5 minute read
L’AUTOMOBILE, LA CO2 E LA DISINFORMAZIONE TARGATA GREENPEACE
L’AUTOMOBILE, LA CO2 E LA DISINFORMAZIONE TARGATA GREENPEACE
Advertisement
Greenpeace ha riunito 15.000 persone sabato 14 settembre, in occasione del Salone di Francoforte, al grido di “make love not CO2”, indicando nella produzione di auto una fonte importante di anidride carbonica, il gas serra responsabile del riscaldamento globale. Il ragionamento è semplice: se le auto emettono una dose rilevante di CO2, elimina la produzione di auto e avrai eliminato il problema. Sfortunatamente, non è così. In sintesi, e anticipando le conclusioni, continueremmo ad emettere CO2, ma possiamo scegliere di farlo in un’economia in salute oppure avendo danneggiato seriamente uno dei suoi (nostri) pilastri. Entrando nel merito, in questa commedia, che vorrebbe a tutti i costi diventare tragedia, ci sono tre soggetti: Greenpeace, l’industria automobilistica e i cittadini.
Greenpeace poggia la sua chiamata alle armi su dati recentemente diffusi, la cui comunicazione molto discutibile recita. “Il settore automobilistico, con 86 milioni di auto vendute nel 2018, si stima sia responsabile di 4.8 gigatonnellate (Gt) di CO2 equivalente, circa il 9% del totale delle emissioni globali di gas serra, più delle emissioni dell’intera Unione Europea (4.1 Gt)”. Come stanno davvero le cose? Le auto vendute oggi emettono intorno a 100/130 gr/ km di CO2 (arrotondiamo a 150, per eccesso) e percorrono circa 20.000 km/anno. La calcolatrice dice 250 milioni di tonnellate di CO2, ossia un ventesimo (1/20) di quella denunciata da Greenpeace, che si può ottenere, senza mentire, accostando dati reali di grandezze diverse. Il “settore automobilistico” sono tutte le auto
126
in circolazione, circa 1,3 miliardi, le cui emissioni possono essere effettivamente nell’ordine di alcune Gt. Però queste macchine ormai sono nelle mani degli automobilisti, che non interessano. Infatti, Greenpeace non va a manifestare al casello della tangenziale alle 8,30 del mattino, perché gli automobilisti li falcerebbero. Per chiamare in causa i costruttori occorre inserire quel riferimento alle vendite 2018, altrimenti il giochino non regge. Allora, è ipotizzabile che Greenpeace non sia arrivata ai costruttori seguendo la pista della CO2, ma al contrario arrivi alla CO2 partendo dai costruttori, che sembrano il vero obiettivo. Sempre nello stesso report, Greenpeace attribuisce a ogni auto venduta nel 2018 circa 50 tonnellate di CO2 di emissioni, escluse quelle legate alla produzione (che non conviene calcolare perché poi andrebbero fuori limite anche quelle elettriche, la vera finalità di Greenpeace). Ora, sempre la calcolatrice dice che una macchina prodotta nel 2018 per emettere 50 tonnellate di CO2 deve percorrere 333.000 chilometri. A una velocità media di 30 km/h, l’auto dovrebbe camminare ininterrottamente in un anno 463 giorni. Stabiliti alcuni punti fermi, occupiamoci del bersaglio grosso, il pianeta e la sua temperatura, che sta a cuore a tutti. Prendendo per buona la stima di 4.8 Gt di CO2 emesse da tutte le auto del mondo, secondo Greenpeace rappresenterebbero “circa il 9% del totale delle emissioni”. Ora, la CO2 prodotta ogni anno dal pianeta si aggira intorno alle 800 Gt, di cui una piccola parte (intorno al 5%, circa 40) derivante da attività umane. Così, quella emessa da tutte le auto del pianeta si aggira sullo 0,6% del totale. Ecco perché bloccare la circolazione di auto non sarebbe una soluzione al contenimento della CO2, cosa che infatti Greenpeace non chiede, accontentandosi di fermare le vendite di automobili a motore termico – e nemmeno tutte, solo quelle europee, a quanto pare. Come si legge nel rapporto, “le auto diesel e benzina dovranno essere rapidamente abbandonate, con uno stop alle vendite previsto in
127
Europa per il 2025 per le nuove auto e per il 2028 per le ibride (…) per costruire veicoli elettrici piccoli, efficienti e avere una filiera di produzione sostenibile”. Non solo, devono anche impegnarsi a “superare il modello che porta a produrre sempre più auto (…) anche fornendo servizi che siano complementari al trasporto pubblico, come ad esempio car sharing e car pooling”. In parole semplici, si persegue l’estinzione dell’industria automobilistica, o almeno di quella europea, senza minimamente intaccare davvero le emissioni di CO2. Che porta a due domande. Cui prodest? E come mai l’industria si fa portare per mano di buon grado verso il patibolo, senza reagire? A rispondere alla prima domanda si rischia la dietrologia, dunque è meglio lasciare che ciascuno veda per conto suo chi è il vero portatore di una mobilità elettrica, mettendo insieme i fatti: deficit di tecnologia sul motore termico, squilibrio della bilancia commerciale automobilistica, disponibilità delle materie prime per le batterie. Poi, è talmente grande che è impossibile non vederlo. Abbiamo rivolto la seconda a Michele Crisci, presidente dell’Unrae (l’associazione dei costruttori esteri). “Premesso che chi veicola informazioni, soprattutto se si tratta di dati scientifici con la capacità di influenzare i mercati, deve verificare con competenza la correttezza dei dati, in questo caso voglio pensare che siano persone non competenti, senza ipotizzare altro. Detto questo, perché non reagiamo? In realtà, devo dire che la verità scientifica, stabilita dal CNR su richiesta di Unrae, l’abbiamo rappresentata ai ministeri e ai ministri interessati e a molte amministrazioni locali importanti. Però ammetto che avremmo potuto comunicarla di più al pubblico, ai nostri clienti”. “La ragione sta probabilmente nel fatto che noi costruttori ci stiamo muovendo contemporaneamente su due piani. Da un lato, la direzione che abbiamo intrapreso è quella dell’elettrificazione, su cui siamo costretti ad accelerare da alcuni fattori esterni. A cominciare dall’obbligo che ci viene dal regolatore di stare entro parametri di emissioni
128
molto stretti, raggiungibili solo con un certo numero di auto elettriche immesse sul mercato, per niente facile da ottenere a causa di una risposta ancora molto flebile da parte degli automobilisti. Ma non è solo questo, ci sono anche le pressioni che arrivano dagli analisti finanziari, che premiano le politiche ambientali delle aziende, a prescindere dal loro impatto effettivo”. “Dall’altro lato, dobbiamo anche spingere sulle auto tradizionali, che hanno un impatto ambientale minimo, trascurabile, favorendo il ricambio del parco circolante, con vetture nuove e pure con quelle usate di ultima generazione, che magari non ci aiutano a stare dentro i limiti imposti dall’UE, ma portano un reale beneficio all’ambiente”. Il discorso sembra filare: la prospettiva è l’elettrico (full e ibrido) e nel frattempo vendiamo motori termici il cui impatto è trascurabile. Ma non funziona agli occhi dei clienti, perché se il motore termico è sostenibile viene meno la ragione di passare all’elettrico. Già, i clienti. Se non fosse per loro, verrebbe da chiedersi perché perseguire la verità dei fatti.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 19 settembre 2019
129