Beppe cotanto

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Beppe Cotanto di Francesco Smelzo Se tu fossi capitato nel paese di Fromboli (e non si capisce per quale motivo avresti dovuto arrampicarti per quei poggi desolati), e avessi cercato tal Giuseppe Fondi, gli uomini seduti a giocare a carte al bar, con davanti un bicchiere di rosso, avrebbero distolto per un attimo lo sguardo dalla mano di briscola e ti avrebbero guardato come si fa con una mosca cavallina, poi, dopo un esame di qualche secondo, classificandoti come “foresto”, avrebbero sentenziato, laconicamente: – Boh… Questo perché Giuseppe, o per meglio dire Beppe, come tutti lo chiamavano, a Fromboli era, da tempo ormai immemore, conosciuto come Cotanto. La causa del curioso soprannome era da attribuirsi a una parentesi mondana nella vita di quel fabbro di montagna. Circa trent’anni prima infatti a Beppe arrivò, come ad altri ragazzi della sua “classe” (così era chiamato in termini burocratico-militari l’anno di nascita) la cartolina che lo chiamava al servizio di leva, ovvero all’anno di gran rottura di balle che allora, quando ancora c’era il servizio militare obbligatorio, costringeva i maschi a regalare un anno della propria esistenza allo Stato, il quale non credeva che per questi giovani ventenni non ci fosse occupazione più educativa della guardia a vecchie caserme deserte, depositi abbandonati e via dicendo. Nel paese di Fromboli, quei montanari trovavano tutti una scusa per scamparsi quella stupida corvée: chi aveva la madre vedova, chi il padre reduce, chi una costituzione gracile. Per farla breve, l’unico minchione di Fromboli di quella classe a cui toccò partire per andare a fare il soldato fu proprio Beppe. Fu così che il ragazzo di montagna si trovò improvvisamente catapultato nella caotica città per farsi il suo anno da glorioso milite. Per la verità questa città non era nemmeno tanto caotica, anzi, a dire il vero non era manco una città, trattandosi solo di un grosso paese di provincia dove aveva sede la caserma degli alpini. Ma a Beppe, che in montagna non aveva visto che poche casupole sparse e qualche misero paesello, sembrava una vera metropoli. L’anno di naia trascorreva normalmente, ovvero con scherzi feroci da parte dei commilitoni più anziani, cessi da pulire, notti di guardia a edifici che non avrebbero avuto interesse neanche per un ladro cieco; la solita routine insomma. Ma la vera e propria folgorazione, nella vita di Beppe avvenne quando era in giro per il centro durante una delle sue rare libere uscite dalla caserma. Nella piazza cittadina era montato un gran palco pieno di gente, accanto a un affare alto una decina di metri coperto da un drappo con i colori della bandiera; tutto intorno una folla che ascoltava religiosamente un tizio, qualificatosi come Professore di Lettere che pronunciava un accorato discorso: – …e tu che con cotanto ardore ardisti, con cotanto coraggio combattesti e con cotanto… Chi fosse il destinatario del panegirico Beppe lo capì solo più tardi quando, al termine del discorso, calò il drappo e venne scoperta una statua a chissà quale povero cristiano che


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