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In complicità

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Wilhelm Brasse

Wilhelm Brasse

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini IN COMPLICITÀ

Oltre i film nei quali la Fotografia è protagonista in prima persona, non tanto e non necessariamente in partecipazione quantitativa, quanto in presenza ideologica e di sostanza (tanti sono gli esempi), in questo ambito mirato, registriamo anche suoi consistenti interventi in appoggio di sceneggiatura. Ovvero, protocolliamo e cataloghiamo quelle combinazioni alle quali la Fotografia offre propri pretesti narrativi.

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Qui e ora non ci riferiamo tanto alle innumerevoli trasversalità complementari, quanto -più concretamente- alle complicità, dichiarate o meno, che sfiorano un ruolo principale, con un protagonismo basato su alcune delle peculiarità che ne definiscono il linguaggio e la percezione pubblica, magari anche in misura stereotipata.

Ed è proprio questa interpretazione, in punta di modello e convenzione, che oggi guida il parallelo che annotiamo tra due vicende cinematografiche indipendenti una dall’altra, oltre che autonome e lontane, sia nello spirito sia nel tempo. Il film in primo piano è lo statunitense Over-Exposed, di Lewis Seller, del 1956, che in Italia fu distribuito come L’arma del ricatto.

Tra i due titoli, quello originario e quello italiano, c’è una certa differenza; comunque, entrambi sono introduttivi della vicenda, presentata attraverso due intenzioni popolari autonome: la sovraesposizione statunitense richiama prontamente la trasversalità fotografica, che definisce la sceneggiatura; così come, con altro passo (coincidente?), in Italia si è andati prontamente al sodo dell’intrigo, lasciando alle locandine dell’epoca il compito di sottolineare che l’arma del ricatto è la Fotografia, visualizzata da suoi richiami espliciti alla biottica Rolleiflex, soprattutto, e alla Speed Graphic del fotogiornalismo Usa, in un certo subordine.

Quindi, in ragionamento allungato e individuale, oggi osiamo abbinare questo film alla trasposizione cinematografica I ponti di Madison County (letterale: The Bridges of Madison County), di e con Clint Eastwood, del 1995, dall’omonimo romanzo best seller internazionale di Robert James Waller, del precedente 1992.

Per quanto ci è dato di considerare, al solito in una maniera quantomeno personale, oltre che trasversale, in entrambi i film, la Fotografia è l’elemento complice della sceneggiatura: in un certo modo è sostanzioso pretesto per raccontare e coinvolgere. Certo, da una parte, in L’arma del ricatto, è elemento sostanzialmente truffaldino, che ne finalizza una delle convinzioni/convenzioni stereotipate: la sua

(presunta) oggettività della realtà che visualizza, qui declinata in chiave disonesta e fraudolenta. Mentre, e al contrario, nei Ponti di Madison County è pretesto e giustificazione/motivazione di un incontro esistenziale. Con ordine, passo a passo e verso la conclusione.

L’ARMA DEL RICATTO

Coerente con i film noir degli anni Cinquanta del Novecento, L’arma del ricatto svolge una sceneggiatura articolata, alla maniera dei romanzi polizieschi di Raymond Chandler, densa di intrecci tra i protagonisti, di nessuno dei quali è il caso di fidarsi troppo. Interpretata da Cleo Moore (1924-1973), bionda platinata come esigevano quei lontani tempi cinematografici statunitensi, Lila Crane è una entraîneuse attorno alla quale è stata disegnata la complessa vicenda. Arrestata per aver sollecitato a bere clienti già ubriachi, viene espulsa dalla città. Per evitare ulteriori guai, chiede al fotografo Max West (l’attore Raymond Greenleaf) di non consegnare alla polizia la sua fotografia segnaletica; in cambio, è disposta a posare in costume da bagno. Questa esperienza in sala di posa le torna utile una volta che si trasferisce a New York. Da qui, si dispiega la lunga sequenza di coinvolgimenti con personaggi dubbi della vita notturna della città, tra giornalisti, politici, faccendieri, attrici, pettegolezzi e scoop, per i quali Lila Crane realizza fotografie di momenti imbarazzanti, appunto alimento indispensabile per ricatti, minacce, pressioni ed estorsioni. Questa sintesi è più che sufficiente per inquadrare e definire la sceneggiatura -niente affatto originale, oltre che modesta- che, ovDVD statunitense del film Over-Exposed, di Lewis Seller, del 1956. Per ovvi motivi commerciali, non esiste la versione italiana, intitolata L’arma del ricatto. Analogaviamente, si conclude con l’inevitabile lieto fine della Hollywood demente, in tecnologia precedente, non fu pubblicata nemmeno la cassetta VHS; per gli anni Cinquanta: tra almeno due motivi: la fragilità del film e l’anno di produzione lontano nel tempo. la possibilità di continuare la sua carriera fo-

(Dora Monier, interpretata da Simone Renant). Però bisogna considerare che il regista calcò i toni per sottolineare i pericoli e le nefandezze che si possono commettere sull’onda di un isterismo collettivo, ben noto a chi, come lui, era stato messo al bando (accusato di filonazismo) più per esaltazione e fanatismo che per prove reali.

Immediatamente dopo, nel 1957, un caso seguente: sessione di posa con la petulante fotogiornalista Ann Kay, interpretata dall’attrice Dawn Addams, nel modesto film Un re a New York (A King in New York), scritto, diretto e interpretato da Charles Chaplin.

tografica ai limiti della moralità e del decoro (e oltre) e l’amore, ovviamente, Lila sceglie l’amore... The End!

In ulteriore annotazione “fotografica” mirata, va annotata la combinazione al femminile, decisamente inconsueta in quegli anni, durante i quali il cinema statunitense (e non solo questo) era guidato e governato da un sessismo assoluto e incondizionato, che relegava le attrici al solo proprio aspetto esteriore, meglio se sgargiante (modeste eccezioni a parte). In stretti termini temporali, Lila Crane di L’arma del ricatto, nell’interpretazione di Cleo Moore, è la seconda donna fotografa censita nella storia del cinema, e nella sottosezione della Fotografia al Cinema.

Soltanto un precedente. L’apparizione sullo schermo della prima figura di donna fotografa, in Legittima difesa, di Henri-Georges Clouzot (Quai des Orfèvres; Francia, 1947), si accompagnò con l’oscura rappresentazione di un personaggio ambiguo, amorale più che immorale e, novità per il cinema di allora, dedito ad amori omosessuali

OLTRE I PONTI

Nel film I ponti di Madison County, come riferito sceneggiato dall’omonimo romanzo best seller planetario di Robert James Waller, Clint Eastwood -anche regista- è Robert Kincaid, un ipotizzato fotografo di National Geographic Magazine che durante un reportage incontra una donna sposata (Francesca / Meryl Streep). Si amano intensamente; ma, poi, non hanno la forza di restare assieme. Ognuno torna alla propria vita, che non sarà più quella di prima, con nel cuore la sequenza di quattro giorni che hanno indelebilmente segnato le rispettive esistenze. Così schematizzata, la trama può risultare scontata, ma invece ci sono le premesse per qualcosa di vigoroso e originale. Per quanto riguarda la “complicità” fotografica sottotraccia, in rispetto al romanzo, sullo schermo, Robert Kincaid è alto, atletico, affascinante. Guida un pickup Chevrolet, suona la chitarra, è vegetariano e fuma Camel... il perfetto stereotipo del fotoreporter.

Nella fantasia letterario-cinematografica, Robert Kincaid viene chiamato a lavorare per il National Geographic gra-

zie a una fotografia pubblicata su un calendario. Niente di più lontano dalla realtà. Illuminanti sono, al proposito, le parole di Kent J. Kobersteen, alla fine degli anni Novanta del Novecento direttore associato della fotografia Film senza pretese, in di National Geographic: «Per quanto Italia, L’arma del ricat- bella possa essere -affermò-, una sola to è stato promosso con fotografia non rappresenta nulla. Noi locandine coerenti con abbiamo bisogno di valutare un porti propri tempi di pro folio ampio. La competizione per gli grammazione nelle sa spazi sulla rivista e per ottenere nostri le cinematografiche (se incarichi è durissima. Ogni anno, riceconda metà degli anni Cinquanta). Ovviamente, viamo centinaia di proposte e progetti; e, ogni anno, non ne pubblichiamo più di settanta. Anche se si può contare su oltre l’interpretazione di un portfolio assolutamente Cleo Moore, è stata sot valido, la strada per entrare tolineata la combinazio a far parte del nostro staff di ne fotografica. fotografi è lastricata di difficoltà e ostacoli». Comunque, confermiamo: per I ponti di Madison County, la Fotografia rappresenta soltanto un pretesto per giustificare l’incontro tra due esistenze. Il soggetto della vicenda è l’amore, con tutte le proprie controverse implicazioni. Il racconto originario è un grande romanzo di sentimenti, ai quali l’ipotesi fotografica (Nikon F, Gitzo, Kodachrome e affini) fa

Tutto sommato, il sottofondo fotografico è stato meno sottolineato nelle locandine statunitensi dell’originale Over-Exposed.

da semplice corollario, o, quantomeno, da commovente e appassionante collante. Inesattezze di traduzione a parte -per esempio, il “flessibile dello scatto” invece dello “scatto flessibile”-, la narrazione è comunque fotograficamente adeguata e credibile: le sessioni di ripresa sfruttano la luce dell’alba e del tramonto; Robert Kincaid è uno scrupoloso professionista, che ogni sera ripulisce la propria attrezzatura; e poi si parla anche di quel bagliore di luce che, immediatamente dopo il tramonto, e prima del buio, illumina il cielo con una incantevole brillantezza. Il resto è romanzo e cinema, magari è anche melodramma; e non potrebbe, né dovrebbe, essere altrimenti.

IN COMBINAZIONE

Eccola qui la “complicità” della Fotografia, che consente al Cinema di confezionare proprie sceneggiature attraverso il legame con proprietà e prerogative congeniali al coinvolgimento del pubblico; per quanto qui e oggi considerato: ricatto attraverso l’inoppugnabile realtà del documento fotografico (?) e fotoreporter atletico e affascinante, specchio di misteri nascosti, che guida un pickup, suona la chitarra, è vegetariano e fuma Camel... in perfetto stereotipo.

In questo senso, a parte i casi in cui la Fotografia è protagonista di se stessa al Cinema (tanti i titoli al proposito, molti dei quali meritevoli indipendentemente dal nostro interesse fotografico specifico), questa combinazione/complicità è quanto di meglio possa ottenere qualsivoglia materia e/o disciplina una volta trasportata nel Cinema. Non presenza asettica, ma concreta partecipazione attiva alla Vita, indipendentemente da infra o sovrastrutture da addetti. Tanto che, osiamo aggiungere, non è certo per caso che nei due film oggi (inaspettatamente e coraggiosamente) accostati il filo conduttore della trama narrativa sia la Fotografia, capace di essere realtà pur non essendola, pur essendo la propria rappresentazione. Non raffigurazione, proprio rappresentazione. E la differenza è sostanziale.

E lo stesso potrebbe essere riferito ad altri titoli, alcuni dei quali elevati a cult, per propri contenuto e svolgimento; tre esempi, ancora, sopra tutti: Il favoloso mondo di Amélie / Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain, di Jean-Pierre Jeunet, del 2001, One Hour Photo, di Mark Romanek, del 2002, e Smoke, di Wayne , del 1995.

Oppure, per concludere in crescendo, potremmo anche riflettere sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra rappresentazione e realtà. Tra ciò che si vede e ciò che si capisce.

Forse. ■ ■

Meno nota di altre figure iconiche degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, coltivate negli Studios di Hollywood, Cleo Moore (Cleouna Moore; 19241973) è stata comunque figura di spicco della stagione statunitense delle bionde bombshell (letteralmente, bomba), identificazione originaria di quelle che in seguito sarebbero state identificate come sex symbol. Ovviamente, e per gli stessi motivi, rientra tra le pin-up girl di quelli stessi anni. La sua interpretazione in Over-Exposed / L’arma del ricatto è l’unica nota saliente del modesto film. Qui, due posati promozionali del film e la classica posa ammiccante dello star system hollywoodiano.

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