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AUTO DIESEL, OVVERO. L’AUTOLESIONISMO DELL’EUROPA

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TRIBUTI

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AUTO DIESEL, OVVERO. L’AUTOLESIONISMO DELL’EUROPA

I veicoli nuovi hanno emissioni irrilevanti. Il problema sono quelli vecchi. Perché allora accanirsi su tutti in modo indistinto danneggiando assieme produttori e consumatori?

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“Anziano si frattura femore ma lo operano alla gamba sbagliata”. Una notizia, fortunatamente rara, di mala-sanità, che torna molto utile per descrivere, in maniera sintetica ed efficace, il dibattito sulle auto. Le automobili inquinano? Sì. C’è un problema, un femore fratturato. Tutte, indistintamente? No. Quelle nuove, le Euro 6d, hanno emissioni trascurabili: i femori sono due, ed uno è sano. Ma allora, ha un senso intervenire sulle auto nuove, in termini di immatricolazione e circolazione? Come vendetta, sì. Come soluzione del problema, no: è la riparazione dell’arto sbagliato. Eppure, le cose stanno proprio così. Verso la fine del secolo scorso, l’UE iniziò a imporre dei limiti alle emissioni delle auto, a salvaguardia dell’aria e del clima. In realtà, del clima se ne stavano già occupando da decenni i vari governi nazionali, incentivando fiscalmente le vetture diesel, poiché emettono meno CO2 – ma lasciamo perdere. Dicevamo dei limiti. L’industria ha fatto ogni sforzo possibile per stare dentro i parametri fissati, che dal 1993 ad oggi si sono via via abbassati, da Euro 1 fino a Euro 6d, diminuendo le sostanze inquinanti circa del 95%. Si può fare di meglio? Sempre. È il massimo che si poteva ottenere? Sì, in condizioni normali, ossia restando nella produzione e distribuzione di massa. Il contesto è un fatto rilevante. La sfida non è un’auto ottimale, ma un’auto ottimale che sia compatibile con le strutture esistenti e alla portata del consumatore medio. Il miglioramento sulle sostanze inquinanti è

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stato raggiunto senza traumi per l’industria, per il mercato e per le strutture. La ricerca sui propulsori e sui carburanti ha potuto fare passi avanti, in un ventennio, con gradualità. Il prezzo dei prodotti non ha subito oscillazioni rilevanti in dipendenza di tali innovazioni. Le strutture per la circolazione, il rifornimento e lo stazionamento delle vetture non hanno richiesto investimenti. Oggi noi usiamo macchine che funzionano in tutto e per tutto come quelle del secolo scorso, salvo che allo scarico hanno emissioni inquinanti trascurabili. Problema risolto, dunque? Assolutamente no: il femore rotto è… ancora rotto. Solo che la soluzione non sta nella produzione o nell’uso di auto nuove. In Italia risultano 39 milioni di auto, di cui oltre 17 sono Euro 3 e 4, mentre 9 sono Euro 2 o antecedenti. L’operazione chirurgica appropriata è l’eliminazione, graduale e indolore quanto si vuole, di queste vecchie auto. È un problema sociale, e come tale ricade sulla società. Punire chi acquista e usa una macchina nuova può dare un senso di conforto al pubblico, ma non ha alcun effetto sul femore rotto.

Le polveri? Sotto il tappeto

Teniamo un attimo il paziente da parte, per approfondire la questione delle emissioni, basandoci sugli studi di Aeris Europe, un organo consultivo. Le due principali sostanze inquinanti sono le polveri sottili (PM, particulate matter) e gli ossidi di azoto (NOx). Questi ultimi nel 2015 erano riconducibili per il 40% al trasporto su gomma, tutto incluso: camion, furgoni, bus e macchine – col distinguo che a quelle a benzina era attribuibile appena il 2% rispetto al 14% delle diesel. Il riferimento al 2015 è importante, perché questi valori sono figli di un certo mix di vetture, tra vecchie, vecchissime e nuove. Con la diffusione delle Euro 6 in sostituzione delle altre, si prevede che le emissioni di NOx delle auto si dimezzeranno entro il 2025, mentre l’evoluzione prosegue, tanto che a febbraio di quest’anno alcuni test RDE (real drive emission) dell’ADAC (Allegemeiner Deutscher Automobil Club) hanno evi-

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denziato come diversi modelli presentino emissioni NOx prossime allo zero.

Quanto al PM, non è più un problema dell’industria automobilistica – se mai lo sia stato. Sempre dalla medesima analisi riferita al 2015, la fonte principale del PM 2,5 (ossia il particolato più sottile – e dunque più nocivo) erano le abitazioni col 46% mentre un altro 44% proveniva da industria, rifiuti e altro. Quello derivante dal trasporto su gomma era il 10% del totale e quello riconducibile alle auto diesel il 4%. Oltre alla considerazione più ovvia – 4%: di che stiamo parlando? – va specificato che dallo scarico proveniva solo metà circa del particolato, pure in forte diminuzione con la diffusione delle Euro 6, di cui abbiamo già detto. L’altra metà derivava dall’usura di pneumatici e freni e dal rotolamento delle ruote, che sollevano le polveri dal suolo. Infatti, quando piove i livelli di PM non salgono mai. Quando non piove, si potrebbero lavare le strade, come suggerito da Dekra alla città di Stoccarda, in base a un’accurata analisi da cui emergeva che più giorni si lava e meno giorni sale il PM. Il problema con questa fonte di PM è che anche un’auto ad aria compressa lo solleverebbe lo stesso. Meglio allora smetterla con le macchine e usare i mezzi pubblici, preferibilmente su rotaia. Magari no. Dekra ha misurato il livello di PM nella metropolitana di Stoccarda: 60 microgrammi/m3, 20% sopra il limite massimo stabilito dall’UE – quando non passa il treno. Già, perché con l’avvicinarsi del treno in stazione il livello sale vertiginosamente, fino a 655 µgr/m3, tredici volte il limite.

Diesel giù, gradi su

In barba a queste e molte altre evidenze, la demonizzazione delle vetture diesel sta proseguendo. In Italia nel primo trimestre la quota delle auto diesel è scesa al 44%, dal 55 di un anno prima. Dieci punti sono andati al benzina e uno o poco più alle ibride, auto che consumano di più e dunque emettono più CO2, che contribuisce

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al riscaldamento globale e che l’UE vuole assolutamente abbattere: nel periodo siamo passati da 113 a 121 gr/km. Per l’industria è un problema, visto che nel 2021 sopra i 95 gr/km scatteranno le multe della Commissione Europea. Per l’ambiente e per il riscaldamento globale cambia poco o niente, visto che la CO2 riconducibile alle auto europee è appena lo 0,06% di tutta quella prodotta dal pianeta. In sintesi, le cose stanno più o meno così. L’UE conduce una sua battaglia ascetica contro una delle sue industrie maggiori e migliori, per abbattere delle emissioni di cui il pianeta nemmeno si accorge. Le amministrazioni locali invece conducono un’altra battaglia, contro un’eccellenza tecnologica, le auto diesel nuove, operando il femore sano. Il paziente continua a girare con le auto vecchie e inquinanti, il femore rotto, tanto non sente dolore. Il resto del Mondo porge il bisturi, fregandosi le mani dell’autolesionismo degli europei.

Articolo pubblicato su Harvard Business Review Italia, a giugno 2019

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