia anima, in orgoglio e arroganza, erasi incamminata verso Satana”, ed evoca gli studi teologici a Halle (ivi, 566)22. Non è fuori luogo, però, risalire ancora più indietro, fino alle stravaganti passioni paterne23, a quella curiosità ambigua e quasi morbosa per i segreti della natura, a quel “contatto libertino con le cose proibite”, “che a suo tempo avrebbe probabilmente destato il sospetto di propensione alla magia”24. E bisognerà diffidare – sia detto per inciso – della finta noncuranza con cui sono scelti gli esempi che illustrano questa mania: tra essi quantomeno risalta la “venefica farfalla”, la hetaera esmeralda, “amante dell’ombra crepuscolare”, che al nome già così significativo nell’economia del romanzo, accompagna non troppo celati riferimenti al sangue, nella descrizione delle scure vene sulle ali e delle macchioline cupe, color rosa violaceo che la contraddistinguono (ivi, 16). Babbo Leverkühn, questo “uomo del miglior stampo tedesco, […] una fisionomia quasi coniata dai tempi passati, conservata, per così dire, in campagna e tramandataci dall’epoca precedente la Guerra dei Trent’anni” (ivi, 13), parla altdeutsch fin nei tratti del volto. E non c’è bisogno della vecchia Bibbia di famiglia con le glosse marginali del dottor Martin Lutero per riconoscere quel carattere autenticamente germanico, quello “spirito meditativo e acchiappanuvole” per mezzo del quale persino l’indagine scientifica diviene qualcosa di torbido, “opera del ‘tentatore’”, immersione in un mondo che esula dal “dignitoso regno degli umaniora” (ivi, 22). Adrian ne ride, ma questa radice malsana lo nutre e gli lascia in eredità la propria malattia, di cui la violenta emicrania è solo il velato presagio. Qualcosa gli rimane

20 Con il consueto parallelismo, l’immagine del “dente morto” da estirpare per ragioni igieniche è, a distanza di anni, sulla bocca di entusiasti intellettuali pronti ad abbracciare il nazismo in vista di un “imbarbarimento intenzionale” che si lasci alle spalle le cosiddette conquiste culturali, per riappropriarsi del suo originario vigore. “Nelle motivazioni igieniche ogni sospetto ideologico era giustificato. Indubbiamente un giorno si sarebbe motivata anche la non-conservazione del paziente in grande stile, l’uccisione degli inetti alla vita e dei deboli di mente con ragioni di igiene popolare e razzista”: ivi, p. 422-3. 21 Ivi, p. 287. Da notare che Adrian racconta l’episodio per lettera scrivendo (scherzosamente?) in altdeutsch: ivi, p. 158. 22 Ivi, p. 566. 23 Così suggerisce anche Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 114. 24 Th. Mann, Doctor Faustus, p. 15.

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dentro, come una specie di maledizione, anche dei luoghi d’infanzia: la cittadina di Kaisersaschern, “proprio al centro del paese natale della Riforma, nel cuore della regione luterana – e ciò è a sua volta istruttivo per la vita interiore di Leverkühn il luterano”25; la vecchia casa di famiglia, che abiterà in età matura nel perfetto doppio di Pfeiffering26. Un germe dunque accompagna l’infanzia del piccolo Adrian, ma lo si intuisce appena, lo si scorge col senno di poi. Il ragazzino, se non sano, cresce sereno e straordinariamente dotato. L’intelligenza fuori dal comune alimenta in lui tuttavia un senso di superiorità che diviene freddo distacco. Distacco dalle cose innanzi tutto: ogni sapere ha infatti qualcosa di relativo, è sminuito dall’immediata visione dei suoi limiti, delle sue reali dimensioni. È un gioco di prestigio che ha perso qualunque interesse proprio perché se ne conosce il trucco. Ogni cosa, per il fatto stesso che egli la comprende perfettamente, non può esercitare su di lui alcun fascino e nello stesso tempo è superata da un pensiero sempre dinamico, già oltre, impegnato nel calcolo delle implicazioni, delle objezioni possibili, delle soluzioni alternative. Non c’è intuizione per quanto precoce, che non sia subito scavalcata e lasciata indietro con una risata “non tanto di stupore quanto di scherno”27. Questa risata diviene per lui un tratto caratteristico, un commento abituale, un’inconfondibile manifestazione di ironia28. Tutto è indifferente e secondario, ma questo in breve significa perdere gusto alle cose, perdere calore. “Temo, caro amico e maestro” scriveva “di essere cattivo perché non ho calore. Dice, è vero, che sono maledetti e respinti coloro che non sono né caldi né freddi, ma soltanto tiepidi. Non direi di essere tiepido; sono decisamente freddo […] È ridicolo ma meglio di tutto stavo al liceo dove, bene o male, ero a posto, perché la scuola superiore distribuisce l’una dopo l’altra le cose più svariate, muta punto di vista di quarantacinque in quarantacinque minuti, perché insomma non professa nulla di preciso. Ma già quei quarantacinque minuti mi duravano troppo, mi davano noia – quella noia che è la cosa più fredda del mondo. […] Il mal di capo non mi veniva per la stanchezza, ma per il tedio, per la noia fredda”. (ivi, 148s.) Il mondo viene indagato con la stessa impudicizia paterna, ma senza pathos, come un meccanismo da comprendere e tutt’al più da far funzionare. Non c’è posto per l’amore, ma solo per un attento interessamento, che è “un amore al quale sia sottrat-

25 Ivi, p. 8. Il luogo “è il medesimo di trecento, di novecento anni or sono”, con sospeso nell’aria “un sentore di quegli umori che regnavano tra gli uomini negli ultimi decenni del secolo XV, cioè l’isterismo del Medioevo declinante, come dire una latente epidemia psichica”: ivi, p. 39. 26 Ivi, p. 28-30. Il parallelismo, annotato come qualcosa di preoccupante, è ulteriormente chiosato con un aneddoto che ha per tema la malattia. 27 Ivi, p. 32. Molti anni dopo dirà: “Ho imparato alle lezioni di filosofia che porre un limite significa già superarlo. A questo principio mi sono sempre attenuto”: ivi, p. 520. 28 “Adrian scoppiò a ridere, non di sorpresa, naturalmente. In sua presenza si aveva sempre l’impressione che tutte le idee e tutte le concezioni espresse intorno a lui fossero raccolte in lui e che egli, ascoltando ironicamente, lasciasse che i singoli stati d’animo le manifestassero e le propugnassero”: ivi, p. 493.

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to il calore animale”29. Interessamento è anzitutto quello che Adrian prova per la matematica, per la sua “pura e alta astrattezza”. Eppure proprio la matematica lascia affiorare in un’occasione quell’impronta tipicamente tedesca, quella propensione al teologico e quindi al diabolico che presto si imporrà come un’esigenza vitale: nel difendere la logica dei numeri e le relazioni di ordine, Adrian cita la Scrittura, poi arrossisce: “risultò che era di sentimenti religiosi”. (ivi, 51). A tanta freddezza, a tanto ironico distacco dalle cose, corrisponde un’uguale e, se possibile, maggiore indifferenza per le persone. Gli altri sono a tal punto distanti che Adrian non ne ricorda neppure il nome. A tutti, persino all’amico d’infanzia, nega il confidenziale “tu”: evita il nome di battesimo e, se proprio deve, gli si rivolge chiamandolo per cognome30. Dire “noi” gli è così difficile che quando ci prova si impappina31. L’assoluta mancanza di calore, l’impossibilità di amare, che saranno la contropartita richiesta da Satana, in certo modo gli appartengono da sempre: il diavolo non impone niente di nuovo e di estraneo, rafforza ed esagera intelligentemente ciò che egli è (ivi, 288). Perficit, non tollit. Questa freddezza è tanto più appariscente in quanto è circondata da affetto, persino da devozione. Ma egli sembra neppure notarli. La sua solitudine, come un abisso, ingoia i sentimenti altrui lasciando solo il gelo. Serenus Zeitblom, l’antico compagno di giochi e futuro biografo, lo ama “con terrore e tenerezza, con pietà e devota ammirazione”. Viene ricambiato con la fiducia, ma non con l’amore: “Amarmi? Chi avrebbe mai amato questo uomo? […] A chi ha mai aperto il suo cuore? Chi ha mai accolto nella sua vita? Non erano cose fatte per lui” (ivi, 6; cf. anche ivi, 256). Il rapporto tra i due (lo struggimento e la gelosia da una parte, la fredda corrispondenza dall’altra) può forse ricordare quello tra Tonio Kröger e Hans Hansen, ma qui le parti sono invertite: è il “borghese” a venerare l’artista; pertanto l’ammirazione non è accompagnata dall’invidia per una vita ordinata e felice, quanto da una sorta di continuo timore, di apprensione quasi materna per una vita che va dritta verso il precipizio – “ma ammirazione e preoccupazione non sono forse quasi la definizione dell’amore?” (ivi, 253). A queste “ansie affettuose” accenna Mann per tracciare un brevissimo schizzo di Zeitblom, per il resto “un’anima umanisticamente pia e schietta”32. È già detto l’essenziale, anche se, in apertura del romanzo, un’autopresentazione fittizia offre un ritratto più ampio e articolato dal quale l’amico risulta, sotto ogni aspetto, quasi il negativo di Leverkühn: “io sono un uomo perfettamente moderato, e, posso ben dire, sano, di tempra umana, tendente all’armonia e al raziocinio”, un insegnante di

29 Ivi, 80. In questo modo Leverkühn intende anche il sesso, che non ha niente di erotico, ma è semplicemente un elemento della vita di cui prendere atto: «Del sensuale non bisogna avere né paura né vergogna”: ivi, p. 471. «Considerazioni di questo genere non avevano nulla di impudico, ma rivelavano anzi una libera e pacata considerazione della concupiscenza”: ivi, 167. Per Zeitblom invece era «come ascoltare un angelo che si pronunciasse sul peccato”. 30 Ivi, p. 26. L’abitudine è frequentemente citata e prepara l’anomalo “tu” riservato a Schwerdtfeger. 31 “Bravo, Leverkühn”, lo deride un compagno, “la progressione era buona. Prima ci dai del lei, poi riesci a tirar fuori un voi e alla fine arriva il noi, contro il quale ti rompi quasi la lingua perché è il più difficile per te, individualista impenitente che sei”: ivi, p. 133. 32 Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 84.

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liceo, anche “un figlio delle Muse” – ma, aggiunge subito, – “nel senso accademico della parola”33. Insomma Serenus Zeitblom è l’antimusicale per eccellenza 34, istintivamente e volontariamente lontano dalle potenze infere, timoroso nei confronti dell’irrazionale, proprio per questo circospetto verso quanto appare frutto di genio. Incarnazione del principio politico, apollineo, umanistico, è, guarda caso, cattolico: il che attutisce e anzi elimina del tutto ciò che di marcatamente tedesco gli deriverebbe dall’essere nato a Kaisersaschern. In lui c’è qualcosa di caricaturale che lo imparenta al Settembrini de La montagna incantata, senza però la foga, senza l’ardimento, la prosopopea e il senso di sicura superiorità che caratterizzano l’italiano. Zeitblom al contrario è pacato e titubante, si esprime sempre con infinite cautele, prediligendo la litote, esternando i dubbi, non avanzando che ipotesi, congetture, sensazioni, parziali punti di vista. Dopo le primissime righe del romanzo, già si confonde e ricomincia da capo. Talvolta è talmente prudente da rasentare la viltà. Eppure, o forse proprio per questo, è uno dei personaggi più vivi e più riusciti del romanzo. Attraverso di lui l’ironia di Mann ha libero corso ed è antidoto contro ogni sorta di fanatismo. Ogni affermazione è subito corretta dal suo contrario. Gli opposti non si annullano, né vengono superati in una sintesi più alta: convivono. L’ambiguità fa parte della vita, anche se non più come felice equilibrio, ma come drammatico dato di fatto. Il lettore, appena faticosamente convinto, si accorge infine di un sorriso ironico che lo costringe a ripensare tutto da capo, lo lascia nel dubbio di esser stato giocato e che neppure l’autore creda a quanto ha scritto. Ma l’autore ci crede e crede però anche al suo contrario. L’ironia indica l’errore di chi si voti a una causa soltanto. È un equilibrio ottenuto in negativo, prendendo di volta in volta le distanze da qualsiasi certezza assoluta, rifiutando qualsiasi “soluzione finale”. Non si tratta di considerare tutto relativo e senza reale significato, di evadere dalle responsabilità con il distacco e con l’indifferenza. Per Mann “l’ambiguità è cosa seria, il risultato di uno scrupolo morale, magari di una disperazione, ma non un atteggiamento edonistico”35. Il passato deve essere rimpianto, ma non può essere realmente riproposto se non nella forma della parodia. La sconfitta deve essere sofferta come una “una tragedia speciale e inaudita”36, eppure deve essere attesa e invocata. Salvezza e disperazione sono tutt’uno. Come tutt’uno sono paradossalmente Leverkühn e Zeitblom: i due protagonisti nascondono infine “il segreto della loro identità”37. Il professore liceale racconta dell’amico e insieme racconta di sé: di sé con l’amico, come fosse egli stesso un personaggio della biografia, e di sé biografo che ripensa al lontano passato e vive un nuovo inquietante presente, che è poi lo stesso

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Th. Mann, Doctor Faustus, p. 4. Egli espunge la musica dall’ambito pedagogico e umanistico perché, a dispetto delle arie di rigore logico-morale, appartiene “a un mondo spirituale per la cui assoluta fidatezza nelle cose della ragione e dell’umana dignità non mi sentirei di mettere la mano sul fuoco”: ivi, p. 9. 35 G. Devescovi, Il “Doktor Faustus”, p. 39 nota 74. 36 Th. Mann, Doctor Faustus, p. 34. 37 Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 129. 34

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presente di Mann: i due cominciano a scrivere lo stesso giorno, il 23 maggio 1943 38. Con voluta insistenza la contemporaneità dell’autore (e del finto, comico narratore) si affaccia nelle pagine del romanzo, rafforzando ulteriormente il parallelismo tra la vicenda del musicista e il destino storico della Germania. I tempi si intrecciano, realtà e finzione trascolorano l’una nell’altra. L’amara riflessione sulle sorti della guerra ha suggerito l’opera e ormai ne fa parte. Mentre il mondo reale entra nel racconto e ne viene assorbito39, il mito e i suoi simboli si comprendono solo a partire dalla cronaca40. I bollettini di guerra rendono trasparente il senso scritto nell’antica leggenda faustiana. Cosa sia il patto col diavolo, come ci si arrivi, cosa lo suggelli è materia che la favola può compiutamente dire solo perché è manifesta nella travolgente sventura di “questo popolo sciagurato”, negli anni di “cieco fervore” e di “frenesia apparentemente sacra” ma falsa, perché mista a “molta rozza volgarità, molta bestialità sanguinaria, molta smania di profanare, di torturare, di umiliare”. Al demoniaco si accede nella foga dell’ascesa, mossi dall’ideale di un nuovo cominciamento, di un riscatto che impegna “enormi investimenti di fede, di entusiasmo, di esaltazione storica”41. Il modo in cui oggi l’inganno si palesa e la considerazione di quello che è costato e che ancora dovrà costare, tutto questo trabocca in parole di profonda pietà e di piangente compassione nelle quali, per una volta, non si distingue tra la penna dell’accorato biografo e quella del suo creatore. Si può desiderare la sconfitta tedesca, “con chiara coscienza, ma non senza costante rimorso” (ivi, 34), perché non è tanto la guerra ad essere persa: “perduti siamo noi, perduta è la nostra causa, perduta la nostra anima e la nostra fede e la nostra storia” (ivi, 201). Satana esige il suo salario. Non si sfugge alla dannazione. La sbornia enorme che noi, sempre desiderosi di ubriacature, ci siamo presa allora e nella quale per anni e anni di fallace benessere abbiamo commesso un’enorme quantità di atti vergognosi, quella sbornia dev’essere pagata. Con che cosa? Ho già detto la parola, avvicinandola alla parola “disperazione”, e non la voglio ripetere. Non si supera due volte l’orrore col quale l’ho scritta più sopra, per un deplorevole slittamento delle lettere. (ivi, 202)

38 Th. Mann, Doctor Faustus, p. 3; Id., Romanzo d’un romanzo, p. 83s. In realtà il romanzo posticipa la data di quattro giorni e riporta: “27 maggio 1943” (?). 39 “Questa tecnica di montaggio che sorprendeva sempre anche me stesso e mi sembrava, anzi, sospetta, è parte integrante della concezione, dell’‘idea’ del libro, e riguarda uno strano e licenzioso allettamento psichico donde è derivata, nonché la sua trasposta ma anche schietta immediatezza, il suo carattere di opera segreta e confessionale che, durante la stesura, teneva lontano da me il pensiero della sua esistenza in pubblico. Il contrabbando di persone viventi citate a nome tra i personaggi del romanzo, dai quali quelle non si distinguono più per realtà o irrealtà, è soltanto un piccolo esempio del tipo di montaggio di cui sto parlando”: Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 85. In questo senso nella famosa polemica con Schönberg, Mann pretende che la dodecafonia, così come è descritta nel libro, sia a tutti gli effetti proprietà sua più che non dello stesso Schönberg. Su queste appropriazioni del romanzo cf. anche la già citata lettera a E. Preetorius del 12 dicembre 1947 in: Th. Mann, Lettere, 671s. 40 Cf. S. Ferretti, Thomas Mann e il tempo. La montagna incantata – Giuseppe e i suoi fratelli – Doktor Faustus, Jouvence, Roma 1980, in particolare: p. 149-79. 41 Th. Mann, Doktor Faustus, p. 201.

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La parola è “follia” e anticipa la fine di Leverkühn come un abisso dal quale, una volta sprofondati, non si riemerge; come una pena eterna e irredimibile. Una pena soltanto o non piuttosto anche un principio di espiazione? La stesura del Doktor Faustus è in parte accompagnata dall’appassionata lettura dei Gesta Romanorum e in particolare della storia Della prodigiosa grazia di Dio e della nascita del beato papa Gregorio42, che ispirerà poi una suite di Leverkühn e, successivamente, il romanzo L’eletto. La leggenda racconta l’espiazione di un doppio incesto attraverso diciassette anni di incredibile ascesi su uno scoglio solitario: “peccato estremo, estrema penitenza: solo questa successione crea santità” (ivi). La “radicale volontà di espiazione” viene riconosciuta dalla grazia divina che “solleva il penitente dal fondo delle sue umiliazioni e lo rende nuovamente uomo, anzi lo eleva al di sopra di tutti gli altri uomini”43. Mann rielabora il materiale medievale, si diverte con lo stile, mette in parodia il testo agiografico, ma “mantiene tuttavia con serietà e purezza il nucleo religioso, il suo cristianesimo, l’idea della colpa e della grazia”(ivi, 1528): più precisamente ancora, l’idea paolina di una grazia che sovrabbonda proprio laddove più ha abbondato il peccato44. Ma questo è il tema del lungo, faticoso colloquio di Palestrina. Leverkühn conosce Paolo e soprattutto Lutero. Al diavolo che gli offre ventiquattro anni di genio creativo in cambio della dannazione, ribatte che, se la grazia divina è onnipotente, essa a maggior ragione darà prova di sé nel salvare proprio chi sente di avere già un piede all’inferno: “il peccato, quando è talmente enorme da far sì che il peccatore profondamente disperi della salvezza, è la vera via teologica alla salute”45. Ma Satana non s’inganna sul vero senso del pecca fortiter luterano: per il fatto stesso che uno lo metta anticipatamente in conto, il gioco non funziona46. Eppure proprio questo, prosegue Adrian, rende il suo caso ancor più disperato e quindi ancor più allettante per la grazia celeste: “soltanto con questo non plus ultra si arriva al culmine dell’esistenza drammatico-teologica, vale a dire alla colpa più abjetta e con questa all’ultima e più irresistibile sfida lanciata alla Bontà infinita”. La “gara infame”47 resta sospesa, ma l’indicazione di una mutua corrispondenza tra disperazione e misericordia torna a più riprese nel testo. Esemplare la descrizione che Zeitblom offre della sconcertante Apocalypsis cum figuris, nella quale la risata diabolica di scherno e trionfo, composta orrendamente di urli e versi animaleschi, si confonde con il canto celestiale dei fanciulli al principio della seconda parte. Adrian Leverkühn è sempre grande nel rendere disuguali le cose uguali. […] L’orrore di prima è bensì trasportato con l’indescrivibile coro infantile su un piano del tutto diverso; vi è cambiata la strumentazione e vi è trasformato il ritmo,

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Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 172s. Th. Mann, Osservazioni sul romanzo “L’eletto”, in: Th. Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, p. 1527. 44 Rom. 5,20. 45 Th. Mann, Doktor Faustus, p. 285. 46 Così suona anche la conclusione de L’eletto: “Egli si guardi dal dire a se stesso: ‘Pecca pure allegramente! Se con questi tutto finì così bene, perché dovresti tu essere perduto?’. Ma questa è la logica del diavolo”: Th. Mann, L’eletto, Mondadori, Milano 1979, p. 251. 47 Th. Mann, Doktor Faustus, p. 570. 43

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ma in quella musica struggente delle sfere angeliche non vi è nemmeno una nota che non si trovi in precisa corrispondenza anche nella risata infernale. (ivi, 432) Impossibile dunque distinguere tra salvezza e dannazione. L’una è vera solo e proprio perché suona esattamente come l’altra. Non c’è spazio per alcun lieto fine a buon mercato. L’affettuoso Zeitblom può ben tentare qualche parola di conforto e di speranza, ma Leverkühn non gli lascia scampo: “Risparmia le tue bubbole umanitarie!” (ivi, 541). C’è ormai posto solo per il lamento e per l’insistente grido rivolto al bene, alla gioia, al futuro, alla vita: “Non deve essere” (ivi, 543). Se una musica è ancora possibile sarà l’antitesi della Nona di Beethoven. La morte del piccolo, adorabile Nepomuk spazza via qualsiasi illusione e segna la vittoria inappellabile di Satana. Il bimbo è stroncato e con lui tutto quanto è puro e luminoso. Il demonio riafferma così la proibizione di amare come una sorta di anticipo dell’inferno. “Là tutto finisce”: questa era la definizione sintetica con la quale aveva descritto il mondo dei dannati (ivi, 283). Adrian vi è già immerso. La fine del bambino è la fine di tutto; tutto “non deve essere”. Nell’accelerazione finale del romanzo che riecheggia il precipitare degli eventi bellici in un’escalation travolgente48, l’amato nipotino è una fugace apparizione, ma di centrale importanza. La sua presenza quasi angelica fa breccia nel gelo e nella cupa solitudine dello zio e sembra offrirgli una beatitudine improvvisamente a portata di mano. Come fosse l’incarnazione stessa dell’innocenza, Nepomuk si aggira con agio e signorilità in un mondo tetro dove tutto quello che tocca ritrova miracolosamente vita e calore. Ogni dettaglio della sua figura suggerisce l’appartenenza alla sfera del divino: bisognerà in aggiunta ricordare che lui pure, di tanto in tanto, si esprime con vocaboli in altdeutsch49. Soprattutto meritano attenzione le strane, antiche preghiere estratte da un vasto repertorio imparato chissà come e chissà dove. Una di queste recita: Chi pel prossimo intercede a se stesso anche provvede. Echo prega Dio per tutti, che l’eterno amor gli frutti. Adrian e Serenus commentano tra loro evidenziando il valore di questa intercessione “per noi tutti”, che in un’altra preghiera assume dei contorni più domestici: “Oh potessi con chi amo / ascoltare il gran richiamo!” (ivi, 536). È l’intercessione per gli altri che procura la salvezza per sé. Nella preghiera si esprime una carità disinteressata nei confronti del prossimo e questa manifesta al fedele, simul justus et peccator, di essere stato giustificato50. Il tema della preghiera compare in punti nevralgici del romanzo e sempre soltanto come intercessione per altri. Lo si ritrova per la prima volta nella bizzarra lettera con cui Adrian racconta il suo incontro con Esmeralda. Pur cercando di sminuire attraverso la parodia la difficile confessione dei fatti, si lascia infine sfuggire un 48

Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 166. Th. Mann, Doktor Faustus, p. 525. 50 “Benché tu sia peccatore / puoi far bene a tutte l’ore. / Nessun merito è obliato, / tranne che tu sia dannato”: ivi. p. 536. 49

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“pregate per me!” (ivi, 162) che l’amico biografo non manca poi di rilevare con la consueta commossa apprensione (ivi, 166). Delle preghiere di Nepomuk si è detto; alla sua morte, Leverkühn respinge le espressioni consolatorie di Zeitblom dicendogli: “Rispàrmiatele, rispàrmiatele, e fatti il segno della croce! […] e non farlo soltanto per te, fallo anche per me e per la mia colpa!” (ivi, 542). Infine, un’estrema, fondamentale ricorrenza è proprio al termine del romanzo, in quelle ultimissime righe che Thomas Mann dice di aver avuto in mente da un pezzo 51. Lì il destino della Germania è da capo legato a quello del musicista in una appassionata supplica: “Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!”52. In tutti i casi è sempre per Adrian che si implora. E la preghiera assume in due circostanze, sia pure del tutto inconsapevolmente, la forma estrema dell’intercessione: quella del dono della vita, ovvero del martirio. Nepomuk e, prima di lui, Schwerdtfeger sono vittime del patto satanico. L’amore di Adrian li uccide. Eppure qualcosa a Satana sfugge: non soltanto l’anima beata del bambino, ma anche e proprio l’amore che questa ha fatto sorgere nell’anima dannata di Leverkühn. Questo amore, davvero gratuito, che diviene compiacimento e gioia per il bene che l’altro gode, porta uno spiraglio di luce nel profondo dell’inferno. Prendi il suo corpo, che è in tuo potere, ma dovrai lasciare in pace la sua anima dolce, e questa è la tua impotenza, la tua ridicolaggine, per cui ti voglio insultare nei secoli. Passino le eternità tra il mio luogo e il suo, io saprò che è quello donde tu, mascalzone, sei stato cacciato, e ciò sarà bevanda confortante alla mia lingua, sarà un osanna al tuo scorno nella più bassa maledizione! (ivi, 542) Lo stesso vale per Rudolf Schwerdtfeger. Anch’egli, suo malgrado, è destinato a perdere la vita nel modo più tragico per quel po’ di calore che è riuscito a suscitare nel gelido cuore dell’amico. “La sua coraggiosa perseveranza” è stata per l’altro “un avviamento all’umanità” (ivi, 497). Senza volerlo si è venuto a trovare tra Adrian e la sua “salvezza spirituale” come un “intermediario”, come “l’intercessore [!] presso la felicità” (ivi, 498) e ne è rimasto schiacciato. Ma né la morte, né forse il tradimento, cancellano il bene offerto. Illuminante in questo senso è la convergenza di una serie di indizi e di riferimenti transtestuali che si concentrano negli ultimi capitoli del romanzo. Per cominciare, il nomignolo che Nepomuk si attribuisce e con cui viene familiarmente e abitualmente chiamato, Echo, non è solo il frutto di una storpiatura infantile. L’allusione alla ninfa del mito classico è confermata dal modo caratteristico con cui il bambino ripete “tanza” per dire “abbastanza”, quando è sazio di qualcosa (ivi, 527). Per di più, proprio l’effetto dell’eco è uno degli artifici musicali di Leverkühn si avvale nella sua Lamentatio per la morte del nipote (ivi, 551). Come è noto, Ovidio racconta che Echo viene ridotta da Era a ripetere vuote sillabe per punirla di avere dissimulato con le sue chiacchiere il tradimento di Zeus. Di fatto, per malizia o per stupidità, Echo mette a repentaglio se stessa per consentire l’amore del dio con le altre ninfe e non ne esce indenne. A qualcosa di analogo accenna anche lo stesso nome Ne-

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Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 236. Th. Mann, Doktor Faustus, p. 577.

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pomuk. Giovanni di Nepomuk, uno dei santi più venerati della Boemia, secondo la leggenda sarebbe stato confessore della regina. Venceslao IV, sospettando il tradimento di quest’ultima, impone al prelato di rompere il segreto confessionale rivelando le confidenze ricevute. Quello si rifiuta e il re lo fa gettare nella Moldava. Il corpo, circonfuso di luce, viene ripescato e fatto oggetto della pietà popolare. La simmetria delle due vicende, in cui i protagonisti difendono l’amore altrui anche a costo di farne personalmente le spese, è rafforzata da un terzo richiamo, questa volta esplicito, suggerito inizialmente da Satana (ivi, 267) e poi divenuto caro allo stesso Adrian. Si tratta della Sirenetta di Andersen. Anch’essa fa un patto: sacrifica la coda e la bella voce per poter avere gambe umane e farsi amare da un principe. Ogni passo le costa sofferenze inaudite eppure sopporta il dolore e danza leggiadra come nessun altra fanciulla, ma inutilmente. Il principe sposa una rivale e la sirena deve morire. Invano le sorelle le offrono di uccidere l’amato e rompere l’incanto. La vista del principe e della giovane sposa teneramente abbracciati le fa preferire di rinunciare lei stessa alla vita e di vegliare dal cielo sulla coppia regale. Si può insomma scegliere la solitudine e la sofferenza, accettando di essere esclusi dall’amore perché altri possano amare. D’altronde ancora nelle prime pagine del romanzo, Zeitblom comprendeva che ci si potesse – anzi che ci si dovesse – augurare la sconfitta del popolo tedesco “per amore dell’avvenire proprio e altrui” (ivi, 34). Ma qui il problema è come tutto questo si attagli alla vicenda di Leverkühn, fermo restando lo stretto parallelo con la Sirenetta, che lui continuamente rievoca chiamandola “sorella nel dolore” (ivi, 393) e poi addirittura “dolce sposa” (ivi, 567). In effetti, l’idea di una sorta di immolazione, di un auto-sacrificio non è del tutto assente dai pensieri del musicista. I risultati esaltanti del suo lavoro nulla tolgono all’immane fatica del comporre e la grandezza dell’opera non autorizza illazioni sulla gioia e la gratificazione del suo autore. Questi, piuttosto, è a tal punto stremato da rimpiangere l’antica sterilità e commentare pungente: “essendo amicissimo d’un umanista, bisognerebbe saper distinguere nettamente tra la felicità e il martirio” (ivi, 521). Altrove, a Zeitblom che gli chiede come si senta, risponde: “come san Giovanni martire nella caldaia dell’olio bollente” 53. Patteggiare col diavolo, come con la strega del mare, vuol dire sottoporsi a queste torture e andare incontro alla disperazione e alla sciagura. La Germania insegna quanto lo slancio ideale si risolva presto o tardi in sofferenza e in una radicale negazione dell’amore. Eppure è difficile dire dove l’amore si nasconda. Già a Palestrina, Leverkühn rileva come il piacere e il patto stesso, l’ambizione dell’opera e persino la malattia ne siano comunque impastati: un divieto assoluto di amare è, in definitiva, implausibile54. L’amore non si

53 Ivi, p. 405. La lunga descrizione che segue è messa direttamente a confronto con il riferimento alla Sirenetta. Per Zeitblom non si tratta dunque di un’immagine estemporanea, ma di “un secondo paragone significativo e impressionante”. 54 “Il diavolo vuol proibire il piacere? In caso contrario deve accettare la simpatia e persino la caritas, altrimenti è ingannato a dovere. Quello che ho preso e per cui tu pretendi che mi sia promesso, da dove è scaturito, dimmi, se non dall’amore… sia pure da quello che tu hai avvelenato col permesso di Dio? L’alleanza che è fra di noi secondo le tue affermazioni è legata anch’essa all’amore, imbecille che sei. Tu vorresti che io voglia e vada al quadrivio del bosco per amore dell’opera. Ma anche l’opera, dicono, è collegata con l’amore”: ivi, p. 287. Qualcosa di simile sostiene anche Serenus proprio a commento dell’episodio di Esmeralda:

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lascia dipanare facilmente e neppure il diavolo riesce fino in fondo a sbrogliarlo dalle proprie trame55. Il male può rendere la vita un tormento; l’uomo può tentare di rendere il tormento un’espiazione. “Il bene è la fioritura del male: un fleur du mal”56. È la storia della Nascita del beato Papa Gregorio che Adrian mette in musica, commosso dall’ascesi disumana del suo protagonista. Ma la leggenda è appena raccontata che Zeitblom distrattamente e per inciso ricorda al lettore che anche Leverkühn “viveva da eremita” (ivi, 368). Non bastasse, qualche riga più sotto, riporta un’insolita conversazione, per la verità quasi un monologo, in cui Adrian propugna la necessità di redimere la musica dal suo isolamento solenne destituendola dal falso ruolo di surrogato della religione. Si tratta, in sintesi, di contrastare le categorie già detestate in gioventù, quelle del genio e dell’ispirazione, che rendono l’arte insana e pericolosamente esposta al demoniaco; così la musica potrà finalmente imboccare “la via del popolo” o, meglio, “la via degli uomini”. S’interruppe e tutti e tre restammo commossi e silenziosi. È doloroso e nello stesso tempo confortante sentir parlare di comunità un solitario, di confidenza un uomo inavvicinabile. (ivi, 370) La “via degli uomini”, qualsiasi cosa significhi (Zeitblom nel chiarire il pensiero ci mette parecchio del suo57), è comunque la via dell’amore. “Da questa festa mondiale della morte”, chiedeva, in conclusione, La montagna incantata, “da questo malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa, sorgerà un giorno l’amore?”58. La domanda resta aperta e, se possibile, ancora più disperata. Liberarsi del demoniaco per il bene di tutti gli uomini è il sogno di Adrian, un sogno oggi praticabile solo pagando fino in fondo la propria colpa59. La speranza di domani, se c’è, è appesa a un filo; in ogni caso non riguarda il presente che conosce soltanto la disperazione: “ voi vedete che sono condannato e per me non c’è misericordia”60. Nella Cantata di Faustus la salvezza offerta in extremis è respinta come un ultimo trucco del Tentatore, il vile simulacro di una “falsa e fiacca cittadinanza in Dio” (ivi, 556). Il rifiuto è necessario “non solo per formale fedeltà al patto e perché “è troppo tardi”“, ma per disprezzo verso la positività del mondo che ormai è del tutto

“Una punta di catarsi amorosa è innegabile non appena l’appetito assume un volto umano, sia pure il più anonimo, il più spregevole”: ivi, p. 176. 55 Così conclude anche papa Gregorio: “Tu vedi, o veneramente amata, che Satana – e ne sia lode a Dio – non è onnipotente. Egli non riuscì a spingere le cose fino alla fine”: Th. Mann, L’eletto, p. 250. 56 Th. Mann, Doktor Faustus, p. 315. E precedentemente lo stesso Satana: “Non ho mai udito una cosa più sciocca dell’affermazione che dai malati possa venir soltanto una cosa malata”, ivi, p. 281. 57 In un’interpretazione non lontana da quanto Satana aveva già espresso: cf. ivi, p. 281. 58 Th. Mann, La montagna incantata, vol. II: p. 412. 59 Si fa così ancora più stretta l’analogia con il Parsifal wagneriano. Cf. E. Paci, Due momenti fondamentali dell’opera di Mann, in: Relazioni e significati II, p. 288s. 60 Th. Mann, Doktor Faustus, p. 570.

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inaccettabile61. Per questo Leverkühn riscrive l’agonia del Getsemani rovesciandone il significato in una totale resa al male. È inutile vegliare: i compagni dell’ultima ora vadano pure a dormire tranquilli perché non c’è più nulla da fare 62. L’orrenda consapevolezza che “là tutto finisce” e che l’unica parola legittima è un “non dev’essere” senza ulteriore specifica è esattamente l’esperienza dell’inferno. Di esso e in esso “non si può parlare in nessuna maniera, perché la [sua] realtà non è congruente con le parole, […] non è enunciabile, è salva dal linguaggio” (ivi, 283). Alla voce umana rimane solo il grido lacerante e inarticolato tale per cui “nella chiusura ermetica a tutti i suoni il rumore sarà grande, smisurato e tale da stordire da lontano a furia di urli e gemiti, grida e brontolii” (ivi, 284). Eppure ad Adrian resta il prodigio della musica, dono di Atena alle sorelle di Medusa perché possano dar voce al dolore senza esserne dilaniate. La musica dice l’indicibile, racconta la disperazione e, modulandola nel tempo, la riporta nei confini del senso. Al “lamento del figlio dell’inferno” (ivi, 550) è annodato il filo della grazia. Sarebbe come intaccare la mancanza di concessioni in questa opera e il suo inguaribile dolore, se volessimo asserire che fino alla sua ultima nota essa offra un altro conforto tranne quella che sta nell’espressione stessa mediante il suono: nel fatto dunque che al creato è data una sua voce per esprimere il proprio dolore. No, fino all’ultimo questo cupo poema musicale non ammette alcun conforto o conciliazione o trasfigurazione. E se al paradosso artistico che dall’edificio totale nasce l’espressione in quanto lamento corrispondesse il paradosso religioso che dalla più profonda dannazione, sia pure come lieve interrogativo, nasce la speranza? Sarebbe la speranza al di là della disperazione, la trascendenza della disperazione – non il tradimento ai suoi danni, bensì il miracolo che va oltre ogni fede. Ascoltate questo finale, ascoltatelo con me: i gruppi di strumenti si ritirano l’uno dopo l’altro e quello che rimane è il sol sopra il rigo del violoncello, l’ultima parola, l’ultimo suono svanente che si spegne adagio nel pianissimo. Poi non c’è più nulla – silenzio e notte. Ma il suono che ancora vibra nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la fine della tristezza, ora non lo è più, muta significato, è quasi un lume nella notte 63. Questo suono sospeso, un sol, in tedesco un G, è forse già un’allusione alla grazia (Gnade)64. Ma è vita attraverso la morte. Deve prima crollare ogni speranza umana, ogni fiducia nei propri meriti. La lezione luterana riaffiora da Halle, da Kaisersaschern, dalla lontana Lübeck. L’uomo giustificato è l’uomo peccatore, l’uomo spro-

61 In un senso molto prossimo a quello con cui Ivan Karamazov si affretterebbe a restituire il suo biglietto d’ingresso al Paradiso: cf. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1949, p. 326-28. 62 Th. Mann, Doktor Faustus, p. 556. 63 Ivi, p. 557. Nello stesso tono le ultime righe del romanzo: “Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore a ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza?”, cui segue immediatamente la preghiera: ivi, p. 577. 64 Cf. B. Stein, Thomas Mann: il “Liebesverbot” nel Doktor Faustus tra tradizione letteraria e autobiografia, in: “L’analisi linguistica e letteraria” XIV (2006) p. 89-101: p. 99s.

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fondato nell’abisso della colpa65. L’unico cammino percorribile è la deliberata consegna al male, l’accettazione piena della propria condanna. E forse non è un caso che le ultime trenta pagine del romanzo propongano una singolare rassegna di metafore cristologiche. Non c’è solo l’esplicito riferimento al Getsemani. Adrian è “come uno che è messo in croce” (ivi, 542). Si fa crescere la barba e questa, “insieme con una crescente tendenza a portare il capo reclinato sulla spalla, conferiva a quel volto un che di spirituale e sofferente, di simile a Cristo” (ivi, 548). Preda della follia, appare più piccolo, “col viso smagrito, un viso da ecce homo” (ivi, 576). In una conversazione con Leonhard Frank, Mann descrive Leverkühn come “un uomo che porta le sofferenze dell’epoca”66. Egli “accagiona l’anima sua e prende sulle proprie spalle le colpe dei tempi, sicché è dannato”67. Tutto lascia quasi l’impressione di un libero descensus ad inferos. Non una discesa trionfante, ma, dopo l’ubriacatura satanica, il fedele esercizio di una sovrana “volontà di impotenza”. È sufficiente? Difficile dirlo, se non nella forma dell’augurio e della preghiera, dell’intercessione. Resta però anche l’affetto devoto dell’amico, di chi attraverso di lui e attraverso la musica gli ha voluto bene. “L’inevitabile riconoscimento della perdizione non equivale a rinnegare l’amore” e questo amore “forse, chi sa? non è che un riverbero della grazia” (ivi, 514). Commenta la buona signora Schweigestill: “Molto ha parlato della grazia perpetua, questo pover’uomo, e non so se basterà. Ma una giusta comprensione umana, credete a me, basta a tutto!” (ivi, 570). In un discorso tenuto all’università di Chicago nel maggio 1950, Mann rispondeva a un gruppo di ecclesiastici tedeschi che negavano ogni spirito cristiano alla totalità delle sue opere: Se è cristiano sentire la vita, la propria vita, come una colpa, una colpevolezza, una colpabilità, come un oggetto di disagio religioso, come qualcosa che abbia urgente bisogno di essere riparato, salvato, giustificato, in questo caso, l’asserzione di quei teologi, essere io il tipo dello scrittore acristiano, non è del tutto giusta. Credo infatti che raramente la creazione di un uomo, anche quando parve giocosa, scettica, estetica e umoristica, sia scaturita tutta quanta, dall’inizio all’ormai prossima fine, proprio da questo trepido bisogno di riparazione, di purificazione, di giustificazione come il mio tentativo personale e così poco esemplare di fare dell’arte. È da supporre che la teologia non consideri affatto lo sforzo artistico come un mezzo di giustificazione e di redenzione ed è da ritenere che in ciò abbia persino ragione. Altrimenti uno riguarderebbe, ritengo, la propria opera con maggior soddisfazione, con maggior pacatezza e compiacimento. In realtà invece il processo di estinzione della colpa, l’ansia (religiosa, mi pare) di riparazione mediante l’opera, continua nell’opera stessa, poiché non c’è sosta né soddisfazione, ma ogni nuova impresa è il tentativo di assumere la responsabilità per la precedente, 65 Così Faustus (Leverkühn) «muore da cattivo e buon cristiano: buono per il pentimento e perché spera sempre, in fondo al cuore, che la sua anima trovi grazia: cattivo in quanto sa che deve finire orrendamente e che il diavolo vuole e deve avere il suo corpo” (Th. Mann, Doktor Faustus, p. 553). 66 Th. Mann, Romanzo d’un romanzo, p. 128. 67 Th. Mann, Doktor Faustus, p. 566.

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per tutte le precedenti, di salvarla e di ripararne l’insufficienza. E così sarà fino alla fine, quando si dirà con Prospero: “And my ending is despair”, disperata è la fine di mia vita. Allora, come per il mago di Shakespeare, rimarrà un solo conforto: il pensiero della grazia di questa potenza sovrana la cui vicinanza abbiamo già sentito talvolta con stupore e cui soltanto è possibile considerare estinto il debito residuo68.

68 Th. Mann, Il mio tempo, in: Romanzo d’un romanzo, p. 241s. Tre anni dopo, Mann si rivolge così agli studenti di Amburgo: “Grazia. Non a caso questo concetto compare con sempre maggior forza nei miei ultimi saggi letterari – già nelle storie di Giuseppe, poi nel Faustus e nella rielaborazione della leggenda di Gregorio. […] con il cuore oppresso da questo tempo minaccioso, vorrei gridare a ciascuno di voi personalmente, all’intera gioventù tedesca, alla stessa Germania e alla nostra vecchia Europa, l’augurio: la grazia sia con voi e vi aiuti a trovare la retta via, fuori della confusione, della contestazione e dello sgomento”, cit. in: H. Küng, Maestri di umanità. Teologia e letteratura in Thomas Mann, Hermann Hesse, Heinrich Böll, Rizzoli, Milano 1989, p. 71.

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FILOSOFIA E TEOLOGIA a cura di Luigi Ceccarini

Luigi Ceccarini, Gesù, il Cristo Premesse Trattiamo di tematiche distinte che si intrecciano e si dispiegano su piani differenti ma connessi: 1. Dio parla all’uomo, si rivela; il Dabar, la parola, si fa presente tra gli uomini, si “incarna”. L’incarnazione di Dio in Gesù non è una novità: Dio si è sempre incarnato, si sempre reso percepibile attraverso una realtà percepibile a noi uomini. 2. La parola di Dio si incarna anche e definitivamente in un giovane uomo ebreo del primo secolo. Come collegare questi due avvenimenti: come mostrare che il Dabar incarnato è di natura divina seppure umana? Cercherò di prendere in considerazione più la sua umanità perfetta piuttosto che la sua perfetta divinità per averne una visione più attuale. 3. Dovremo tener uniti i due principi della tradizione teologica cristiana “credo ut intelligam” e “credo quia absurdum”; una interpretazione mitologica forse è quella che meglio è capace di dare un senso comprensibile alla fede; ogni interpretazione razionalista è sempre fuorviante e presupponente. Il momento fondamentale di ogni fede è il “credere” cui seguirà il comprendere. Questo perché la fede non deriva da una intelligenza speciale, ma deriva da mozioni dell’uomo integrale, dal “cuore” dell’uomo, per usare il linguaggio della Scrittura. Il credere è un accettare senza riserve, e questa accettazione porta invariabilmente con sé una ‘comprensione’ di ciò che si crede. È solo facendo che si comprende il senso del fare; è solo pregando che si conosce Dio. Il “credo ut intelligam” non è un modo paradossale di esprimersi, ma un modo facilmente verificabile per ognuno di noi. Tutto ciò che 101


crediamo vero, pur senza prove, lo comprendiamo benissimo; mentre accade il contrario in ciò che non crediamo. Nel “credo quia absurdum” è contenuta un’altra verità. Tutto ciò che conosciamo scientificamente è in qualche maniera “razionale”; ma il credere non è “scienza”; il credere significa aderire a proposizioni inconoscibili con la ragione, che possono essere dette assurde, perché non dimostrabili razionalmente, ma conoscibili solo mediante il nostro cuore. Ogni conoscenza non razionale può essere detta assurda, perché se fosse intellegibile sarebbe razionale e dunque fonte di scienza. Ma non è la ragione che “crede”, invece è il “cuore”. Il cuore dell’uomo è di gran lunga superiore alla razionalità. Né la conoscenza razionale è la parte più importante del nostro sapere: si sa per scienza (che è sempre ipotetica e deduttiva) una quantità di nozioni marginali, che più che servire al buon vivere servono alla nostra sete intellettuale. È il cuore e non la ragione (Pascal) che conosce/ sente le più profonde verità vitali. La ragione può essere utilissima per scoprire il perché delle cause seconde, ma solo il cuore può sentire che c’è una causa prima e l’ultimo perché delle cose.

Il Dabar (Verbum) Il linguaggio è un evento culturale. Si fonda sulla capacità di una comunità animale di coagulare in una sequenza di suoni stabili un concetto che non è “assoluto” ma che è proprio di quella comunità. Nelle parole è coagulata tutta una storia di esperienze culturali della comunità parlante. Senza storia non esisterebbe linguaggio. Senza comunità neppure. Senza sensibilità non ci sarebbe possibilità non solo di percepire gli “oggetti” ma neppure di associarli al nostro uso, alla maneggiabilità, alla utilizzabilità. La sensazione significa i sensi ed i sensi presuppongono un corpo. Senza corpo nessun linguaggio umano. Il linguaggio che Dio usa per comunicare con noi non è il linguaggio divino (se ci fosse, se lo conoscessimo e fosse intellegibile a noi) ma è proprio il linguaggio umano. Meglio ancora è il linguaggio di quella comunità a cui Dio rivolge la sua parola. Ma ogni parola umana è una concretizzazione culturale particolare (non universale e astorica). Scrive Cimatti: “Questo significa vivere nel mondo del linguaggio, vivere – con i nostri corpi di carne e sangue, non soltanto nel pensiero – in un mondo in cui i valori culturali storicamente determinati sono presenze oggettive (quella che un tempo si sarebbe indicato con il termine Storia) tanto quelle naturali” 1. Il Dabar è l’incarnazione di Dio. Se Dio ci vuole parlare deve usare per essere intelligibile il nostro linguaggio. Ma il nostro linguaggio è carico di significati culturali anche di valore relativo, umano, storico. Il Profeta (colui che parla in nome di Dio) parla con le sue categorie, usa le parole che conosce che hanno il significato che hanno nel luogo e nell’epoca in cui vive. Dio parla attraverso di lui ma le categorie

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Cimatti F., Il possibile e il reale, Codice, Torino 2009, p. 71.

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con cui parla sono umane, del tutto umane e per questo da noi comprensibili in quell’epoca e in quel luogo. Un esempio ovvio è quello dello “Herem” [scomunica]. Dio avrebbe ordinato a Israele di sterminare tutti i popoli contro cui vinceva delle guerre. Re Saul viene detronizzato da Dio per punirlo perché non ha ucciso, sterminato, tutti gli uomini e gli animali nemici. Ora Dio non può comandare di non uccidere e ordinare contemporaneamente di uccidere tutti i vinti. È evidente che il Profeta ha parlato in nome di Dio ma ha interpolato categorie della sua cultura medio orientale di più di mille anni or sono. Lo stesso discorso vale per i Salmi, preghiera perfetta, dove si invocano maledizioni sui nemici e sui peccatori, come esempio vediamo il Salmo 137 ai versetti 8-9: Figlia di Babilonia, che devi essere distrutta, beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto! Beato chi afferrerà i tuoi bambini e li sbatterà contro una roccia”. Questa non è “Parola di Dio” o bisognerebbe dare ragione a Marcione. Lo stesso vale per i passi in cui si afferma la sovranità di Dio sulla natura; Dio può fermare il sole o seccare il mare, Lui li ha fatti e Lui li comanda. Dio si è incarnato nel linguaggio di quel popolo e di quel tempo. Da sempre Dio si incarna. Il Dabar è una forma di incarnazione. Ogni manifestazione di Dio agli uomini è una forma concreta di incarnazione. Non c’è novità in questo senso nel fatto Gesù di Nazaret. I libri che noi chiamiamo Vecchio Testamento sono Parola di Dio in un senso che deve essere chiarito. I Profeti parlano in Nome di Dio esplicitamente. Iniziano con le parole “Così dice il Signore” e chi ascolta crede che sia YHWH che parla. Ma mescolate alle parole che il Signore vuole comunicare si mescolano parole che vengono dall’ambiente culturale del Profeta e perciò non sono parola di Dio. Non fanno parte della Rivelazione, non è un Dabar. Dio ha parlato per mezzo dei Profeti allo scopo di preparare l’ambiente storico, culturale, sociale, religioso, linguistico, in cui il Dabar stesso si sarebbe incarnato. Il Dabar è parola ebraica che in greco si può tradurre il Logos, in italiano il Verbo o la parola, in concreto il Cristo Gesù. Il Vecchio Testamento va così letto e interpretato alla luce dell’evento Gesù, perché è servito appunto a intenderne la figura e la funzione nell’economia della salvezza. Inoltre il Dabar non consiste in una dottrina rivelata. Non si tratta di una dottrina né di una filosofia e neppure di una via soprannaturale; si tratta di interventi nella e della storia, letti da un Profeta che ne descrive il senso. Hanno dunque tutte le caratteristiche della storicità: sono “situate” e hanno senso solo in quel contesto. Tutta la Bibbia deve essere letta e intesa come una unità tendente alla rivelazione della paternità e dell’amore di Dio quale si manifesta in Gesù. Senza una fede apostolica il Vecchio Testamento è solo una storia avvincente ma insignificante di un piccolo popolo primitivo. La Lettera agli ebrei dice: “Iddio, che anticamente aveva parlato più volte e in diverse maniere ai Padri per mezzo dei Profeti, in questi ultimi tempi ha parlato anche a noi per mezzo del Figlio” (Ebr. 1,1-2). Dunque Dio ha parlato anticamente più volte. Non continuamente, con tutta la Scrittura, ma molte volte, e sempre per 103


mezzo dei Profeti. Anche Mosè che ha parlato faccia a faccia con Dio è semplicemente un profeta; la teofania del Sinai e la liberazione dall’Egitto, la Pesah, sono rivelazioni fattuali che richiedono una lettura profetica per essere comprese dall’uomo. Ha parlato “in diverse maniere”: nei fatti, nelle profezie, nei miracoli, nei salmi, nei Re, nelle parole e nella cultura ebraica. Adesso Dio ci ha parlato per mezzo di un uomo, il Figlio, nel solco di tutte le precedenti incarnazioni linguistiche. Il Figlio è la parola stessa di Dio, Egli però è un ebreo. Parla come un ebreo del I secolo, ha le categorie ebraiche, usa tutti i concetti della sua cultura, compresi tutti i miti, e tutte le metafore tipiche della sua cultura. Egli è Dio incarnato. Non è solo un “uomo” ma è un ebreo che pensa in aramaico, e ha concetti presi dagli scritti precristiani. Anche il Nuovo Testamento perciò deve essere letto con prudenza, perché (se non si è esperti di cultura ebraica del I secolo) deve essere interpretato prescindendo dai vari miti di quell’area. Occorre mettere in relazione il fatto che sia esistito quell’uomo, col fatto che Egli sia stato il Figlio di Dio, o il Dabar incarnato. Dobbiamo esaminare gli elementi ebraici (e greci nel Nuovo Testamento) che ci permettono di credere non irrazionalmente e di inferire che Egli è veramente Dio da Dio. È attraverso una lettura del Vecchio Testamento (che ha senso rivelatorio solo se letto in chiave cristologica) che dobbiamo esaminare il senso della sua vita, della sua morte e della sua resurrezione per noi. Il Nuovo Testamento è stato scritto verso il II secolo da comunità che stavano organizzandosi come chiese. Si tratta dell’inizio della tradizione apostolica, che tramandava i fatti avvenuti in Palestina riletti in chiave locale. Tutte le chiese calcedonesi (quelle che possono chiamarsi “ortodosse”) si sono sviluppate più in ambiente greco romano che non nell’originale ambiente medio orientale (per motivi storicopolitici). Le chiese (erano allora molte e varie) hanno riletto secondo le loro necessità pastorali, quindi hanno introdotto nella storia di Gesù elementi estranei alla Parola, ma utili a loro. Anche nella lettura dei Vangeli e degli scritti del Nuovo Testamento occorre prescindere dagli elementi mitologici propri di quelle culture. Gesù non è tutto il nuovo testamento, occorre ritornare a Lui prescindendo dalla lettera degli scritti. I motivi che ci permettono di riaprire la domanda su chi sia stato davvero Gesù nella sua epoca e nella sua realtà storica sono molti e tutti più o meno recenti. Il fallimento dell’immagine che le chiese si erano fatte su Gesù è stato molteplice. O lo si è divinizzato troppo dimenticando che egli era un uomo reale, o lo si è troppo umanizzato dandogli i caratteri di una epoca o di una ideologia (Gesù come il rivoluzionario sociale, il vero socialista, o il buon liberale, o l’uomo ecclesiale, o l’anticlericale, o l’implacabile nemico dell’ebraismo farisaico). Dopo la guerra ci si rese conto che queste immagini erano false sul piano storico. Certo un’influenza decisiva la ebbe la constatazione che la Shoah ebbe origine anche per la predicazione antigiudaica delle chiese sia cattolica che luterana. Sempre dopo la guerra a causa di bombardamenti o di scoperte incredibili si è giunti in possesso di documenti che ci fanno ricredere su moltissimi aspetti. Quello che prima non era certo ora diviene indubitabile. Dobbiamo rileggere la vita di Gesù situandola nel suo contesto che ora ci appare chiaro. Oggi possediamo documenti anche precedenti il 70 e anche di fon104


te ebraica oltre che cristiana. Siamo in possesso degli Pseudoepigrafici dell’Antico Testamento, dei manoscritti del Mar Morto, dei codici di Nag Hammadi, di Giuseppe Flavio, di frammenti del I libro di Enoch, del Libro dei Giubilei, dei Testamenti dei Dodici Patriarchi, e di importanti evangeli non canonici. È importante conoscere l’apocalittica, l’escatologia e la nozione del peccato contemporanei di Gesù. Questo è ciò che è avvenuto: è nato, è vissuto, è morto un giovane uomo nella Palestina romana, al tempo di Ponzio Pilato. I suoi amici, i suoi discepoli e le donne del suo ambiente cercarono, dopo la sua morte, di comprendere e di esprimere la loro esperienza di fronte a questo fatto. Come sarebbe stato possibile parlare di questo uomo, di Gesù? Che significato aveva avuto per ognuno di loro l’esperienza della sequela di questo Maestro itinerante? Con che categorie lo avrebbero potuto descrivere per tramandarne la notizia ai loro posteri? Occorreva, come sempre, interpretare il fatto. Un fatto non dice nulla se non è reso intellegibile da una interpretazione. L’interpretazione del fatto Gesù si chiama “cristologia”. Noi vogliamo sapere perché si scelse questo titolo, Cristo, e con quale significato lo si scelse. Non sembri una domanda inutile quella di una sempre nuova ricerca su Gesù, perché essa è in realtà una ricerca, necessariamente incessante, su Dio. Infatti chi vede Gesù (vedere implica necessariamente vedere la sua umanità) vede il Padre, altrimenti inconoscibile. Occorre entrare per quanto possibile nella mentalità e nella cultura teologica degli ebrei del I secolo della nostra era. Gesù parlava la loro lingua, era uno di loro, si rivolgeva a loro; dunque bisogna capire come loro lo comprendevano. Occorre assumere le categorie tipiche di quella che chiamiamo “la resurrezione del Gesù ebreo”2. Questo filone di ricerca sul Gesù storico inizia a partire dalla fine della IIª Guerra mondiale, quando le chiese scoprirono di quali orrori si erano macchiate nel creare un Gesù completamente anti-giudaico, e nel considerare Israele come il nemico della chiesa e il deicida per eccellenza. La reazione alla Shoah produsse un atteggiamento più attento al contesto giudaico della Palestina del I secolo; si tratta di una ricerca sul carattere pluralista del giudaismo del tempo in cui visse Gesù. Si è riconosciuto che se Gesù è un “vero uomo” deve essere necessariamente un “vero ebreo”. Non esiste l’uomo ut sic; ogni uomo è ebreo o non ebreo, non c’è via di mezzo. Marco ci dice che Gesù non si dichiarò mai apertamente il Messia, cioè il Cristo. Lo si interpretò come il “segreto messianico” e si pensò che Gesù avesse voluto lasciare la scoperta agli Apostoli. In verità sotto la dominazione romana ci furono molte forme di attesa messianica. La forma del Messia davidico o regale era ormai superata dalla realtà politica nota a tutti; c’erano molte altre forme di attesa messianica di tipo sacerdotale o profetico; soprattutto c’era un’attesa di un messianismo colto, elitario, che era diffuso dalle comunità qumraniche. Occorre allora scoprire a quale Messia, a quale Cristo, noi dobbiamo fare riferimento. È probabile che Gesù non si sia mai considerato un Messia, Egli si considerava secondo un'altra figura tipica dell’ebraismo escatologico: il “Figlio dell’uomo”. Questo titolo non chiarissimo appare nella tradizione di Daniele (Dan, 7, 13). Nel Libro delle Parabole di Enoch scritto verso il 30 prima di Cristo, si presenta questa espressione con valore escatologico. Sarà il Figlio dell’uomo che verrà alla fine del

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Heller A., Gesù l’ebreo, Mimesis, Milano 2010, p. 9.

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mondo per giudicare tutti. L’unica novità che Gesù introduce nella figura trascendente del Figlio dell’uomo è la necessità di soffrire e di morire violentemente. Cerchiamo di rileggere Gesù alla luce della sua epoca e della sua cultura, andando oltre la lettera del Nuovo Testamento; ci sorprenderemo nel constatare quanto la tradizione apostolica sia stata fedele nella sostanza. Il Gesù dei Sinottici è lo stesso Gesù vivente anche se narrato con adattamenti alle situazioni del II secolo. Nel mondo ebraico antico c’era una speranza. L’esilio teologicamente non era terminato. Israele era ancora sotto il dominio dei pagani. Dio però avrebbe inviato un Re (o una figura salvifica) che avrebbe instaurato il Regno di Dio. Questo Re lo si chiamava “Messia”, perché i re d’Israele venivano consacrati Re con una unzione, in ebraico messia significa appunto “unto”. In greco “unto” lo si poteva tradurre con “cristo”. Ecco la cristologia. Nel mondo greco romano in cui si diffuse il cristianesimo però il titolo di cristo diceva poco, perché rimandava troppo a tradizioni ebraiche sconosciute ai primi cristiani provenienti dal paganesimo. Gesù perciò venne descritto soprattutto come il “Signore”, o meglio ancora come il “Logos”, parola che aveva una venerabile tradizione nel mondo greco, mentre la parola “cristo” divenne una parte del nome di Gesù: Egli è Gesù Cristo. Sempre d’origine ebraica era anche il titolo di “figlio di Dio”. Scrive H. Kueng: “Non si deve dimenticare che i titoli qui in discussione erano – ciascuno a suo modo – gravati dalle diverse tradizioni e dalle aspettative più o meno politiche dei suoi contemporanei. Questo Gesù non rispondeva minimamente alla diffusa attesa di un “Messia”, di un “Figlio di Davide”, di un “Figlio dell’uomo”. E con ogni verosimiglianza non voleva neppure essere tale” 3. Il senso di figlio di Dio nulla ha a che vedere con una generazione di tipo biologico. Nel mondo ebraico questo titolo veniva usato per indicare Israele e il Re d’Israele. “Oggi io ti ho generato” era la frase che veniva usata nel consacrare il Re (probabilmente da Davide in poi). Dio dunque non è biologicamente Padre di Gesù e molto probabilmente il padre di Gesù fu Giuseppe. Nel Nuovo Testamento i titoli significano: “Cristo mediatore della creazione – Cristo, servo dolorante di Jahveh, che realizza l’elezione d’Israele – Cristo, il Kyrios, che regna attualmente – Cristo, Figlio dell’uomo, che ritorna per portare a compimento tutte le cose create, ed essere il mediatore della nuova creazione. Egli è prima dell’inizio, è stato crocefisso ieri, regna oggi, invisibile, e ritornerà alla fine dei secoli. Tutte queste immagini non ne formano che una, quella di Cristo che esercita successivamente nel tempo le sue funzioni storico-salvifiche. 4 Però si voleva descrivere l’azione di Gesù in modo che fosse evidente che i discepoli vi avevano percepito il fatto che in lui si era verificata l’esperienza di “Dio con noi”: Dio stesso era stato presente nelle vicende di quel giovane, Dio stesso si era rivelato in lui come amore e misericordia e fedeltà. Era evidente che quel ragazzo era veramente il Messia, perché aveva sostituito il Tempio, aveva realizzato la

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Kueng H., Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, p. 322. Cullmann O., Cristo e il tempo, Il Mulino, Bologna 1965, p. 126.

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Shekinah, aveva condotto Israele a compiere la sua missione sacerdotale. Occorreva perciò, per la chiesa apostolica, accentuare la presenza divina in lui e così sminuire la sua origine umana. Occorreva stabilire che Egli era stato inviato da Dio fin dall’inizio della sua vita, con una concezione verginale. Da qui il mito della concezione verginale e dei Vangeli dell’infanzia. Scrive Jacques Maritain: “Dunque sin dalle origini la tendenza ad accentuare la divinità di Gesù Cristo è stata così diffusa e persistente, da lasciare non di rado in ombra la sua umanità: si giunse a pensare che, se nella vicenda terrena del Nazareno è il Figlio di Dio ad agire, occorresse escludere da lui ogni possibile imperfezione. Di conseguenza la condizione umana del Verbo incarnato fu spesso svalutata, fino a farne una vera e propria “parodia d’umanità” 5. La teologia oggi dovrebbe avere il compito di ridare amabilità e struttura umana a questo uomo, che è certamente la rivelazione del Padre in cui si manifesta la gloria di Dio. Gesù è chiaramente apparso nel tempo, cioè nel kairos, secondo il greco neo-testamentario. Scrive O. Cullmann: “Kairos significa, nell’uso profano, un’occasione particolarmente propizia per un’impresa, il momento di cui si parla già molto tempo prima, senza che se ne conoscesse la data, la scadenza che nel gergo moderno viene indicata con ‘il giorno x’… L’uso neotestamentario di questo termine, applicato alla storia della salvezza, è lo stesso. E proprio perché la realizzazione di questo piano divino è legata a dei momenti scelti da Dio, a dei kairoi, essa è una storia della salvezza…Non è soltanto dopo la morte di Cristo che, nella fede della comunità, che l’opera compiuta dal Verbo incarnato acquista dignità di kairos centrale del piano divino della salvezza. Al contrario, è Cristo stesso che designa già, secondo la testimonianza dei Sinottici, la sua passione come il suo “kairos” (ivi, 61-2). Nei Vangeli sono presenti varie cristologie, che derivano dalle varie tradizioni delle varie chiese locali in cui la Parola era predicata, dov’era un Kerygma. La figura e la funzione di Gesù fu vissuta e interpretata diversamente dai vari Apostoli e dal Kerygma della chiesa primitiva. Non dobbiamo preferire una lettura all’altra, ma esse vanno accettate tutte nel senso del linguaggio analogico della teologia, per trarne il messaggio della fede, “la parola della fede” (Rm. 10, 8). Infatti qui il mistero è così grande che una sola lettura non basta per definirne il significato. Gesù era un giovane ebreo vivente nel I secolo. Quali erano le sue premesse di fede? È necessario chiarire questo punto per capire chi fu realmente Gesù. Gesù pensava di essere il Messia o no? O credeva di essere un Profeta? È evidente che i modelli proposti dalle sacre scritture hanno avuto influenza su di Lui. Non aveva la nozione di essere la seconda persona della Trinità semplicemente perché questo con-

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Maritain J., Della grazia e dell’umanità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1971, p. 18.

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cetto non esisteva ancora (occorsero circa quattro secoli per chiarire questo punto). Ciò significa che la domanda richiede una risposta argomentata. Cerchiamo di comprendere cosa potesse credere in quell’epoca e in quel popolo un giovane che aveva sentito la predicazione di Giovanni il Battista. Il regno di Dio era imminente, occorreva convertirsi (conversione significa rinunciare alla propria convinzione per abbracciarne una nuova, esattamente quella proposta da Gesù) e mutare atteggiamento. Gesù sentiva che la sua vocazione era quella di portare il resto d’Israele a salvare l’umanità anche a costo della sua vita. Forse credeva che la sua missione fosse quella del servo sofferente di Isaia, forse si concepiva a salvezza del popolo ebraico sul tipo del capro espiatorio, forse si comprendeva come un Profeta antico destinato a morire a Gerusalemme sull’esempio degli antichi profeti. Il fatto che abbia accettato la sua morte sulla croce come espiazione del peccato non vuol dire che il Padre avesse chiesto esattamente questo. È però vero che il Padre ha accettato il gesto d’amore infinito del Figlio e lo ha esaltato e glorificato dandogli il Nome che è al di sopra di ogni altro Nome. Il Padre non cercava soddisfazione, ma cercava testimonianza d’amore al di sopra d’ogni cosa, e questo Gesù lo realizzò. Nessun amore è più grande di quello di dare la vita per chi ci perseguita. Israele si era fatto l’idea, comune a quei tempi a tutti i popoli, che Dio combattesse contro i nemici d’Israele. Era chiamato anche il “Dio degli eserciti” e guidava Israele alla vittoria. La vittoria del popolo eletto era anche una vittoria di Dio contro gli dèi dei popoli vinti. Se Dio combatteva al fianco d’Israele, perché si perdevano le guerre? La risposta era semplice: perché Israele aveva peccato. La nozione di “peccato” ebbe in un primo momento il senso dell’inosservanza di qualche norma della Torah. Peccato come trasgressione, come tradimento del Patto con Dio, non solo a livello personale quanto invece collettivo, politico. Quando avvenne la deportazione in Babilonia Israele si convinse che il suo peccato era stato gravissimo e attendeva con ansia il perdono di Dio. Il perdono doveva arrivare perché il motivo dell’elezione d’Israele era quello di salvare il mondo per mezzo del popolo ebraico; l’idea di elezione era congiunta a quella di escatologia, o di fine della storia. L’escatologia non tratta della fine del mondo, ma della fine della storia, del compimento del volere di Dio sull’umanità e su tutta la creazione. I Libri santi dichiarano che Dio stabilisce il Berit, il Patto, con Israele perché così lo costituisce come Popolo sacerdotale, lo santifica (lo mette da parte) per la salvezza del mondo intero. Dio è fedele e non può non compiere quello che ha promesso. La salvezza deve avvenire per mezzo di Israele. “Gesù credeva che il Dio creatore si proponesse fin dall’inizio di affrontare e gestire i problemi all’interno della sua creazione attraverso Israele. Questo popolo non doveva essere soltanto l’“esempio” di una nazione soggetta a Dio; doveva essere il mezzo attraverso il quale il mondo sarebbe stato salvato. (…) In linguaggio tecnico, quello di cui sto parlando è elezione ed escatologia”. 6

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Wright N.T., Gesù di Nazareth, Claudiana, Torino 2003, p. 28.

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Israele era stato deportato a Babilonia: era l’esilio e la lontananza da Gerusalemme e dal Tempio. E questo era avvenuto perché Israele aveva peccato e Dio non aveva ancora perdonato. Il perdono comportava il ritorno alla terra promessa e la ricostruzione del Tempio. La Shekinah sarebbe ritornata ad abitare tra noi. L’esilio era finito con Ciro, ma Israele si sentiva ancora in esilio “teologico” perché il dominio straniero continuava (ora i dominatori erano i romani) e il Tempio era ancora in costruzione e Dio non ne aveva ripreso il possesso. Questo significava che il regno di Dio era ancora lontano. Gesù invece proclamava che il Regno era presente nella sua persona. Egli era la nuova Shekinah; egli era il nuovo Tempio; egli la salvezza d’Israele e dunque la salvezza delle nazioni. Il Regno di Dio importava infatti che tutti i popoli venissero invitati al Banchetto della Città Santa e definitiva. Non è possibile interpretare il Nuovo Testamento prescindendo da una lettura attenta alle motivazioni proprie dell’epoca nella quale fu scritto. Altrimenti si cade in un letteralismo integralista o quasi. Leggere i Vangeli non basta, occorre comprendere in che contesto sono stati scritti e quali fossero gli intenti delle chiese d’origine. Per leggere i Vangeli con frutto di salvezza occorre una notevole cultura ermeneutica. La chiesa antica ne sconsigliò la lettura alle masse prive dell’educazione necessaria a causa delle difficoltà oggettive di quei tempi. Facciamo un solo esempio di lettura da considerare con cautela. Perché è morto sulla croce Gesù? Che sia morto così, è il fatto. La prima generazione cristiana dovette cercare una spiegazione del perché un grande profeta, un Messia, una speranza d’Israele, fosse morto in questo modo infamante. La risposta a questa domanda è l’interpretazione. Gesù è morto per noi, per i nostri peccati. Questo è vero? È questa l’unica spiegazione della morte ignominiosa di Gesù? Si e no. Nel Nuovo testamento troviamo almeno tre tipi di risposte, tutte e tre erano perfettamente comprensibili per la mentalità di quell’epoca. Si tenga presente che gli Autori degli scritti evangelici erano ebrei o proseliti provenienti dal mondo pagano greco-romano, la lettura più semplice era quella di risalire alle scritture sacre degli antichi profeti. La prima interpretazione è tratta dal profeta Isaia (Isaia 53). Gesù è stato il Servo sofferente, che porta i peccati del mondo, oppure era possibile concepirlo come il “capro espiatorio” che portava i peccati d’Israele. I peccati d’Israele erano la vera ragione dell’esilio; il servo di YHWH prendeva su di sé i peccati, come faceva il capro espiatorio. La seconda interpretazione era derivata piuttosto della mentalità dei riti misterici romani e greci: Gesù sarebbe morto al posto nostro in un rito di morte e resurrezione; come la natura muore e risorge a primavera. La terza d’origine romana era concepita come riscatto. Gesù ha pagato il riscatto che doveva al Demonio. Noi oggi crediamo spontaneamente che Gesù sia morto per noi e per i nostri peccati secondo la formula di Anselmo d’Aosta che applicò le categorie del diritto romano germanico del suo tempo. Il fatto che ci siano così differenti interpretazioni ci dice che non c’è una interpretazione più vera delle altre. A noi oggi ripugna l’idea di un Dio vendicativo che vuole la morte di un innocente per motivi suoi. Preferiamo l’interpretazione dataci dal Vangelo di Giovanni, che Gesù sia morto per manifestarci l’amore del Padre per i più piccoli e i più deboli. “La prima lettera di Giovanni fotografa con una formulazione di grande precisione il nesso tra l’amore di Dio manifestato in Gesù e l’amore degli uomini: 109


‘Dio è amore; e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui’ (1 Giov., 4, 16b). In questa comprensione di Gesù e della sua missione sulla terra non c’è bisogno di alcuna idea, comunque formulata o modulata, di vittima o sacrificio di espiazione.”7. “È legittima e adeguata ogni interpretazione della morte di Gesù che è in accordo con quell’amore incondizionato di Dio che ci è venuto incontro in Gesù, nella realtà della sua vita umana, e che – se ci apriamo ad esso – ci dischiude l’orizzonte per essere uomini nuovi che vivono una nuova vita” (ivi, 57). “Dio ‘ha dato’ il figlio non perché morisse nel mondo, bensì affinché il suo modo di vivere rivelasse che la natura di Dio è amore e conducesse così gli esseri umani alla vita” (ivi, 75). Quale che sia il vero motivo, è certo che Gesù accettò di morire di quella morte perché voleva così salvare il mondo dal peccato. Nel cenacolo dette i segni del pane e del vino come simboli della sua intera vita donata amorosamente per la salvezza di tutti gli uomini. Gesù inteso come solo Dio non basta per comprenderlo adeguatamente, bisogna concepirlo soprattutto come un uomo. Solo così c’è una salvezza accessibile per noi. La stessa domanda più esplicitamente si può formulare così: il Padre ha forse voluto un nuovo sacrificio e Gesù è stata la nuova vittima? Noi cerchiamo di rispondere di no e vorremmo trovare anche il perché. Scrive Michael Welker: “La Brandt evidenzia una differenziazione che purtroppo la lingua tedesca e alcune altre lingue (diversamente dall’inglese) non rendono in modo preciso: uno dei significati di Opfer può essere “sacrificio”. Il sacrificio cultuale nel Tempio o il sacrificio compiuto da genitori senza mezzi, per garantire l’istruzione dei figli, è Opfer nel senso di sacrificio. Opfer può però anche significare “vittima”. (…) Il solo fatto di divenire uomo di Gesù Cristo è già “dono” di Dio al mondo degli esseri umani e in questo senso “sacrificio” in senso di sacrifice. (…) Dio non vuole la vittimizzazione di Gesù. Dio non permette però che il suo amore verso gli esseri umani e il sacrificio di Gesù in senso di sacrifice falliscano perché gli esseri umani e le potenze di questo mondo hanno fatto di Gesù un sacrificio nel senso di victim” 8. In italiano conosciamo la differenza tra vittima e sacrificio. Non sempre un sacrificio richiede una vittima. Il padre che lavora con sacrificio per mantenere il figlio non è vittima del figlio, ma semplicemente lo ama. In questo è incluso tutto il senso della kenosis divina. Dio, il creatore, per amore si è nullificato assumendo la natura di creatura, e con questo ha accettato necessariamente la morte. Dunque Gesù non è la vittima sacrificale che il Padre avrebbe preteso. Ancor oggi in italiano chiamiamo “ostia” il pane azzimo che usiamo nella celebrazione eucaristica; ostia è parola lati7 8

Fischer H., Era necessario che Gesù morisse per noi?, Claudiana, Torino 2012, p. 55. Welker M., Che cosa avviene nella cena del Signore? Claudiana, Torino 2004, p. 119-

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na che significa “vittima”; il che mostra quanto fraintendimento è presupposto anche dalla chiesa. Questo dimostra con quanta accuratezza dobbiamo distinguere tra i fatti e le verità soggiacenti e invece le cose scritte perché in quell’epoca erano nella mentalità comune. È questo il compito preciso del teologo: riproporre il messaggio evangelico nelle categorie contemporanee, perché possa essere accettato e amato dai nostri contemporanei. La cultura è un fatto storico, muta e diviene nel tempo e non possiamo continuare a ripetere quello che è stato affermato nel passato perché è divenuto incomprensibile per le nostre categorie. Se nei Vangeli non è “rivelata” una sola cristologia ma molte, significa che possiamo cercare il motivo della morte anche in differenti cause. Per capire dall’interno il cristianesimo (come ogni altra fede rivelata) si deve partire non dalla Rivelazione stessa, ma dalla “fede” di una determinata epoca (quella spontanea dell’epoca apostolica e in seguito quella formalizzata nei primi quattro Concili) per trovare poi riscontri nelle Scritture. La fede è il “preconcetto” che poi ci permette di leggere la Scrittura con frutto di salvezza. La fede non deriva dalla Scrittura, ma ne precede l’interpretazione. La fede è la componente razionale emotiva e affettiva con cui “credo” (cioè mi affido senza condizioni, come l’infante con la madre) e di cui in seguito andrò a cercare le tracce/ prove nei testi sacri. Ovviamente le cristologie evangeliche in quanto fonte di rivelazione debbono essere tutte vere e debbono dirci un aspetto autentico del “mistero” di Gesù. Essendo un fatto collegato con il divino non è strettamente razionalizzabile; occorrono differenti narrazioni per cercare di rendere accessibile l’indicibile. “Crede ut intelligas”, credi se vuoi comprendere; l’intelligenza non è isolata dal cuore, ma noi siamo una totalità razionale/ senziente. Il razionalismo vorrebbe sottomettere tutta la nostra conoscenza alla ragione, ma non è così che noi ‘conosciamo’ esistenzialmente. Non dobbiamo confondere, come spesso si è fatto e si fa, l’evento Gesù con la “lettera” dei Vangeli quali li abbiamo. I Vangeli furono scritti dalla chiesa primitiva per tramandare alle generazioni future ciò che essa “credeva”, perché la fede si rafforzasse e venisse diffusa. Il kerygma della chiesa dovette adottare parole e concetti “umani’, intesi naturalmente in modo analogico e mitologico, per narrare l’aspetto di fede suscitato dall’uomo Gesù. Ma un conto è la vita e le parole autentiche di Gesù, un altro è il rivestimento culturale/ filosofico/ giuridico/ religioso con cui queste furono rivestite per essere narrate. Il fatto salvifico è stato ed è il Gesù della storia, il Gesù vivente; il rivestimento verbale religioso che questo fatto ha ricevuto è invece ininfluente. Non dobbiamo leggere i vangeli con mentalità storicista o scientista, il lavoro d’interpretazione deve essere accuratissimo, altrimenti si rischia il fraintendimento. Non è la “lettera” del Vangelo che dobbiamo capire, ma lo Spirito che ci vivifica dall’interno, il Cristo che lo Spirito ci mostra come volto del Padre. Il fatto storico della esistenza di un uomo chiamato Joshuà (in it. Gesù) è certa e da non mettere in discussione (pressappoco nell’epoca che i Vangeli indicano, anche se con scarsa precisione) e ha dato luogo a diverse “interpretazioni” di questo fatto. 111


Su questo punto non ci sono più dubbi o discussioni. La fede però non può essere un fatto storico (nel senso del fatto bruto, non ancora interpretato) ma è invece un’interpretazione di un certo avvenimento. L’avvenimento è certo e incontestabile. L’interpretazione avviene in base ad attese e accenti culturali dell’epoca e del luogo geografico in cui la fede nasce e si chiarisce. Mentre i “fatti” possono in qualche maniera essere detti “oggettivi” perché teoricamente esistono “indipendentemente” (in qualche maniera) dalle nostre (almeno di noi lettori) interpretazioni, non è così per le opinioni o interpretazioni, che sono sempre un fatto soggettivo, anche se per ipotesi di massa. Il massimo di oggettività che un’interpretazione può avere è quello di essere condivisa da molti, ognuno dei quali la condivide soggettivamente. Un’interpretazione diventa maggioritaria perché è la più condivisa e viene, di solito, ritenuta più vera delle altre, anche se non è certo la condivisione il fatto che può considerarsi garanzia di “verità”. I motivi del successo di un’opinione sono di differente natura: c’è la cultura (romana o/ e greca in occidente, e ebraica/ greca in oriente) c’è la politica (nel periodo imperiale romano e bizantino), c’è il potere (forte durante il medioevo e il rinascimento), c’è la reazione a una temuta rivolta (come nell’epoca della riforma). I Vangeli narrano (non con intenti storici o biografici, ma con lo scopo di muovere alla fede “in” Gesù e non alla fede “di” Gesù, ma vedremo che forse è lo stesso) un fatto storicamente avvenuto, l’evento di un uomo chiamato Gesù che predicò il Regno di Dio imminente e che morì ignominiosamente sulla croce, accusato forse falsamente di sommossa e che in seguito “risorse”. Non risorse a questa vita (non è una resurrezione temporanea come la resurrezione di Lazzaro; né fu un cadavere rianimato), ma risorse nel senso che la sua “persona” (non il suo corpo o la sua anima) permase in una forma di vita a noi sconosciuta, ma certamente corporea. Non è stato un cadavere rianimato, ma una persona vivente in una dimensione a noi ignota. Egli fu “assunto” nella vita di Dio (“siede” alla destra del Padre); il significato è la convalida divina della missione e dell’opera del Gesù della storia e la sua elevazione quale Cristo. Con la resurrezione divenne evidente che Gesù era stato il Messia, il Cristo. Tutta la Scrittura presa in genere testimonia che la sostituzione del Tempio e l’effusione dello Spirito sono le caratteristiche del fatto della redenzione. Gesù è il Cristo perché egli è diventato il nuovo Tempio e lo Spirito Santo è stato effuso sulla sua comunità. Egli è la nuova forma della Shekinah, o della presenza sensibile di Dio con noi (l’Emanuele). È il momento più significativo dell’Incarnazione. Nella resurrezione Gesù diviene il Cristo di Dio. Ciò che era stato prefigurato, annunciato, nel Battesimo di Giovanni, e ancora dichiarato sul Tabor in quell’avvenimento che chiamiamo “trasfigurazione” nella resurrezione diviene un fatto reale. Lì il figlio dell’uomo diviene veramente il Figlio di Dio. Gesù è stato proclamato dal Padre l’autentico “rivelatore” di ciò che Dio voleva comunicarci: la conclusione di una nuova alleanza con noi, la remissione di ogni peccato, l’avvento della nuova era, la necessità dell’amore esteso a tutte le creature e la radicalità inattingibile dell’amore stesso. L’amore come la concretizzazione della eterna volontà di Dio, che ci ha creato perché ci ha “amato” e non per imporci delle leggi o per condannarci. Già da questo accenno appare la novità della fede cristiana. Solo in Gesù noi possiamo avere una conoscenza (anche se imperfetta) del Dio vi112


vente. Solo Gesù ci ha rivelato il Padre e il Suo disegno eterno che era celato e incompreso. Sul piano oggettivo: Dio non è un giudice che ci giudicherà secondo le nostre opere, come un giudice umano. Dio ci giudica nel farci giusti. La giustizia di Dio è creatrice di giusti, non è una constatazione, ma un suo decreto eterno d’amore. Dio non è così trascendente e immutabile come ce lo descrive la teologia greca, ma Dio è un padre tenero, un marito geloso, che ama e ha sentimenti simili a noi, che ne siamo l’immagine. Dio ci conosce con le nostre necessità e vi provvede, ma desidera che noi siamo partecipi della sua sollecitudine attraverso la preghiera. Dio è quella relazione dinamica e personale che noi chiamiamo Trinità e che è all’opposto della visione parmenidea, alla quale noi occidentali siamo ancora inconsapevolmente legati. Quel vortice d’amore dialogico che noi chiamiamo Trinità è il Vivente, è la vita che si effonde creando vite e vincoli vitali d’amore. Dio ci rende “santi” (partecipi alla sua santità) e dunque dobbiamo comportarci da santi. Questa non è un’affermazione moralistica ma ontologica. Tutto ciò che compiamo è un’azione che riguarda Gesù in persona e su questo saremo giudicati. “Tutto questo significa che Gesù non ha fondato una chiesa durante la sua vita… Gesù non ha mai detto che per entrare nel regno di Dio è necessario appartenere a una chiesa. Basta per lui l’obbediente accettazione del suo messaggio e la pronta, radicale sottomissione alla volontà di Dio”9 . È l’amore per il prossimo che realizza la volontà di Dio. Chi non ama sarà sottoposto al giudizio. Dio è Amore, e ci ha elevato alla capacità d’amare senza riserve. Noi chiamiamo ‘chiesa’ l’insieme dei credenti visibili e invisibili, viventi o vissuti uniti dalla predilezione del Padre perché membra del Corpo reale di Cristo. Scrive Ratzinger: “Colui che giudica non è qui semplicemente – come ci sarebbe da aspettarsi – Dio, l’Infinito, l’Ignoto, l’Eterno. Egli ha piuttosto affidato il giudizio a uno che, in quanto uomo, è nostro fratello. A giudicarci non sarà un estraneo, bensì colui che già conosciamo tramite la fede. Il giudice non ci verrà incontro come il totalmente Altro, bensì come uno di noi, che conosce l’essere-uomo dal didentro e ha sofferto”10. Con tutto ciò sembra, a noi che viviamo duemila anni dopo, che queste cose sono state dette come del tutto ovvie. Ma alla mentalità e alle teologie di quell’epoca risuonarono come una rivoluzione. Fece scalpore soprattutto che Gesù avesse proclamato che Dio non abita in nessun Tempio costruito dagli umani, che non c’è bisogno di nessun sacerdote perché non c’è nessun sacrificio che possiamo offrire al Dio vivente, che non ci sono né riti, 9

Kueng H., Op.cit., p. 316. Ratzinger J., Introduzione al cristianesimo. Queriniana, Brescia 2007, p. 317.

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né regimi di vita speciali, ma che Dio lo si trova nel silenzio e nel proprio cuore. Che i prediletti dal Padre non sono né i sapienti né i potenti, ma gli umili e gli ultimi, i bambini come gli idioti, le prostitute come i ladri. Gesù stesso morì come un bandito, appeso a un legno tra due malfattori. Che la nostra giustizia deve essere superiore a quella degli scribi e dei farisei; che i suoi fedeli debbono adorare il Padre in Spirito e verità, e che il Regno verrà a noi come un ladro, quando meno ce lo aspettiamo. Il Dio trino che Gesù ci ha rivelato con la sua vita è il Padre e non una entità lontana e incomprensibile. Egli ha un solo messaggio da dare: ci ama e vuole che noi ci amiamo. Tutta la fede è qui, da noi non si richiede che l’assenso e la verifica di questo fatto stupendo: Dio è Amore e ci dona l’amore reciproco. Gli studiosi contemporanei concordano nell’affermare che non c’è nulla assolutamente, nella vita e nella predicazione di Gesù, che non fosse possibile affermare o vivere da parte di un qualunque pio ebreo di quel tempo. Contrario è il rabbino Jacob Neusner, secondo il quale Gesù non rispetta la Torah e parla con una disumana autorità. Ancora oggi la preghiera per eccellenza che Gesù ci ha trasmesso, il “Padre nostro”, potrebbe essere recitata senza imbarazzo da tutti o quasi noi occidentali. La sua predicazione incentrata sull’attesa del Regno di Dio era perfettamente ebraica. Non si è mai attribuito esplicitamente titoli messianici o divini (il ché era impensabile per un ebreo monoteista), anzi a chi lo chiama “buono” risponde che solo il Padre è buono (dando così spunti a tutte le teorie subordinazioniste). È dal complesso della sua vita, morte e resurrezione che si compie la sua opera di rivelazione e di salvazione. Ma in realtà, se si esaminano con attenzione i fatti e i detti di Gesù, si può rilevare che il cristianesimo come forma di visione del mondo o di religione è frutto proprio dell’attività di Gesù e non di un ripensamento apostolico o addirittura paolino. Gesù è stato un ebreo che ha osato portare a compimento la Torah. Per questo e per le sua concezione del Tempio è stato ucciso. “Gli si presentò un tale, dicendo: ‘Maestro, qual bene dovrò io fare per avere la vita eterna?’ Gli rispose: ‘Perché mi interroghi riguardo al bene? Uno solo è buono, Dio. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti’” (Mt. 19, 1618). L’ebraismo di quel tempo non era naturalmente identico a quello rabbinico odierno, che iniziò a svilupparsi dopo la distruzione del Tempio, ma era un coacervo di tendenze varie che andavano dai Sadducei ai Farisei, dagli Esseni alla diaspora Alessandrina, molto grecizzata e aperta alle esigenze di un rinnovamento. Dovremo tener conto nell’elaborare una cristologia valida sulla base delle testimonianze evangeliche (sia sinottiche che giovannee) anche dell’ebraicità costitutiva di Gesù, che ha determinato tutta la sua predicazione, non solo sul Regno, ma anche sulla sua persona e sulla sua funzione. Dovremmo tener conto dei vari pregiudizi religiosi che Israele trasmetteva attraverso la lingua materna. Anche Gesù aveva appreso a parlare (esattamente come noi) dalla madre (la lingua materna) e aveva introjettato come noi tutti i pregiudizi, le nozioni di buon senso e tutto ciò che serve a “comprendere” il mondo; tutti questi pregiudizi li ritroviamo nei Vangeli, non come fonte di rivelazione, ma come espressioni storicamente interpretabili. Si tratta della 114


cultura di quel tempo e di quella regione, che traspare da ogni atteggiamento di Gesù.

Il Gesù reale Tra i fatti che conosciamo circa Gesù c’è che era un ebreo nato a Nazareth, un piccolo villaggio di contadini in Galilea. Conobbe Giovanni e fu da lui battezzato presso il Giordano. Che tipo di personalità religiosa mostrava? Scrive Marcus Borg: “Quale tipo fosse Gesù: 1) persona piena dello Spirito; 2) guaritore; 3) maestro di sapienza; 4) profeta sociale; 5) fondatore di movimenti.” 11 Tutte queste note sono evidenti per un lettore dei Vangeli sinottici; forse occorre una chiarificazione sulla “pienezza” dello Spirito. Per Gesù Dio era una realtà empirica, di cui aveva esperienza. Secondo William James si tratta di un’esperienza di prima mano, come accade per i mistici. Non ci inganni questa parola. Molti sono i mistici che vivono nella quotidianità la presenza di Dio come un fatto comune e ordinario. Hanno l’esperienza dell’unione o della comunione col divino nella vita di tutti i giorni. Per questi mistici, come ci insegna Mircea Eliade “il mondo sembra mirabile, e sembra che ci sia una luce che illumina ogni cosa, che bagna ogni cosa con la sua luminescenza. Inoltre, il confine tra sé e il mondo, che definisce il nostro normale stato di coscienza nel rapporto soggettooggetto, diviene labile, comunque meno pronunciato del senso di legame e unione.” (ivi, 79) Tutte queste esperienze sono ineffabili. Paolo scriveva a questo proposito: “Io so di un uomo in Cristo, il quale, quattordici anni fa – se nel suo corpo o fuori del suo corpo, non lo so, Iddio lo sa – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo se nel suo corpo, o fuori del suo corpo, non lo so, Iddio lo sa – fu rapito in Paradiso e udì parole ineffabili, che non è dato all’uomo di poter esprimere” (II Cor., 12, 1-4). Si può solo ricorrere al mito o a un discorso che preveda anche una moltitudine di aspetti. Gesù perciò esperimentava la presenza di Dio continuamente. Egli parlava come se fosse veramente il Figlio di quel Padre che era sempre presente come luce che illumina ogni realtà, ogni avvenire, ogni cammino. Era questa la sua autorità. Non parlava come un Rabbino che commenta ciò che è scritto, ma diceva “Io vi dico” perché la comunione col Padre così gli suggeriva. Dio era concepito da Gesù, come dovrebbe essere da ogni ebreo o cristiano, come trascendente, ma contemporaneamente e più ancora come il Dio che è proprio qui, che è presentissimo, che è intimior intimiore meo. Dio è lo Spirito: sempre presente, nel quale siamo, viviamo. Questa visione si chiama panenteismo. Sia il Vangelo di Marco (il più antico sinottico) sia la fonte Q (ancora precedente) ci presentano Gesù come una persona piena dello Spirito. È lo Spirito che lo por-

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Borg M., Wright N.T., Quale Gesù, Claudiana, Torino, 2007, p. 78.

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ta nel deserto, ed è lo Spirito che gli consente di trascorrere molte ore in intensa preghiera. “In breve, il ritratto di Gesù come persona piena dello Spirito è storia ricordata e non semplicemente metaforizzata. Questa è la base per la mia affermazione secondo cui Gesù era un mistico ebreo: per lui, Dio era una realtà empirica. Conosceva la vicinanza del sacro nella propria esperienza.” (ivi, 83) L’esperienza diretta della paternità divina era all’origine di una forma di sapienza profetica. Gesù parlava in parabole. Esse sono forme di linguaggio che servono per alterare la percezione. Potremmo dire con Wittgenstein che servono per “vedere come”. “Il nocciolo fondamentale della visione di Gesù era la compassione, un termine insolitamente ricco, con echi che dicevano di sentire per il prossimo ciò che una madre sente per i frutti del suo seno. “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” ha detto Gesù. In questo breve versetto, con poche parole si uniscono etica e teologia. (…) I mistici sanno che i confini sociali tracciati sul piano culturale sono, in definitiva, artificiali; in quanto prodotti dall’uomo, sono relativi, e non assoluti.” (ivi, 92) Importante è capire la funzione del Tempio per gli ebrei di quel periodo. Il tempio era il centro del potere ebraico. I sacerdoti e specialmente le famiglie dei grandi Sacerdoti, erano i veri dominatori. Il popolo doveva pagare i tributi chiesti da Cesare, ma doveva anche pagare la decima su tutto ciò che aveva e usava ai Sacerdoti. Inoltre i poveri (per seguire la fraseologia evangelica) erano contadini che avevano perso la proprietà della loro terra. Nel Deuteronomio e nella mentalità ebraica, Dio era il garante e il donatore della Terra, non solo per il popolo, ma anche per il singolo individuo. È per questa ragione che era stato dato a Israele l’anno sabbatico. Nell’anno sabbatico ogni debito doveva essere rimesso; tutte le terre date in pegno di debiti dovevano tornare al legittimo proprietario così che non vi fosse nessuno privo della terra, secondo la volontà del Signore. Ma i Sacerdoti (e i pii farisei che erano studiosi del diritto della Torah) avevano trovato una scappatoia, e al debito facevano seguire un sequestro. Così si era venuta formando una massa di sottoproletariato agricolo che Gesù chiama “poveri”. I farisei inoltre si ritenevano “giusti” perché osservavano tutte le leggi di purità rituale, che non potevano essere praticate tutte dal popolo dei poveri, sia per ignoranza, sia per difficoltà economiche. I poveri erano per questo disprezzati dal potere del Tempio e dal potere filo romano dei farisei. Un fariseo cercava di non aver nulla in comune con i “peccatori”, con il popolo non osservante (basta un contatto fisico per rendere impuro). Gesù invece li accoglieva e mangiava con loro anche non osservando le regole della purità, che per lui non avevano senso. Gesù minava le fondamenta economico politiche d’Israele, perché riteneva e insegnava che Dio rimette i peccati al di fuori di ogni Tempio; non c’è bisogno di sacrifici animali (che erano venduti nel Tempio) né di denari accettati nel tempio per acquistarli, né di sacerdoti sacrificatori (dei macellai sacri). È in questo contesto che bisogna leggere la cacciata dei mercanti dal Tempio (Jo, 2,13-16; anche Mc, 13,1-2): le parole che Gesù usa sono durissime e mai usate da Lui. Gesù spesso dichiara: “I tuoi peccati sono stati perdonati!”. Egli usa il “passivo divino”; non perdona personalmente, ma dichiara che il peccato è perdonato. Il pio ebreo sapeva che per chiedere perdono dal peccato occorreva recarsi al Tempio, 116


cambiare le monete correnti con monete del Tempio, acquistare dai mercanti una pecora da sacrificare e per mezzo del Sacerdote offrire a Dio il sacrificio che avrebbe meritato il perdono. Gesù è contro tutto ciò; Egli ci rivela che non occorre sacrificio e che il Tempio non ha nessuna funzione salvifica, è solo una fonte di guadagno per la casta sacerdotale. Il Tempio è divenuto un luogo di ladroni. Ma Dio non vuole sacrifici, non vuole né digiuni, né mediazioni particolari, Dio è Padre, e perciò ama a somiglianza di un padre umano affettuoso. Dio perdona e accoglie il figlio prodigo senza bisogno di rituali e di offerte riparatrici; ogni sacerdozio è abolito come inutile e corruttore. Il velo del Tempio alla morte di Gesù si spaccò: l’accesso al Dio vivente è da allora aperto a tutti e non solo ai sacerdoti. Il nuovo Patto importa la libertà alla comunione con Dio per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. La sua politica nei confronti del Tempio fu l’accusa principale per decidere sulla sua consegna all’autorità romana e alla morte. È il Padre di Gesù il Dio che noi adoriamo e non il Dio della Legge della ainagoga o della moschea. Il Dio che Gesù ci ha mostrato con la sua vita e le sue parole. È per questo che siamo “cristiani”: perché per noi Dio è solo il Padre di Gesù. Il banchetto era stato da sempre nella cultura ebraica il simbolo della comunione tra gli uomini e con Dio. Così i Profeti descrivevano la Gerusalemme celeste. Il mangiare insieme il pane e il sale era simbolo di un patto fraterno indissolubile. Se mangio insieme a prostitute e peccatori è segno che ogni distinzione economica, politica, razziale, sociale, morale, eccetera, è abolita. È ancora così nella nostra Eucarestia. “Uno dei tratti distintivi più impressionanti era l’abitudine di Gesù di condividere i pasti; i pasti di Gesù, anticipazioni della cena del Signore, incarnavano la sua visione sociale alternativa (…) In quanto mistico ebreo, che cosa sapeva Gesù? Sapeva guarire, sapeva creare detti e storie memorabili, aveva un’intelligenza metaforica. Sapeva che Dio era accessibile agli emarginati perché anche lui era un emarginato; sapeva che la tradizione e le convenzioni non sono sacre in se stesse ma, nel migliore dei casi, mediatrici del sacro e, nel peggiore, una trappola. Conosceva un ordine sociale oppressivo e basato sullo sfruttamento, che si auto legittimava nel nome di Dio, e sapeva che quella non era la volontà di Dio. E sapeva tutto ciò perché conosceva Dio.” (ivi, 96-98) Ogni volta che ci riuniamo per mangiare e bere il pane e il vino nella cena eucaristica, noi rinnoviamo la speranza del banchetto celeste e ritroviamo il Gesù vivo e vero a gloria del Padre e nello Spirito. Oltre al mangiare e bere con tutti, senza distinzione di purità o impurità propria della cultura ebraica, oltre alla polemica contro il potere dei sacerdoti e contro il Tempio divenuto un volgare mercato con la scusa di rendere gloria al Padre, Gesù entra in polemica e in lotta anche su un altro tema fondamentale in quella cultura: quello della famiglia e della sessualità. Può apparire strano a noi, abituati alla predicazione delle chiese a favore della famiglia. Dobbiamo partire, per comprendere, cos’era la famiglia in Giudea nel primo secolo. L’uomo, come individuo, allora non esisteva. L’uomo aveva valore perché era inserito in una famiglia ed era in funzione della famiglia che doveva vivere. L’uomo 117


era mortale e transeunte, mentre la famiglia doveva essere immortale. La famiglia era l’istituzione permanente in un mondo dove tutto era arbitrario e diveniente. La donna, come moglie o come concubina, o come le altre donne della famiglia erano proprietà del capofamiglia, non perché ci fosse un eccesso di maschilismo, ma perché l’uomo era il capo della famiglia al cui servizio era tutta la struttura familiare. L’uomo, a sua volta, era al servizio della famiglia. I figli contavano solo perché avrebbero servito la struttura familiare: i maschi facendo sopravvivere la discendenza paterna, e le femmine perché avrebbero servito a stringere alleanze con altre famiglie sperabilmente di buona condizione e quindi avrebbero ampliato l’importanza del nome. I bambini, in quanto bambini, non avevano nessuna importanza, erano gli ultimi nella scala gerarchica familiare, pressappoco a livello degli schiavi. Anche i figli, esattamente come le mogli, erano un possesso, una proprietà del padre. L’adulterio (il sesto comandamento) era un divieto di furto, era un rubare un utero a un altro uomo e privarlo della sua legittima proprietà. Il divieto del sesto comandamento non riguardava gli uomini, nel senso che l’uomo poteva avere tutte le donne che voleva dentro o fuori del matrimonio, ma non doveva prendere la donna che apparteneva a un altro uomo. Poteva prendere solo le donne che gli venivano cedute dal padre (altre mogli o concubine) poteva prendere le donne schiave, o le prostitute che essendo pubbliche non appartenevano a nessuno. Il sesto comandamento non riguardava la sessualità, ma riguardava il diritto di proprietà. Così anche il nono comandamento vieta di desiderare la casa, o il bue o l’asino o la moglie di un altro. È proibito ogni tipo di furto, è una difesa della proprietà non tanto privata quanto invece familiare. La donna infatti non era solo proprietà del marito, ma era più esattamente proprietà della famiglia. Questa era la ragione della legge del levirato, per cui se alla morte del marito la moglie non avesse avuto un figlio, ella doveva essere presa come moglie dal fratello del marito e i figli eventuali avrebbero portato il nome del fratello morto. Come scrive William Countryman: “L’etica della proprietà sessuale includeva nell’antico Israele sia il quadro ideale a cui si doveva tendere, sia una serie di divieti che indicavano quello che si doveva evitare. L’ideale definiva la famiglia come la pietra fondamentale nella costruzione della società; essa consisteva di un capo maschio, il quale possedeva una o più donne come mogli o concubine, e dei figli che avrebbero portato avanti la famiglia (i maschi), o che sarebbero stati usati per fare delle alleanze con altre famiglie (le femmine). 12 Per citare alcuni passi dei Vangeli ricordiamo come Gesù chiami alla sua sequela Giacomo e Giovanni che stavano lavorando insieme al loro padre Zebedeo ed “Essi lasciando subito la barca e il padre loro, lo seguirono” (Mt. 4,22; cf. Mc 1,20). Ora il primo comandamento della seconda tavola obbliga a onorare il padre e la madre, e veniva letto come il comando di sostenere, aiutare, seppellire i genitori; tutto questo viene relativizzato da Gesù. Molte delle chiamate di Gesù comportano l’abbandono di tutta la famiglia. Egli viene presentato come un dodicenne che si disinteressa dei preoccupati genitori; abbandona la madre per percorrere la Palestina suscitando la

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Countryman W., Sesso e morale nella Bibbia, Claudiana, Torino 1998, p. 181.

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perplessità della sua famiglia. Chi preferisce la famiglia a Gesù non è degno di Gesù, ma chi lascia padre e madre sarà ricompensato, come Gesù dichiara agli Apostoli sbalorditi. Quando Maria, madre di Gesù, insieme ad alcuni suoi fratelli venne a cercarlo credendo che Egli fosse fuori di sè, Gesù dichiarò: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’ Poi gettando uno sguardo sopra coloro che erano seduti in cerchio intorno a lui, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli. Chiunque fa la volontà di Dio egli è mio fratello, mia sorella e mia madre’” (Mc. 3,31-35). Appare evidente da tutto il contesto evangelico che Gesù relativizza la famiglia di sangue e che invece fonda una nuova famiglia: quella dei suoi seguaci. È con loro infatti che lo vediamo assiso per la cena pasquale, o comunque ultima, per celebrare il suo addio. Ora era doveroso celebrare la Pasqua in famiglia dove il padre o chi ne faceva le funzioni presiedeva e spezzava il pane all’inizio del pasto e benediceva Dio per il vino facendo passare il calice perché tutti ne bevessero. La famiglia vera di Gesù dunque non è quella della sua carne ma quella dei suoi prescelti. La famiglia è così relativizzata rispetto alla sua centralità e importanza nell’ebraismo d’allora, e i maschi che seguono Gesù debbono rinunciare a quella supremazia che avrebbero avuto fondando una loro famiglia. Più importante ancora è la parabola detta del figlio prodigo (Lc. 15, 11-32). Il comportamento del padre sarebbe stato scandaloso al tempo di Gesù. A quel tempo c’erano dei rapporti gerarchici molto ben tracciati; non leggiamo la parabola con gli occhi nostri perché per noi, post-Gesù, è naturale che un padre abbracci un figlio ritrovandolo. A quel tempo un figlio (proprietà del padre) che pretende la sua parte di eredità e la spreca ledeva decisamente il diritto di tutta la famiglia di cui era proprietà. Qui Gesù sovverte il costume ebraico tradizionale. Inoltre Gesù dichiara che l’uomo e la donna sono pari quanto ai diritti e che non c’è un maschio a capo della famiglia che possiede delle donne. Gli fu posta la questione del divorzio. Ora la Torah concede il diritto all’uomo soltanto di divorziare. Questo diritto era più o meno ampio a seconda delle interpretazioni rabbiniche. Due erano le scuole al tempo, la scuole di Shammai che riteneva il divorzio lecito solo in seguito a fatti gravi. Secondo la scuola di Hillel un uomo poteva divorziare quasi senza nessun motivo. Gesù non entra nella disputa tra le scuole ma si richiama al Genesi (Gen. 1, 27): “Dal principio li creò maschio e femmina”. Quindi ambedue sono dal principio immagine di Dio e godono di pari diritti. Se la donna non può divorziare allora neanche l’uomo può. Perché il matrimonio non è un contratto come gli altri, ma i due sposi “formano una sola carne”, cioè si stabilisce tra loro un legame che è d’origine creaturale e che dunque dipende da Dio. La famiglia del nuovo testamento è la comunità dei seguaci di Gesù: questa è la sola realtà che conta. Non esiste più né uomo né donna, né libero né schiavo, né straniero né compatriota; tutti siamo figli dello stesso Padre.

I titoli cristologici I vari “titoli” che vengono attribuiti a Gesù nelle fonti evangeliche non stabiliscono “chi” sia Gesù, ma al contrario è la persona di Gesù che dà significato agli attributi 119


che di lui si dicono: Gesù è il “Signore”, è “il Figlio dell’uomo”, è il “Figlio di Dio”, Gesù è il “Messia”. Tutti questi titoli vogliono dire che Gesù non è stato un uomo ordinario, ma che in Lui si è rivelato in modo unico il volto del Padre. Illustrano gli aspetti differenti sotto i quali possiamo vedere l’opera di Gesù. Non debbono essere presi alla lettera, come siamo tentati di fare noi occidentali odierni, abituati a prendere le parole alla lettera, abituati allo scientismo della nostra cultura. “Figlio di Dio” era un titolo che veniva attribuito a Imperatori, eroi, grandi personaggi dell’antichità e non significava nulla di straordinario, erano titoli d’onore, come tutti i nostri titoli onorifici. Alcuni di questi titoli sono di origine greca, altri di origine ebraica; ma tutti vengono usati non per definire Gesù, ma per distinguerlo dal “Padre”, che nel Nuovo Testamento è titolo attribuito solo a Dio. Se non si tiene presente questo si rischia di ritenere per rivelato che Gesù è “figlio” in modo quasi fisiologico del Padre, il che sarebbe errato. Gesù rivela il Padre, ma il rapporto tra i due deve ancora essere chiarificato, specialmente nella teologia pastorale. Chiarissimo è ciò che scrive Ratzinger: “Il concepimento di Gesù è una nuova creazione, non una procreazione da parte di Dio. Dio non diventa così il padre biologico di Gesù e tanto il Nuovo Testamento quanto la teologia della chiesa non hanno in sostanza mai visto in questo racconto, e nell’evento ivi narrato, il fondamento per la vera divinità di Gesù, per la sua ‘figliolanza divina’. Questa, infatti, non significa assolutamente che Gesù è mezzo Dio e mezzo uomo, ma per la fede è sempre stato fondamentale il fatto che Gesù è interamente Dio e interamente uomo… La figliolanza divina di Gesù, secondo la fede ecclesiale, non poggia sul fatto che Gesù non abbia alcun padre terreno; la dottrina della divinità di Gesù non verrebbe intaccata qualora Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano… Non c’è dubbio: la formula della filiazione divina ‘fisica’ di Gesù è quanto mai infelice e ambigua”.13 Ora appare evidente che la “fede” non può avere delle prove di natura storica. La fede non si basa su un fatto storicamente indagabile, però neppure su una base totalmente irrazionale. L’analisi storica deve essere accurata perché è il fondamento logico della interpretazione di fede. Che Gesù sia stato veramente il Cristo (nel senso cristiano) ha solidissime ragioni storicamente dimostrabili. È il kerygma che fonda e rende razionale tutta la cristologia, com’è evidente. Nella costituzione conciliare del Vaticano II Dei Verbum 19, si afferma: “Gli autori sacri scrissero i quattro vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o anche in iscritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con riguardo alla situazione della Chiesa, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità”.

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Ratzinger J., Op.cit., p. 265-266.

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La ricerca storica si occupa della ricostruzione dei fatti mentre la ricerca teologica si occupa delle interpretazioni che ne scaturirono. Poiché la teologia è “intellectus fidei”, occorre che ogni generazione ripensi e ripresenti nel linguaggio e nella categorie del teologo gli stessi avvenimenti storici e l’interpretazione che renda comprensibile il perché della risposta di fede.

Le cristologie evangeliche. Come leggere i quattro Vangeli canonici e come ritrovare in essi il Gesù che visse e operò circa due secoli prima? Le cristologie neo-testamentarie comportano delle differenti implicazioni dogmatiche. È il problema di quale interpretazione dare (da parte dell’agiografo, non del lettore) al “fatto” bruto della vita, delle opere e della morte di Gesù. Che Gesù sia il Figlio di Dio, che sia il Messia, che sia l’intermediario tra Dio e noi, viene deciso prima della scrittura dei Vangeli e non dipende dai fatti che poi saranno narrati, ma saranno narrati dei fatti che confermeranno la cristologia che abbiamo abbracciato. La vita di ognuno di noi è un mistero; neppure noi sappiamo con certezza perché “ci” siamo o che senso dobbiamo dare complessivamente alla nostra vita e alla nostra attività pragmatica, o intellettuale che sia. A fortiori la vita di un Profeta, o di un Messia, o di Dio incarnato sarà misteriosa e di difficile comprensione. Gesù appariva come un uomo tra gli uomini, era nato da una donna e da un uomo, era nato in un posto sperduto e insignificante (non può venire nulla di buono da un borgo della provincia: “Sei forse della Galilea anche tu? Esamina le Scritture e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta”, Gv. 7, 52), aveva predicato sulla linea dei Profeti itineranti del tempo (sull’esempio e solo dopo la predicazione e la morte di Giovanni, detto il Battista), era poi stato condannato alla crocifissione dalle autorità legittime di quel tempo. Nulla di particolare. Particolare è stata la “lettura” dell’evento Gesù, data dal gruppo che gravitava intorno a lui e che cambiò totalmente da prima della morte (prima della Pasqua), a dopo la Pasqua (predicazione postpasquale). Si passò dalla predicazione del “Regno di Dio” di Gesù, alla predicazione apostolica sull’opera e sulla persona di Gesù stesso (in quanto in Lui si era reso già presente, anche se non ancora totalmente, il regno di Dio). Siamo nel I secolo. Gli ebrei già allora (dalla deportazione di Babilonia in poi) si erano diffusi in tutto il mondo mediterraneo, e formavano comunità, chiamate nei paesi di cultura greca o romana, ebraico-ellenistiche. Agli ebrei si univano alcuni pagani attratti dal monoteismo assoluto e dal rigore morale, che erano chiamati “proseliti”, ovviamente di formazione ellenista (in quel tempo l’ebraismo aveva ancora una funzione missionaria, che poi ha perduto per motivi storico-politici). Anche una certa mentalità d’origine non ebraica, ma ellenica, si era abbastanza diffusa nella Palestina dell’epoca, dominata prima dai sovrani ellenistici (dopo Alessandro il grande) e poi dalla dominazione romana. Il Libro dei Maccabei (canonico per i cattolici, ma non per gli ebrei e i protestanti) narra dell’eroismo della resistenza alla forzata ellenizzazione che dovette subire il popolo ebraico sotto il regno di Antioco Epifane e della gloriosa opposizione della famiglia dei Maccabei, d’origine sacerdotale (resistenza vittoriosa che ancora si celebra nella festa ebraica di Hannukà). Gli ebrei di quel tempo erano perciò distinguibili culturalmente in due grandi gruppi: gli ebrei della Palestina, che avevano una mentalità e delle necessità più tra121


dizionali e più caratterizzate dalla religiosità tipicamente ebraica (che consisteva soprattutto nella Legge e nel Tempio). E gli ebrei della diaspora, che erano culturalmente grecizzati e che sentivano più lontane le esigenze della fedeltà al Tempio e alle regole della purità legale. Era difficile, come lo è anche oggi per un ebreo, vivere in un paese non ebraico e non partecipare a nessun banchetto, a nessuna festa, a nessun rito; non accettare nessun invito da parte di chiunque, perché il cibo delle feste e delle tavole pagane non erano kasher, cioè non erano secondo le leggi della Halakah. Era difficile separarsi dalle società pagane, non adorare ciò che tutti ritenevano esser giusto adorare (l’imperatore per esempio), non fare nessuna cosa che gli altri facevano; per questo gli ebrei della diaspora cominciavano a relativizzare l’osservanza rigorosa della Legge (almeno in teoria se non nella prassi). Ma gli ebrei rimanevano assolutamente monoteisti e recitavano più volte al giorno lo “shemah”, come fanno tutti gli ebrei, come sempre ha fatto Gesù. Era in loro vivissimo il senso di essere il popolo dell’unico Dio (l’assoluto monoteismo della Torah) anche se alcuni elementi d’origine greca potevano aver fatto presa sulla mentalità comune del popolo. Gli ebrei della diaspora (particolarmente la comunità, molto numerosa, di Alessandria), erano ellenizzati abbastanza da aver dovuto tradurre la Bibbia in greco perché non comprendevano più esattamente l’ebraico o l’aramaico (la lingua comune della Palestina di quel tempo). La Bibbia tradotta in greco è quella che ancora oggi si chiama “I Settanta” perché, secondo la tradizione, fu tradotta da settanta saggi. I Settanta furono considerati perciò in Occidente come un testo rivelato e su quello si fondarono le traduzioni latine (anche se le differenze e le imprecisioni sono numerose, per noi che oggi abbiamo accesso all’originale). In Palestina, a Gerusalemme, ci narrano gli Atti degli Apostoli, all’inizio della predicazione apostolica, c’erano due comunità distinte, entrambe ebraico-cristiane, e che vengono chiamate degli ebrei e dei gentili, o degli ellenisti. Gli uni guidati presumibilmente dai Dodici (Apostoli), e gli altri dai Sette (Diaconi, che erano stati voluti dai Dodici). C’era stato un dibattito tra le due comunità a causa degli aiuti economici alle vedove, per l’accusa di aver avvantaggiato le vedove ebree sulle vedove greche: “Or, in quei giorni, essendo cresciuto il numero dei discepoli, gli Ellenisti cominciarono a mormorare contro gli Ebrei, perché nella distribuzione che veniva fatta ogni giorno, erano trascurate le loro vedove. I Dodici convocarono allora la moltitudine dei discepoli e dissero: ‘Non è bene che noi abbandoniamo la parola di Dio per servire alle mense. Scegliete dunque fratelli, fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza e affideremo loro quell’ufficio’” (Act. 6, 1-3). Il primo martire cristiano in Gerusalemme fu Stefano, che era appunto uno dei Sette; la persecuzione anti-cristiana da parte dei sacerdoti del Tempio non era contro i cosiddetti giudeo cristiani, ma solo contro “i greci”, che mettevano in dubbio l’esatta applicazione della Legge. La persecuzione di cui narrano gli Atti era basata sulla osservanza della Legge e sull’importanza del Tempio; non c’è mai stata una persecuzione dei cristiani fedeli al Tempio e alle tradizioni giudaiche. Non è stata quindi 122


una persecuzione anti-cristiana, ma solo contro la mentalità paganeggiante degli ebrei-ellenisti. Il cristianesimo gerosolimitano delle origini fu semplicemente una delle varie forme di giudaismo; il cristianesimo come religione autonoma faticò molto per affermarsi; e si affermò solo dopo la distruzione di Gerusalemme. Nell’Impero romano c’erano delle comunità ebraiche più o meno influenzate dalla mentalità greco romana. L’apporto greco era di stampo razionalista e tendeva a giustificare la dottrina che si andava formando sul modello dei filosofi del mondo classico, mentre l’influenza romana si basava maggiormente su una mentalità giuridica che ebbe notevole influenza nello stabilire il senso e il significato profondo di ciò che chiamiamo “dottrina della giustificazione”. Essa venne intesa, infatti, come una dottrina “giuridicamente” fondata sul modello della riparazione del delitto di “lesa maestà” nei confronti dell’Imperatore romano. Scrive Hans Kueng: “Quel grande dissidente di Nazaret era allora venuto, fondamentalmente, non per abolire la legge di Dio, ma ‘per portarla a compimento’. In questo senso gli ebrei, che allora lo seguirono e volevano restare fedeli, almeno in linea di principio, alla legge ebraica, si richiamavano correttamente al loro maestro. In quanto ebreo tra ebrei lo stesso Gesù aveva vissuto in piena fedeltà alla legge; egli non è stato un antinomista. Tuttavia il detto conservatore di Matteo, secondo cui non passerà dalla legge neppure uno iota o un segno finché non siano passati il cielo e la terra, per la maggior parte degli esegeti contemporanei non sarebbe affatto una parola autentica di Gesù, ma una creazione del giudeo-cristianesimo rimasto fedele alla legge – contro la comunità cristiana proveniente dal paganesimo che rifiutava la legge cerimoniale o contro quella ebraico-ellenistica che nei confronti di tale legge aveva un atteggiamento critico. Significativa l’aggiunta matteana, che va considerata come principio interpretativo del Discorso della montagna, secondo cui la ‘giustizia’ del discepoli di Gesù deve essere ‘molto più grande di quella degli scribi e dei farisei’. Già questo evidenzia ancora una volta che Gesù non era certamente un antinomista, ma a maggior ragione non era un fariseo devoto alla legge. Che cosa si proponeva?”.14 Prosegue l’Autore rispondendo: “Il rabbi di Nazaret non ha respinto l’osservanza dei comandamenti. Ma avendoli posti tutti con grande audacia sotto il comandamento principale dell’amore di Dio e degli uomini, ha nettamente relativizzato i singoli precetti in maniera diversa che nella Torà: li ha relativizzati a favore dell’uomo”. (ivi, 540) Molti sono stati i gruppi che avevano seguito Gesù e che hanno partecipato alla composizione degli elementi delle tradizioni che sono poi confluite nei Vangeli. Confluite naturalmente in maniera e secondo rapporti differenti. Per cui si potrebbe dire che il Vangelo di Matteo è stato scritto secondo la mentalità di un gruppo di fedeli ebrei, o comunque viventi in Palestina, fedeli alla Legge e che avevano avuto probabilmente come guida Simone (detto Pietro) e Giacomo, fratello del Signore. 14

Küng H., Ebraismo, Mondadori, Milano 1993, p. 543.

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I Vangeli di Luca e Marco rispecchiano invece la predicazione, molto influenzata da Paolo, di chiese della diaspora e che appartengono alle comunità ebraicoellenistiche (dei paesi del mondo ellenistico) e comunità ebraico-romane. Il Vangelo di Giovanni, invece, è stato composto da comunità probabilmente ebraiche, forse anche con molti proseliti, che avevano subito molto l’influenza della “gnosi” che giungeva in Palestina e nell’Impero romano dall’Oriente (e che dette in seguito grandi problemi all’ortodossia cristiana). Deve essere chiaro che non sono i “fatti” (la nascita, la vita, la predicazione, la personalità di Gesù, la sua morte e il sepolcro trovato vuoto al terzo giorno) che formano il “depositum fidei” della Chiesa, ma è la “fede” nella natura straordinaria, quasi divina o comunque di “mediatore” di Gesù. L’attribuzione a Gesù dei nomi messianici non derivava dalla lettura dei Vangeli (non ancora scritti), ma sono i Vangeli che sono stati scritti per testimoniare la fede nella messianicità di Gesù. È solo da questa fede che deriva tutta la speculazione successiva sulle dottrine dell’Incarnazione e della Trinità. I primi seguaci di Gesù (quelli che sono vissuti più o meno nella stessa sua epoca), e che lo hanno seguito nel suo pellegrinare e anche quelli che hanno aderito alla sua predicazione da subito erano degli ebrei pii, di lingua e cultura aramaica, fedeli al Tempio, che non intesero mai mettere in discussione né la legge, né il monoteismo ebraico, né l’essere legati alla terra: la terra promessa al popolo a fondamento della Alleanza con il Dio unico dei Padri. Erano chiamati Nazareni o anche Ebioniti (da ebionim, che significa poveri, in ebraico) o con altri nomi che non sono pervenuti fino a noi; queste comunità persero ogni importanza e ogni influenza sul nascente cristianesimo soprattutto dopo la distruzione di Gerusalemme, perché un gran numero di ebrei, anche cristiani, furono uccisi nella guerra giudaica. Quelli che restarono vivi si sparpagliarono nei diversi paesi e così separati e disuniti persero ogni influenza sulla nascente Chiesa. “Gli ebioniti erano una proliferazione di quella forma specificamente giudaica di cristianesimo che fu una potente forza nell’età apostolica, quando soltanto con difficoltà si poté evitare che essa gravasse la Chiesa della piena osservanza della legge giudaica. La rapida espansione del cristianesimo non-ebreo segnò la forzata diminuzione della sua influenza; la dispersione della principale comunità da Gerusalemme alla Transgiordania, allo scoppio della guerra giudaica (66 d.C.), completò il suo isolamento. Dopo questa data il cristianesimo giudaizzante ci appare qua e là solo di sfuggita; di fatto sembra che si sia disperso in gruppi frammentari. Alcuni, spesso chiamati nazareni, pur obbedendo strettamente alla legge e preferendo un vangelo giudaizzante loro proprio, erano perfettamente ortodossi nel credere che Gesù era il Figlio di Dio. Distinguendosi da questi, gli ebioniti rifiutavano la nascita verginale, considerando il Signore un uomo nato normalmente da Giuseppe e Maria; Egli era il Messia predestinato e in tale funzione ritornerebbe a regnare sulla terra.”15

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Kelly J., Il pensiero cristiano delle origini, Il Mulino, Bologna, p. 201-204.

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Un secondo gruppo era quello che abitava nella diaspora e che non parlava e non capiva più l’aramaico, ma parlava greco. Questa comunità aveva esigenze religiose più complesse e non riteneva fondamentali né il Tempio gerosolimitano né le norme legali (in particolare la circoncisione e i divieti alimentari), che erano disprezzate in terra ellenizzata. A questo gruppo si può far rifermento come al gruppo, dapprima ebraico e poi sempre più composto da greco-romani convertiti, che fu in seguito guidato da Paolo e dai suoi successori. Un’altro gruppo era una comunità prevalentemente ebraica e forse abitante nella stessa Palestina, ma intellettualmente grecizzato e teoricamente o almeno linguisticamente in parte conquistato dalla gnosi e dal dualismo di origine orientale che ha visto in Gesù il Rivelatore della nostra comune origine dal Padre della Luce. Si ha la contrapposizione tra il Rivelatore della luce e le tenebre del mondo che non lo hanno compreso; c’è in nuce il dualismo e la terminologia del futuro gnosticismo cristiano. La luce e le tenebre sono qui il fondamento del dramma cristologico. Il “Logos” è la luce che è venuta nel mondo, ma il mondo non l’ha compresa e le tenebre hanno cercato di sopraffarlo. La luce è venuta in mezzo a noi, ma il mondo, con la sua carica di peccato, l’ha respinta. I Vangeli apocrifi sono in gran parte degli scritti gnostici. Gesù qui sarebbe il rivelatore che ci ha portato la “conoscenza” (la gnosi) che c’è in noi una scintilla di luce divina e che dobbiamo staccarci dalla materia e ricongiungerci alla Luce divina. Gesù è quindi un “Maestro” che rivela una verità ignota alle masse e conosciuta solo da chi viene iniziato a questi misteri. Fino al IV secolo, prima della imperializzazione del cristianesimo (prima della Chiesa Costantiniana), si poteva essere cristiani in tutte le varie modalità che questa forma di religione aveva assunto. Certo, nelle ricostruzioni attuali della Chiesa cattolica (o della grande chiesa) si dà l’appellativo di “eretici” nei confronti di quei Padri che non la pensavano come “oggi” pensa il cattolicesimo (come se nel cattolicesimo non ci fosse stata un’evoluzione e la fede fosse ancora identica a quella delle origini), e si dà l’importanza massima ai Padri che nella predicazione possono essere presi per precursori del cattolicesimo; o comunque precursori della teologia scaturita dai primi quattro Concili (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia). La Chiesa si disse “Cattolica”, cioè universale, perché è stata presente contemporaneamente in ogni parte del mondo occidentale dell’epoca, mentre gli eretici non avevano avuto modo di espandersi molto a causa della ostilità imperiale, e quindi non poterono dirsi universali. È cattolica anche perché non si ‘nasce’ in una chiesa ma si sceglie di entrarvi, in contrapposizione all’ebraismo del tempo. Cattolica significa universale, cioè aperta a tutti: circoncisi o incirconcisi, uomini o donne, bianchi o neri, buoni o cattivi, preti o prostitute. Per una lettura della figura di Gesù che ne evidenzi la natura umana, occorre leggere gli Evangeli mettendo tra parentesi sia l’impostazione narrativa, sia l’impianto miracolistico, sia gli sforzi di cristizzazione che talvolta gli Autori compiono. Gli autori neotestamentari avevano a disposizione delle fonti palestinesi, e scrivevano per comunità prevalentemente ebraiche. Hanno concepito Gesù come il nuovo Mosè. Quindi hanno messo insieme un complesso di racconti che dimostrasse la somiglianza di Gesù con Mosè. Mosè fu salvato dalle acque perché Faraone voleva uccidere tutti i maschi ebrei; Gesù fu salvato dalla strage degli innocenti. 125


Mosè fu in Egitto, e Gesù fuggì in Egitto; Mosè fu richiamato dall’Egitto come Gesù; nel deserto ci furono le tentazioni del popolo e Gesù fu tentato nel deserto; Mosè ricevette la Legge sul monte e Gesù proclamò le beatitudini sul monte; Mosè raccolse le dodici tribù d’Israele e Gesù chiamò a sé i dodici Apostoli, e così via. In questa ottica le profezie che si dichiarano adempiute non hanno molto significato per noi moderni. Per un lettore ebreo invece era importante che tutto fosse previsto nella Scrittura. Ma la funzione del Profeta non è quella di prevedere il futuro, egli parla in nome di Dio. La particella ‘pro’ significa ‘in luogo di’ ‘a nome di’. Ma le Scritture (che noi chiamiamo Antico Testamento) furono per la chiesa primitiva l’unica fonte di rivelazione, dovevano essere rilette con ottica cristiana. Oggi è meglio tener presente questa necessità di una nuova interpretazione che fu compiuta per evitare l’eresia marcionita. Il Dio di Mosè è proprio il Padre del Signore Gesù Cristo, è il Dio dell’amore e non il dio della Legge e della giustizia retributiva. Non dà a ciascuno il suo, ma dà a tutti il Suo amore. Il Nuovo Testamento non sarebbe più intelligibile senza la sua stretta dipendenza dall’Antico. I miracoli sono forse una difficoltà per l’intellezione di Gesù. Senza miracoli sarebbe tutto più chiaro ai nostri occhi di scientisti e post positivisti. Occorre considerare i miracoli come strumenti narrativi che illustrano i concetti esposti. Paolo stesso scrive che mentre i greci chiedono prove razionali per credere nella salvezza gli ebrei chiedono miracoli. Se Gesù può guarire un malato, rendere la vista o mondare dalla lebbra ciò significa che Dio è con Lui. È una prova della divina missione. Perché il Dio che ha resuscitato Gesù non dovrebbe aver compiuto dei miracoli per autenticare la sua missione? La parola “miracolo” ha oggi un significato che non aveva nel primo secolo. Miracoloso era quell’avvenimento che suscitava meraviglia, che era “mirabile” (da mirum), a prescindere se violasse o no le leggi fisiche che allora erano sconosciute. Gesù con i suoi miracoli e tutta la sua vita significò che Israele era davvero il sacerdozio santo di Dio, Egli ne divenne il Tempio, guidò il nuovo Esodo, e proclamò la Pace, quella pace che il mondo non può dare. Gesù non fu un sacerdote, non fu un asceta, non digiunò, non organizzò i suoi discepoli come un ordine religioso, non evitò i peccatori, non ebbe difficoltà a rapportarsi con le donne, non si separò dal mondo, non considerò lo stato un male, riconobbe a Cesare il diritto al tributo, non fu un filosofo, non volle essere servito ma servì. In una parola fu un laico, lontano dal culto dei sadducei, lontano dalla giustizia dei farisei, lontano dal fanatismo degli zeloti, lontano dal dogmatismo degli esseni; fu uno specchio della volontà del Padre: “chi vede me vede il Padre”. Dove troviamo allora il Gesù vivo? Nella sua predicazione e nella sua vita quotidiana. Le parabole sono dei racconti meravigliosi che ci dicono tutto il suo messaggio. Occorre leggerle con orecchio attento a raccoglierne tutti i differenti aspetti. Si tratta di tener contemporaneamente presenti due realtà rivelate: Dio è assolutamente uno (Adonai echad) e contemporaneamente Gesù è apparso tra noi come avente più “autorità” di un Profeta, tanto da poter essere descritto come un intermediario tra Dio e noi. Le due verità devono essere tenute come simultaneamente vere, anche se non sappiamo bene come armonizzarle: tutto ci sfugge nel discorso su Dio. Questo è stato il difficilissimo compito della chiesa apostolica: elaborare una fede nell’unico Dio ma affermare che Gesù è il Signore della storia. È il Dio unico del monoteismo ebraico Colui che si è manifestato in Gesù e che lo ha elevato a Sé. 126


L’uso di filosofie elleniste nel IV° secolo è stato necessario: si doveva rendere possibile un discorso razionale sul fatto di questa manifestazione; la si chiamò ‘incarnazione’ e la si volle rendere accessibile con concetti filosofici. Il Verbo divenne la seconda ‘Persona’ del Dio trino. Parlare di ‘persona’ è difficile e può essere anche equivoco, perché ancora non sappiamo abbastanza sull’argomento. Però sembrerebbe naturale pensare che la persona sia differente dall’io, anzi dagli io. Essere una persona (per noi uomini) non è un fatto “biologico”, ma piuttosto un fatto “culturale”. I Vangeli debbono essere letti con la semplicità della fede e non con le disquisizioni della filosofia. I ‘sapienti’ non debbono essere necessari per l’intelligenza della fede. La sua vita di fanciullo non avrebbe riservato nulla di straordinario; come tutti i bambini avrebbe imparato la lingua “materna” dalla Madre, e così avrebbe introjettato tutta la cultura che la lingua trasmette, tutti i preconcetti che sono necessari per la vita, tutta la religiosità dell’epoca a cui sarebbe rimasto fedele per sempre. Nella ipotesi dei teologi come Paolo di Samosata, l’incarnazione non consisterebbe di due differenti nature (quella umana e quella divina) unite in una sola persona e Gesù non avrebbe avuto due volontà (divina e umana); la sua morte sarebbe stata accidentale e avrebbe il significato ‘morale’ (come voleva il monaco Pelagio, scomunicato nella disputa con Agostino d’Ippona) di un netto rifiuto al compromesso con tutte le forme del potere, religioso e imperiale; la sua resurrezione (o meglio il sepolcro vuoto con le apparizioni) sarebbe segno di quella sorte dopo la morte, la resurrezione, che ci attende tutti, perché il Dio creatore non può lasciare al dominio del nulla le sue creature. Gesù, anche in una visione contemporanea è l’uomo che rivela il Padre e che nulla lascia di non rivelato della volontà salvifica del Padre; Gesù è il mediatore, nel senso che in lui e per mezzo di lui noi conosciamo il Padre. L’umanità di Gesù risplende nella sua passione. Il grido di Gesù nell’orto degli ulivi ‘Padre allontana da me questo calice’ indica che la morte, la sofferenza, l’abbandono di Dio, furono veramente avvertiti da Gesù-uomo. La natura divina ovviamente non percepì l’abbandono del Padre. La morte per Gesù uomo fu simile alla morte di ogni uomo (questo significa che discese agli inferi) e Gesù non ‘sapeva’ che dopo tre giorni sarebbe stato resuscitato. Non è stata una recita a nostro uso la passione di Gesù. Gesù ha detto (secondo Matteo 12, 28): “Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto tra voi il Regno di Dio”. Oggi sembra che questo sia uno dei punti di maggiore difficoltà, infatti la credenza in un essere demoniaco o nemico assoluto di Dio è di difficile concezione per noi. È vero che si tratta di un dato di fede (e cioè di un simbolo mitico) e non di un dato di fatto, ma è difficile per noi moderni crederlo. Nell’Antico Testamento c’è una presenza di Satana, uno degli esseri celesti, degli angeli, che sta alla corte di Dio e che ha il compito di accusare, di insinuare il dubbio sulla rettitudine degli uomini presso Dio. Ovviamente questa deve essere considerata una forma letteraria favolistica. Ogni azione di Dio che avviene riguardo al mondo concreto delle cose o degli uomini viene attribuito a creature intermedie (angeli) per non compromettere l’assoluta trascendenza di Dio. Queste creature però sono la “personalizzazione” dell’azione divina e non implicano l’esistenza reale degli angeli stessi. Gesù scacciava i demoni: questo era un segno per gli ebrei di allora che il 127


Regno di Dio era presente nella persona di Gesù. Egli in questo modo ha solo espresso il ‘comune sentire’ del suo tempo e della sua cultura, perché si credeva che le malattie fossero un segno indubbio della presenza del demonio nel malato. Egli manifestava la sovranità di Dio e rivelava il Padre, solo in quanto concerne la nostra salvezza, e non nei vari pregiudizi del suo tempo.

Il Cristo delle chiese. Accenno brevemente al passaggio che si rese necessario per le chiese del III° secolo dalla struttura economica della salvezza alla sua struttura ontologica. Parlo delle chiese al plurale perché nei primi secoli, almeno fino ai primi concili del IV° secolo, non ci fu una sola chiesa, come l’immaginiamo noi, ma una congerie di chiese locali, governate da uno o più Vescovi, con riti liturgici propri, con strutture governative e amministrative proprie e, cosa ancor più importante, con teologie espresse nel kerygma molto varie. Questo perché ovviamente la comune tradizione orale su Gesù veniva letta alla luce della cultura e delle esigenze di quei tempi e luoghi. Particolare importanza ha la distinzione tra le chiese d’Oriente, con tradizioni greche, e quelle d’Occidente con cultura e tradizioni romane. La cosa si rese necessaria nell’ambito della cultura greco-romana per rispondere sensatamente alle objezioni dei filosofi di quel tempo. Occorrerebbe fare la storia di tutti i quattro concili che portarono alle definizioni cristologiche che noi abbiamo ancora e che sono espresse nel credo nicenocostantinopolitano. I concili fondamentali sono Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431) e Calcedonia (451). Da quel momento la figura teologica di Gesù il Cristo fu definitiva e mai più ritrattata. Il linguaggio di quei concili fu ovviamente greco, com’è evidente dal solo fatto che si svolsero tutti nell’ambito orientale. L’impero era centrato a Costantinopoli e Costantino Imperatore si considerava l’Episcopus totius Ecclesiae. Il linguaggio economico fu abbandonato necessariamente e si dovette scegliere un linguaggio ontologico adatto a spiegare la natura del Cristo nel mondo greco dei sapienti. Innanzi tutto occorreva specificare come fosse possibile essere monoteisti e contemporaneamente cristiani. Se il solo Dio era il Dio d’Israele, chi era allora Gesù? Se Gesù era stato un essere speciale in che rapporto si trovava con il Padre? Occorreva evitare il biteismo e trovare una soluzione. Se economicamente si poteva dire che l’adorazione era verso il Padre per mezzo di Gesù nello Spirito Santo, occorreva stabilire a livello ontologico che Padre, Figlio e Spirito Santo formassero l’unica divinità. In questo caso il Padre sarebbe colui che invia suo Figlio per mezzo dello Spirito; così il cerchio si chiude. Il Padre manda il Figlio per opera dello Spirito, e noi per opera dello Spirito e per la mediazione del figlio glorifichiamo il Padre. C’è un exitus e un reditus perfettamente simmetrici. Questo significa: consustanziale. La teologia moderna critica molto questa espressione che per noi risulta alquanto oscura. Che significa sostanza? Come predicare oggi la consustanzialità di quel Gesù che abbiamo visto camminare e sudare in Galilea? Però nessun teologo ha ancora trovato un’espressione più precisa e espressiva di questa, perciò ci si limita a mettere in risalto la sua difficoltà e tuttavia la si mantiene, pur cercando di spiegarla in forme più comprensibili. Si è allora giunti alla verità su Dio? Sul suo mistero? Sì e no. All’uomo appartiene la doxa, 128


solo a Dio invece l’epistēmē. Quando pronunzio una parola in me è abbastanza chiaro cosa voglio dire, ma appena la mia parola esce dalla mia bocca assume una molteplicità di possibili significati alle orecchie di chi mi ascolta. È la differenza tra verbum interius e verbum exterius. Con la dottrina della Trinità comprendiamo solo che Dio non è un monolite immobile e statico, ma è un centro di attività dialogico d’amore e di comunione. In questo vortice di amore intratrinitario è stato assunto un uomo, Gesù di Nazaret, con tutta la sua umanità e volontà, e attraverso le sua parole e azioni Dio si è rivelato come Logos, come creatore della razionalità e conoscibilità del cosmo e come principio e fine di tutto l’universo. Per noi questo significa anche salvazione dal peccato e dalla morte. Ogni altra precisazione è pur sempre un’opinione possibile ma non assolutamente vera. È lo statuto del linguaggio della fede, secondo tutta la scuola teologica anglosassone. Il Cristo delle chiese resta tutto vero e per sempre così come è narrato, perché non visto con gli occhi della carne, ma per mezzo della fede, dove abita l’inconcussa verità. È con gli occhi della fede che possiamo ritrovare il Cristo del kerygma anche ai giorni nostri; è il nostro “cuore”che ha bisogno di questo Cristo. Ciò non vieta che la nostra ragione vada alla ricerca del fondamento storico della nostra fede. Questo è il compito della ricerca incessante e della teologia. Risulterà infine con nostro stupore che la ricerca storica e la ricerca teologica conducono identicamente al Gesù vivo che visse, morì e fu risuscitato in Palestina al tempo di Ponzio Pilato. Se leggiamo i Vangeli depurati dal contesto ebraico, dai miti greci, dal miracolismo esasperato, da nozioni vagamente filosofiche, il cristianesimo appare come la suprema liberazione dell’uomo. Ma a ben vedere non è così semplice. Come scrive Vahanian “Come carne e sangue soltanto, Gesù non è che un uomo ideale, a mala pena un simbolo di autorità, ancor meno un simbolo di fede” (ivi, 276-277). La divinità di Gesù fu un postulato necessario per un’intellezione adeguata della sua opera, anche se fu espressa in categorie greco-romane. Non fu una creazione della chiesa primitiva, ma fu un atto di fede dei testimoni viventi della sua vicenda. Al di fuori della divinità (comunque intesa) Gesù non sarebbe né Cristo né il Signore. All’inizio di Giovanni si trova il simbolo del ‘Logos’. Il Logos, la Parola, è simile a chi la pronunzia, è ‘generato’ e ‘non fatto’; è una prassi, è il termine di un’azione. Poiché la mia parola procede dal mio cuore e mi dice tutto, mi svela, posso dire che la mia parola è della mia sostanza. Questa constatazione, espressa nella terminologia del IV° secolo conserva la verità rivelata dai Vangeli. Le parole e le azioni del Gesù evangelico infatti mostrano che Gesù ha un rapporto non ordinario con Dio il Padre, e che Egli agisce e parla con l’autorità divina, che le sue parole sono le parole della Parola del Padre. L’uomo è stato assunto nel divenire divino e porta nella nostra storia la parola, la razionalità benefica e amorosa del Padre. Prendiamo in esame la specificità del cristianesimo, cioè ciò che lo distingue da qualunque altra religione, pur all’interno della fede nel monoteismo biblico. “Il cristianesimo ha due specificità assolute. Esso consiste “Essenzialmente in due “misteri”, cioè in due verità inattingibili dalla ragione umana (c.ivo mio) e 129


tali che possono essere conosciuti dall’uomo solo per rivelazione personale di Dio stesso. Consiste anzitutto nel mistero trinitario. Nel cristianesimo Dio si auto-rivela e si auto-comunica come un solo Dio (cioè un’unica sostanza o Natura divina) in tre Persone (il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo) tra loro uguali nella divinità e distinte nel loro essere tre “relazioni sussistenti” o tre “sussistenze” dell’unica sostanza divina, ma la possiedono ciascuna nella forma propria: il Padre la possiede come Principio e Fonte del suo Verbo che da Lui è generato perfettamente uguale a Lui; il Figlio la possiede come Verbo generato dal Padre; lo Spirito Santo la possiede come “spirato” dal Padre e dal Figlio, cioè come comunione di unità e di amore del Padre col Figlio e del Figlio col Padre; in altre parole, come Amore reciproco del Padre e del Figlio, come il “Noi” sussistente del Padre e del Figlio. L’altro mistero “scandaloso” – per la ragione umana – ancora più del primo e che ancora più di questo qualifica il cristianesimo: il mistero dell’Incarnazione del Figlio eterno di Dio, della seconda Persona della Trinità, nella figura storica di Gesù di Nazaret. Il cristianesimo afferma infatti che il Figlio di Dio è divenuto uomo, non nel senso che abbia cessato di essere il Figlio di Dio, ma nel senso che, restando nella sua condizione divina, ha assunto una natura umana: non una natura umana apparente e transitoria, ma una vera natura umana, cosicché Gesù di Nazaret è vero Dio nella pienezza della sua divinità ed è vero uomo nella pienezza della sua umanità; e lo è non in forma transitoria, ma in forma definitiva, cosicché il Figlio di Dio non cesserà mai di essere uomo”. 16 Questa non è una novità neo-testamentaria, come abbiamo già mostrato. Infatti noi crediamo che nella Scrittura sia contenuta la “Parola di Dio”. Ma perché noi la possiamo intendere essa deve essere una parola “umana”. Il Logos si pone sullo stesso piano: è una posizione incarnazionista. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che della Trinità e dell’Incarnazione non possiamo avere teologie definitive e spiegazioni cogenti: sono misteri e sono “creduti”, ma non “conosciuti”. Tutte le definizioni conciliari e le dottrine elaborate fino ad ora dai teologi sono solo dei tentativi di comprensione, delle verità economiche, ma solo una figura della verità ontologica. Vediamo come il mistero dell’Incarnazione e della Trinità è stato interpretato da Tommaso con la filosofia aristotelica che diventa filosofia scolastica. Il linguaggio è del tutto greco medioevale, ma vuole esprimere la convinzione che Gesù è stato la manifestazione dell’eterna parola di Dio. Quella parola che ha creato il mondo e tutto ciò che esiste, visibile e invisibile. La cosa non è poi tanto difficile da credere se la si prende per quello che significava allora. Era quella un’epoca in cui nel mondo greco-romano la filosofia del Logos imperava. Le scuole filosofiche dell’epoca oscillavano dal neo platonismo allo stoicismo; il Logos era l’elemento che da Eraclito in poi aveva dominato nelle scuole filosofiche. Una gerarchia di esseri, una specie di emanazionismo, era divenuto popolare nella filosofia neo platonica.

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Vahanian G., Non avrai altro Dio, Queriniana, Brescia 1970, p. 53.

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Nel tardo ebraismo di quel tempo andava prendendo sempre più spazio l’idea che la “Sapienza” fosse una forza creatrice che era stata presente nella creazione presso il Padre. Essa non era “personificata” del tutto, ma certo aveva assunto il ruolo che poi, nei cristiani, sarà del Logos, o del Figlio di Dio. In Dio, si diceva pensando grecamente, non ci possono essere mutazioni, egli non è nel tempo, quindi nulla può mutare in Lui. Dio ha creato l’universo con la forza della Sua “parola” (del suo “verbo” o logos, inteso non come razionalità, ma come parola; le sei parole che Egli disse e per cui le cose furono fatte). Ora se la sua parola è stata “detta”, cioè emessa, portata fuori di Sé, estrinsecata, dato che in Lui non c’è mutamento, anche prima doveva essere in Lui come “interiore” ed esistere “presso” di Lui, nel suo “cuore” da sempre. Quindi il Verbo (la parola detta o esterna) era presso Dio, anzi essa era Dio, perché il “verbo interiore” del Padre dice tutto il Padre e non differisce in nulla da Lui. La distinzione tomista tra Verbo interiore e Verbo esteriore è di notevole importanza nella teologia cristologica e lo è anche nella filosofia di Gadamer e dei suoi seguaci, che ne hanno ripreso il concetto fondamentale. La parola umana infatti dice realtà non univoche. Molte sono le parole che hanno differenti significati (il significato dipende dal contesto) e possono essere o parole con senso analogo o addirittura equivoco. Scrive Gadamer: “Solo ora il grande enigma dialettico dell’uno e dei molti, che angustiava Platone in quanto contraddizione del logos e che è presente in modo sotterraneo in tutta la speculazione trinitaria medioevale, trova il suo vero fondamento e la sua base”17. Anche le mie parole dicono me stesso, ma non perfettamente e totalmente come in Dio a causa della mia imperfezione e limitazione creaturale. In Dio la Parola (in quanto verbum interius) è consustanziale a Dio stesso, ed è con la forza dello Spirito (la forza della spirazione) che noi la possiamo intendere (come verbum exterius). La teologia della chiesa primitiva insisteva dunque sulla Sapienza (che è il verbum interius) come l’artefice del cosmo, di tutta la creazione perché dall’eternità era presente in Dio come suo strumento efficace, anche se non era ancora stata espressa. Ma quando la Sapienza si espresse, il mondo fu creato (era con la sapienza che Dio parlava quando usava il plurale e diceva: “facciamo le cose”). San Tommaso scrive: “Sed cum omnis processio sit secundum actionem quae tendit in exteriorem materiam, est aliqua processio ad extra; ita secundum actionem quae manet in ipso agente, attenditur processio quaedam ad intra. Et hoc maxime patet in intellectu; cuius actio, scilicet intelligere, manet in intelligente. Quicumque autem intelligit, ex hoc ipso quod intelligit, procedit aliquid intra ipsum quod est conceptio rei intellectae ex vi intellectiva proveniens, et ex eius notitia procedens. Quam quidem conceptionem vox significat; et dicitur verbum cordis, significatum verbo vocis. Cum autem Deus sit super omnia, ea quae in Deo dicuntur, non sunt

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“Civiltà Cattolica”, Editoriali, Roma 1995, p. 43.

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intelligentia secundum modum infirmarum creaturarum, quae sunt corpora; sed secundum similitudinem supremarum creaturarum, quae sunt intellectuales substantiae”.18 Poco oltre scrive: “Sciendum est, quod Verbum tripliciter quidem in nobis proprie dicitur; quarto autem modo dicitur improprie, sive figurative. Manifestius autem et communius in nobis dicitur verbum quod a voce profertur; quod quidem ab interiori procedit quantum ad duo quae in verbo exteriori inveniuntur; scilicet vox ipsa, et significatio vocis. Vox enim significat intellectus conceptum, secundum Philosophum (…). Verbum est quod non verbo profertur, sed in corde pronuntiatur, quantum ad tertium. (…). Dicitur autem proprie verbum in Deo, secundum quod verbum significat conceptum intellectus”.19 Ebbene la frase “la sapienza divenne carne” (verbum esterius), vuol semplicemente dire che: come Dio parlò per mezzo dei Profeti (uomini ispirati), nei tempi decisivi ha parlato per mezzo della sua parola (verbum, logos) fattasi carne. La polemica cristologica e trinitaria non durò solo i tempi dei primi concili, ma rimase, sia pur con varianti d’accento, per almeno tre o quattrocento anni. Poi la questione cessò e le chiese (ortodossa, cattolica romana, protestanti, ecc.) ritengono decisiva l’adesione alle tesi nicene costantinopolitane, comunque intese.

Come leggere Gesù oggi? Dio divenne “carne”. È possibile che ciò sia vero e da quale punto di vista? Non è certo possibile o credibile secondo le nostre categorie occidentali odierne. Proviamo però a capire “chi” è Dio nella tradizione ebraica del I° secolo, come era creduto dagli ebrei contemporanei di Gesù. Dio non è il Sommo Bene, non è l’Uno plotiniano, non ha nulla a che fare con il dio dei greci, non è soprattutto l’Essere di Tommaso e della scolastica, non è l’Essere Supremo dell’illuminismo. È del tutto evidente che noi occidentali siamo eredi del pensiero illuminista e per noi è difficile credere che l’Essere Supremo si sia manifestato nella nostra carne. Nella Bibbia Dio è l’unico (Adonai echad); Egli è il creatore del mondo ed è distinto dal mondo, è trascendente, ma non è disinteressato alla sua creazione; Egli interviene nella storia, si è scelto un popolo piccolo perché svolga nel mondo una funzione sacerdotale, che dovrebbe indicare all’umanità la verità del monoteismo e della sua volontà salvifica. In mezzo a questo popolo sacerdotale egli si incarna in vari modi da sempre. Nel deserto guida il suo popolo attraverso una nube di fuoco, parla a Mosè nella nube e nel tuono, la sua parola è efficace e risuona nei Profeti, la sua volontà è presente nella Torah, abita nel Tempio attraverso la sua Shekinah. Tre sono i luoghi essenziali della sua incarnazione (della sua presenza tangibile in mezzo a noi) la Torah, il Tempio, la

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Gadamer H-G., Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 523. D’Aquino T., Summa Theologica, I, XXVII, I, c.

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Shekinah. Ultima forma della sua presenza è Gesù, la nuova ed eterna Shekinah. La gloria e la presenza divina in mezzo a noi. Il rapporto tra il Dio d’Israele e Gesù così come spesso immaginano quanti, preoccupati di conservare una cristologia “alta”, la collocano all’interno di un contesto settecentesco di deismo implicito in cui è possibile conservare la “divinità” di Gesù solo mantenendo qualche forma di docetismo. È questa, a mio avviso, la categoria che ci consente infine di unire l’approfondito studio storico di Gesù nel contesto del I° secolo alla ricca consapevolezza, tanto spesso esclusa nel nome della “storia”, che Gesù considerava propria vocazione essere l’incarnazione di ciò di cui si parlava nei simboli ebraici del Tempio, dello Spirito e della Sapienza, ossia della presenza salvifica di YHWH nel mondo o, più precisamente, in Israele e per il mondo. Gesù credeva che fosse suo compito realizzare ciò che solo YHWH poteva compiere: il nuovo grande Esodo, attraverso il quale il nome e il carattere di YHWH sarebbero stati pienamente e finalmente disvelati e fatti conoscere”. 20 Chi vede Gesù vede il Padre. Gesù fu un uomo eccezionale, eccezionalmente unito a Dio, che lo ha rivelato come mai nessuno fece, in Lui molti uomini del suo tempo esperimentarono il fatto dell’Emanuele (emmanu-El, cioè che Dio è con noi); in Gesù la dottrina e la coerenza della vita, la forza del pensiero religioso e la radicalità della sua esigenza di purezza del cuore e della risposta verso il Dio dell’Alleanza, hanno provocato un’esperienza unica. In lui l’intero Occidente ha scoperto il volto paterno di Dio, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. In una parola sola: Gesù era così unito al Padre, che chi vedeva lui vedeva il Padre, era come il suo Figlio prediletto in cui si è compiaciuto. Noi abbiamo ‘conosciuto’ Dio in e per Gesù. In questo senso Gesù e il Padre sono per noi una cosa sola. Dio stesso ha confermato la sua testimonianza ‘elevandolo’ a Sé. Gesù ci ha anche liberato, in senso paolino, dalla servitù della legge. Ci ha cioè dato il dono di poter giudicare alla luce del duplice amore (di Dio e soprattutto del prossimo) cosa è più conveniente fare per la gloria di Dio e per il maggior bene dell’uomo. È l’amore fraterno e l’amore verso tutta la creazione il criterio supremo per giudicare se osserviamo la Legge di Dio. Il cristiano è libero da ogni legge, compresa quella delle chiese. Scrive infatti Paolo: “voi, o fratelli, siete stati chiamati alla libertà; tuttavia non vogliate fare di questa libertà un’occasione per vivere secondo la carne; anzi, procurate, per mezzo della carità, di essere servi gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti, si compendia in questo solo comando: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. (Gal. 5, 13-14) Il comandamento dell’amore non è nuovo. Gesù si richiama infatti al Deuteronomio (8, 5), ma certamente nuova ne è la radicalità (Mt. 22, 36-40). Infatti gli ebrei non osano dire quale sia il comandamento più importante della legge, temendo di assumere il posto di Dio. Lui solo potrebbe dare una maggior importanza all’uno invece che all’altro. Noi dobbiamo obbedire non perché ‘comprendiamo’ l’importanza del

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ivi, I, XXXIV, IV, c.

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comando, ma perché ‘è’ un comando divino. Il sabato deve essere osservato non perché il riposo fa bene o perché i sindacati lo desiderano come Dio, ma perché Dio vuole l’adesione incondizionata dell’uomo al suo amore. Non ci deve essere altro motivo all’osservanza della Legge che l’adorazione e il riconoscimento della sovranità di Dio. Le categorie conciliari sulla Trinità e sull’Incarnazione offrono il fianco a molte critiche. Scrive il P. Enrico Cattaneo: “Questa critica (l’essere la cristologia conciliare un dato extra scritturistico) “va presa sul serio, perché si fonda su un ragionamento ineccepibile, che i cristiani stessi non possono non accettare. Ora, di fronte ad esso, la fede cristiana non può contrapporre un analogo ragionamento. In altri termini, l’incarnazione del Verbo, che fonda l’identità divina di Gesù Cristo, non è deducibile da un argomento di ragione e neppure da una precedente parola rivelata. L’incarnazione è un fatto che ha, in certo senso, sorpreso tutti, anche gli stessi ebrei, che pure avevano avuto i profeti e le Scritture. Certo, gli autori del Nuovo Testamento si appoggiano alle antiche Scritture per provare la singolarità di Gesù e della sua azione salvifica, ma la testimonianza fornita dalle Scritture è indiretta e allusiva: diventa chiara soltanto alla luce del fatto ormai avvenuto”. 21 Prosegue l’Autore: “L’altra opzione è quella che, come abbiamo visto, ha la sua radice nell’islàm ed è fatta propria da molti studiosi ebrei, nonché da molti storici delle origini cristiane: scagionare Gesù da questa pretesa divina, riconducendo la sua figura nell’ambito del profetismo o del rabbinismo, e addossar tutta la responsabilità ai cristiani, cominciando dagli autori dei Vangeli e degli altri scritti del Nuovo Testamento” (ivi, 240-41). Lo scopo che qui ci siamo prefissi è quello di ricercare la verità “storica” del Gesù di cui i Vangeli e gli scritti del cristianesimo primitivo ci narrano. Lo scopo è di mostrare quanto e come la figura storica di Gesù, così come siamo in grado di ricostruirla oggi, possa aver dato non ingiustificatamente luogo al kerygma primitivo della chiesa. Fatto questo, occorre compiere il salto della fede. È ciò che il padre Cattaneo ci insegna nei passi su citati; è la verità dalla quale occorre sempre partire quando si teologizza. È la fede che dà origine al senso della narrazione e non viceversa. La fede però non è irrazionale, ma super razionale, perché non sgorga dalla sola e debole ragione, ma dall’universo umano che si chiama ebraicamente “cuore (Leb)”, e che è l’organo che ci permette di cogliere il reale in quanto reale, l’esistente in quanto esistente. Le fede è lo strumento che raccoglie tutto il segreto dell’uomo considerato non come “un” individuo, ma come un interlocutore. L’uomo è se parla con Dio e con gli altri uomini, e se ascolta Dio e gli altri. Perché Dio è un vortice dialogico in se stesso e a sua immagine e somiglianza ci ha creato.

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Cattaneo E., La divinitàdi Gesù, in “Civiltà Cattolica”, 3789, p. 239.

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Il vero nome di Dio è il ‘Padre’. Si dice “padre” solo chi ha un figlio, nessuno è padre di per sé. La “relazione” padre-figlio nell’unità della trinità è dunque di natura ontologica oltre che economica. Il Dio biblico è Uno solo, ma è una relazione vivente e dinamica; è un Dio dialogante non tanto con noi uomini, ma soprattutto è vita e divenire in se stesso. Potremmo descrivere la Trinità-Unità di Dio come un “turbine” eterno e diveniente d’amore dialogico, e l’incarnazione come il fatto che questo turbine coinvolse un uomo chiamato Gesù; si manifestò in mezzo a noi come un uomo che pur essendo davvero uomo mostrò con tutto il suo comportamento l’agire di Dio. Tutto il resto è accessorio e relativo. Scrive Jürgen Moltmann: “Tuttavia si deve tener conto della differenza tra Gesù, il Signore, e Dio stesso. Nel culto dell’età neotestamentaria si adorava solo Dio e mai il Signore Gesù. Il Signore piuttosto veniva invocato. Per mezzo del Signore abbiamo accesso a Dio, e nel suo nome si può pregare Dio. (…) Per questo in molti settori del Nuovo Testamento troviamo una cristologia escatologica o, per usare le formule della dogmatica della chiesa antica, un subordinazionismo escatologico (Emil Brunner). In essa Cristo diventa il precursore, il rappresentante e il vicario del Dio che viene.”22 La teologia contemporanea deve riscoprire sempre di più la vera umanità del Signore. Che Gesù sia l’Incarnazione del Verbo è ormai, nella liturgia della chiesa, un fatto imprescindibile. Ma deve essere valutato appieno il mistero della sua umanità. Il disegno del Padre è stato quello di predestinare tutti gli uomini ad essere conformi all’immagine del suo Figlio, affinché egli sia il primogenito fra molti fratelli. È perciò palese che Gesù è stato il primo nell’ordine dell’intenzione divina. Dio ha voluto creare gli uomini solo dopo che aveva deciso di creare il Suo primogenito. A Lui ha affidato il Regno, il potere e la gloria. Lo ha costituito giudice universale e fonte di salvezza per ogni uomo e per tutte le creature. L’Uomo diviene così, nei disegni di Dio, il culmine e il fine della creazione. Scrive Ratzinger: “Mi limito a citare un solo passo della cosiddetta seconda lettera di Clemente, in cui quest’idea affiora in maniera chiarissima: “Fratelli, dobbiamo pensare a Gesù Cristo come si pensa a Dio, guardando a lui come al giudice dei vivi e dei morti. Non possiamo farci un’idea ristretta della nostra redenzione, perché pensando in modo gretto di lui penseremmo con mente angusta anche della nostra speranza”. È chiaro dove cada l’accento del nostro testo: colui che giudica non è qui semplicemente – come ci sarebbe da aspettarsi – Dio, l’Infinito, l’Ignoto, l’Eterno. Egli ha piuttosto affidato il giudizio a uno che, in quanto uomo, è nostro fratello. A giudicarci non sarà un estraneo, bensì colui che già conosciamo

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Moltmann J., Religione, rivoluzione, futuro, Queriniana, Brescia 1971, p. 199.

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tramite la fede. Il giudice non ci verrà incontro come il totalmente Altro, bensì come uno di noi, che conosce l’essere-uomo dal didentro e ha sofferto.” 23

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Ratzinger J., Op. cit., p. 316-317.

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Storia della Medicina Antica & Epistemologia delle Scienze Umane Questa “rubrica tematica” è dedicata in primo luogo alla ripubblicazione delle opere di Paola Manuli in accordo con la Associazione Paola Eliana Manuli — per lo studio della Storia della Medicina Antica e dell’Epistemologia delle Scienze Umane (PEM). Ma essa è già, e resterà, aperta a qualsiasi collaborazione competente su queste materie, la storia delle quali tocca l’attualità e reca indelebile il segno dell’antica paideia.

Silvia Gastaldi presenta un testo di Paola Manuli. (I°) Il saggio Fisiologia e patologia del femminile negli scritti ippocratici, pubblicato in: Hippocratica. Actes du Colloque hippocratique de Paris, del 1980, inaugura, nell’attività scientifica di Paola Manuli, un nuovo filone di ricerca, che la vedrà impegnata con altri scritti sullo stesso tema negli anni successivi: l’analisi della riflessione che, nell’ambito dei testi medici antichi, a cominciare proprio da quelli confluiti nel Corpus Hippocraticum, assume come oggetto il corpo femminile, la sua fisiologia, le sue patologie. Nell’interesse per questo indirizzo di studi si avverte la sollecitazione proveniente dal dibattito culturale, iniziato negli anni Settanta, sul femminile, e che vede a Pavia, in particolare, gli studi di Silvia Vegetti Finzi sul versante psicoanalitico e di Silvia Campese, Silvia Gastaldi e Giulia Sissa in relazione al pensiero antico, di ambito antropologico, etico e politico. Lo scopo di questo settore di studi, in cui si può a buon diritto attribuire un carattere pionieristico, era quello da una parte di segnalare la specificità del femminile, e dall’altra di ripercorrere le operazioni tramite le quali – e mi riferisco qui privilegiatamente al settore antichistico – tale specificità viene cancellata: la donna (greca!), tramite indispensabile per la riproduzione della comunità, è estromessa dalla dimensione pubblica, politica. Gli studi di Paola Manuli, la cui competenza nel campo della medicina greca ha già avuto pieno riconoscimento specie dopo la pubblicazione del volume Cuore, sangue e cervello da Alcmeone ad Aristotele, pubblicato in collaborazione con Mario Vegetti nel 1977 (e di cui è stata prodotta una ristampa nel 2009), si orientano ora verso i testi medici antichi che si occupano del femminile. Se è vero, in linea generale, che lo studio del corpo femminile è sempre condotto sulla base di un presupposto, e cioè la sua devianza rispetto al modello anatomico di riferimento, e cioè la figura del maschio adulto, Pao137


la Manuli, nel suo saggio, studiando in particolare il testo ippocratico Malattie delle donne vi riconosce il primo tentativo di fornire un inquadramento scientifico autonomo alle patologie specificamente femminili. D’altra parte, il limite che si riscontra in questo approccio è rappresentato dall’individuazione di una sola funzione riservata alla donna, quella della riproduzione, in piena conformità del resto con l’unico compito che la società le assegna. Il rapporto sessuale e il concepimento sono del resto indicati come l’unica forma di terapia per tutta quella vasta gamma di patologie per le quali si indica un’origine uterina. Tali patologie, dovute all’estrema mobilità dell’utero, che viene ritenuto in grado di spostarsi in qualsiasi zona del corpo, si manifestano privilegiatamente sia nelle vergini e nelle vedove, che non si sottopongono ai rapporti sessuali, sia nelle donne sterili, per la loro incapacità di concepire. Paola Manuli, Fisiologia e patologia del femminile negli scritti ippocratici dell’antica ginecologia greca  1. L’antica ginecologia greca è l’unica forma di sapere che nel mondo classico si sia data un oggetto esclusivamente sessuale. Essa si occupa di problemi che descrivono un arco vastissimo, che va dalla fisiologia alla complessa patologia degli organi sessuali femminili, da fenomeni come il mestruo e la produzione di sperma, alle difficoltà della gravidanza e del puerperio, della sterilità, dell’isteria. Si condensa in una letteratura che va dalle opere ippocratiche del V-IV secolo a.C. fino a Sorano, nel I secolo, e a Galeno, nel II secolo d.C. La ginecologia greca, che si presenta come una scienza del corpo femminile, è in realtà, riduttivamente, soltanto una medicina del sesso femminile: infatti si separa da una medicina generale del corpo malato, isolando la devianza della femmina dal modello anatomico su cui vengono misurate tutte le differenze: il maschio adulto. Com’è noto, sesso è una parola assente nel vocabolario greco1: l’antica scienza della riproduzione non conia alcun termine che esprima una nozione unificata di “maschio” e di “femmina”. La mancanza di una parola, e di un concetto che identifichi in una comune attività il maschio e la femmina, non significa altro che la sanzione della loro radicale e irriducibile differenza, la loro definizione nei termini di un maggiore e di un minore, di un compiuto e di un incompiuto. “Sessualità” è poi nella ginecologia antica una nozione priva di ricchezza semantica, che non coinvolge la complessità dello psichico e del fisico, che ignora ed esclude l’erotismo. Più che di sessualità, infatti, si dovrebbe meglio parlare di geni-

 Dai “Colloques internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique” (n. 583). Hippocratica. Actes du Colloque hippocratique de Paris (4.9 septembre 1978) – Édition préparée par M.D. Grmek. Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, 15, Quai Anatole-France – 75700 Paris 1980. 1 Si vedano in proposito le considerazioni di E. Lesky, Die Zeugungs- und Vererbungslehren der Antike und ihr Nachwirken, in: “Abhandlungen d. Akad. der Wiss.ten u. d. Lit. Mainz”, XIX, 1950, p. 1248.

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talità, sempre rappresentata come materia igienica, il cui uso, o la cui privazione, producono nel corpo determinati e contrastanti effetti, nella psiche nessuna risonanza. In particolare, le normali attività fisiologiche femminili, il coito, la maternità, il parto, il mestruo, l’allattamento, sono concepite come naturali funzioni terapeutiche di un immaginario “male femminile”: la femmina, che è materia igienica per il maschio nel rapporto sessuale, viene a sua volta salvata da questo contatto, senza il quale avrebbe inizio un processo di sclerosi del suo stesso corpo, una degradazione dei suoi stessi organi sessuali, che conduce irrimediabilmente alla malattia. È un sistema di sapere, la ginecologia, dalla tradizione fra le più monotone, dal linguaggio fra i più poveri, che isola sempre una serie fissa di coordinate: la normalità del coito, della concezione, del parto, e l’anomalia dell’aborto, della sterilità, della verginità e della vedovanza. La ginecologia antica si dà uno statuto autonomo, rispetto alla medicina generale da cui si separa2, percorrendo tutto l’arco biologico e sociale dell’esser donna: dalla verginità, al matrimonio, alla vedovanza, ognuna di queste condizioni prevede malattie proprie: siamo di fronte a una patologia del femminile che nella sua frequente insensatezza e nella sua diffusa bizzarria anatomica e fisiologica, rivela che il “male femminile” – l’oggetto di questa scienza – non è affatto conosciuto. Inoltre, la sessualità femminile vi è presente, come attività e finalità riproduttiva, quasi sempre minimizzata o addirittura assente, come entità fisiologica ed erotica, concepita con una propria ragion d’essere, cioè come piacere. La ginecologia antica, con una sola eccezione che è il Peri gones, la biologia della riproduzione di Aristotele e la scienza sessuale di Galeno, tutte ora tacciono, ora sottovalutano il piacere sessuale, come qualcosa che è finalizzato unicamente a se stesso. Quest’ultimo si situa in luoghi, occasioni, oggetti e generi letterari diversi da quelli che vertono sulla riproduzione, dove invece la sessualità si condensa in una necessità fisiologica, al di fuori di ogni dimensione edonistica: choris hēdonēs, come dirà Galeno3. 2. L’atto di fondazione della ginecologia greca è rappresentato dalla più importante fra le opere ginecologiche del Corpus Hippocraticum, che è Malattie delle donne4: 2 Tale separazione avviene ovviamente tutta all’interno della sfera sia istituzionale sia teorica della medicina antica; essa rappresenta una ulteriore articolazione della medicina generale, che non deve in alcun modo essere confusa con il concetto di “specializzazione” nella tarda antichità, sinonimo di un sapere parziale e di una forma scadente di iatrikē; cf. P. Diepgen, Die Frauenheilkunde der Alten Welt, Handbuch der Gynäkologie, XII, 1, ed. Dr. W. Stoeckel, München 1937, p. 306. 3 de locis affectis, VI, 5; K. VIII, 413 ss. 4 Malattie delle donne fa parte di un gruppo di opere ginecologiche del Corpus Hippocraticum, C. H. (con Natura della donna e Malattie delle vergini) che si collocano tutte all’incirca tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. (L. Bourgey, Observation et expérience chez les médecins de la Collection Hippocratique, Paris 1953, p. 168ss). Si tratta di opere da sempre attribuite alla cosiddetta “scuola di Cnido”, che per lungo tempo fu considerata rappresentante di una medicina di carattere prevalentemente empirico e grossolano, contrapposta alla ben diversa e più consapevole impostazione scientifica della “scuola di Cos”. Di recente è però divenuto assai problematico, soprattutto dopo le attente considerazioni storiche e filologiche di Di Benedetto, non solo sostenere ancora una netta contrapposizione tra le due

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Tutte queste malattie [le malattie femminili] capitano soprattutto alle donne che non hanno avuto figli, ma anche spesso a quelle che ne hanno avuti. Esse sono gravi, come si è detto, e per lo più acute, pericolose e di difficile diagnosi, perché le donne partecipano delle malattie comuni, e ci sono casi in cui neppur esse sanno di cosa sono malate, prima di aver sperimentato le malattie causate dai mestrui e di esser più avanti con l’età. Allora la necessità e il tempo insegnano loro la causa di quelle malattie. E spesso nelle donne che non sanno da che cosa è provocato il male, questo diviene incurabile prima che il medico venga informato esattamente da parte della malata di che cosa essa soffra. Infatti si vergognano a dirlo, anche se lo conoscono, e per inesperienza e per mancanza di scienza ritengono che sia per loro indecoroso. Inoltre anche i medici sbagliano, non informandosi esattamente della causa del male, e curandolo come le malattie maschili. E molte ne ho viste soccombere così, stroncate da questi mali. Bisogna interrogare subito accuratamente sulla causa, perché la cura delle malattie femminili differisce molto da quella delle malattie maschili.5 Come vediamo, Malattie delle donne manifesta la necessità di un inquadramento scientifico autonomo di tutta una serie di manifestazioni patologiche femminili che spesso venivano confuse e curate come quelle maschili. A una considerazione prettamente epistemologica, questa è una classica rivendicazione da parte di un medico specialista, della specificità del proprio oggetto scientifico; rivendicazione che coincide al tempo stesso con la costituzione di questo oggetto e con la definizione di questa scienza: la ginecologia vuol essere la scienza del corpo femminile malato. La separazione delle malattie femminili da quelle maschili rappresenta nell’oggetto della ginecologia un’analoga separazione di ruoli tra i professionisti: l’alternativa si pone infatti tra i medici delle donne e i non-ginecologi. All’interno di questa specialità della scienza medica maschile, la donna medico è un personaggio totalmente assente6, e la maia compare assai di rado, solo per farsi strumento, occhio e mano del medico, come ancora avverrà in Galeno7. scuole, Cos e Cnido, dal punto di vista dei loro modelli dottrinali e metodologici, ma addirittura attribuire alla “scuola di Cnido” un’immagine reale e una consistenza storica. – Per ciò che concerne la nostra ricerca, relativa ai testi ippocratici di contenuto ginecologico, occorre tuttavia precisare che ne daremo una lettura che prescinde necessariamente da ogni problema di appartenenza a una scuola e da questioni di stratificazione dottrinale interna, o di Verfasserfrage. Terremo invece conto del quadro complessivo offerto da questi testi, come luoghi di teorie e di rappresentazioni del femminile che sono comunque significative sia nel loro accordo che nella loro diversità. I passi di Malattie delle donne e di Epidemie sono tradotti dall’edizione di E. Littré, rispettivamente vol. VIII e vol. V, Paris 1853 e 1846. Quelli del De genitura dall’edizione di R. Joly, Les Belles Lettres, Paris 1970. Le citazioni della Historia animalium e del De generatione animalium sono tratte dal volume di Lanza-Vegetti, Aristotele, Opere biologiche, Torino 1971. 5 Mul. I, 62; L. VIII, 126. 6 In Mul. I, 62 la deplorazione che i medici siano cosi poco esperti nella patologia del femminile rappresenta, secondo Herst (Le travail de la femme dans la Grèce ancienne, Utrecht 1922, p. 53) una prova indiretta che, accanto alle levatrici, esistesse un’altra categoria professionalmente più qualificata, quella delle donne-medico. L’ipotesi è certamente espressa in

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Esaurendo in uno spazio consistente – tre libri, di cui il terzo interamente dedicato alle donne sterili – tutta la casistica delle malattie femminili, Malattie delle donne rappresenta uno sforzo impegnativo per la comprensione di una patologia ancora ignota, il tentativo di conquistare dignità scientifica a una tecnica non ancora dotata, nel mondo greco, di tradizioni letterarie, e di vincere la riluttanza di una nuova e pudica clientela che difficilmente concede la propria fiducia, e a fatica confessa il proprio male. La diffidenza non è ingiustificata: a differenza della maia, che dichiara la propria complicità per il solo fatto di condividere una condizione femminile, la figura del medico ginecologo istituisce tra sé e la sua paziente un rapporto di tutela che è una riproduzione delle forme di subordinazione già esistenti nel sociale, tra il maschio, volta a volta padre, marito, tutore, zio, e la femmina, volta a volta sposa, figlia, orfana, vedova. La ginecologia fa propria una ideologia del femminile che le preesiste, che raffigura la donna come pura naturalità, che solo molto tardi, e spesso troppo tardi conquista un’autocoscienza igienica: “neppur esse sanno di che cosa sono malate”. Per una “vergogna” che le è connaturata, la donna diventa facile preda di pregiudizi morali che la escludono dalla “esperienza” e dalla “scienza” di sé e del proprio corpo: non confessare il proprio male per vergogna, come è detto in Malattie delle donne, equivale infatti a non poterlo mai conoscere, a non poter mai accedere alla propria verità patologica. Il confessarlo, d’altra parte, facendo luce sull’aition del male stesso, non rappresenta che una tautologica riaffermazione del proprio esser-femmina, e cioè della propria condizione strutturalmente “isterica”. Solo tardi si chiarisce infatti, in Malattie delle donne, il significato di una premessa epistemologica apparente-

termini troppo radicali, anche perché proprio questa deplorazione può essere invece interpretata come un segno della necessità, per una disciplina da poco costituita, di delimitare il proprio campo teorico. Questo ovviamente non significa che prima di Malattie delle donne non esistesse ginecologia, o che essa venisse esercitata esclusivamente da donne-medico. I contorni del problema sono molto più sfumati; le situazioni storiche, sociali, dottrinali, volta a volta assai differenziate. Nel tentativo di risolvere lo spinoso problema dell’esistenza o meno di donne-medico nel mondo greco, si è spesso elusa la necessità di discriminare le diverse fonti, unificando indebitamente le testimonianze di Platone, Aristotele, gli ippocratici, Sorano, Plinio, Galeno. La letteratura sull’argomento è assai abbondante: si vedano M. Lipinska, Histoire des femmes médecins, Paris 1900; M. Baudouin, Femmes-médecins d’autrefois, Paris 1901; A. Wilhelm, Ärzte und Ärztinnen in Pontos, Lykien und Agypten, in: “Jahreshefte d. Österr. Arch. Inst. Wien”, 1931, p. 73-96 (che contiene fonti di natura archeologica); art. Medicus, Daremberg-Saglio, p. 1682, IX; cf. anche la bibliografia fine 800 in: H. Fasbender, Enlwicklungslehre, Geburtshülfe und Gynäkologie in den hippokratischen Schriften, Stuttgart 1897, p. 138 n. 2 e 139 n. 1. – I confini tra maia e iatrina non furono mai rigidi, e inoltre le loro competenze dovevano essere piuttosto ampie, almeno nella tarda antichità. In epoca ippocratica purtroppo le testimonianze scarseggiano, e la più ampia, rappresentata dal Teeteto di Platone (149a-e), è relativa esclusivamente alla maia; per un approfondimento del problema si veda P. Diepgen, cit., p. 307, e la bibliografia ivi citata, nonché Fasbender, cit., p. 137. 7 Per i riferimenti alla maia si vedano Natura della donna, 6; L. VII, 321; Malattie delle donne, 68; L. VIII, 145. In due passi ippocratici un chiaro e inequivocabile segno che il ginecologo non delega alla maia il compito di vedere e toccare la paziente, sono i participi maschili che indicano l’azione di ispezionare col dito i genitali interni: prosagōn (Nat. mul. K. II, 530), haphasson (Mul. K. II, 682). Cf. Fasbender, cit., p. 96-97.

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mente così positiva: il richiamo alla specificità dell’oggetto femminile non è che l’annuncio e la predisposizione di una nosologia femminile sempre tendenzialmente, e tendenziosamente intesa come furore uterino. Tutto può essere perfettamente riassunto nella famosa citazione dal de locis in homine: “l’utero è causa di tutte le malattie”8. L’ostacolo principale per una teorizzazione del corpo della donna, e della sua fisiologia, è infatti rappresentato, in Malattie delle donne, dall’isolamento di una sola funzione, quella riproduttiva, e di una sola figura di donna: la donna-matrice, la donna-madre. Concepire il femminile come pura genitalità, qui produce una vera e propria allucinazione scientifica, una dicotomia dell’oggetto-femmina, che dà luogo a due specie di donne: le piene e le vuote, le feconde e le sterili, le madri e le vergini, le spose e le vedove. Nella donna-matrice ogni forma patologica poco chiara viene indagata secondo causalità uterine: un caso paradigmatico viene offerto dalla eziologia delle manifestazioni isteriche. L’immagine di un utero vagante, che può liberamente spostarsi dal proprio luogo naturale volta a volta sino ai fianchi, alla testa, al cuore, alle costole, al diaframma, al fegato, permette di inquadrare in un solo quadro nosologico, il soffocamento isterico (hysterikē pnix), una serie estremamente differenziata di sintomi9. Dato che è assente, in questo periodo storico, la nozione di sistema nervoso, il modo di agire dell’utero nell’hysterikē pnix è concepito come una pura e semplice pressione meccanica, dovuta a una reale dislocazione anatomica dell’organo: Quando l’utero si volge alla testa e qui si fissa il soffocamento, la testa si fa pesante e in qualche luogo, da una parte o dall’altra, si manifesta il sintomo. Segno ne è questo: esse dicono che le vene del naso e quelle sotto gli occhi sono dolenti. C’è coma, e quando va meglio schiuma alla bocca. Bisogna lavare con molta acqua calda; se non c’è sensibilità al trattamento, con acqua fredda, applicando alla testa dell’acqua in cui siano bolliti lauro e mirto, lasciata raffreddare. Si ungerà la testa con olio di rose, si faranno fumigazioni aromatiche, mentre si porranno sotto le narici effluvi fetidi (123). Se l’utero, fissandosi al cuore, produce soffocamento, insieme troviamo ansia e vomito bilioso (124); se si porta all’ipocondrio, vomito bruciante e acre, dolori al collo e alla testa.

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Cap. 47; L. VI, 344. H. Grensemann considera il gruppo dei cap. 123-152 di Mul. II (quelli cioè in cui sono contenuti i casi di soffocamento isterico) come appartenente a un autore diverso da quello a cui è attribuibile la sezione formata da Mul. I, de genitura, de natura pueri, de morbis IV (Knidische Medizin, Berlin-New York 1975, p. 133s) e in cui è compreso Mul. I, 62. Non sarebbe dunque filologicamente legittimo istituire un rapporto tra queste due parti di Malattie delle donne, se non fosse reperibile altrove: Mul. I, 7, una analoga sintomatologia e una eziologia pressoché identica. Si tratta infatti di un caso di soffocamento improvviso, dovuto al fatto che l’utero preme contro il fegato e l’ipocondrio; tale affezione colpisce soprattutto le donne che non hanno rapporti sessuali (mē zuniousesin andrasi) e le donne anziane più di quelle giovani. Analogamente in Mul. II, 127 l’utero si fissa al fegato, causa soffocamento, e ciò accade alle donne caste, vedove, sterili o comunque senza figli. 9

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Se il soffocamento è in alto, fare applicazioni calde; far fumigare gradualmente sotto le narici sostanze fetide, perché se fatte tutte insieme l’utero scende in basso e si verificano dei disturbi. Fare invece fumigazioni gradevoli in basso, dare a bere il castorio e la coniza. Quando invece l’utero sia stato tratto in basso, applicare qui fumigazioni sgradevoli, e le gradevoli sotto le narici. (125). Quando infine l’utero si fissa al fegato, lo stato di salute viene bruscamente interrotto dalla perdita della voce, i denti si serrano, il colorito diviene livido ciò accade soprattutto alle vergini da lungo tempo, e alle vedove che, ancora troppo giovani, conservano la castità. Capita soprattutto, inoltre, alle nullipare e alle sterili (127), tutte figure, queste, al di fuori della logica della generazione (hoti ek tōn tokōn eisin). Accanto ad altre forme di intervento, tutte egualmente monotone nella diversità dei sintomi, la terapia prediletta del soffocamento isterico è rappresentata dalle fumigazioni. Per attrarre l’utero dall’alto dove è salito, alla sua naturale sede anatomica, il basso ventre, lo si respinge come un animale facendo bruciare lentamente sotto le narici dell’isterica sostanze fetide e disgustose, pezzi di corno, capelli, asfalto, pece; lo si placa invece e lo si induce a tornare verso il basso, indirizzandogli, con fumigazioni uterine, «sostanze profumate ed ogni sorta di aromi» (127). In una riduttiva immagine anatomica del corpo femminile, vagina ininterrotta dalle narici all’utero, o ampia cavità destinata a contenere il feto 10, l’utero vaga per un corpo senza diaframmi, interferisce e ostacola le attività vitali e le facoltà racchiuse all’interno di ognuno di quei “principi” che la biologia del tempo individuava volta a volta come la sede dell’anima: il cervello, il cuore, il fegato, il diaframma.

10 1. Visione predominante del corpo femminile, accanto a quella di “caverna”, è appunto quella di un canale; tra le designazioni dell’utero troviamo to angos: il vaso (Morb. VI; K. III, 608). La stessa vagina non viene mai isolata come un organo autonomo, ma viene considerata parte della matrice (Fasbender, cit., p. 241); nelle fumigazioni, quando gli orifizi uterini sono ostruiti, l’odore non raggiunge la bocca; se invece gli orifizi sono pervi, allora il profumo della fumigazione è percepibile attraverso la bocca (dia tou stomatos) (Littré VIII, 322; Mul. II, 146). Di solito poi, nella ginecologia antica, il flusso di sangue dal naso, nella donna, viene considerato come una sostituzione del flusso mestruale (cf. J. Lachs, Die Gynaekologie des Galens, Kern, Breslau 1903, p. 77). Anche il legame tra utero e mammelle, nella medicina ippocratica come poi in quella galenica, è fondato sia anatomicamente che fisiologicamente sull’assunzione di diretti legami vascolari tra le due parti (Lesky, cit., p. 1284). Del resto le mammelle, secondo le vedute ippocratiche, sono soltanto dei recipienti che accolgono determinati flussi corporei; non hanno in alcun modo il compito di produrre alcunché di specifico (Fasbender, cit., p. 80). Infine, nel caso del parto, gli ippocratici non attribuiscono mai all’utero una particolare attività nel momento dell’espulsione del feto, pensando che il bambino esca da solo dal ventre della madre (per un elenco dei passi si veda Fasbender, p. 126s.). In tutti i casi che abbiamo citato troviamo esempi di ciò che R. Joly ha definito «physique du récipient», schema concettuale con cui la biologia antica interpreta molti fenomeni fisiologici connessi alla dinamica dei fluidi corporei (Le niveau de la science hippocratique, Paris 1966, p. 75 ss.).

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L’utero, come un dio animale e mobilissimo, è più potente di tutti loro, è la vera anima (irrazionale) della donna11. Massima amplificazione dei malesseri dovuti agli spostamenti uterini, e mimesi di ogni possibile patologia12 l’isteria rappresenta la forma più interessante, completa e significativa del «male femminile». La sua terapia essenziale, la fumigazione, projetta inoltre nella prassi ginecologica l’ideologia mitica 13 che la ispira e che la sostiene in un ambito divenuto ormai «positivo»: gli aromi infatti si offrono agli dei, e l’utero, nel soffocamento isterico, si comporta proprio come una divinità maschile, adirata perché senza figli, introjezione nel corpo femminile di una sanzione maritale che si vendica del rifiuto del coito – le vergini, le vedove –, e del parto – le sterili – con una malattia dall’aspetto proteiforme 14 . Quando l’utero tende al prolasso15, spostandosi verso il basso e premendo sui fianchi e sulla vescica, è come se, impazzito nel desiderio e nella ricerca del rapporto sessuale, tentasse di uscire dal corpo della femmina staccandosi dalla propria certa sede addominale. In questo caso le fumigazioni, le purificazioni con pessari e injezioni uterine preludono a una vera e propria terapia fallica che sarà seguita dal concepimento, l’unico rimedio del male: «dopo la fumigazione, la donna si unisca al marito: la malattia si risolve quando essa concepisce» (128; L. VIII, 276). La raccomandazione è ripetuta in un caso di obliquità laterale dell’utero, quando esso si ripiega verso un lato del bacino: «allora (concluse cioè le fumigazioni e le injezioni uterine), la donna si unisca senz’altro al marito. Se concepisce, è guarita» (135, Mul. II; L. VIII, 308). In Aristotele il nesso tra coito, concezione e guarigione sarà ulteriormente sottolineato: In molte donne che avvertono il bisogno del rapporto amoroso, o perché si trovano nel fiore della loro giovinezza o perché se ne sono a lungo astenute, l’utero

11 La cavità uterina, secondo Malattie delle donne, è in comunicazione con molte parti del corpo; la fronte, il cuore, l’intelligenza (bregma, stomachos: «cuore» secondo Littré, «stomaco» secondo Kühn; gnōmē – L. VIII, 94 = K. II 665). 12 Cf. Diepgen, cit., p. 232 13 Diepgen, p. 259 (a proposito delle fumigazioni): «Zweifellos wieder eine Reminiszenz an die Tiernatur des Uterus!» Ancora sulla natura ferina e sulla indipendenza della matrice rispetto al corpo, Diepgen, p. 230. 14 Come fa notare ancora Diepgen (cit. p. 232), nella medicina antica è possibile riunire in un solo quadro nosologico, l’isteria, un proteiforme complesso di sintomi che viene addotto a una malattia organica dell’utero. 15 Il prolasso vero e proprio è sempre dovuto invece a cause meccaniche, e avviene specialmente quando non viene rispettato il periodo di astinenza sessuale durante il puerperio, oppure in seguito a fatiche eccessive a cui la donna si è sottoposta. In questo caso è normale il divieto di avere rapporti sessuali: non siamo più infatti nell’ambito di manifestazioni di origine isterica, e pertanto l’idea dell’utero come “avidum generandi” diviene strumento inadeguato per l’indagine eziologica, in quanto il parto è appena avvenuto. Si vedano i passi ippocratici relativi al prolasso uterino citati in: Fasbender, p. 250s. Talvolta, tuttavia, anche il prolasso viene considerato secondo parametri isterici: «Se la bocca dell’utero cade all’esterno dei genitali ... ciò accade di preferenza alle donne che non hanno figli». (Mul. II, 145; L. VIII, 320).

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scende in basso, e le mestruazioni compaiono spesso tre volte al mese, finché non concepiscono; allora l’utero risale nella sua sede appropriata. (Hist. anim. 582b 22-26)16. Nella continua richiesta di soccorso terapeutico da parte della femmina, la figura del medico-maschio spesso si capovolge così in quella speculare del maschio-medico, che esalta la funzione taumaturgica della propria sessualità: tutte le malattie di questo genere [gli spostamenti dell’utero] accadono più alle donne anziane che a quelle giovani, all’incirca quando si sospendono le mestruazioni. Accadono anche alle giovani, quando rimangono vedove troppo a lungo. (137; L. VIII, 310). Nelle donne che non hanno mai avuto figli può verificarsi una stenosi dell’orifizio uterino, oppure uno spostamento del collo dell’utero, che impediscono la fuoriuscita del mestruo. In questi casi, se la donna non ha rapporti sessuali (mē misgetai hē gynē tō andri) e se il ventre si svuota più del giusto per una malattia, l’utero si sposta (strephontai hai mētrai). Per sua natura infatti esso non è umido, se non riceve il coito (mē lagneuomenes), ed avendo molto spazio a disposizione, dal momento che il ventre è vuoto, ed essendo per giunta più leggero ed asciutto del giusto, abbandona la sua posizione naturale (Mul. I, 2; L. VIII, 14). Il coito migliora dunque lo stato della matrice, inumidendo questa parte che per sua natura tende a disseccarsi e ad alleggerirsi, e facilita inoltre la discesa del mestruo, senza il quale possono sopraggiungere malattie anche mortali, soprattuto se la sospensione si protrae a lungo nel tempo (Mul. I, 2; L. VIII, 18). La maternità e il parto allontanano il pericolo di sofferenze e malesseri uterini, che si verificano più spesso nelle donne senza figli, mentre la dilatazione dovuta al parto promette di rendere meno doloroso e più sopportabile il periodo mestruale (Mul. I, 1; L. VIII, 10-12). Nella realtà intimamente paradossale del corpo femminile, esso accumula in sé tutta la patologia sia maschile che femminile: «le donne partecipano delle malattie comuni» (Mul. I, 62), ed è strutturalmente malato. Le sue stesse funzioni naturali, e perciò stesso patologiche, che sono il coito, la maternità, il parto, il mestruo, sono infatti considerate, in Malattie delle donne, come qualcosa di naturalmente salutare, una sorta di provvida manifestazione della “vis medicatrix naturae”. Sintomo principale della “malattia” femminile è la comparsa del mestruo: esso è dovuto al fatto che la donna, rispetto all’uomo, ha una sovrabbondanza di sangue e di calore. Essa eccede sempre la misura: mentre il maschio attira quanto gli è necessario dal suo

16 Non è tuttavia soltanto nel soffocamento isterico, o nel prolasso, che viene prescritta quella che abbiamo definito come una terapia fallica. In altri casi, affezioni flegmatiche, idropisie dell’utero, il coito viene prescritto quale parte integrante di un intervento terapeutico complessivo, in cui di solito tiene il luogo della fase conclusiva. In altre parole, sembra che ogni intervento, lavaggi, pessari, evacuazioni, sostanze astringenti ed emollienti, fumigazioni, injezioni uterine, prescrizioni dietetiche, non rappresenti altro che un preludio, un mezzo per predisporre il campo a questa fase ultima e risolutoria che ha come fine la gravidanza: si vedano i capp. 58, 59, 60 di Malattie delle donne (L. VIII, 116, 120, 122) ; cf. anche Diepgen, p. 255.

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intestino, la femmina tende invece a diventare pletorica per l’eccesso alimentare. La sua pienezza sanguigna richiede perciò una regolare evacuazione: così si producono i mestrui (Mul. I, 1; L. VIII, 12-14). Essi sono un sintomo patologico che rappresenta il superamento di una mesotēs, e annuncia nello stesso tempo la crisi del male, il ristabilirsi di un nuovo e precario equilibrio. La paradossalità del femminile sta proprio nel suo essere un oggetto instabile, sempre bisognoso di riequilibrarsi e di ricomporsi per raggiungere, e per perdere subito dopo, quella medietà biologica che l’uomo possiede naturalmente. Il segno naturale della femminilità è proprio questo eccesso di calore, di sangue e di alimento. D’altro lato, una medietà definitivamente raggiunta produrrebbe una definitiva assimilazione al maschile: la durata media del periodo mestruale è fissata dall’autore di Malattie delle donne in circa due o tre giorni. Le donne la cui evacuazione è poco abbondante e dura meno di tre giorni sono senz’altro più robuste (pacheiai), di buon colorito (euchrooi), mascoline (andrikai), poco inclini alla maternità (mnēsitokoi), e al concepimento (oude kyiskontai) (Mul. I, 6; L. VIII, 30). In una società di padri, che impone alle vergini il matrimonio e il parto, e alle vedove, purché ancora feconde, un secondo matrimonio, Malattie delle donne sancisce nella superiore objettività e autorità che competono a una scienza, il ricatto igienico a cui la femmina viene sottoposta. Il dominio sociale e sessuale del maschio vi si esprime da un punto di vista anatomico nella visione – che solo nella sua formulazione non è più mitica – di un utero mobile, un animale desideroso di figliolanza, che presto si condenserà nella metafora platonica del Timeo, la quale riassume tutta la sintomatologia del soffocamento isterico: nelle donne la cosiddetta matrice e la vulva somigliano a un animale desideroso di far figli, che, quando non produce frutto per molto tempo dopo la stagione, si affligge e si duole, ed errando qua e là per tutto il corpo e chiudendo i passaggi dell’aria e non lasciando respirare, getta licorpo nelle più grandi angoscie e genera altre malattie d’ogni specie. (Timeo, 91 c). Qualche decennio prima, nello stile caratteristico dei libri di Epidemie17, equilibrate e oggettive cartelle cliniche riproducono nelle sindromi individuali, con impegno ideologico assai minore, ciò che Malattie delle donne amplificava e rendeva para17 Con Epidemie ci troviamo in un ambito scientifico assai diverso da quello di Malattie delle donne. Possiamo assumere come discriminante l’impiego o meno della tecnica della succussione, pratica terapeutica molto violenta e pericolosa che Malattie delle donne valuta positivamente e raccomanda nei casi di parto difficile (cap. 68, 248), Epidemie V, 103 ed Epidemie VII, 49 la registrano invece come occasione morbigena: provoca due casi di tisi con esito mortale. In un solo caso si registra un esito positivo, in un’affezione al fegato (Ep. VI, 8.28). La succussione viene descritta e criticata aspramente in Articolazioni (L. IV, 182 ss; cap. 42-43-44). L’autore afferma che essa, per il suo apparato spettacolare, mira a ottenere il plauso della folla, indipendentemente dal suo successo. La considera una pratica da ciarlatani, dichiara di non impiegarla personalmente mai, ma non nega che talvolta, se ben impiegata, ottenga qualche risultato. Solo però nei casi in cui essa si fondi su di una conoscenza scientifica del corpo (42). La succussione faceva dunque ancora parte di un arretrato rituale ostetrico, rispecchiato in Malattie delle donne, quando in altri luoghi, in altri ambiti medici, veniva messa in discussione o era già stata abbandonata.

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digmatico. Fra le molte storie di donne che nei sette libri di Epidemie registrano, accanto ai morbi più diversi (epidemici e non epidemici, tetani, cardialgie, idropisie e molti altri), le innumerevoli occasioni di malattia che si verificano durante la gravidanza, in seguito a un parto o un aborto, pur nello scarso impegno eziologico, accade di trovare indicazioni sull’origine isterica delle cefalgie femminili: Nelle donne che in seguito a un aborto e a un gonfiore all’utero, soffrono di mal di testa, i dolori si fanno sentire soprattutto alla fronte, come accade in tutti quelli che provengono dall’utero» (Ep. VI, L1; L. V, 266). Nella donna di Fere, una gravidanza rappresenta la soluzione definitiva di questo tipo di malessere: «quando rimase incinta, i dolori alla testa scomparvero» (Ep.V, 12; L. V, 212). Come rimedio, nel caso della cefalalgia isterica, ritroviamo il castorio, uno dei farmaci più usati nelle malattie di origine uterina. Offerte di aromi, pessari e cataplasmi a base di sostanze profumate, allontanano gli accessi di strangurie, e i dolori isterici al ventre (Ep. VII, 64; L. V, 430). La sospensione dell’attività sessuale in due donne, una di Abdera, l’altra di Taso, ha come conseguenza un rapido processo di virilizzazione, a cui segue una morte inevitabile: In Abdera Fetusa, la donna che stava in casa di Pitea, aveva avuto in precedenza dei figli. Dopo la fuga del marito, le regole s’interruppero per molto tempo; in seguito a ciò, dolori e arrossamento alle articolazioni; contemporaneamente, il corpo prese un aspetto virile e dovunque si coperse di peli, crebbe la barba, la voce divenne roca, e sebbene noi avessimo fatto tutto quanto si poteva per provocare il ritorno del mestruo, esso non venne, e la donna morì dopo aver vissuto non molto tempo ancora. La stessa cosa capitò anche a Nanno, moglie di Gorgippo, a Taso: a tutti i medici, fra cui anche a me, sembrava che l’unica speranza di un ritorno dell’aspetto femminile fosse la ricomparsa del flusso naturale; ma anche in questo caso, pur avendo fatto di tutto, le regole non poterono tornare, e la donna non ci mise molto a morire. (Ep. VI, 8.32; L. V, 356). Il senso complessivo di ciò che in Epidemie VI, 8.32 è soltanto un sintomo individuale, va cercato però altrove: nella descrizione incalzante che Malattie delle donne offre delle catastrofiche conseguenze, più gravi di mese in mese, dell’interruzione della catarsi mestruale (Mul. I, 2); nel terrorismo igienico del Peri partheniōn, dove una diretta e brutale descrizione dei mali terribili in cui incorrono le donne che si astengono dai rapporti sessuali, scoraggia qualsiasi forma di castità, con la minaccia di una morte suicida. Oggetto delle Malattie delle vergini18 è una forma sospetta di epilessia19, descritta come un male terribile, in cui incorrono sia gli uomini sia le donne, ma che soprattutto in queste ultime, la cui natura è meno ferma e coraggiosa (athymotere kai oligotere), ha conseguenze tragiche perché procura visioni orribili, terrori, paure e 18 Si tratta di un breve frammento di un’opera non conservata, di cui si sa ben poco, oltre al fatto che è citata nel Glossario di Galeno (Littré, VIII, 464). 19 Al proposito si veda Diepgen, cit., p. 194.

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istinti omicidi. Le donne colpite da questo male si sentono costrette come da un ordine perentorio (keleuousin) a saltare, gettarsi nei pozzi, strangolarsi. La malattia colpisce soprattutto le fanciulle vergini se, quando viene il momento del matrimonio, esse lo ritardano o vi rinunciano. Il contatto sessuale dovrebbe infatti facilitare l’eruzione del mestruo, la cui ritenzione è nelle donne la causa del male (la brevità del frammento ci impedisce di sapere che cosa invece avvenga nell’uomo). La guarigione ha luogo anche qui con il matrimonio e il concepimento. Tra le donne maritate inoltre, quelle più esposte all’«epilessia» sono quelle sterili (Peri partheniōn, 1) Le vergini perpetue vengono dunque colte da questa forma spuria di epilessia, forse un «grande attacco isterico», per una congenita debolezza riscattata soltanto nel matrimonio e nella maternità. Matrimonio e maternità sono da sempre considerati i mezzi per trarre la femmina alla sua mesotēs: come dirà anche Aristotele, la lascivia delle fanciulle, la loro tendenza a superare la misura del piacere nell’esuberanza dell’età, si spegne dopo che siano intervenuti «molti parti» (Hist. anim., VII, 1). La maternità è il solo rimedio alla smodatezza femminile, il naturale strumento della sua mesotēs, che coincide con la stanchezza della vecchiaia e con il suo precoce sfiorire. Rispetto all’ideologia complessiva della donna che si esprime nelle opere ginecologiche ippocratiche, Aristotele rappresenta da un lato un portavoce fedele e senza sostanziali mutamenti, dall’altro un brusco irrigidimento nel tentativo, che fallirà presto dopo di lui, di configurare un modello femminile biologicamente inerte. Nella generale debolezza della femmina, nel suo continuo bisogno di tutela e di interventi terapeutici maschili, nessuna di queste opere aveva mai negato l’esistenza di un apporto seminale femminile nel momento della riproduzione 20 : né Malattie delle donne, che indica nella fusione delle due secrezioni, maschile e femminile, la condizione del concepimento (Mul. I, 17; L. VIII, 56) e che nomina esplicitamente ho gonos tou arsenos kai tou theleos (Mul. I, 8; L. VIII, 34); né il Peri gonēs, uno degli apporti ippocratici più importanti sul tema riproduttivo, che

20 i sl ilel dliinl l llp l dl rp lel leelplil r lsll lpll slpll dl rpl irp l dl hr llpl hllpll lhl hcl pli e lhlil lini elsllel lpllspl l lsl llel hlplslilt ic rlil l l l sldllll dl inlsl lpl dliil lsel l rlil li rl slhl l dl lsel llpl lc l l l l lplsle l l lplllsll l rsl lillpll dli el hcll dc hlel leelpl l il dl lslp ll llpl l rlil dli pl hllrsll l hlle l l sldlllselplll pli lel l rsl l dl lpdl l dliil l l ll rslpl rpl lsll dl lllsllt pllrsl dliil ellslhli opl lsll dl sl ilell rl lll il hrl s riil lsel llpl dliil lsel elllsll lphl lilellil lpll lel lplllhll lp lplllhll h i riil dlllselpl llpl sl lelhl l elll lelhl dli l l dli pl hllrsl eitic lLl eL leelplili ri llll hcl lphcl il leelpll riinl l llp l l riinlpl l llp l dliil lsel pliinlhhl llelplll sldrhl lell lpl hlphlsdl pli e lhlil ls lpl l dl slpdl slillel lil l lhl l hllpll lhll rlil fihellpll fpl l lsll clselpldll oe ldlhil e e lc f sdcl e ll hlpels lp l r rl ll llel hlp lsel dl rp illl hcl lpl e e d. f sdci opl hl p l l 6 itgneg ic l . l sI iluMc pliil l lsl l lhslllhcll ilddlel l lsil dl lel pliil leelpl rl lnrillel l lsl sl slpdl dlsllllelpll il lllsll tl.- l lI sgtin ii icgP Li e l cI. I léirritt cieugntunoheiig-ogtégttégPnPutnMgnct ichnrPguii ln i liL isgtinei eP il sl l pl elp lpl l rpll hlpllprll dlllslplil lr hlp lildlll pliil lsldl llpl e.s-clsl s06Pl i .P hl lil li llil lhl dliinlilsl lhhlplrl il sldlhlil dlell llpl dl fsl llllill hcl lllsl rl ieil l6 Il6 lP- l s0 itgneg nn iic el hcll il lhlilr dl sldrssl lsel

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avrà un grande peso, pur nel silenzio e nella censura che lo coprono, nella scrittura del De generatione animalium di Aristotele 21. Il Peri gonēs condivide molti luoghi comuni che sanciscono l’esistenza di un «male femminile»: Se le donne hanno rapporti sessuali con gli uomini sono più sane; se no, lo sono meno. L’utero infatti nel coito s’inumidisce e non si secca; se è secco più del

21 Aristotele conosce senza dubbio molto bene le tesi sostenute nel Peri gonēs. L’emissione di sperma nella donna avviene, dice l’autore del Peri gonēs, durante il rapporto sessuale e in concomitanza con il piacere sessuale. L’annotazione ritorna senza sostanziali variazioni nella Historia animalium di Aristotele: «nel rapporto amoroso le donne di complessione chiara emettono una secrezione umorale più abbondante delle brune» (583 a l0-12). Ciò che è invece sorprendente è la ristrutturazione di quest’informazione nel De gen. anim.:

Alcuni pensano che la femmina contribuisca con seme nella copula, dato che talvolta in essa si ha un godimento simile a quello del maschio, e contemporaneamente una secrezione liquida, ma questo umore non è seminale, bensì locale, diverso per ciascuna, perché c’è un’escrezione dell’utero, che in alcune si sviluppa, in altre no: si sviluppa generalmente nelle donne di pelle chiara e più femminili, non si sviluppa in quelle brune e mascoline (727 b – 728 a). Ciò dipende senza dubbio dal fatto che nella Historia il problema del seme femminile non viene affatto discusso, e ci si limita ad accennare a un’analogia tra sperma e mestruo (585 a – 585 b). Nel De gen. anim. invece, dove si svolge una lunga polemica contro posizioni dottrinali identiche a quelle espresse nel Peri gonēs (I, 19-20), la necessità di escludere in ogni modo la «escrezione uterina» da ogni qualifica seminale è troppo forte. La sua presenza infatti è dichiarata non necessaria ai fini della fecondazione (in alcune si sviluppa, in altre no), ed è legata prevalentemente (e peraltro correttamente, da un punto di vista fisiologico) alla partecipazione della femmina al piacere sessuale. Tuttavia il Peri gonēs non è mai espressamente citato da Aristotele (che però non è solito citare le opere ippocratiche da cui pure desume un notevole numero di informazioni). Aristotele sembra inoltre non essere al corrente delle teorie sull’ereditarietà espresse nel Peri gonēs, tanto che si è potuto concluderne che egli non lo conoscesse affatto (Lesky, cit p. 1314-15, n. l, in cui viene fornita una bibliografia relativa al problema di quali fossero le opere del C. H. effettivamente note ad Aristotele). È comunque indubbio che, al di là di ogni determinazione che coincida concretamente e puntualmente con il trattato Peri gonēs, Aristotele era senza dubbio al corrente di gran parte delle dottrine in esso enunciate, almeno quelle in merito al nodo teorico rappresentato dalla inscindibilità dei due fattori: il seme femminile (= escrezione uterina) e il piacere femminile; due fattori che non per caso subiscono la stessa sorte di censura e di esclusione dall’orizzonte delle regolarità naturali: Un segno anche che la femmina non emette seme del tipo di quello del maschio, e che la generazione non ha luogo dalla mescolanza dei due, come alcuni sostengono, è che spesso la femmina «concepisce senza che abbia provato il piacere dell’accoppiamento» (De gen. anim. 727 b 5-9). Come l’«escrezione uterina», anche il piacere che la rappresenta si fa un fatto sporadico e casuale, non passibile di regolamentazione scientifica.

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giusto si contrae violentemente, procurando così sofferenze al corpo. Il coito poi, riscaldando il sangue e inumidendo, rende più facile la via al mestruo. Quando il mestruo non scende, i corpi delle donne diventano cagionevoli (Peri gonēs, 4). Il maschio è più forte della femmina (Peri gonēs, 6). Tuttavia il Peri gonēs, pur condividendo la comune rappresentazione del corpo femminile come un oggetto strutturalmente malato, fornisce due importanti chiavi di lettura del fenomeno biologico della riproduzione, l’una del tutto conscia, l’altra del tutto involontaria ma gravida di conseguenze, che lo conducono a risultati sorprendenti e tali da differenziare queto testo, soprattutto sul piano ideologico, da tutte le altre opere ginecologiche. In primo luogo, il Peri gonēs attribuisce un senso biologico al piacere femminile, mettendolo in relazione con l’emissione di sperma nell’utero (cap. 4). Il godimento femminile è garantito nella sua realtà fisiologica, e analiticamente descritto come meno intenso e di più lunga durata rispetto a quello maschile. Considerato parte integrante della meccanica riproduttiva, esso trova il suo senso unicamente all’interno di questo fenomeno l’esistenza del piacere femminile rappresenta infatti l’esistenza del seme femminile, ne è il sintomo inconfutabile. Nulla di strano dunque, se Aristotele, dimostrando nel De generatione animalium l’assenza di una qualsivoglia secrezione seminale nella femmina, ridurrà anche il piacere femminile ad una inutile, irrilevante e sporadica manifestazione della bizzarria della natura, che non sempre agisce in vista di un fine (De gen. anim. I, 20). Ma le ragioni per le quali Aristotele tenta in ogni modo di togliere fondamento al nucleo dottrinale del Peri gonēs sono ancora più forti: in quest’opera infatti si asserisce, da un punto di vista biologico e riproduttivo, una mitica totalità del femminile. La femmina unifica dentro di sé, per usare un linguaggio aristotelico, i contrari della forma e della materia, dispone cioè di seme, sia maschile che femminile, e di alimento, il sangue mestruale che nutre il feto. Lo sperma infatti, che viene prodotto sia nel maschio che nella femmina (cap. 4), ha in sé un principio maschile e uno femminile la cui combinazione dà luogo alle differenziazioni sessuali, secondo dinamiche interne di sopraffazione del principio maschile da parte di quello femminile, o viceversa (cap. 6). Dotata quindi come il maschio di uno sperma ermafrodito, la femmina offre però nella riproduzione anche il suo sangue mestruale, la materia (Natura del bambino, cap. 14)22. Nella sua materna totalità vegetale la femmina condivide cioè un patrimonio formale la cui presenza dischiude, nel Peri gonēs, la possibilità, anche se solo teorica, e per il momento non ancora esplicitata, della partenogenesi; possibilità la cui amplificazione e il cui sviluppo avrebbero reso, almeno teoricamente, superfluo ogni intervento maschile nella generazione. Di fatto, nel corso delle antiche vicende degli studi sul problema della riproduzione, il sospetto della partenogenesi non venne mai del tutto accantonato, sia perché sostenuto da una rappresentazione vegetale del femminile, realizzazione di una mitica fecondità spontanea, senza aratura e senza coito, della terra madre, sia perché rafforzato dall’estrema difficoltà di accertare una

22 Natura del bambino non è che la prosecuzione del Peri gonēs (Joly, Les Belles Lettres, Paris 1970, p. 12).

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causalità lineare tra coito e concepimento: gli uccelli fanno le uova anche senza l’intervento del maschio. Una fra le teorie meno adeguate alla soluzione di questo problema fu certo quella aristotelica. Nello sforzo sempre e dovunque perseguito di non caratterizzare in alcun modo lo sperma maschile come «materia», Aristotele ne paragona il modo d’agire a quello dell’anima o della scienza (De gen. anim. I, 730 b 15), negando che esso possa in qualche modo fondersi con il prodotto concepito: Lo sperma non si mescola o rimane dentro ... Ma è con la potenzialità che gli è propria che il seme maschile configura in un certo modo la materia e l’alimento della femmina. (De gen. anim., 1,21). La nozione aristotelica di sperma, e della sua azione informatrice, è così evanescente, così inadeguata da un punto di vista autenticamente biologico, che tutta la discussione esegetica futura sul testo del De generatione mira a riconferire allo sperma comportamenti materiali e concretezza biologica. Talora si dirà che esso evapora, dopo aver comunicato i suoi impulsi fecondatori, talora si dirà invece che esso si mescola alla materia mestruale, e che si confonde con il prodotto del concepimento. Per questa ragione, cioè l’inadeguatezza scientifica del concetto aristotelico di sperma, la spiegazione che il De generatione fornisce a proposito della fecondazione delle uova degli uccelli è ben presto rimessa in discussione: l’argomento della partenogenesi, che si fondava in gran parte sul fatto che gli uccelli producono uova anche senza accoppiarsi con il maschio, non è mai definitivamente confutato, anche se la distinzione tra le uova feconde e le uova sterili è già ben nota (De gen. anim. I, 21). Ma se non si tratta di un’entità materiale contenuta nello sperma del maschio, che cosa rende feconde le uova? Per quale ragione non è allora possibile pensare a una riproduzione tutta femminile? Tutte queste domande rimangono a lungo prive di una risposta definitiva, e così, nel II secolo d. C., il sospetto della partenogenesi non è ancora stato eliminato dall’orizzonte scientifico. Si continua a discutere di questa possibilità, si continua cioè a chiedersi, come testimonia Galeno, «perché, se c’è sperma anche nell’animale femmina, sia stato generato il maschio; perché mai la femmina non generi da sola, essa stessa da se stessa» (De semine II, 3; K. IV, 619). Con il De semine di Galeno, almeno in merito all’esistenza di un «seme femminile», sarà il Peri gonēs, e non il De generatione animalium di Aristotele ad avere la sorte migliore23. Benché sottoposte da parte di Aristotele alla più dura delle censure, le tesi del Peri gonēs ricompaiono presto nell’orizzonte biologico già con il fisico Stratone di Lampsaco (De semine, II, 5), poi con Erofilo ed Erasistrato. Da ultimo, Galeno crederà di aver finalmente individuato il seme femminile nella secrezione tubarica, e si appellerà a questa (per lui inconfutabile) realtà anatomica, contro la fitta

23 Con il Peri gonēs riemerge anche il piacere femminile, considerato ormai una costante e non più un’anomalia nell’atto sessuale (Galeno, De semine, II, l). Esso verrà tuttavia neutralizzato in una visione igienico-fisiologica del coito, che quando è necessario deve comunque avvenire, per il maschio e per la femmina, anche senza godimento (De locis affectis, VI, 5); trattenere il seme è infatti considerato grandemente nocivo per la salute del corpo.

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schiera di aristotelici suoi contemporanei, dogmatici e ottusi lettori del De generatione animalium (De semine, I, 3).

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a cura di Giacomo Rinaldi

Giacomo Rinaldi, Attualità dell’Idealismo attuale. Hegel e Gentile I. – Nella sua relazione “Il problema dell’Assoluto in una nuova lettura della Logica hegeliana dell’Essenza e del Concetto”, letta il 15 novembre 2012 all’Università di Urbino nell’ambito del Congresso internazionale “Idealismo assoluto e filosofia contemporanea”, il Professor Pirmin Stekeler-Weithofer ha messo opportunamente in rilievo il ruolo cruciale che la soggettività del pensiero autocosciente svolge nel sistema hegeliano. Soggettività che è tale, perché non ha la rigida immobilità dell’astratto oggetto, bensì “è” solo in quanto “si fa”, si realizza in un inesauribile processo storico, in cui tutto ciò che viene ad essere ha già sin dalla nascita in sé il germe della sua morte. Prendendo, tuttavia, le distanze dal radicale storicismo che caratterizza alcune recenti letture “pragmatistiche” di Hegel 1 egli mostra altresì di comprendere che tale processo è impossibile e impensabile ove non si ammetta l’attiva presenza e immanenza in esso della verità dell’Eterno e dell’Infinito, la quale, tuttavia, non sarebbe esplicabile in un sistema chiuso di categorie, bensì coinciderebbe piuttosto con la forma trascendentale del medesimo processo: Quando noi parliamo di verità “eterna”, parliamo della forma delle proposizionibase mediante cui noi rendiamo esplicite inferenze che sono “materiali” e nel contempo “concettuali”. La reale “infinità” o “eternità” è la forma del progetto come tale, non la forma reale in ogni sistema reale di conoscenza.

1 Per una critica della versione formulata da R.B. Brandom cf. G. Rinaldi, Absoluter Idealismus und zeitgenössische Philosophie. Bedeutung und Aktualität von Hegels Logik, Peter Lang, Frankfurt a. M e a. 2012, p. 4-19.

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Ora, questa concezione del rapporto tra tempo ed eternità, Assoluto e storia è sorprendentemente affine, se non addirittura identica, a quella che Giovanni Gentile esplicitamente contrappose alla diversa soluzione hegeliana del problema della deduzione delle categorie nel contesto della sua celebre Riforma della dialettica hegeliana (1913). In essa, infatti, il filosofo italiano elabora una interpretazione (e critica) attualistica e storicistica dell’Idealismo assoluto, la cui tendenza gnoseologica, al di là delle pur rilevanti divergenze, caratterizza in definitiva anche lo storicismo assoluto di Benedetto Croce, ed è così divenuta, in certo senso, patrimonio comune del pensiero idealistico italiano del secolo XX2. Pensiero che anche nel XXI non sembra, dunque, aver smarrito nulla della sua attualità, e merita perciò di tornar oggi al centro della nostra attenzione. In questo saggio cercheremo dunque: (1) di accennare sommariamente i principi della filosofia gentiliana dell’Idealismo attuale; (2) di enucleare, quindi, l’essenza e il significato della sua differenza rispetto all’Idealismo assoluto di Hegel; e, infine, (3) di indicare le ragioni della sua persistente attualità e verità, ma anche gli innegabili limiti e inconsistenze che noi scorgiamo nella critica attualistica del pensiero hegeliano. Giovanni Gentile fu indubbiamente il massimo filosofo italiano del XX secolo. Nessuno come lui, infatti, riuscì a coniugare il più intenso interesse teoretico per la ricerca della Verità con la più accurata e minuziosa ricostruzione storiografica delle personalità individuali e delle dottrine determinate, in cui l’Idea del Vero consegue realtà oggettiva, manifestazione concreta e influenza formatrice sullo sviluppo della cultura umana. D’altra parte, contrapponendosi esplicitamente all’intera tradizione teologica e metafisica dell’Antichità e del Medioevo, egli nega perentoriamente che la conoscenza teoretica della Verità possa esser concepita come la passiva contemplazione di una realtà (ideale o reale) già data, presupposta perciò all’atto della sua conoscenza da parte dell’autocoscienza umana, e quindi indifferente alla sua essenza e processo. Dall’epistemologia kantiana e dal principio vichiano del verum factum egli desume infatti l’idea che il conoscere, considerato della sua trascendentale originarietà, sia piuttosto un’“attività costruttiva dell’esperienza”, che, in definitiva, si identifica con la stessa creatività del volere. «La filosofia moderna come idealismo», egli perciò conclude, «è essenzialmente un’etica»3. Il problema morale consegue così un indubbio primato nell’“attualismo” (come viene anche solitamente designato l’Idealismo attuale), che ne offre certamente una soluzione articolata e convincente, rendendo giustizia sia alle sue immediate condizioni giuridiche ed economiche – il “volere voluto”, nella sua terminologia – che all’irrinunciabile assoluta autonomia e autodeterminazione del “volere in atto”, che si realizza compiutamente solo nell’eticità dello Stato. In aspra, intransigente polemica sia contro le concezioni teocratiche della politica, privilegiate dalla teologia cristiana medievale, che contro 2 Cf. G. Rinaldi, “Italian Idealism and After: Gentile, Croce and Others”, in: AA.VV., Routledge History of Philosophy, vol. 8: Twentieth-Century Continental Philosophy, c/ di R. Kearney, Routledge, London-New York 20032, p. 350-89. 3 G. Gentile, Discorsi di religione (1920), in: Id., La religione, Sansoni, Firenze 1965, p. 357.

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l’individualismo liberale dell’Età moderna e il socialismo materialistico dell’Età contemporanea, Gentile elabora teoreticamente, e testimonia praticamente fino al sacrificio della sua stessa vita, l’ideale di uno Stato “laico” non già perché ateo o agnostico, bensì perché ha in sé stesso, senza bisogno di trascendenti investiture, la sostanzialità del Divino, è anzi la sola manifestazione adeguata dell’intima “religiosità” del volere. D’altra parte, la peculiare universalità del principio etico esclude senz’altro la possibilità che esso si realizzi pienamente nel volere contingente e arbitrario, inevitabilmente impotente, dell’individuo isolato. Contro l’atomismo morale e sociale dominante nel mondo occidentale a partire dall’età dell’Illuminismo, egli rivendica con espressioni sempre eloquenti, e il più delle volte felici, l’intima “socialità” del mondo morale. L’errore fondamentale del liberalismo individualistico, egli afferma, consiste nel fatto che esso disconosce ogni sostanza etica e ogni realtà effettuale allo Stato come quella comunità, che gli individui trovano nel proprio fondo, intima radice vivente della propria personalità e del proprio diritto» (ivi, 305–306). Lo Stato […] non è inter homines, ma in interiore homine. Non è quello che vediamo sopra di noi; ma quello che realizziamo dentro di noi, con l’opera nostra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti» (ivi, 307). Infine, l’errore fondamentale del socialismo marxista, contro cui egli polemizza a ragion veduta e con piena cognizione di causa fin dal 1899, anno in cui diede alle stampe il suo secondo libro, La filosofia di Marx, è quello di fraintendere in senso materialistico quel concetto del “rovesciamento della prassi”, cioè dello sviluppo dialettico dell’atto del volere, che a partire da Hegel costituisce indubbiamente una delle acquisizioni fondamentali della filosofia contemporanea. Presupponendo alla prassi umana la realtà trascendente della materia, esso da un lato ricade nell’ingenuità epistemologica del realismo dogmatico, mostrando di non aver imparato nulla dalla critica kantiana della conoscenza; dall’altro, perde di vista l’intimo carattere spirituale, intellettuale del lavoro, privilegiando indebitamente l’esteriore, meccanico lavoro manuale. Nell’eticità assoluta dello Stato, e nella sua adeguata, immanente autocoscienza nel sapere filosofico, si attua e celebra dunque l’originaria, assoluta identità del pensiero e della volontà, della conoscenza e della prassi; come tale essa costituisce perciò l’assoluta “concretezza” dell’“atto del pensare” o, com’egli anche si esprime, dell’“atto puro” dello spirito. Ma come non c’è né ci può essere verità senza errore, bene senza male, oggetto senza soggetto, così anche la concretezza dello spirito non è possibile né pensabile se non come unità o mediazione di due opposti momenti “astratti”. Ora, siccome essa si costituisce essenzialmente come identità del soggetto (interiorità, attività) e dell’oggetto (universalità, assolutezza), i momenti astratti, che (idealmente, non temporalmente) precedono la sua attualità concreta, saranno quello della posizione dell’astratta soggettività dello spirito, che si esplica nel mondo dell’arte, e quello dell’opposta posizione della sua astratta oggettività, che sta alla radice della forma spirituale della religione. L’attualismo di Gentile, dunque, non diversamente dalla filosofia di Hegel, culmina nell’esplicazione sistematica delle “forme assolute dello spirito”: arte, religione e filosofia. La sua Filosofia dell’arte (1931), i precedenti Discorsi di religione (1920) e il Sistema di logica come teoria 155


del conoscere (1917/ 1921) debbono, in effetti, esser senz’altro annoverati tra gli indiscussi capolavori della filosofia europea del XX secolo. A questo punto, possiamo già dare una prima, provvisoria risposta all’interrogativo circa le ragioni della persistente attualità dell’Idealismo attuale. Già da quanto abbiamo sommariamente accennato, appare innegabile la sua ampiezza e vigore sistematico, la sua straordinaria capacità di fondere in una totalità organica e coerente le più eterogenee forme e concezioni, in cui si realizza e manifesta l’attività dello spirito. Prendendo in considerazione i massimi sistemi elaborati dalla filosofia occidentale, solo nel caso di quelli di Kant e di Hegel il confronto sembra volgere a sfavore dell’attualismo. Gentile, infatti, non ha elaborato nessuna Filosofia della natura (e delle scienze della natura), anzi ne ha addirittura perentoriamente negato la stessa possibilità di principio. Se il peculiare proposito teoretico dell’idealismo filosofico è la compiuta risoluzione della natura nello spirito, così egli argomenta, allora viene ovviamente a mancare alla Filosofia della natura il proprio oggetto. In realtà, si potrebbe objettare a Gentile, la negazione della concretezza assoluta della natura non esclude, anzi implica, che l’Idea logica possa e debba realizzarsi anche in forma immediata e astratta, che è come tale altra dall’autocoscienza, e coincide appunto con la molteplicità spazio-temporale dei fenomeni e dei processi naturali. Altro, insomma, è negare la realtà assoluta della natura, altro è negare che essa possa ciò nondimeno costituire il legittimo oggetto di una specifica scienza filosofica. Pur ammettendo, dunque, che l’attualismo lascia insoluto il problema metafisico della natura e quello della sua conoscenza, non si può negare che l’autocoscienza della verità nelle forme assolute dell’arte, della religione e della filosofia pervenga in esso a un grado di sviluppo che per ricchezza sistematica non trova certamente riscontro nella filosofia del XX secolo. Se è, dunque, vero, come Hegel sembra aver provato una volta per tutte, che la vera filosofia non può attuarsi se non nella forma del “sistema”, allora il carattere genuinamente sistematico dell’attualismo costituisce di per sé un argomento cogente onde rivendicarne l’attualità anche ai giorni nostri. II. – L’esigenza sistematica essenzialmente inerente al pensiero filosofico, tuttavia, può essere soddisfatta – come la storia della filosofia del XX secolo ha ampiamente mostrato – in maniere assai differenti, che spaziano tra due opposti estremi. L’unità dei molteplici concetti, principi, teorie, in cui il sistema di necessità consiste, può essere infatti concepita o come un’unità soggettiva del sapere, i cui molteplici oggetti vengono presupposti come in sé eterogenei e reciprocamente indifferenti, o come la differenziazione immanente di un’unità originaria, che pone il molteplice solo per poi “toglierlo” e riassumerlo in sé. L’esempio più emblematico della prima alternativa è la filosofia sistematica di Nicolai Hartmann, per il quale il sistema delle scienze filosofiche non è infatti altro che l’aggregato (solo tendenzialmente completo, e in definitiva insuperabilmente antinomico) di una molteplicità di cognizioni concernenti enti, categorie o “strati d’essere” (Seinsschichten) in sé sussistenti prima e indipendentemente dalla loro unificazione nel sistema. Una “filosofia sistematica” così concepita, da un lato, cade palesemente nelle insolubili antinomie che – come Platone aveva già mirabilmente mostrato nel Parmenide (164b-165e) – ineluttabilmente inficiano ogni metafisica pluralistica che parta dall’assunto: «I molti sono». Dall’altro, essa difficilmente può evitare di risolversi in una sorta di superficiale 156


eclettismo, nella sintesi estrinseca, arbitraria, priva di originalità di un sapere già prodotto da altri. L’attualismo di Gentile, al contrario, è la più radicale e perentoria realizzazione a noi nota dell’opposta alternativa. L’intero scibile, anzi l’intera realtà, che per lui con esso, in definitiva, si identifica, non sarebbe infatti altro che la manifestazione di un unico, assoluto principio, l’Idea in quanto “atto del pensare”, “pensiero pensante” o “logo concreto” – espressioni, in sostanza, equivalenti, che non significano, in fondo, altro se non che la vera Idea, a differenza di quella di Platone, non è un astratto oggetto trascendente, bensì è l’unità dinamica immanente di soggetto e oggetto. Gentile perciò non esita una volta a definire opportunamente l’Idealismo attuale come un “monismo spiritualistico”4. L’intero edificio teoretico della sua filosofia, di conseguenza, sta o crolla a seconda che il principio su cui esso riposa sia giudicato vero o falso. Questo orientamento “monistico” del sapere filosofico era certamente già presente e attivo nel sistema hegeliano, ma viene, se mai possibile, ulteriormente accentuato nell’attualismo. Come vedremo meglio tra breve, una delle differenze essenziali tra la versione gentiliana e quella hegeliana dell’idealismo filosofico consiste infatti nel fatto che, mentre per il secondo lo sviluppo, la differenziazione del principio del sistema è non meno importante del principio stesso, per il primo la soluzione dell’unico, eterno problema della filosofia coincide senz’altro con l’adeguata formulazione e difesa di tale principio, laddove ogni suo pur necessario sviluppo sistematico rientrerebbe nella sfera inattuale del mero “pensiero pensato”. Secondo la pregnante formulazione reperibile nei Discorsi di religione, l’assunto fondamentale dell’Idealismo attuale consiste nella tesi che quella realtà che è nostra realtà non è che idea: quella idea, in cui infatti si idealizza ogni realtà più materiale in quanto è da noi pensata 5. Onde chiarire il senso profondo di questa concezione gentiliana, potremmo osservare che la realtà, che è oggetto di ogni possibile conoscenza o azione, è di necessità la “nostra” realtà, perché di una realtà esterna o trascendente rispetto alla nostra esperienza e conoscenza noi, a rigore, non potremmo affermar nulla in maniera consistente – neppure il factum brutum della sua esistenza. Ma Gentile, a differenza dell’empirismo psicologico dell’Età moderna e delle svariate forme di relativismo dominanti nell’Età contemporanea, sa bene che il “noi”, di cui possiamo affermar apoditticamente l’essere, non è già l’oggetto della percezione immanente o del senso interno, che sono inevitabilmente transeunti e mutevoli, e, in quanto originariamente passivi, dipendenti da un “altro” a rigore inconoscibile, bensì solo l’identità ideale, logica dell’“Io” in quanto “Io penso” o “atto del pensare”. Ma “pensare”, per Gentile come già per Kant, è essenzialmente “giudicare”; e il giudizio è la sussunzione del particolare sotto l’universalità della categoria, del Concetto puro, dell’Idea. Ecco, dunque, perché l’Idea è l’originaria condizione di possibilità di ogni sapere, volere, agire – e perché la vera filosofia, che per Gentile, come già per Platone e per Hegel, ne costituisce la forma più alta, sia sempre e di necessità “idealismo”.

4 G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1913), Sansoni, Firenze 19825, vol. 1, p. 93. 5 Discorsi di religione, cit., p. 328.

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Ma se è vero che il principio di ogni vera filosofia è l’idealismo, è altresì vero che esso non si realizza in maniera egualmente adeguata nei molteplici sistemi filosofici storicamente dati. In effetti, una delle tesi più peculiari e audaci dell’Idealismo attuale è appunto il perentorio rifiuto di riconoscere l’adeguatezza della realizzazione del principio dell’idealismo in tutte le filosofie diverse dall’attualismo – ivi compresa, come vedremo, la stessa filosofia di Hegel, a proposito del quale, nel 1° volume del Sistema di logica come teoria del conoscere, egli non esita infatti a dichiarare: «lo stesso Hegel […] abbiamo pur visto, a proposito del dialettismo, come si lasciasse sfuggire anche lui il segreto della mente»6. Contro l’ontologia platonico-aristotelica egli avanza l’objezione, in definitiva plausibile, che, sebbene essa abbia il merito di identificare la realtà attuale con l’Idea, la Forma o il Pensiero del pensiero, questi concetti vengono concepiti come oggetti già dati, presupposti all’atto autocosciente del pensare mediante cui l’Io li tematizza. Per la medesima ragione per cui ogni presunta realtà esterna all’autocoscienza umana è in sé impossibile e impensabile, anche l’idealismo platonico-aristotelico sarebbe dunque incapace di fondare in maniera coerente il proprio principio. Una seconda fondamentale forma di idealismo viene identificata da Gentile nel Cristianesimo, nella misura in cui esso, in polemica contro il naturalismo greco e il teismo trascendente ebraico, afferma l’assoluta realtà e verità dello “spirito”. Neppure nel Cristianesimo, tuttavia, il principio dell’idealismo riesce a pervenire ad adeguata manifestazione, perché la realtà assoluta dello spirito viene da esso affermata nell’ambito di una concezione dualistica della realtà, in cui l’infinità dell’Io, pur da esso riconosciuta, viene tuttavia contraddittoriamente negata nella misura in cui viene ad esso presupposta la realtà indipendente della natura e del Dio personale trascendente (che, in quanto trascendente, Gentile profondamente osserva, non si distingue dall’oggettività della natura se non per i predicati antropomorfici che la rappresentazione religiosa inopportunamente gli attribuisce). Il limite dell’idealismo moderno è invece il suo soggettivismo astratto7. Per Berkeley l’esse dell’oggetto materiale non è in realtà altro che la sua percezione o idea nella mente umana finita, nell’io empirico, ma quest’ultimo, in quanto tale, presuppone al di fuori di sé, quale fondamento ultimo della sua realtà, la Mente infinita di quel Dio personale trascendente che per Gentile è in realtà impossibile e impensabile, nella misura in cui la sua pretesa infinità viene contraddittoriamente negata dalla posizione della mente umana finita al di fuori di lui. Kant distingue dall’io empirico, oggetto del “senso interno”, l’“Io trascendentale” o “Io-penso-in-generale” in quanto “appercezione originaria” o autocoscienza universale, e attribuisce al secondo, e non già al primo, la funzione di costituire l’unità oggettiva dell’esperienza. Ma l’universalità dell’Io trascendentale è soltanto vuota e formale, e perciò non è in grado di porre assolutamente il contenuto attuale della conoscenza, che dev’essere infatti desunto dal dato passivo 6 G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, Sansoni, Firenze 19554, vol. 1, p. 123. 7 Cf. Id., Teoria generale dello spirito come atto puro, in: Id., Opere filosofiche, c/ di E. Garin, Garzanti, Milano 1991, p. 459-62.

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dell’intuizione empirica. Quest’ultima, d’altra parte, viene spiegata da Kant come l’effetto della causalità della cosa-in-sé o del noumeno sulla facoltà sensibile dell’Io, presupponendo così, ancora una volta contraddittoriamente, la realtà di un oggetto esterno all’autocoscienza. La compiuta purificazione del principio dell’idealismo dai “residui di trascendenza”8, che ne hanno inficiato tutte le versioni finora elaborate, verrebbe invece programmaticamente attuata dall’Idealismo attuale, che viene perciò presentato dal suo autore come la “verità” dell’intero sviluppo storico della filosofia. Per questa nuova posizione del pensiero la Realtà assoluta viene a identificarsi senza residuo con l’attività pensante dell’Io trascendentale, e ogni possibile oggetto della nostra coscienza si risolve perciò senz’altro in un contenuto immanente, da esso stesso generato nel processo della sua riflessione. L’Idealismo attuale si presenta dunque come una forma radicale di immanentismo assoluto, e il suo metodo peculiare è il “metodo dell’immanenza”, ch’egli efficacemente descrive nella maniera seguente: Il metodo dell’immanenza, adunque, consiste nel concetto della concretezza assoluta della realtà nell’atto del pensare, o nella storia. Atto che si trascende quando si comincia a porre qualche cosa (Dio, natura, legge logica, legge morale, realtà storica come insieme di fatti, categorie spirituali o psichiche al di là dell’attualità della coscienza), che non sia lo stesso Io come posizione di sé, o, come Kant dice, l’Io penso (ivi, 232). La rigorosa aderenza al metodo dell’immanenza consente a Gentile di svolgere con ammirevole coerenza tutte le più rilevanti implicazioni gnoseologiche, metafisiche ed etiche contenute nel principio dell’attualismo. I limiti del presente contesto non ci consentono di menzionare se non quelle che ci sembrano più originali e significative: l’identità assoluta di gnoseologia e metafisica; la concezione dell’atto del pensare come “atto puro” o “autoctisi”; e infine la teoria del rapporto tra religione e filosofia. L’autocoscienza, nella quale l’Idealismo attuale risolve ogni oggetto o contenuto della nostra esperienza, non è, a differenza dell’Io trascendentale kantiano, una funzione meramente formale e finita del nostro conoscere. Nel processo del pensiero attuale, infatti, non si costituisce, secondo Gentile, soltanto la nostra soggettiva rappresentazione della realtà, bensì la sua stessa essenza ed esistenza oggettiva. Egli può così brillantemente superare la tendenziale contrapposizione tra il punto di vista della filosofia antica e medievale, che concordemente subordinava la gnoseologia alla metafisica – definita, com’è noto, da Aristotele arcikwtath de twn episthmwn 9, la “regina delle scienze” –, e quello della filosofia moderna, che restringe invece il proprio ambito all’analisi gnoseologica delle condizioni di possibilità dell’esperienza e nega la possibilità di principio della metafisica. Nella misura in cui il processo del nostro conoscere si identifica col processo della Realtà assoluta, la gnoseologia viene, in definitiva, a coincidere con la stessa metafisica, e così l’Idealismo attuale, pur respingendo, con la filosofia moderna, la tradizionale “meta8 Id., “Il metodo dell’immanenza”, in: Id., La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 19744, p. 227. 9 Aristotele, Metafisica, 982 b 4.

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fisica dell’essere”, pone le più salde fondamenta di una nuova metafisica della soggettività, o – per usare una pregnante espressione del filosofo hegeliano Bertrando Spaventa – di una “metafisica della mente”. L’errore di Kant, osserva acutamente Gentile, fu ch’egli non vide che la sua gnoseologia non era una “critica”, bensì una dottrina della ragion pura. Non era una prefazione alla metafisica, ma la stessa metafisica. Giacché solo in quanto la conoscenza è lo stesso processo della realtà, il conoscere può essere necessario e universale, e l’attività, che si spiega in esso, veramente a priori, cioè libera. L’idealismo non doveva intendersi quasi una limitazione, bensì come una trasvalutazione della totalità assoluta del reale10. A differenza di buona parte della filosofia antica, moderna ma anche contemporanea, Gentile comprende chiaramente che la realtà dell’autocoscienza non è un essere immediato, una sostanza, un presupposto, naturale o ideale, dell’atto del nostro pensiero, ma piuttosto il prodotto, il risultato assoluto della sua immanente, “libera”, spontanea attività. Come già per Fichte – un filosofo assai più affine a Gentile di quanto gli scarsi ed imprecisi accenni al pensiero dell’uno reperibili nelle opere dell’altro lascerebbero supporre – così anche per lui l’autocoscienza, lo spirito, l’Io “è” solo in quanto “pone sé stesso”, e per designare questa immanente, assoluta autocreazione della realtà spirituale egli conia il termine tecnico di “autoctisi”. L’atto autotetico dello spirito, dunque, precede idealmente il suo essere immediato, che perciò, in quanto da esso dipendente, sembra essere immediato, ma in realtà non lo è. La sua apparente immediatezza non è infatti altro che il risultato di una “autoanalisi” dell’Io, che scinde appunto l’unità assoluta del soggetto e dell’oggetto nell’astratta soggettività dell’io immediato (sentimento, senso, volontà naturale, interessi particolari ed egoistici) e nella correlativa astratta oggettività della natura o dell’oggetto trascendente (Dio, legge morale, logo astratto). La negazione dell’identità immediata dell’Io, e la conseguente contraddizione tra il suo essere e il suo concetto, è dunque per Gentile, come già per Hegel, la legge fondamentale dell’atto del pensare, del logo concreto: Quell’identità di A e non–A che la logica dell’astratto respingeva come la contraddizione, è invece la legge immanente del logo concreto. La contraddizione, anzi che la morte del pensiero, quale appariva nella logica dell’astratto, qui si palesa come la vita del pensiero11. L’autoanalisi dell’Io, tuttavia, dev’esser di necessità seguita dalla sua “autosintesi”, in cui l’originaria unità del soggetto e dell’oggetto viene reintegrata, perché gli astratti opposti, prodotti dalla prima, sono come tali privi di realtà e verità. Le conseguenze etico-politiche di questa concezione metafisica dell’essenza dello spirito umano sono della massima rilevanza. Concependo l’essere immediato dell’Io, cioè l’uomo come individuo e volontà naturale, come una mera astrazione contraddittoria che dev’essere negata nell’universalità del soggetto-oggetto, egli respinge perento10 11

Discorsi di religione, cit., p. 334. Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. 1, p. 62.

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riamente tutte quelle concezioni illuministiche, utilitaristiche, naturalistiche o materialistiche dell’uomo, che identificano il fine ultimo della sua esistenza col perseguimento della felicità o del successo individuale, cioè con la soddisfazione egoistica dei suoi bisogni naturali. Il vero Io, l’umanità “perfetta” dell’individuo non è naturalmente data, ma “si fa”; e può farsi solo sacrificando la sua naturale immediatezza all’adempimento dell’ideale etico, del Dovere: la realizzazione dell’autosintesi dell’autocoscienza, afferma solennemente Gentile, «è, nella determinatezza della sua dialettica, tutto il contenuto della morale. E perciò tutte le dottrine morali si appellano all’ideale, come negazione del naturale egoismo, sacrificio della particolare individualità onde ciascun uomo comincia eternamente dalle differenze per cui si distingue dagli altri»12. L’oggettività, che la scissione dell’unità originaria del soggetto e dell’oggetto contrappone all’astratta soggettività del sé immediato, tuttavia, non è solo l’inattuale identità della legge morale, bensì la stessa Totalità assoluta, infinita del reale nella forma dell’oggetto trascendente – Dio. L’autoctisi dell’Io, dunque, nell’atto stesso in cui esige la previa posizione del suo essere immediato, implica altresì la non meno immediata affermazione dell’oggettività trascendente del divino, nella quale per Gentile consiste l’essenza della religione: Ma questa virtù d’abnegazione e di sacrificio, questa devozione alla legge e all’ideale, questo ritrovare se stessi in una realtà che ci limita e trascende, questo è stato sempre, quantunque in forma diversa, la religione (ivi, 311). La concezione attualistica dell’essenza della religione e del suo rapporto con la filosofia è particolarmente profonda e illuminante, perché è completamente libera sia dalle angustie naturalistiche delle spiegazioni antropologiche, psicologiche o sociologiche della sua origine che dai pregiudizi della teologia confessionale. L’identificazione idealistica della Realtà assoluta col processo autocreativo dell’autocoscienza induce Gentile a negare nella maniera più esplicita e perentoria la realtà positiva del Dio personale trascendente; l’immortalità in tempore dell’anima individuale; la negazione, o almeno limitazione, dell’assoluta libertà dell’Io implicita nel dogma cristiano della grazia; l’origine trascendente, ossia non-umana, della rivelazione religiosa; l’adeguatezza della forma sensibile, rappresentativa della religione all’infinità e idealità del suo oggetto; e infine la stessa plausibilità etica dell’ideale ascetico della “santità”13. Diviene perciò impossibile continuare a scorgere nella religione la piena attuazione della vita dello spirito:

12

Discorsi di religione, cit., p. 369. Ivi, p. 381. Il carattere dichiaratamente anti-ascetico dell’etica e della filosofia della religione di Gentile trova illuminante ed eloquente fondamento ed espressione nella sua concezione del sentimento puro e dell’amore come “radice” o “base” dell’intera vita dello spirito. Cf. G. Gentile, La filosofia dell’arte, Sansoni, Firenze 19753, Parte I, cap. 4, p. 144-70, ma spec. p. 167, e Cap. 5, p. 172-98, ma spec. p. 178-83; e anche Id., Introduzione alla filosofia, Sansoni, Firenze 1933, cap. 3, p. 34-60. 13

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Il concreto non è nella natura, e non è in Dio. Il concreto è l’atto spirituale. La cui concezione immanentistica, così rigorosa com’è richiesto dal moderno idealismo, mentre è l’inveramento del Cristianesimo, può parer perciò anche la liquidazione della religione. Giacché dove non c’è più trascendente, non c’è più religione14. Questa è chiaramente un’inevitabile conseguenza della fondamentale dottrina attualistica, che la religione, come l’arte, è solo un momento “astratto” della vita dello spirito, non ne è la “concretezza”, che coincide piuttosto con la riflessività dell’atto logico-etico, cioè con l’unità della filosofia e dell’eticità nella vita dello Stato. Ma con non minor energia e decisione la concezione attualistica dello spirito identifica la sua realtà assoluta col risultato di uno sviluppo immanente, in cui l’inattualità della posizione dell’astratta soggettività dell’Io penso può esser superata solo in virtù dell’opposta posizione della realtà assoluta di un oggetto infinito, che costituisce per l’appunto l’essenza della religione. Qualora, dunque, quest’ultima non venga degradata a mera fede superstiziosa in un’oggettività esterna, bensì si attui come genuina “religiosità” – cioè come sentimento e coscienza della “nullità” dell’essere immediato (naturale) dell’Io, come “ebbrezza del divino” o come “eroico furore”, nel senso attribuito a questa espressione da Giordano Bruno – anch’essa costituisce un momento necessario ed eterno, per quanto inevitabilmente inattuale, della vita dello spirito: La mitologia nata dalla religione la logora e la distrugge. E perciò ogni riscossa del sentimento religioso è ribellione contro le rappresentazioni materialistiche del divino, e sforzo d’interiorizzazione e di approfondimento spirituale (ivi, 386). Gentile perciò profondamente conclude che «la vita immortale della religione si può dire una morte immortale […] il morire della religione è il vivere dello spirito che vive la religione superandola; e superandola, realizza il bene e adempie la sua missione eterna al di sopra di tutte le religioni» (ivi, 389). Crediamo non vi sia bisogno di aggiungere che, per questo verso, la concezione religiosa dell’attualismo trova un preciso e significativo riscontro in fondamentali tendenze della filosofia della religione contemporanea quali la teologia critica di Bruno Bauer o la più recente teologia americana dell’“ateismo cristiano” o della “morte di Dio”. A questo punto, possiamo addurre una seconda plausibile ragione onde dare una risposta affermativa all’interrogativo circa la persistente attualità dell’Idealismo gentiliano. Come Hegel ha a più riprese asserito, e provato nella maniera più rigorosa e convincente, «ogni vera filosofia è essenzialmente idealismo, o lo ha per lo meno a suo principio»15. Lo sviluppo storico della sua autocomprensione, tuttavia, ha mostrato con non minor evidenza e forza di persuasione che l’idealismo genuino e con-

14

Discorsi di religione, cit. p. 346. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in: Id., Werke in zwanzig Bänden, c/ di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969, Bd. I, p. 172. Cf. anche G. Rinaldi, Verità ed attualità dell’Idealismo assoluto, in: AA.VV., Il pensiero di Hegel nell’età della globalizzazione, c/ di G. Rinaldi e Thamar Rossi Leidi, Roma, Aracne Editrice 2012, p. 51-74. 15

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sistente può esser solo quello che afferma l’“assoluta immanenza” dell’Idea, e la concepisce come soggetto o autocoscienza infinita. Ora, noi abbiamo appena visto che tale è anche il caso, al di là di ogni possibile dubbio, dell’Idealismo attuale. III. – Questa dottrina dell’Idealismo attuale, che noi abbiamo ora sommariamente accennata e difesa, e che trova la più compiuta e perfetta espressione in due opere sistematiche fondamentali di Gentile, la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e il già citato Sistema di logica come teoria del conoscere, non esaurisce tuttavia l’ambito della sua produzione filosofica, né costituisce certamente la ragione esclusiva del successo, della fama e dell’influenza personale del suo autore nella prima metà del XX secolo. Inestricabilmente connessa, ma spesso anche in palese contraddizione con essa è infatti possibile identificare nei suoi scritti la formulazione di una “visione del mondo”16, di carattere fondamentalmente etico-politico, che appare pervasa da un acceso, intransigente spirito nazionalistico, e che sia il suo autore che i suoi seguaci e avversari non esitarono a identificare con la stessa dottrina ufficiale del Fascismo italiano. L’adesione di Gentile al Fascismo fu sincera e costante, la fedeltà al Duce incondizionata, fino al tragico epilogo della sua carriera politica, che coinvolse lo stesso Gentile, il quale infatti fu barbaramente assassinato da una banda di “partigiani” comunisti nei pressi di Firenze il 15 aprile 1944. Non rientra nella tematica di questa saggio formulare un giudizio sull’impegno politico di Gentile. Le tesi, di carattere critico-teoretico, che ora intendo sostenere sono fondamentalmente due: (a) la concezione nazionalistica gentiliana del “primato morale e civile degli Italiani” (si tratta, com’è noto, del titolo di un celebre saggio di Vincenzo Gioberti, per il quale egli mostrò sempre la massima stima, pur respingendo la metafisica neoplatonica sottesa dalla sua celebre “formula ideale”) e della loro peculiare “missione” storica non trova nella dottrina dell’Idealismo attuale alcuna stringente fondazione o legittimazione razionale, ha dunque carattere meramente assertorio; (b) la sua insufficiente fondazione razionale viene occultata dal suo autore mediante il ricorso a un ulteriore principio teoretico dell’attualismo, quello della unità “inoggettivabile”17 e “indifferenziabile”18 dell’atto del pensare, che sta, direttamente o indirettamente, alla base della sua celebre “riforma della dialettica hegeliana” 19, dalla quale esso viene a sua volta corroborato e reso plausibile. La convinzione gentiliana dell’assoluta originalità filosofica del suo Idealismo attuale lo induce infatti a contrapporlo, come si è visto, non solo all’idealismo soggettivo di Berkeley, Kant e Fichte, ma anche allo stesso Idealismo assoluto di Hegel, e a suffragare la sua pretesa alla superiorità teoretica anche rispetto ad esso mediante una critica dettagliata del sistema hegeliano. Nell’impossibilità di esaminarla accuratamente nei limiti del presente contesto, cercheremo di mettere in evidenza quello che, a nostro giudizio, ne è, nel contempo, il cruciale presupposto teoretico e il risul-

16 Cf. G. Rinaldi, L’idealismo attuale tra filosofia speculativa e concezione del mondo, Quattro Venti, Urbino 1998, p. 109-12. 17 Cf. Teoria generale, cit., p. 463-64. 18 Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. 2, p. 138. 19 Cf. La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 3-39.

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tato ultimo, e a sottoporla quindi a un esame critico ad essa, com’è di dovere, strettamente “immanente”. Hegel, com’è noto, concepisce il Concetto puro come una organica totalità logica, in cui è possibile distinguere, ma non già separare, tre momenti fondamentali, tutti egualmente necessari e rilevanti: l’universalità (concreta), la particolarità (ideale) e l’individualità (totale). Gentile invece procede a eliminare programmaticamente il momento della particolarità ideale del Concetto, ritenuta logicamente impensabile e metafisicamente irrilevante, e trasforma perciò l’articolazione triadica hegeliana del Concetto puro nella dicotomia tra l’universalità indeterminata della sua forma (il pensiero pensante, il logo concreto, l’atto puro) e la singolarità dei suoi molteplici contenuti (il pensiero pensato, il logo astratto, i fatti naturali e storici). Ma sopprimendo il momento della particolarità ideale, e dunque la determinatezza logica a priori, del conoscere, egli recide palesemente alla radice la possibilità di formulare qualsiasi criterio determinato onde applicare in maniera oggettivamente valida, universalmente condivisibile, l’assolutezza del principio universale dell’attualismo alla molteplicità reale dei fatti e delle situazioni storiche individuali. Quale sia il dovere determinato cui devo in concreto assolvere onde attuare in me l’ideale del Dovere assoluto; quale forma di Stato realizzi adeguatamente nel mondo storico l’idea dell’eticità; in quale religione o confessione religiosa determinata si attui più pienamente il concetto della religione – tutto ciò non può più essere determinato razionalmente, ma, nella misura in cui la determinazione del contenuto del pensiero viene resa comunque imprescindibile dalla situazione reale in cui si pensa o si agisce, essa rimane inevitabilmente affidata all’indeterminato arbitrio del pensatore che formula la teoria in questione, o del politico che decide la linea d’azione dello Stato da lui governato. Gentile sembra a questo proposito chiaramente incorrere nell’errore filosofico, che Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito aveva denominato “formalismo schematizzante” 20, e in nome del quale egli aveva criticato l’Assoluto di Schelling e il sapere immediato dei Romantici, contrapponendo loro l’ideale filosofico della “filosofia sistematica”. 1. Dal punto di vista hegeliano, dunque, si potrebbe anzitutto rimproverare all’Idealismo attuale di esser, sì, una filosofia sistematica ma di non esserlo abbastanza, e di limitare indebitamente l’ambito della pura razionalità filosofica per ampliare non meno indebitamente quelli della fatticità contingente e del soggettivo arbitrio, in cui l’ultima parola spetta inevitabilmente alla forza. Alla medesima conclusione, tuttavia, possiamo pervenire mediante una critica immanente del principio gentiliano dell’unità indifferenziabile dell’atto del pensare. Esso afferma che è per principio impossibile esplicare il contenuto di tale atto in un sistema “chiuso” e “definitivo” di categorie, perché ogni determinazione categoriale del pensiero sarebbe, in definitiva, nulla più che un “fatto” storico contingente e transeunte prodotto dall’autoanalisi dell’atto del pensare. Ciò non escluderebbe, tuttavia, che la sua unità possa e debba essere differenziata, secondo lo stesso Gentile, in tre “momenti”: 20 Cf. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in: Id., Werke, cit., Frankfurt a. M. 1970, p. 21-22, 48 s., 55, ecc. Circa il carattere e i limiti della concezione attualistica della logica si veda G. Rinaldi, A History and Interpretation of the Logic of Hegel, The Edwin Mellen Press, Lewiston, NY 1992, § 51.

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quello “astrattamente soggettivo” dell’arte, quello “astrattamente oggettivo” della religione e quello assolutamente “concreto” della filosofia. Su questa autodistinzione dell’atto del pensare riposa, in effetti, come si è detto, nulla meno che la celebre dottrina gentiliana delle “forme assolute dello spirito”, che costituisce indubbiamente il culmine speculativo della sua intera filosofia. Quel che non si comprende, tuttavia, è la ragione per cui il medesimo procedimento autoanalitico, mediante cui Gentile in maniera così rigorosa e persuasiva differenzia l’unità dell’atto del pensare, non possa esser altresì applicato – com’è per l’appunto il caso di Hegel – allo stesso contenuto logico determinato di ciascuno dei momenti da lui tematizzati, distinguendo ulteriormente, ad es., nel concetto dell’arte, la forma simbolica, la forma classica e la forma romantica dell’arte, o, nel concetto della religione, le determinazioni concettuali di Dio, della rappresentazione e del culto; sì da ricostruire infine, procedendo ulteriormente in tale attività autoanalitica, quell’intero sistema determinato delle categorie logiche, naturali e spirituali, ch’egli, a differenza di Hegel, riteneva invece impossibile e impensabile. D’altra parte, la perentoria critica gentiliana di ogni possibile presupposto dell’atto “concreto” del pensare lo induce a polemizzare aspramente anche contro un altro fondamentale assunto della Logica speculativa hegeliana, e cioè la tesi della priorità metodica o formale dell’astratto rispetto al concreto, e la conseguente concezione dello sviluppo dell’Idea come progressiva negazione, concretizzazione o inveramento dell’iniziale astratta immediatezza dell’Essere indeterminato. Secondo Gentile, al contrario, il Primo metafisico (il Prinzip, nella terminologia hegeliana), cioè l’Idea in quanto autocoscienza pura, può e deve nel contempo costituire l’immediato cominciamento (Anfang) del suo processo autocostruttivo. Anche a questo proposito non si comprende come Gentile possa ciò nondimeno continuare a concepire tale processo come uno sviluppo progressivo, evolutivo o teleologico, giacché quest’ultimo è per principio impossibile e impensabile se il suo cominciamento, in quanto essere immediato, non si distingue dal suo risultato, contrapponendosi ad esso proprio come l’astratto, l’imperfetto, il virtuale si oppone al concreto, al perfetto, all’attuale; e se, d’altra parte, tale risultato non coincide con la realizzazione del fine dell’intero processo, in esso sì idealmente presente sin dall’inizio – ma solo come principio, e non già anche come cominciamento, come pretende invece Gentile. Nel presente contesto potremo dunque limitarci a osservare che la “riforma della dialettica hegeliana”, da lui elaborata quale indispensabile preambolo storico-critico del suo Idealismo attuale, è certamente da ritenersi l’elemento più inconsistente, inattuale e caduco della sua intera costruzione teoretica e storico–filosofica. 2. In secondo luogo, Gentile parla sempre e solo come se il Weltgeist, lo spirito universale dell’umanità, l’idea etica dello Stato fossero immediatamente identici allo spirito di un popolo determinato – più precisamente, di quello cui appartiene lo stesso filosofo che formula la concezione attualistica dello Stato e della storia, cioè il popolo italiano. Ciò è inaccettabile, per lo meno in mancanza di una sistematica Filosofia della storia, che fondi adeguatamente il contenuto di tale assunto, in quanto l’identificazione immediata del singolare e dell’universale è palesemente assurda, giacché l’unità degli opposti può essere plausibilmente affermata solo se essi sono mediati da un terminus medius, il quale esplica appunto la ragione per la quale “questo” individuo non è semplicemente un esserci singolare e contingente, bensì la stes165


sa adeguata realizzazione dell’universale. Tale aporia viene celata dalla logica dell’Idealismo attuale, proprio perché tale terminus medius coincide evidentemente col momento logico della particolarità ideale del Concetto, che, come si è detto, viene invece perentoriamente negata da Gentile sulla base del principio dell’unità indifferenziabile dell’atto puro. 3. Tale aporia, per quanto velata, tuttavia permane al fondo delle dottrine attualistiche, e le sue conseguenze e manifestazioni nella storia e nella vita reale furono certamente rilevanti e tragiche – anzitutto per il suo stesso autore. Dall’idea che la nazione italiana, e solo essa, abbia una missione storico-universale da adempiere Gentile troppo spesso trasse infatti conseguenze improntate a un nazionalismo a volte certamente esagerato, che lo indusse a considerare come degna di attenzione solo la storia della filosofia italiana (ch’egli indubbiamente ricostruì con somma acribia filologica e indubbia genialità in una monumentale Storia delle filosofia italiana, articolata in 22 volumi); a legittimare concezioni religiose o politiche, e a esaltare il pensiero e l’opera di letterati, poeti e filosofi sovente minori, insignificanti, o arroccati su posizioni teoretiche alternative rispetto a quella dell’Idealismo attuale, per la sola ragione ch’essi furono comunque tipica espressione culturale del popolo italiano; a ritenere che la sovranità e l’indipendenza di ogni Stato diverso da quello italiano fossero, in definitiva, condizionate dall’eventuale riconoscimento che quest’ultimo fosse disposto a concedergli; e infine a legittimare eticamente, anzi esaltare, la guerra come imprescindibile strumento di attuazione della missione imperiale della nazione italiana. 4. Il pregiudizio nazionalistico di Gentile, tuttavia, non si limita a determinare la configurazione della sua concezione etico-politica, ma mette altresì in crisi, noi crediamo, l’intima consistenza della sua filosofia della religione. Non diversamente, infatti, dalle più radicali tendenze della Scuola hegeliana, Gentile (a) nega perentoriamente, come si è detto, la realtà assoluta del Dio personale trascendente, che per lui non è in effetti altro che un’“astratta” oggettività ideale di necessità immanente nell’atto puro dello spirito umano e da esso prodotta; (b) contrappone all’inadeguatezza della forma immaginativa della religione – il suo peculiare “pensare corpulento”, com’egli una volta felicemente si espresse 21 – l’innegabile verità del suo contenuto, che altro non sarebbe che la pura interiorità del misticismo, da lui inteso, in una maniera che in verità ricorda più Schleiermacher che Hegel, come il sentimento di dipendenza dall’infinito “Ignoto”22. Logica vorrebbe, dunque, che fondamentali concezioni religiose quali la mistica speculativa tedesca (si pensi, ad es., a Meister Eckhart o a Jakob Böhme), che nega decisamente l’esteriore trascendenza di Dio e lo identifica “panteisticamente” con l’Universo, o il Protestantesimo luterano, per lo meno nella misura in cui in nome dell’interiorità della “fede” esso svaluta le “opere” esteriori del culto e le istituzioni ecclesiastiche, trovassero ai suoi occhi una 21

Discorsi di religione, cit., p. 343. Cf. G. Gentile, Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, in: Id., La religione, cit., p. 269: «Nel senso dell’alterità, dell’opposizione, o meglio nello smarrimento della propria autonomia e di se stesso, nel conseguente bisogno di darsi, di lasciarsi prendere e reggere e quasi vivere, è la radice del sentimento religioso». 22

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migliore accoglienza della concezione esteriore e autoritaria della religione tipica del Cattolicesimo. Ed invece egli non solo legittima la pretesa del Papa all’autorità assoluta come garanzia dell’universalità della verità religiosa contro l’individualismo anarchico ch’egli costantemente rimprovera allo spirito protestante 23, ma, in un celebre discorso tenuto il 19 marzo 1944 in occasione della commemorazione del bicentenario della morte di Giambattista Vico, attribuisce addirittura al «gretto spirito protestante bramoso di vendicarsi nella sua impotenza contro la maggiore religione costruttiva del mondo»24, cioè il Cattolicesimo, la causa ultima delle devastazioni compiute dagli Alleati nell’Italia da loro occupata «senza pietà – anzi con cinica furia sprezzante dei sommi valori umani» (ivi, 102), rendendosi così colpevoli di «offesa abominevole del patrimonio sacro dell’Italia romana e cattolica» (ivi, 103). Nel nuovo ordine mondiale inaugurato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale queste accuse di Gentile erano prevedibilmente destinate a rimanere inascoltate, e oggi appaiono significative solo perché mettono efficacemente in luce le aporie della sua concezione religiosa. Tirando, dunque, le somme delle considerazioni qui svolte intorno alla filosofia di Gentile, possiamo concludere che è necessario distinguere con la massima cura, nella sua voluminosa produzione letteraria, la dottrina dell’Idealismo attuale, che è certamente un mirabile esempio di genuina filosofia speculativa, dalla sua concezione eccessivamente nazionalistica della politica, della storia e della religione, che è invece espressione di un mondo e di una mentalità che appaiono ormai tramontati, forse per sempre. L’anello teoretico di congiunzione tra esse viene fornito dal principio gnoseologico del “formalismo schematizzante”, che sta alla base della sua riforma della dialettica hegeliana, e che dev’essere anch’esso decisamente respinto. All’interrogativo circa la persistente attualità e verità dell’Idealismo attuale possiamo dunque, in definitiva, rispondere: l’Idealismo attuale è certamente ancor oggi una posizione filosofica legittima, perché esso svolge in maniera coerente e sistematica il principio dell’Idealismo moderno, e cioè l’assoluta immanenza della realtà nell’autocoscienza infinita dello spirito umano, e tale principio costituisce senz’altro l’“anima motrice” di ogni genuino sapere filosofico. Ma gli estremi esiti del suo pensiero politico e religioso, e il suo stesso tragico destino personale, provano ad oculos che la pretesa di aver conseguito, grazie al suo attualismo, un punto di vista teoretico superiore a quello compiutamente articolato da Hegel non fu in verità altro che una pericolosa illusione.

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Cf. Id., La mia religione (1943), in: Id., La religione, cit., p. 408. Id., “L’Accademia d’Italia e l’Italia di Mussolini. Dichiarazione premessa alla commemorazione del bicentenario vichiano”, in: B. Gentile, Giovanni Gentile. Dal Discorso agli Italiani alla morte, Sansoni, Firenze 1951, p. 103. 24

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IDENTITÀ E TERRITORIO Questa rubrica ospiterà contributi liberamente ispirati alle problematiche della natura fisica di questo pianeta, come termine, luogo, orizzonte dell’identificazione umana: dall’ecologia dei sistemi viventi all’abitare umano, all’architettura del paesaggio, alle forme dell’etnicità e della storicità.

Eugenio Pesci, Estetica del paesaggio e identità dei luoghi: le Alpi, un laboratorio concettuale 1.– Il paesaggio fra eterotopia e non-luoghi. Il dibattito culturale intorno al senso e alla forma del paesaggio e intorno al senso e alla forma del luogo si sviluppa oggi attraverso un numero di categorie concettuali molto più ampio, articolato e ricco che in passato. Soprattutto negli ultimi vent’anni, la riflessione sul senso del luogo e sull’anima del paesaggio ha visto nascere non solo una terminologia tecnica specifica, che per certi versi la qualifica quasi come una disciplina a sé stante, ma ha prodotto in particolare concetti di struttura complessa e di ancor più complessa applicazione teoretica, come quello di “metamorfosi del paesaggio”, di “società paesaggistica”, o di “paesaggio come teatro”, per arrivare sino alla discussa e mai accertata “morte del paesaggio”, concetto che appare peraltro sospeso fra risonanze hegeliane e negazione delle possibilità di elaborazione etica del rapporto uomo-natura entro le trasformazioni della società dell’inizio del terzo millennio. Allo stesso modo, e soprattutto entro la cultura paesaggistica francese, si è assistito ad una proliferazione teoretica intorno ai temi del paesaggio e del luogo, entro una serie molto complessa di prospettive di lettura che hanno implicato forme eidetiche e suggestioni proprie di discipline talora lontane, dalla geografia alla filosofia, passando attraverso la storia delle religioni e del mito, per giungere sino alla sociologia urbana. 169


Se, per certi versi, sotto un profilo strettamente teoretico le analisi svolte già nel 1978 (e riproposte nel 2000) da Alain Roger in Nus et paysages. Essai sur la fonction de l’art (Aubier, 2000) risultano ancora insuperate, quantomeno sotto il profilo della ricerca estetica inerente il rapporto fra arte e paesaggio letto in chiave kantiana, non meno profonda e meditata appare la teoria geografico-filosofica che, ancora nel 2000, attraverso gli interventi di Augustin Berque e di altri numerosi autori, ha focalizzato la tematica della logica del luogo, nel suo rapportarsi problematico al superamento della modernità. 1 La stessa cultura italiana ha, sempre negli ultimi anni, recepito con grande attenzione le principali prospettive europee di dibattito intorno al paesaggio e al luogo, dedicando spazio sempre più ampio alla rielaborazione, spesso critica, della discussione su questi temi, che sembravano, sino a tre decenni fa, argomenti leziosi e di scarso interesse teorico: dalla geofilosofia alla storia culturale del paesaggio, dall’etica del paesaggio alla dialetticizzazione dei discorsi architettonici sul luogo e lo spazio, molte sembrano essere le nuove aperture culturali che caratterizzano il momento presente del dibattito in Italia. 2 Ma se si passa da un livello strettamente specialistico a un livello di dibattito culturale più ampio, si nota anche come luogo e paesaggio continuino ad essere letti e studiati attraverso l’uso, l’abuso, e spesso il disuso di categorie culturali particolarmente vetuste e non di rado presenti anche in altri campi del sapere – categorie peraltro in parte, ma solo in parte, ancora utili, e comunque usabili solo attraverso una preliminare disamina critica ed euristica. Fra esse emergono, in modo eclatante, quelle di eterotopia e quella di non-luogo. Sono ormai passati più di quarant’anni da quando Michel Foucault, nella celebre conferenza di Tunisi del 14 marzo 1967, usò forse per la prima volta la parola eterotopia, applicandola ad una critica del concetto di spazio, e più specificatamente indirizzandola alla ridefinizione analitica di “alcune parti dello spazio”. Già allora, però, non si trattava di una novità assoluta, essendo il termine, evidentemente derivato dalla terminologia scientifica, ed in particolar modo medica e anatomo-fisiologica. 3 Indubbiamente, se riferito alle particolari trasformazioni socio-culturali proprie del mondo occidentale alla fine degli anni sessanta, il concetto di eterotopia poteva 1 Mi riferisco in particolare a Logique du lieu et dépassement de la modernité, sous la direction de Augustin Berque, Ousia, Bruxelles, 2000; Les sens du lieu, Ousia, Bruxelles, 1996; A. Berque, Médiance, de milieux en paysages, Belin, Tours 2000 (1990). 2 Si veda, tra gli altri, M. Venturi Ferriolo, Etiche del paesaggio, Editori Riuniti, Roma 2002; M. Vitta, Il paesaggio. Una storia tra natura e architettura, Einaudi, Torino 2005; R. Milani, L’arte del paesaggio, Il mulino, Bologna 2001; Prospettive integrate. Il paesaggio tra etica, estetica ed ecologia, a cura di Roberto Franzini Tibaldeo, Edizioni Marcovaldo, Cuneo 2005; F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006. 3 I testi di Foucault sono leggibili in italiano: M. Foucault, Utopie Eterotopie, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2006; M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di Salvo Vaccaio, Mimemis, Milano 2002. È curioso notare come la derivazione del termine eterotopia sia strettamente fisiologica: “fenomeno per cui si originano stimoli di attività funzionale in sede diversa dalla normale”. Botanica: “fenomeno teratologico per cui si originano tipi di cellule o di tessuti da organi che normalmente non danno tali produzioni”. Allo stesso modo in geologia stratigrafica si definisce eterotopico il presentarsi di “sedimenti sincroni e di uguale facies, formatisi in regioni diverse”.

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porsi come utile strumento di comprensione di nuove forme spaziali, di nuovi modi di presentazione di spazi antichi, rileggibili attraverso nuove forme interpretative, e poteva addirittura servire come enzima ideologico-politico per destrutturare concezioni fissiste del paesaggio e del territorio, non di rado legate a sistemi di interessi economici e a culture dominanti. Analizzata, rifusa e risintetizzata più volte, la categoria dell’eterotopia non sembra tuttavia oggi poter ancora garantire agli studi sullo spazio, sul luogo e sul paesaggio, ampi margini di guadagno intellettuale, ed anzi appare, per certi versi, utilizzata in maniera seriale e ripetitiva, entro tipologie applicative stereotipate, al punto che le stesse iniziali suggestioni, implicite nella concettualizzazione di Foucault, laddove potrebbero oggi essere ancora valide, appaiono svalutate ed impoverite dalla stessa povertà applicativa contemporanea. In particolare si nota una tendenza, patologica sotto il profilo della ricerca, alla connotazione eterotopica di singole tipologie di luoghi, che vengono esaminati attraverso un processo metodologico empiristico-induttivo e catalogati in base alla presenza o assenza di “caratteristiche eterotopiche”: ciò equivale in fondo a compilare delle liste, in un’ottica baconiana che ha il grave difetto di essere facilmente accessibile e riproducibile a livello mediatico, così che gli spazi eterotopici si prestano eccezionalmente agli usi culturali più svariati, di solito avulsi da ogni teoria generale del luogo e del paesaggio, e soprattutto da ogni forma di criticità. Rileggendo i testi di Foucault, più che quelli dei suoi numerosi e talora eccentrici epigoni, risuonano comunque almeno tre nascoste suggestioni eterotopiche: la prima è quella che chiamerei eterotopia di scala. La storia del paesaggio e dei luoghi mostra, spesso fra le righe, come siano esistiti interi sistemi eterotopici, in parte a caratterizzazione territoriale e quantitativa, in parte a caratterizzazione intensiva, qualitativa, ambientale e paesaggistica. Sono, in similitudine con le economiemondo di cui parlava Braudel, forme particolari di definizione e inter-articolazione di spazi della vita umana, che sono stati connotati, nel corso dei secoli, soprattutto o almeno in parte, come “luoghi altri”, portatori, nella loro globalità, di significati culturali “contrastivi”, opposti, se non catartici, rispetto alle culture a cui si affiancano. Eterotopie-mondo, possibili soggetti di indagine, entro una etero-topologia che sappia però partire da visioni generali e che sappia guardare alla costituzione degli spazi del presente soprattutto attraverso la complessa dialettica storica delle tradizioni, di vario tipo, che hanno formato la coscienza dei singoli luoghi della vita. Ciò introduce alla seconda suggestione eterotopica; il concetto foucaultiano di utopia situata apre a quello di eterotopia come utopia svelata. La storia delle isole tropicali, per fare un esempio concreto, risponde bene, come sistema eterotopico, alla categoria dell’utopia svelata. Luoghi altri si rivelano luoghi in cui l’umanità ha proiettato intere strutture di significato, nel tentativo di porre “altrove” valori, desideri e paure che non poteva proiettare sui muri instabili e quotidiani della propria comune abitazione. Ma la complicata ricerca del “disvelamento eterotopico” deve passare, forzatamente, attraverso il setaccio di un lavoro particolare, che è quello dell’identificazione delle eterotopie culturali ed in particolare, terzo punto, dell’identificazione e definizione concettuale di una loro sottocategoria, che è quella delle proiezioni culturali eterotopiche, cioè di quei caricamenti di significato, strutturati e funzionali, che sono stati elaborati entro i grandi archetipi psicologici dell’umanità con lo scopo di conferire, entro un lunghissimo processo temporale, 171


uno statuto particolare a parti molto ampie dello spazio, configurandole appunto come eterotopie-mondo. Il che rimanda, in definitiva, all’importanza del primo punto, nel caso si volesse cercare ancora uno sviluppo concreto alla “scienza eterotopologica”: alla necessità di focalizzare i protocolli e i principi di un’analisi delle eterotopie nella prospettiva di una eterotopia di scala che sia dinamicamente capace di leggere lo spazio non solo nella sua polisemia orizzontale, ma anche in quella verticale, e dunque temporale, e sia capace di superare, come detto, il mero piano catalogativo.

2. – La costruzione dell’identità culturale e la funzione fondativa delle immagini. Fra le più interessanti tematiche proprie del dibattito contemporaneo intorno al paesaggio emerge con particolare rilievo quella dell’importanza delle immagini culturali considerate come elementi di costruzione e di rielaborazione del paesaggio. Se letta con le categorie critico-storiografiche ancora in voga sino a due decenni fa, questa funzione appare quasi esclusivamente estetica, ma nella cultura paesaggistica e nella filosofia del paesaggio odierne essa assume ormai una marcata caratterizzazione etica, antropologica, sociologica, oltrepassando nettamente i confini dell’estetica stessa. Non per questo viene perduto il nucleo della relazione immagini-paesaggio, che appartiene comunque al dominio di quella parte dell’estetica che ha il compito di analizzare e valutare i rapporti, soprattutto storici, oltre che teoretici, fra genesi della coscienza individuale dei luoghi e struttura, nonché origine, delle immagini che le coscienze usano e sviluppano per rapportarsi ai luoghi stessi. La costruzione dell’identità culturale –sia essa individuale, di un gruppo o di un popolo- passa di necessità attraverso una serie di archetipi psicologici collettivi, modulabili a seconda della persona, dei tempi e delle circostanze, i quali acquistano un’importanza eccezionale proprio in relazione alla genesi del paesaggio, quando si intenda quest’ultimo soprattutto come una particolare modalità di interpretazione del significato dei luoghi entro cui si vive. Se si accetta il postulato secondo cui “tante menti fanno tanti paesaggi”, non si può non riconoscere che “ogni mente si costruisce anche attraverso immagini paesaggistiche e ne produce”. L’identità culturale, spesso letta solo attraverso la categoria del genius loci, può probabilmente essere studiata in maniera proficua cercando di ricostruire, almeno nelle linee generali, le forme storico-psicologiche attraverso cui le diverse culture hanno caratterizzato il proprio modo di “leggere i luoghi”. Lo studio di questa caratterizzazione si presenta in primo luogo come lo studio di catene di conferimenti di senso ai luoghi della vita, e così inteso è a tutti gli effetti uno studio dell’evoluzione storica del paesaggio, inteso in ultima analisi come una funzione ermeneutica le cui componenti essenziali travalicano la semplice distinzione di materia e idea, oggettosoggetto, conoscente-conosciuto, collocandosi, in chiave neokantiana, proprio nella sfera della mera funzionalità. Il riduzionismo, nello studio del paesaggio, in questa prospettiva appare in genere lesivo rispetto alla dimensione euristica, sia quando fa leva solo sulle categorie strettamente estetiche, sia quando tende a risolvere il campo di ricerca nelle sue 172


componenti materiali, geografiche, economiche, sociali. Al contrario, l’identità culturale, inscindibile dalla coscienza del luogo, può essere scomposta, entro l’analisi, in una molteplicità di componenti assai ampia, ma non ritengo che tali componenti possano essere considerate ontologicamente autonome entro la costituzione del paesaggio. È forse anche dalla generale tendenza ad attribuire al paesaggio una ontologicità pratica che non ha, che nascono molti fraintendimenti entro il dibattito di filosofia del paesaggio, in particolare intorno all’attribuzione di un “essere specifico” al paesaggio stesso, in un avvitamento concettuale che potremmo definire l’equivoco ontologico. L’intrinseca misteriosità del paesaggio è un indice abbastanza inequivocabile della sua natura irriducibile a parametri quantitativi intesi come elementi strutturali dati e producenti il paesaggio stesso, così come a prodotto di una pur complessa opera formativa dell’arte. Se per alcuni il paesaggio tende ad una forma di trascendenza, si potrebbe aggiungere che esso, nella sua plasticità eidetica tende anche ad una connotazione trascendentale, la cui genesi storica non ha per la verità una disciplina di studio elettivo realmente preposta alla ricostruzione di una psicologia storica del paesaggio –poiché così, almeno in una prima fase di ricerca, essa potrebbe chiamarsi. La pia illusione di poter strutturare compiute visioni delle forme d’identità culturale, solo attraverso l’uso di strumenti separati nelle due grandi scatole ontologiche, per non dire sostanzialistiche, di prassi e teoria, trova fondamento solo nella confusione concettuale di paesaggio, ambiente e territorio o, meglio, nella sussunzione del paesaggio entro la categoria del territorio, che viene tuttavia, a seconda dell’interesse e del caso, nuovamente chiamata paesaggio. Un’analisi funzionalistico-ermeneutico della strutturazione storica del paesaggio si presenta essenzialmente sotto due aspetti: a- come analisi della genesi delle strutture di immagini che hanno prodotto specifiche e singole “paesagizzazioni” di luoghi determinati. b- come analisi delle relazioni tra queste “immagini prossime” e le principali categorie storico-psicologiche che le grandi culture umane hanno sviluppato nel tempo. Si tratta pertanto di un’indagine polimorfa e per propria natura tendente al disvelamento, al taglio trasversale, alla valutazione critica delle tradizioni minori e del loro ruolo, e alla più assoluta mancanza di pregiudizi teoretici. Non è un’indagine sull’idea di paesaggio, ma sul paesaggio inteso come una forma di interpretazione della natura. In questo senso la ricostruzione della genesi delle identità culturali, e del loro legame con la coscienza dei luoghi, può sicuramente partire dalla considerazione di Simon Schama4 secondo cui “siamo abituati a pensare natura e percezione umana appartenenti a due regni distinti; in realtà sono inscindibili. Prima di essere riposo dei sensi, il paesaggio è opera della mente”. Ma è forse necessario spingersi un passo oltre, tentando di formalizzare in senso filosofico questa prospettiva olistica, poiché si dovrebbe giungere ad una fondazione teoretica capace, senza dubbio attraverso delle petizioni di principio, di elaborare una particolare filosofia del paesaggio che rifiuti a priori l’accusa di idealismo o di culturalismo.

4 S. Schama, Paesaggio e memoria, tr. it. di Paola Mazzarelli, Mondadori, Milano 1997, p. 15.

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Anticipando alcune tematiche successive può essere interessante, a questo proposito, citare come esempio, antitetico ad una concezione del paesaggio di questo tipo, le considerazioni svolte da alcuni storiografi nell’ambito dell’attuale dibattito inerente i metodi e gli scopi dello studio del paesaggio alpestre, che si determina come una delle principali tipologie paesaggistiche. Recenti studi,5 peraltro di tutto rispetto e di grande scientificità, tendono ad indicare come unica e unica produttiva prospettiva di indagine intorno alla storia delle Alpi quella che eliminerebbe ogni considerazione degli apporti delle culture nonalpine (cioè esterne, urbane) nell’evoluzione storica delle Alpi e della vita delle loro popolazioni. La negazione di ogni forma di eterotrofia servirebbe come necessario preambolo critico, una sorta di eliminazione baconiana degli idoli, per poter ricostruire una reale storia delle Alpi, svolta dall’interno, secondo natura. Tale negazione coinciderebbe inoltre con il negare l’esistenza di un’immagine contrastiva delle Alpi stesse, ossia di ogni forma di concezione culturale che abbia presentato le Alpi come luogo “altro e opposto” ai luoghi circostanti, dalle città alle pianure ai luoghi d’acqua. Rousseau non è mai esistito. Il turismo è stato inventato dai malgari dell’Oberland Bernese, le forme di descrizione del paesaggio alpino, prototipo per molte percezioni di paesaggio, non hanno evidentemente avuto padri, essendo forse nate nelle piantagioni di alberi di mele in Trentino. Superando la dimensione dei paradossi si può solo concludere che non si può disporre delle parti del pianeta attribuendo ad esse statuti culturali particolari a secondo dell’esigenza, del momento e dei gusti, mentre sembra quanto meno democratico cercare di riconoscere e di focalizzare il gioco delle diverse componenti che, nel corso della storia, hanno generato paesaggi. Se, come è stato detto da Simmel, la verità abita sui monti, è stata, storicamente parlando, una verità svelata soprattutto dalle culture amanti dei monti ma esterne ad essi. La definizione delle identità culturali dipende in gran parte dagli influssi delle culture esterne ai luoghi a cui si appartiene. Non per questo si dovrebbe confondere il piano storico con quello teorico: la ricostruzione della memoria storica, territoriale e paesaggistica di gruppi o popolazioni è altamente auspicabile e necessaria anche sotto il profilo di un’etica della cultura, ma non può in alcun modo essere usata retroattivamente come mezzo di destrutturazione faziosa dell’evoluzione reale di grandi dimensioni dell’immaginario e anche della vita concreta degli uomini, come sono, appunto, le Alpi.

3. – Caratteri distintivi dei paesaggi originari: immagini d’acqua e di pietra. Prima di passare ad una analisi, meramente esemplicativa, di come il paesaggio delle Alpi sia stato elaborato attraverso dei torrenti di immagini che hanno percorso, pro-

5 J. Mathieu, Storia delle Alpi 1500-1900. Ambiente, sviluppo e società, tr. it., Edizioni Casagrande, Bellinzona 2000 (1998), in particolare p. 255-256. A questa impostazione si contrappongono, tra l’altro, studi come quello di C. Reichler, La découverte des Alpes et la question du paysage, Georg Editeur, Paris 2002.

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prio a partire da alcuni archetipi tutta la cultura occidentale, vorrei brevemente soffermarmi su un concetto di notevole importanza per quanto riguarda la connotazione storico-psicologica delle tipologie di paesaggio che hanno formato l’immaginario europeo. La categoria dei paesaggi originari, un tempo già ben definita, sebbene non particolarmente nota, entro la cultura tedesca (Urlandschaften), si pone come uno degli elementi più facilmente identificabili e presenti entro lo sviluppo dei processi occidentali di paesagizzazione. Tali paesaggi sono essenzialmente caratterizzabili attraverso alcuni elementi tipici: la natura che li compone è determinata come natura materiale o di acqua o di pietra, cioè di terra; essi ricevono, attraverso un conferimento di senso arcaico, se non ancestrale, una connotazione che rimanda alla genesi del pianeta e della vita sul pianeta; di conseguenza sono elettivamente paesaggi legati a manifestazioni potenti “della natura”, paesaggi ricchi di “luoghi di forza”, infine appaiono, nella loro elaborazione storico-psicologica, come paesaggi dotati di una proiettività temporale: essi sono cioè in grado di fluire nel tempo e al contempo nello spazio, in modo che, ad esempio, lo scioglimento dell’acqua dei ghiacciai genera il fiume che nutre le pianure incrociando in un'unica struttura significativa lo sviluppo della natura e le sue caratteristiche morfogenetiche. I processi attraverso cui l’immaginario occidentale ha trasformato, nei secoli, per non dire nei millenni, la percezione dei quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco, in forme di significazione della materia, è il medesimo attraverso cui si è generata una tipologia delle immagini di paesaggio, ed al contempo si è generata una struttura psicologico-simbolica collettiva riferita al significato che alcune parti di territorio, e soprattutto montagne e luoghi d’acqua, hanno acquisito attraverso la loro connotazione strutturale elementare, come luoghi di pietra, montagne, o luoghi d’acqua, mari, laghi, torrenti, fino all’artificio e alle fontane nei giardini. La ricostruzione di questa complessa vicenda simbolica, attinente a diverse discipline, ha sicuramente avuto un contributo, se non una fondazione storiografica, negli studi di Gaston Bachelard sui quattro elementi, considerati non solo sotto il profilo estetico, ma in fondo proprio sotto quello della loro rilevanza psicologica entro la costituzione di categorie generali di lettura del senso dei luoghi.6 Vale la pena di ricordare come Bachelard dia importanza e spazio alla dialettica di terra e acqua, e come sottolinei l’esistenza di una reale struttura di questa dialettica, che raramente ammette l’intervento di un terzo elemento, e che molto spesso assume le caratteristiche della dialettica maschile-femminile, tematica che, guarda caso, ha avuto enorme importanza, dai Sumeri in poi, passando per il Canzoniere di Petrarca e per numerose opere dell’arte moderna, proprio entro la definizione del paesaggio come sfondo su cui vengono proiettate e sovrapposte le simbolizzazioni sentimentali ed erotiche.7

6 In particolare vedasi: G. Bachelard, L’Air et les Songes. Essai sur l’imagination du mouvement, Corti, Paris 1943, tr. it. di M. Cohen, Hemsi, Red Edizioni, Como 1988; G. Bachelard, L’Eau et les Rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Corti, Paris 1942, tr. it. di M. Cohen Hemsi e di A. C. Peduzzi, Red Edizioni, Como 1992. 7 Vedasi al proposito G. Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale, Interlinea, Novara 1999.

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Ma l’esistenza di una dialettica degli elementi appare fondamentale se si analizza la cultura paesaggistica occidentale (ma anche arcaica e medio-orientale) studiando il rapporto fra paesaggi originari e paesaggi antropizzati. Soprattutto agli inizi dell’età moderna appare spesso presente una coscienza paesaggistica, in campo pittorico e letterario, tendente a porre il paesaggio di pietra, ossia il paesaggio alpestre, e il paesaggio d’acqua del mare, in diretta relazione, non solo per contiguità visiva e continuità territoriale (valga per tutti la Montagna sul Mare presente nell’Annunciazione di Leonardo da Vinci)8, ma anche come origine del paesaggio del borgo, secondo uno schema preciso che era già presente in alcuni testi degli umanisti svizzeri della metà del quattrocento, prima fra tutti la Lettera sull’ammirazione della montagna, di Konrad Gessner. Indubbiamente, considerato sotto il mero profilo estetico, questo campo d’indagine è sterminato e in gran parte non battuto, e i segni della dialettica dei paesaggi originari sono ben presenti nella coscienza culturale occidentale fino a tutto l’ottocento, certamente sino a Nietzsche, di cui peraltro già Bachelard ha parlato con cura, ma si spingono oltre, sino a Magritte, e a pittori delle avanguardie contemporanee. Tali segni sembrano mostrare una prospettiva di ricerca che potrebbe, se non ribaltare, di certo riqualificare l’importanza di alcune tipologie di paesaggio entro la costituzione della coscienza occidentale dei luoghi, ridando un equilibrio storicamente più reale alla relazione, a mio parere oggi storiograficamente distorta, di cultura dei paesaggi antropizzati ed urbani e cultura dei paesaggi naturali. Si potrebbe dire infatti, che i paesaggi originari sono un spazio evolutivo culturale posto a congiunzione fra idea di natura e cultura dei paesaggi antropizzati o fortemente antropizzati. A mio parere, uno spazio di reale wilderness storiografica e concettuale. Fra i paesaggi originari che hanno avuto un’importanza essenziale nella storia culturale dell’occidente troviamo le Alpi, che si pongono come una reale enciclopedia di attribuzioni psicologiche di significati a parti del territorio: ciò secondo i criteri generali dell’unità di questo territorio; delle sue caratteristiche sfumatamente astrali o cosmiche, per usare la terminologia che Adorno spese per descrivere le terre dell’Engadina; della sua centralità nella storia di alcune nazioni e della sua relativa capacità di porsi, oggi, come reale area di elaborazione concettuale e sperimentale di soluzioni architettoniche e eubiotiche. Le Alpi, paesaggio originario per eccellenza fino alla metà dell’ottocento, oggi, come dicono alcuni, in gran parte LunaPark per gli svaghi delle fasce più dinamiche delle popolazioni metropolitane, sono state per duemila anni, con lunghi periodi di eclisse, territorio “generatore” per le pianure e le stesse città e, nel complesso, appaiono come un laboratorio concettuale ove si è definita non solo una forma importante di immaginario paesaggistico, ma si sono tentati, con alterna fortuna, esperimenti creativi di rilevanza non trascurabile.

8 Cf. P. Marani, Leonardo. Una carriera di pittore, Federico Motta Editore, Milano 1999; ma soprattutto: L’annunciazione di Leonardo. La montagna sul mare, a cura di Antonio Natali, Silvana Editoriale, Milano 2000.

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4. – Le Alpi come laboratorio paesaggistico concettuale: da Plinio il Vecchio a Norman Foster. L’immagine del paesaggio delle Alpi può essere considerata, a partire dalla metà del Settecento, come l’immagine paradigmatica per l’elaborazione delle percezioni di tutti i paesaggi alpestri.9 Allo stesso modo, il paesaggio delle Alpi è stato a sua volta percepito ed elaborato culturalmente attraverso riferimenti la cui genesi storica è del tutto precedente la “scoperta estetica delle Alpi”10, e che sono attinenti sia alle culture orientali, sia soprattutto a quelle antiche, ed in particolare greche e mesopotamiche.11 Al centro dell’immagine paesaggistica della principale catena montuosa europea troviamo un’idea chiave, che naviga poi lungo i secoli ed arriva, attraverso infiniti passaggi, buona parte dei quali ancora ignoti e non studiati, sino alla cultura del ventesimo secolo: seguire brevemente la vita storica di questa categoria, il cui carattere è in fondo interpretativo, coincide con il mettere in atto un piccolo esperimento di storia delle idee. Vorrei dunque cercare di mostrare come, dall’antichità classica all’architettura più recente, questa categoria culturale ha svolto una funzione importante nella determinazione dell’identità dei luoghi delle Alpi e nella costruzione della loro immagine generale. Potremmo chiamare quest’idea chiave “paradigma della centralità”. È quasi inutile ricordare quanto, nella storia dei grandi archetipi psicologici abbia contato, in relazione alla definizione delle strutture dello spazio, proprio la categoria del centro, della quadratura, del punto di incrocio, con tutte le sue complesse suggestioni e connessioni con le dimensioni astronomiche, numerologiche e con forme di geografia mistica. In particolare vorrei almeno sottolineare la compresenza delle quattro montagne legate ai punti cardinali, nel loro correlarsi con gli angoli del quadrato del villaggio, elemento strutturante di non poche definizioni dello spazio della vita in culture talora lontane per spazio e tempo. La dipendenza degli elementi costitutivi dell’immagine paesaggistica delle Alpi da elementi pregressi e propri delle civiltà non latine, come quella greca, è già ben testimoniata dal famoso disegno di Pietro da Cortona (1655 ca) che illustra la vicenda di Dinocrate che mostra il Monte Athos a Papa Alessandro VII. Il mito dinocratico, già presente in Vitruvio, narra di come il giovane architetto Dinocrate si fosse recato da Alessandro Magno per proporgli un progetto di trasformazione paesaggistica del Monte Athos, che avrebbe dovuto essere risistemato con le sembianze dell’imperatore, assiso, come su un trono, nella parte alta della montagna. Nella

9 Si vedano al proposito i seguenti testi fondamentali: W. A. B. Coolidge, Les Origines de l’Alpinisme, Glénat, Grenoble 1989; J. Grand-Carteret, La Montagne à travers les âges, Grenoble 1903-1904; N. Giudici, La Philosophie du Mon Blanc, Grasset, Paris 2000. 10 Su cui fa ancora fede il saggio di R. Assunto, Il parterre e i ghiacciai. Tre saggi di estetica sul paesaggio del Settecento, Novecento, Palermo 1984 (e in particolare: Dialettica del paesaggio romantico e consacrazione estetica delle Alpi, p. 85-120). 11 Si veda ad esempio il classico J. Campbell, Le figure del mito, Red Edizioni, Como 1997.

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mano destra avrebbe dovuto tenere una città, nella sinistra le sorgenti a cascata di un grande fiume. Considerato, per certi versi, un mito fondativo dell’architettura, questo racconto propone notevoli suggestioni anche in relazione alla categoria interpretativa dei paesaggi originari, sia per il non semplice rapporto di città, pietra e acqua, sia per quello che lega la creatività umana alle forme primordiali della natura e delle sue energie.12 Evidentemente ispirato a miti orientali, il mito dinocratico traspone categorie arcaiche entro la psicologia storica del paesaggio occidentale, attribuendo tra l’altro all’architettura non tanto e non solo una funzione operatrice entro la natura, ma soprattutto una ibrida relazione con quest’ultima, segnando così una tendenza che rimarrà e rimane di difficile comprensione, e che conduce in ultima analisi al problema del rapporto di natura e artificio. Ma il “paradigma della centralità” si esprime anche in maniera autonoma, per quanto riguarda le Alpi, in altre e più precise forme e lo potremmo definire in questo modo: le Alpi, in quanto sistema montuoso unitario, sono il motore centrale del continente, che a loro deve le energie principali e il contatto con la dimensione del cielo, cosmica, astrale. Allo stesso modo le Alpi fanno parte di un sistema montuoso generale, di cui sono il palazzo reale, che si caratterizza come sceleton mundi. E ancora, allo stesso modo, esse hanno un loro centro interno, sorta di motore nel motore, e detengono una struttura interna reticolare ad afferenza centralizzata, secondo la metafora della tela del ragno, non a caso classico simbolo entro la cultura della prima età moderna. Dunque seguendo le avventure storiche di quest’idea, la cui importanza non va sottovalutata sotto vari profili culturali, politici ed economici, possiamo notare come essa nasca probabilmente nell’Historia naturalis di Plinio il Vecchio, che definisce le Alpi come “castello d’acqua d’Europa”, ben coerente con il loro nome, che ne identifica al massimo grado l’essenza, in quanto “le bianche”, (Albes), cioè le innevate, ossia ancora “enti d’acqua”. Nei primi anni anni del 1500 Leonardo da Vinci in un frammento letterario piuttosto famoso, a cui è stato dato il titolo, opinabile, di Un’ascensione al Monte Rosa, nota come “questo vedrà, come vid’io, chi andrà sopra Momboso, giogo dell’Alpi che dividono la Francia dalla Italia, la qual montagna ha la sua base che partorisce li quattro fiumi che rigan per quattro aspetti contrari tutta l’Europa: e nessuna montagna ha la sua base in simile altezza”. 13 Nel 1868 Jules Michelet, 14 che non a caso dedicò grande attenzione anche al paesaggio originario del mare, intuendo una dialettica che entro la cultura francese sarà ripresa da Bachelard, scrive che “nelle Alpi, tutto si armonizza. I nobili anfiteatri che inviano verso i quattro mari il Po’, il Rodano, il Reno e l‘Inn (questo vero Danubio) non sono così disgiunti che non si possa, per così dire, abbracciarli con un sol colpo d’occhio. La maggior parte di essi nascono vicini e sono fratelli, sgorgando da un solo massiccio che è il cuore del sistema, il cuore del mondo europeo”.

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Cfr. S. Schama, cit., p. 393-456. Leonardo da Vinci, Frammenti letterari e filosofici, a cura di Edmondo Solmi, Giunti, Firenze 1979, p. 225. 14 J. Michelet, La Montagna, tr. it. di C. Gazzelli, il melangolo, Genova 2001, p. 48. 13

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Poco oltre egli rafforza il paradigma della centralità connotandolo in modo fortemente etico-pedagogico, quando sostiene che “splendido accordo, nobile armonia: tutto ciò che altrove è oscuro, qui risplende in assoluta chiarezza. Le Alpi sono una luce: insegnano, rendono percepibile ai sensi la solidarietà di tutto il mondo”. Non si tratta qui solo della trasposizione francese del celebre “mito di Haller”, secondo cui la vita sulle Alpi è vita buona e felice, ma si tratta di una rielaborazione concettuale che richiama elementi esoterici che vanno dal misticismo allo studio dei cristalli, che precorrono alcune suggestioni teoriche antroposofiche, se non new-age, e che affondano le loro radici nella rielaborazione di teorie filosofiche anticomedievali svolta agli inizi dell’età moderna, a partire dal neoplatonismo per arrivare ad Euclide passando dalla gnosi, da Ermete e forse dallo stesso Ficino. È interessante notare come il filtro illuminista non abbia in questo caso funzionato, poiché la voce Montagnes, dell’Encyclopedie, frutto della penna del barone D’Holbach –non l’ultimo venuto dunque- proponga al contrario un quadro asettico e freddo del tema, anche se l’idea della centralità non è del tutto sparita e viene citata come una delle teorie presenti intorno all’origine e alla funzione delle Alpi. Evidentemente i percorsi evolutivi delle idee si sono svolti, a questo proposito, attraverso altri canali, forse sotterranei e meno evidenti, dato che costituisce un punto a favore di possibilità di ricerca di notevole interesse entro la costituzione di una storia culturale del paesaggio e del paesaggio alpestre in particolare. Anche in Nietzsche è presente, sebbene in modo più oscuro e profondo, un’idea similare, di centralità sintetica, di unione dello spirito di luoghi diversi in un solo luogo -per certi versi idea conclusiva di un intero itinerario filosofico, o meglio unica idea a cui affidare una possibile catarsi etica dell’umanità occidentale. Idea secondo cui sulle Alpi, cioè in Engadina, Italia e Finlandia si incontrano e si fondono, e secondo cui l’anima umana può in questo luogo alpestre unirsi alla Terra per ritrovare le proprie potenze e riscoprire quella europeicità che è in origine grecità e che, da sola, può fondare “un nuovo giorno”, nuova alba di un’umanità rinnovata. 15 La proiezione geomantica verso un futuro leggibile proprio per mezzo della voce della Terra è fortemente intrisa di utopismo ma anche di speranza di vita “bella e buona”, e di superamento di una dimensione culturale e politica giudicata inadeguata allo spirito europeo nato e potenziatosi proprio entro la catena delle Alpi. Il genius loci europeo –anzi il buon genius loci europeo- abita sulle Alpi: esse appaiono così ad una vasta stirpe, è il caso di dire, di intellettuali, come il luogo elettivo ove ci si deve recare per cogliere il vero, e soprattutto per interpretare i segni che possono portare gli uomini a costruire un’Europa migliore e più legata alle proprie origini ancestrali: Hermann Hesse, Thomas Mann, Segantini, e prima ancora Hölderlin, proseguendo con John Ruskin, ma passando per Viollet le-Duc, per lo stesso De Saussure, e scendendo fino a Rousseau, compongono un circolo, tutt’altro che ristretto, i cui frequentatori attribuiscono comunemente alle Alpi lo statuto di laboratorio concettuale europeo. 15 Cf. F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1884-1885, 41 (7), in: Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VII, Tomo III, Adelphi, Milano 1975, p. 329-330. Su Nietzsche e il paesaggio rimando al bellissimo saggio di C. Resta: “Il luogo del pensiero: Nietzsche e la montagna”, in: Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna, a cura di Antonio Stragà, il Poligrafo, Padova 2000, p. 33-58.

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Ma la vecchia idea di Plinio trova ancora spazio proprio nel primo novecento entro discipline specifiche, come l’architettura. È il caso della Alpine Architektur dell’architetto tedesco Bruno Taut, pubblicata nel 1919, opera relativamente poco nota, costituita da una serie di splendide tavole disegnate e arricchite di brevi commenti scritti, in cui Taut presenta un incredibile itinerarium creativo che parte dalla proposta teorica di rifondare la futura vita dell’umanità europea attraverso la rielaborazione architettonica del paesaggio delle Alpi, le quali dovrebbero vedere la nascita di una serie di città di cristallo, costruite presso o addirittura sulle più importanti montagne dell’arco alpino, dal Monte Rosa al Rosengarten, passando per il Breithorn e il Matterhorn, cioè il Cervino, e scendendo verso valli e pianure, con il Monte Generoso, in Canton Ticino, e il per noi familiare e lecchese Resegone. L’immagine della Kristallhaus in den Bergen appare, concettualmente non solo legata alla moda dell’architettura del cristallo, che in quegli anni furoreggiava nella mitteleuropa, ma sembra risuonare di suggestioni ben più lontane, legate proprio al rapporto cristallo-luce, altitudine-purezza, per arrivare sino a concetti strettamente filosofici e simbolici, per cui cristallo è sinonimo di geometria e di bellezza: non a caso Taut giocava sul duplice significato, in greco, della parola kosmos, che al contempo indica sia il tedesco Ordnung, ordine, sia Schmuck, ornamento. Taut immagina la ricostruzione delle Alpi attraverso la creatività architettonica fondata su una nuova eticità che dovrebbe produrre fede, pace e bellezza, attraverso la convergenza di tutti i popoli dell’Europa in una Kunstlandschaft realizzata sulle Alpi stesse e secondo la loro essenza profonda. L’architettura alpina, così intesa, diventa allora per lui una forma di decorazione della Terra, espressione suprema della creatività artistica umana. “Le rocce vivono. Parlano: noi siamo organi della madre Terra… costruiamo l’architettura del mondo (Tavola 13)”. Se è vero da una parte che lo stesso Taut ha in seguito considerato come sogni di gioventù le idee esposte nell’Alpine Architektur del 1919, certo frutto del clima di un’epoca e di utopie di inizio secolo, d’altro lato è certo che questo progetto eticoestetico nasce su un terreno culturalmente molto complesso e caratterizzato dalla contemporanea presenza di molte tradizioni filosofiche e architettoniche, che appaiono, oggi a distanza di cento anni, quasi più attuali di quanto non fossero un secolo fa, quando le tecnologie non permettevano nessuna, neppur minima, concessione realizzativa ai progetti di questo genere. Non è un caso che Taut parta dal progetto su piccole aree delle Alpi, per poi passare alla totalità della catena, proponendo proprio una rete alpina di città di cristallo, per poi ancora espandere, seguendo il simbolo della sfera, questa nuova umanità verso la dimensione delle stelle (Sternbau), fino alla tavola in cui viene rappresentato il duomo stellare (Domstern) oltre cui non resta che una sorta di esplosione, o implosione psico-cosmica entro la magnifica immagine a colori caratterizzata come dialettica di sfere (Kugeln), circoli (Kreise), ruote (Räder). Le risonanze della filosofia di Nietzsche, ma un Nietzsche abbastanza esoterico, si ritrovano nell’ultima tavola, ove Taut propone solo una serie di scritte entro cui le stelle, i mondi, il sonno, gli esseri senza nome, confluiscono verso das grosse Nichts, il grande nulla. Con un salto epocale di quasi un secolo ritroviamo infine, per l’ennesima volta, l’idea secondo cui le Alpi sono luogo privilegiato per esperimenti non solo architettonici ma addirittura etico-architettonici, nel recente, ma per certi versi già ormai ob180


soleto, e molto criticato, progetto, realizzato, di Norman Foster per la Chesa Futura a St. Moritz. Si tratta, come è noto, di un edificio particolare, progettato e fatto costruire nel centro del Dorf, secondo una filosofia progettuale molto caratterizzata e tendente a porlo come riferimento simbolico per le Alpi del futuro. Foster, grande amante delle forme architettoniche curvilinee, ha immaginato una sorta di grande nocciolina americana rivestita in legno di larice chiaro, e costruita secondo quattro parametri essenziali: democraticità, visibilità, esperienza della forma, scelta dei materiali. Il progetto, sottoposto agli abitanti della cittadina, è stato scelto e rielaborato attraverso la partecipazione di questi ultimi. La casa è stata sopraelevata su otto “zampette”in acciaio così da rendere visibile la continuità simbolico-spaziale della percezione del lago, verso valle, anche trovandosi a monte dell’edificio, poiché si è giudicato tale aspetto scopico come reale incarnazione del genius loci engadinese, ossia come caratterizzazione ineliminabile dell’identità culturale di questi luoghi. La forma della casa, completamente sinuosa e senza alcuno spigolo, appare fondamentale proprio perché evita ogni rapporto-contrasto con le altre abitazioni, tutte geometriche, separandosi così del tutto, ma al contempo armonizzandosi al massimo, con il paesaggio circostante. Infine, la scelta dei materiali, tratti dal legno locale è stata fatta in sintonia con la tradizione architettonica e artigianale elveticogrigionese, nel rispetto sia delle funzioni cromatiche che dei rapporti elaborativi fra artigianato locale e grande impresa. Sospendendo il giudizio sul valore estetico dell’opera, si può comunque sottolineare come lo scopo finale di Foster sia stato proprio quello di identificare entro lo spazio delle Alpi un’area privilegiata per compiere, come in laboratorio, un esperimento concettuale e creativo di notevole risonanza, in linea, come abbiamo visto, con una tradizione millenaria che assegna alle Alpi stesse un ruolo fondamentale entro la vita del continente.16 Dunque, in rapidi cenni, ho cercato qui di delineare la storia di un’idea, lungo un percorso storico la cui origine si perde in realtà in epoche irrintracciabili, ma che è segnato da alcuni momenti di particolare rilievo, e non casualmente caratterizzati dalle riflessioni e dai messaggi di alcune grandi figure di riferimento della cultura occidentale.

16 Un testo interessante sull’architettura alpina contemporanea è: Paesaggi in verticale. Storia, progetto e valorizzazione del patrimonio alpino, a cura di G. Callegari, A. De Rossi, S. Pace, Marsilio, Venezia 2006; ma si veda anche: Montagnes. Territoires d’Inventions, sous la direction de Jean-François Lyon-Caen, école d’architecture de Grenoble, 2003.

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c/ di Fumagalli, Mezzanzanica, Marini, Pedevilla

Convegni

Husserl – Arbeitstage 2012 Si è tenuto a Lovanio, nei giorni 21-24 novembre 2012, il tradizionale convegno annuale husserliano. Organizzato dall’archivio Husserl ed ospitato nelle aule della Katholieke Universiteit, l’incontro, che ha avuto come tema Feeling and Value, Willing and Action, si è rivolto in particolar modo agli studi dell’etica husserliana. Una scelta non casuale. Come ha spiegato nel discorso di apertura il direttore dell’archivio Ulrich Melle, si tratta della direzione tematica nella quale si muovono i manoscritti del filosofo riscritti da Landgrebe tra il 1909 ed il 1914, che sono attualmente in fase di editing da parte dell’Archivio e di cui è prevista, nell‘estate del 2014, la pubblicazione in tre volumi dal titolo Studien zur Struktur des Bewußtseins nella collana “Husserliana”. Questi scritti tracciano una descrizione architettonica dei sentimenti e dei flussi di coscienza e furono giudicati fondamentali anche da Heidegger, come ha ricordato Melle. L’evento, che è durato quattro giorni, ha visto l’alternarsi di ben ventidue relatori provenienti da tutte le parti del mondo. La prima serata della conferenza è stata aperta da John. J. Drummond della Fordham University di New York. La sua riflessione si è concentrata sul sentimento dell’amore quale eccezione rispetto agli altri nel far emergere la dimensione trascendente dell’io. Il giorno successivo, è proseguita l’analisi del rapporto tra le emozioni e l’io. Jan Slaby (Freie Universität, Berlin) ha affermato che le emozioni sono collegate con il potere d’azione dell’io nel mondo: c’è quindi una correlazione tra la percezione di sé e la concezione del mondo, così come tra l’emozione e l’azione. È stata, invece, la prospettiva intersoggettiva a guidare la relazione di Hilge Landweer (Freie Universität, Berlin) che ha indagato sui fondamenti che stanno alla base della corporeità e dell’empatia, utilizzando come esempio gli sport di gruppo, nei quali la per183


sona è una ed unica tra gli altri. Nel pomeriggio della seconda giornata si è svolta la prima delle quattro sessioni parallele del convegno, tutte dedicate ad approfondimenti del pensiero di Husserl che hanno visto l’intervento di studiosi e ricercatori “specializzati” nel pensiero del filosofo. Mentre Emanuele Mariani (Universidade de Lisboa, Lisbona) si è interrogato sulla razionalità dell’etica attraverso le Lezioni sull’Etica e la dottrina dei valori husserliane, Genki Uemura (Keio University, Tokyo) ha presentato la concezione della cognizione come azione all’interno della produzione husserliana, sostenendo che tale tesi venne adottata dal fenomenologo già dagli anni di Gottinga. In chiusura della seconda giornata, Esteban Marín (Universidad Nacional Autónoma de México/ Bergische Universität Wuppertal) è tornato sulla nozione di intersoggettività delle azioni volitive come fondamento degli atti sociali e Marta Ubiali (Katholieke Universiteit, Lovanio) ha riflettuto sulla costituzione genetica dell’io in Husserl e del suo ruolo nella sedimentazione delle abitualità trascendentali. Sonja Rinofner-Kreidl (Universität Graz) ha aperto la terza giornata di convegno proponendo un’interessante analisi fenomenologica dell’invidia e del risentimento. La dinamica del sentimento dell’invidia è incisiva in quanto mette in questione il futuro della persona: l’altro si configura come l’incarnazione di quel che desidero per me, ma è inarrivabile nel mio fissare emozionale. La persona e il suo difficile ruolo all’interno della sfera plurale, collettiva ed istituzionale, sono stati al centro della riflessione di Karl Mertens (Bayerische Julius-Maximilians-Universität, Würzburg) che, per illustrare la dicotomia tra individuo e istituzione, ha preso in prestito il concetto di intenzionalità dalla filosofia analitica. A riportare la discussione all’interno della cornice husserliana, in particolar modo a quella del secondo manoscritto delle Studien, è Thomas Vongehr (Katholieke Universiteit, Lovanio) che ha analizzato la volontà che accompagna un’azione. Attraverso un’attenta ricostruzione dell’architettura husserliana, è risalito alla fase iniziale dell’azione – la Urhandlung – momento in cui è ancora possibile cambiare direzione volitiva e si scoprono livelli di volontà inconsapevoli che guidano la nostra azione. Maren Wehrle (Katholieke Universiteit, Lovanio) si è invece domandata che ruolo hanno le emozioni all’interno della percezione e come si articolano, di conseguenza, l’intenzionalità e l’interesse in Husserl. Ne è emerso che l’interesse è un concetto imprescindibile per la soggettività. Michele Averchi (Università degli Studi di Milano) e Thorsten Streubel (Freie Universität, Berlino) hanno proposto un confronto tra autori: il primo ha analizzato la coscienza dei sentimenti in Husserl e Geiger; il secondo ha illustrato una fenomenologia della compassione tramite l’analisi dei sentimenti morali in Husserl e Schopenhauer. Le ultime sessioni parallele della terza giornata hanno visto gli interventi di Andrea Borsato (Universität Bern), Stefano Micali (Universität Heidelberg), Michela Summa (Universität Heidelberg) e Henning Peuker (Universität Paderborn). L’analisi fenomenologica dei sentimenti è stata al centro di ogni relazione: dalla ricostruzione fenomenologica scheleriana dei sentimenti come fenomenologia della coscienza morale interna (Borsato), si è passati all’analisi fenomenologica dell’ansia che si configura come mancanza di un riferimento oggettivo – dato che ha portato Micali a porre al centro del suo discorso il ruolo costitutivo della fantasia confusa. Michela Summa si è chiesta se le emozioni possano essere “richiamate in tranquillità” rispondendo negativamente alla domanda, in quanto c’è un’intima differenza tra l’emozione e la riflessione. Per quanto si 184


possa presentificare un’emozione passata, questa sarà sempre diversa dall’originale. Ci potrà quindi essere la creazione di nuovi sentimenti che rappresentano l’originale. Questa analisi ha portato ad individuare lo stato d’animo che più degli altri è in relazione con la memoria: la nostalgia. Henning Peuker, in conclusione, ha analizzato il concetto di volontà come emerge dalla fenomenologia statica e genetica. A chiudere la giornata di venerdì, gli organizzatori hanno previsto un workshop sul volume secondo delle Studien zur Struktur des Bewusstseins dedicato al Gefühl. Una copia del manoscritto è stata fornita, alcuni mesi prima della conferenza, agli archivi Husserl di Colonia, Friburgo, Lovanio e Parigi per la lettura critica. L’obiettivo del workshop è stato quello di illustrare e discutere le riflessioni provenienti da ciascuno dei quattro gruppi di lavoro. L’ultima mattina del convegno, si è aperta con la quarta sessione parallela nella quale sono intervenuti: Emanuele Caminada (Universität zu Köln, Colonia), Samuel Le Quitte (Université de Rennes 1), Jagna Brudzinska (Universität zu Köln, Colonia) e Ignacio Quepons Ramirez (Universidad Nacional Autónoma de México/Universität zu Köln, Colonia). Il leitmotiv che ha accompagnato le relazioni è stata l’indagine della capacità di coscienza emotiva insieme alla funzione dell’intenzionalità fenomenologica tra etica e logica. In particolar modo, Caminada ha condotto un’analisi della struttura genetica del sociale attraverso la relazione intenzionale io-altro, mentre Brudzinska ha riflettuto sulla capacità di coscienza emotiva in seconda persona nella ricerca fenomenologica. Le Quitte e Ramirez hanno presentato due interpretazioni differenti del rapporto tra etica e logica: se il primo ha evidenziato soprattutto i limiti dell’analogia tra le due, il secondo, trattando dell’orizzonte di coscienza in Husserl, ha sostenuto la coerenza tra logica dell’esperienza percettiva e spiegazione della sfera logica, tracciando una “fenomenologia degli umori”. La chiusura dei lavori è stata affidata a Íngrid Vendrell Ferran (PhilippsUniversität Marburg, Marburgo) che ha messo a confronto la fenomenologia degli esordi con la filosofia analitica sui concetti di valore, cognizione ed emozione. Nell’analisi sono emerse due differenti interpretazioni: il disposizionalismo, abbracciato da Brentano, che considera il valore come qualcosa che spinge il soggetto verso il bene – non è, quindi, una qualità indipendente da lui – e il realismo di Scheler (sostenuto recentemente da Julia M. Johnston e Christine Tappolet), che negando l’analogia tra il sentire e l’emozione, afferma che i sentimenti non hanno alcun ruolo cognitivo, ma si dirigono al soggetto offrendo alcune nuance dei valori – non potendo però in alcun modo portare alla conoscenza del valore stesso. In questa densa carrellata di temi, fenomenologici e non, che si sono susseguiti durante il convegno husserliano 2012, è interessante notare l’interdisciplinarietà che accompagna il tema dei sentimenti, dei valori, della volontà e dell’azione. Tra psicologia e scienze sociali, filosofia analitica e continentale, l’etica husserliana rappresenta una complessa galassia di ricerca, dove è l’uomo a potersi esprimere alla sua massima potenza empatica. (Sara Fumagalli)

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Manuali di filosofia

Le grammatiche del pensiero, il Manuale di filosofia uscito nel 2012 a cura di L. Guidetti e G. Matteucci (ed. Zanichelli), si presenta fin dal primo sguardo come un testo snello, leggero e maneggevole, proprio per la sua scelta strutturale di privilegiare, nella presentazione di pensatori e scuole, l'elemento concettuale su quello descrittivo. Attraverso l'uso sistematico di mappe si punta infatti a ricostruire per modelli e comparazioni, lo schema teorico di riferimento delle diverse visioni filosofiche, esplicitandone le articolazioni logiche interne e mostrandone, in parallelo, la stretta connessione tra pensiero ed essere. Ne consegue che lo stile espositivo è piuttosto asciutto e rifugge da qualsiasi prolissità, ma si arricchisce di frequenti schede, inserite all'interno delle lezioni, che richiamano passi degli autori trattati o suggerimenti critici, offrendo spunti di riflessione, approfondimento e discussione. Ogni lezione è completata da una pagina dedicata alla verifica della comprensione nella forma di “La pratica dei concetti” e di una lettura guidata di un testo: “La pratica della lettura”. A conclusione di ogni unità, invece, è disponibile un “Glossario” e la sezione “Esercizi di riepilogo”, che punta a potenziare in modo sistematico le abilità di analisi (comprensione di testi) e di sintesi (schemi comparativi, mappe concettuali...). Interessanti le possibilità offerte dagli spazi interattivi che consentono la creazione di un luogo virtuale da condividere con l'intera classe, personalizzando il libro e arricchendolo del lavoro svolto in classe, così come gli ulteriori strumenti offerti in rete: videoanimazioni interdisciplinari, filosofi a confronto, giochi logici, esercizi interattivi e mappe e documenti modificabili in funzione del programma. (Alessandra Pedevilla)

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Libri

Massimo Mezzanzanica, Von Dilthey zu Levinas. Wege im Zwischenbereich von Lebensphilosophie, Neukantianismus und Phänomenologie, Traugott Bautz Verlag, Nordhausen 2012, p. 244, € 30 (in brossura), € 40 (rilegato). I saggi raccolti in questo volume si muovono in un ambito di confine o in una zona intermedia, in cui si incontrano filosofia della vita, neokantismo e fenomenologia. Senza pretese di sistematicità, essi percorrono uno spazio filosofico attraversato tanto da omogeneità e aspetti comuni, quanto da differenze, divergenze, tensioni e conflitti. Il volume può anche essere inteso come un tentativo di mettere a confronto la filosofia di Wilhelm Dilthey e del suo allievo Georg Misch con le propettive di pensatori come Droysen e Helmholtz, Husserl, Heidegger e Yorck, Cassirer, Plessner, Simmel e Levinas. Tra gli autori qui considerati Dilthey e Levinas rappresentano in certo qual modo due estremi: comune a entrambi è l’atteggiamento critico nei confronti del concetto husserliano di intenzionalità; diversa è la concezione dell’esperienza e dell’individualità. Se per Dilthey l’esperienza ha un carattere storico e l’individuo si colloca in un contesto storico-culturale e, tramite le sue espressioni, è accessibile alla comprensione, per Levinas il volto dell’Altro costituisce l’autentica e concreta esperienza ed è l’espressione di una singolarità assoluta, che nel suo carattere imperscrutabile trascende gli orizzonti del mondo e della totalità dell’essere. Salvatore Giammusso, Hermeneutik und Anthropologie, Akademie Verlag GmbH, Berlin 2012. Il volume raccoglie sotto il titolo di Ermeneutica e Antropologia tredici saggi (di cui uno è inedito) e gli altri sono articoli o interventi a congressi degli ultimi 20 anni di ricerca filosofica ed epistemologica condotti da Giammusso in un coerente sviluppo e approfondimento nell’ambiente favorevole del Dipartimento di Filosofia “Antonio Aliotta” dell’università napoletana “Federico II”. Rispetto all’impegno teorico stretto dei suoi libri, la struttura armonica della sua visione congiunge qui gli aspetti più caratteristici di un’epistemologia delle scienze umane (nel dialogo con la scuola diltheyana di G.Misch, H.Plessner, O.F.Bollnow), con quelli di una generale meditazione filosofica che prende le mosse dalla tradizionale filosofia diltheyana della vita. Il motivo filosofico dominante di Dilthey, quello della impossibilità per il pensiero di risalire alle spalle della vita stessa (o della “Unergründlichkeit” della vita) è costantemente sentito dall’A. come l’analogon filosofico-ermeneutico di un supremo principio del pensiero filosofico contemporaneo (come quello heideggeriano del “senso dell’essere in quanto tale” o quello dell’“indeterminazione” di Heisenberg applicato all’esperienza storica). 187


Salvatore Giammusso, Il corpo consapevole. Le arti d’Oriente e l’integrazione della vita adulta. Contributo a una fenomenologia interculturale, Mimesis, Milano 2009, p. 109, € 12,00. Collocandosi nella scia di una tradizione di ricerca fenomenologica, questo studio analizza il senso della corporeità che si esprime nelle arti d’Oriente. Il qigong, lo zen e il taijiquan vengono considerati come pratiche di consapevolezza che consentono di oltrepassare la posizione egocentrica della coscienza. L’incontro con una cultura estranea diventa per l’A. uno strumento per vedere con altri occhi il corpo proprio e per porre in luce, in un contesto teorico che si richiama alla psicologia umanistica, il significato psicopedagogico di esperienze che appartengono alla più profonda natura umana, come quelle del respiro, dell’attenzione e del movimento. Laura Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010, p. 137, € 14,00. Nella discussione filosofico-politica contemporanea il termine “biopolitica” serve a caratterizzare una serie di fenomeni che si muovono attorno al binomio bios (vita) e politica in una situazione in cui diventa centrale tanto il corpo di chi esercita il potere quanto quello di chi lo subisce. Questo studio indaga le diverse accezioni assunte dal termine (da Foucault a Giorgio Agamben e Roberto Esposito, da Antonio Negri e Michael Hardt a Peter Sloterdijk e Jacques Rancière) e ne mette in luce la connessione con il sapere biologico e con la logica economica che la regola nelle società neoliberali. Giancarlo Vianello, Colligite fragmenta. La questione del nulla, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 138, € 16,00. Il nichilismo, inteso da Nietzsche come svalutazione dei valori, costituisce la cifra della cultura contemporanea, che porta l’impronta della tecnica e si caratterizza come civiltà di massa. Nella convinzione che il nichilismo non sia un esito catastrofico, ma il manifestarsi della logica di un trapasso di valori che annichilisce solo una particolare visione del mondo, l’Autore, studioso della Scuola di Kyoto, riconsidera la questione del nulla prestando attenzione alle diverse modalità con cui essa si è manifestata in Occidente e in Oriente, dal “nulla dei filosofi” al “nulla dei mistici” alla “vacuità buddhista”. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane, a cura di Vincenzo Fidomanzo, Mimesis, Milano 2012, p. 75, € In questo dialogo, pubblicato in edizione originale nel 1977, Jean-François Lyotard mette a confronto un dissidente sovietico e un anonimo parigino. Le elezioni amministrative che si sarebbero tenute di lì a poco diventano l’occasione per una riflessio188


ne sul valore e sul significato della rappresentanza politica. La domanda relativa al rapporto tra cittadini e potere introduce a una riflessione sul mondo classico. Risalendo alle origini greche della democrazia, le narrazioni mitologiche aiutano a comprendere quale sia la posta in gioco nel campo politico.

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