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AUTO ELETTRICHE, ALLARME ANALISTI: GLI INVESTIMENTI PORTERANNO AD UN “DESERTO DEL PROFITTO”
AUTO ELETTRICHE, ALLARME ANALISTI: GLI INVESTIMENTI PORTERANNO AD UN “DESERTO DEL PROFITTO”
Studio Alix Partners. Le Case affrontano una difficile transizione dal termico all’elettrico.
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Un ‘deserto del profitto’. Così Alix Partners, una società di consulenza, descrive il territorio verso cui si sta addentrando l’industria automobilistica. Siamo al terzo indizio in poche settimane. Prima Standard & Poor’s ha avvisato che l’outlook sui margini tende al brutto a causa dei troppi investimenti, a fronte dei quali la risposta del mercato appare quanto meno improbabile. Poi è stata la volta addirittura del numero due di BMW, che ha fatto outing sulla completa indisponibilità dei cittadini europei ad acquistare auto solo elettriche. Con tre indizi, comincia a materializzarsi una prova: ma di cosa? Gli analisti guardano con preoccupazione ad alcuni indicatori del settore. Il più importante è la quantità impressionante di soldi che i costruttori stanno investendo, da qui al 2023: 225 miliardi di dollari per l’elettrificazione della gamma e altri 50 per la guida autonoma, stando alle stime di Alix Partners. Per dare un riferimento, 275 miliardi è la metà dei 553 miliardi di EBIT che i costruttori di auto e veicoli leggeri hanno generato nel quinquennio 2014/18. Sebbene non siano un’automatica erosione dei profitti di pari importo e per quanti risparmi possano fare, e li stanno facendo (e chissà che questo non si riveli parte del problema), è facile comprendere la dimensione della minore redditività. A questo punto, va detto che l’impresa deve costantemente fare investimenti, per andare incontro alle opportunità di nuova domanda che si prospettano all’orizzonte. Quando, si prospettano. Se, si
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prospettano. Gli analisti in verità dipingono un trend tutt’altro che espansivo nei prossimi anni. Il primo mercato del Mondo, la Cina, che ha generato in questo decennio i due terzi della crescita, pare stia tirando il freno: si proietta un meno 8% quest’anno. Gli Stati Uniti sono entrati nella fase calante del ciclo e l’Europa, per bene che possa fare, non darà i volumi necessari. Insomma, investimenti sì, ma non per vendere più macchine: sorge il dubbio se Herny Ford li farebbe. Ma allora, se non dal mercato, da dove arriva la spinta a simili impegni? Quella verso l’elettrificazione dai governi, che impongono limiti alle emissioni impossibili da rispettare e inutili sotto il profilo ambientale, come ormai tutti sanno – limiti accompagnati da multe miliardarie. Quella verso la guida autonoma dai giganti dell’ICT, che vogliono a tutti i costi tenere agganciati i clienti quando si spostano in macchina e che spingono la partita ben oltre la normale assistenza alla guida (i cosiddetti ADAS – advanced driver assistance systems). Il punto è che né gli informatici e men che meno i governi conoscono gli automobilisti bene quanto i costruttori di auto, che da oltre cento anni gli offrono il prodotto giusto, che regolarmente comprano. Non sanno cosa vogliono e cosa invece giudicano inutile o irrilevante. Cosa è cambiato in questo primo scorcio di secolo? Intanto, la politica per la prima volta, in occidente, compie scelte che prescindono dall’interesse e dalle possibilità dei costruttori. Poi, mai prima sulla scena c’era stata un’altra industria che aveva insieme capacità d’innovazione e risorse enormi. Davanti a questi due fenomeni, i costruttori forse si sono sentiti un po’ incalzati. In altri termini, è la prima volta che non sono loro, i car makers, a dettare l’agenda dello sviluppo. Per fare un piccolo esempio banale, le cinture di sicurezza a tre attacchi furono installate di serie nel 1959 da Volvo e poi dagli altri costruttori, ma solo nel corso degli anni ‘70 divennero obbligatorie in Europa. Si sa che decidere sotto pressione non è mai foriero di buone scelte, specie per chi non c’è
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abituato. Quale che sia la causa, è più importante capire l’impatto che avranno questi cospicui investimenti con poco mercato e scarsi profitti. Un generale indebolimento finanziario dell’industria automobilistica, che già lo scorso anno ha mandato un’avvisaglia: una flessione del 20% dei profitti, pari a 25 miliardi di dollari, nonostante una contestuale riduzione di 44mila addetti, la prima dopo la crisi 2008/10. Un’industria finanziariamente debole diventa facilmente scalabile da parte di chi punta ad accedere a tecnologie e nuovi mercati, come i produttori cinesi. Produttori che in questi ultimi anni hanno visto scendere l’utilizzo dei loro impianti intorno al 75% e, nell’ultimo anno, sotto il livello critico del 70%. Non è difficile ipotizzare come, dal loro punto di vista, si potrebbe sfruttare una tale capacità, allorché avessero accesso ai mercati occidentali con brand e reti già consolidate. In conclusione, è vero che i costruttori, dopo più di un secolo di mobilità individuale a motore, oltre a meritare fiducia e rispetto, hanno le spalle per reggere questa nuova sfida. Sicuramente le attuali strategie sono il frutto di analisi e di valutazioni accurate e approfondite. Magari è solo il caso di fare un tagliando, una specie di stress test, per controllare che tutto vada confermato.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 10 luglio 2019
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