Marcelo Gullo
Insubordinazione e Sviluppo Appunti per la comprensione del successo e del fallimento delle nazioni Prefazione di Aldo Ferrer Introduzione di Enzo Rossi
Fuoco Edizioni-IsAG
GIANO AFFARI INTERNAZIONALI Collana diretta da Francesco Brunello Zanitti e Tiberio Graziani COMITATO SCIENTIFICO Diego Abenante (Università degli Studi di Trieste), Alfredo Canavero (Università degli Studi di Milano), Valter Maria Coralluzzo (Università degli Studi di Torino), Franco Fatigati (La Sapienza - Università di Roma), Renata Lizzi (Università di Bologna), Fabio Mini (Generale di Corpo d’Armata in ausiliaria dell’Esercito Italiano), Stefano Pietropaoli (Università degli Studi di Salerno), Biancamaria Scarcia Amoretti (La Sapienza - Università di Roma), Lamberto Zannier (Segretario Generale dell’OSCE). Insubordinazione e sviluppo di Marcelo Gullo Titolo originale dell’opera: Insubordinación y desarrollo. Las claves del éxito y el fracaso de las naciones. Stampa Universal Book, Rende - Cosenza (Italia) 1^ Edizione Maggio 2014 Traduzione di Elena Cuel Revisione testo e traduzione: Marina Scarsella, Arianna Plebani Cartografie a cura di Lorenzo Giovannini © Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) Piazza dei Navigatori 22, 00147 Roma +39 3341117081 e-mail: pubblicazioni@istituto-geopolitica.eu www.istituto-geopolitica.eu © Marcelo Gullo Fuoco Edizioni Via Quirino Majorana 86, 00152 Roma e-mail: contatti@fuoco-edizioni.it Telefono e fax: 06 64690953 www.fuoco-edizioni.it
«Senza l’appoggio o il sostegno dei grandi mercati interni non possono esistere poteri consistenti nella storia» Alberto Methol Ferré
Sommario
Prefazione (Aldo Ferrer) La centralità dello Stato nel processo di sviluppo economico e tecnologico pag. 11 Introduzione (Enzo Rossi) Istituzioni e sviluppo economico: i motivi del declino 17 Premessa 25 Capitolo 1 Genesi del Sistema Internazionale e sviluppo degli Stati 1.1 Il primo ordine economico globale 1.2 La posizione e il ruolo degli Stati nel Sistema Internazionale 1.3 Le strutture egemoniche del potere 1.4 Le strutture egemoniche e l’ordine economico internazionale 1.5 I concetti di “soglia di resistenza” e “soglia di potere” 1.6 Soglia di resistenza, soglia di potere e integrazione 1.7 La costruzione del potere nazionale e l’impulso statale 1.8 Gli elementi del potere nazionale 1.9 Potere e sviluppo
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Capitolo 2 Lo sviluppo economico e la subordinazione culturale 51 2.1 La vulnerabilità ideologica 51 2.2 Il complesso finanziario intellettuale 54 2.3 La nascita del pensiero critico 56 2.4 La gara per il potere e lo sviluppo economico-tecnologico 57 2.5 Gli obiettivi della subordinazione ideologica 63 2.6 La formazione degli economisti e le conseguenze sul potere nazionale degli Stati periferici 65
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2.7 Le conseguenze della subordinazione ideologica 2.8 La falsificazione della storia come strumento di subordinazione
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Capitolo 3 Portogallo: i primi frutti dell’impulso statale 79 3.1 L’avventura portoghese 79 3.2 Il tallone d’Achille del potere portoghese 84 3.3 La fine del potere portoghese: dalla battaglia di Alcazarquivir al Trattato di Methuen 85 3.4 Lezioni ed eredità dell’esperienza portoghese 87 Capitolo 4 Spagna: dalla gloria all’impotenza 91 4.1 Il momento decisivo della storia spagnola 91 4.2 La scoperta dell’America 96 4.3 La politica economica dei Re Cattolici e la fioritura industriale 99 4.4 L’origine della debolezza strutturale del potere spagnolo 100 4.5 La crisi strutturale del potere spagnolo 105 4.6 Curiosa analogia: un confronto tra la decadenza dell’Impero spagnolo e la decadenza della Repubblica imperiale nordamericana 113 Capitolo 5 Inghilterra: la patria del protezionismo economico 5.1 La struttura economica di base all’inizio dell’era post-feudale 5.2 Il primo tentativo di industrializzazione 5.3 La politica Tudor di sviluppo dell’industria nascente 5.4 Protezionismo e impulso all’immigrazione 5.5 Il primo triangolo scienza-produzione-potere politico
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Sommario
Capitolo 6 Francia: un potere schiacciato dall’ideologia 6.1 La pietra ideologica 6.2 Parigi val bene una messa 6.3 Dal protezionismo allo sviluppo industriale 6.4 L’Inghilterra conquista la Francia al ritmo della Marsigliese 6.5 L’attacco napoleonico al cuore del potere inglese 6.6 La politica economica post-napoleonica 6.7 Un’insubordinazione “fuori luogo”
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Capitolo 7 Stati Uniti: l’insubordinazione armata 7.1 La prima guerra moderna di liberazione nazionale 7.2 Il giovane che osò sfidare Adam Smith 7.3 Abraham Lincoln: pilastro del protezionismo economico 7.4 Il vero volto della Guerra Civile 7.5 L’indisciplina monetaria e finanziaria come metodo 7.6 La grande lezione della storia nordamericana
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Capitolo 8 Canada: l’insubordinazione pacifica 8.1 John MacDonald e la quadratura del cerchio 8.2 Il ritorno di MacDonald e l’inizio dell’insubordinazione fondante canadese 8.3 Il fondamento dottrinario dell’insubordinazione fondante canadese 8.4 La reazione britannica alla sfida canadese 8.5 La base sociale di appoggio all’insubordinazione fondante 8.6 Il trionfo pacifico dell’insubordinazione fondante 8.7 Lo specchio canadese
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Capitolo 9 Corea del Sud: il caso testimone 9.1 Il miracolo coreano 9.2 Quando si attribuisce il miracolo al santo sbagliato 9.3 I flagelli del colonialismo e della guerra 9.4 La vera storia della costruzione del miracolo coreano 9.5 Lo Stato come attore principale del processo di industrializzazione 9.6 Le principali caratteristiche della politica economica che trasformò la Corea in Potenza industriale e tecnologica 9.7 La creazione di una borghesia nazionale 9.8 Proprietà statale, investimento straniero e debito estero 9.9 L’opposizione della Banca Mondiale 9.10 I consigli disinteressati della Banca Mondiale 9.11 L’attacco degli Stati Uniti contro la Corea 9.12 Lo specchio coreano Capitolo 10 Quando il cacciatore cade nella sua stessa trappola 10.1 Dal passato al presente 10.2 La crisi strutturale del potere nordamericano 10.3 La nuova élite imprenditoriale transnazionale 10.4 Il cacciatore cacciato 10.5 Un errore nella concezione strategica 10.6 Uno Stato post-industriale realmente prospero e potente è possibile? 10.7 L’egemonia del dollaro come sostegno del potere nordamericano Capitolo 11 Cuocere nel proprio brodo 11.1 Premesse e ipotesi 11.2 L’emergere del capitale finanziario speculativo come attore centrale
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Sommario
nella struttura egemonica del potere mondiale 11.3 Il tradimento dell’élite politica e il trionfo del capitale finanziario 11.4 Dall’integrazione all’egemonia?
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Capitolo 12 La verità è semplice Bibliografia Indice analitico Indice delle mappe Programma di ricerca “America Latina” - Autori
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Prefazione La centralità dello Stato nel processo di sviluppo economico e tecnologico
La scienza e la tecnologia costituiscono l’impulso alla trasformazione e alla crescita. Entrambe avanzarono molto lentamente nell’Età Antica e nel Medioevo. Fino a quel momento le maggiori innovazioni avevano avuto origine dalle grandi civiltà del Medio ed Estremo Oriente. Nel XV secolo, durante il Rinascimento, l’Europa occidentale intraprese un rapido processo di trasformazione economica e sociale spinto proprio dall’ampliamento delle frontiere della conoscenza e dell’innovazione, all’inizio principalmente nelle arti della navigazione e della guerra. Tale incipiente predominio delle popolazioni cristiane europee diede impulso alla loro espansione oltremare sotto la guida di navigatori portoghesi e spagnoli. Nell’ultimo decennio del XV secolo sbarcarono Colombo nel Nuovo Mondo e Vasco da Gama sulla costa occidentale dell’India, inaugurando così il Primo Ordine Mondiale. Fino a quel momento, in assenza di progresso tecnologico, le Relazioni Internazionali e le azioni dei neo-Stati nazionali erano irrilevanti per lo sviluppo economico. La struttura produttiva e la produttività del lavoro, dovunque, rimanevano invariate. A loro volta, le politiche degli Stati consistevano nell’assicurarsi il dominio sul proprio territorio e, eventualmente, nella conquista e occupazione di altri. In altre parole lo stato di un Paese e i suoi vincoli con l’estero non influivano in modo decisivo sulla conoscenza e sullo sviluppo economico. Quell’ultima decade del XV secolo segnò un cambiamento radicale
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nella storia. In quel momento, per la prima volta, prese forma un sistema internazionale di portata globale e la tecnologia iniziò a influire sulla struttura produttiva e sulla crescita. In tal modo lo sviluppo economico restò correlato in modo definitivo a due questioni fondamentali. Da un lato chi produceva cosa, e pertanto quali Paesi incorporavano produzioni nuove e conoscenze portatrici di trasformazione. Dall’altro la nascita dello Stato come protagonista dell’impulso alla conoscenza, all’innovazione e, pertanto, allo sviluppo. Entrambe le questioni, e cioè la natura dei rapporti economici e il ruolo dello Stato, rappresentano, per la prima volta nella storia, il dilemma dello sviluppo nel mondo globale: qual è il ruolo di un Paese nella divisione internazionale del lavoro, compatibilmente con il suo sviluppo nazionale e qual è il ruolo dello Stato a tal fine. Il dilemma dello sviluppo nel mondo globale esiste esattamente da cinque secoli. Nella storia la scienza, la tecnologia e lo sviluppo di attività portatrici di conoscenza furono competenza dalle nazioni industriali dell’Europa occidentale e, da metà del XIX secolo, della crescente partecipazione degli Stati Uniti. L’emergere del Giappone alla fine del XIX secolo e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la sua veloce crescita e lo sviluppo della Corea e di Taiwan, fece nascere dei protagonisti al di là dello spazio sviluppato, occidentale e cristiano. Ma è solo recentemente che, con il decollo della Cina e dell’India, con un terzo della popolazione mondiale, per la prima volta nella storia appare nella Conca Asia-Pacifico un polo di sviluppo di ampia portata, concorrente alle Potenze industriali dell’Atlantico Settentrionale. La globalizzazione, la sua trasformazione nel tempo e la nascita di nuovi protagonisti non hanno cambiato la natura del processo di sviluppo economico che continua a giacere nella capacità di ogni Paese di partecipare alla creazione e diffusione di conoscenza e tecnologie e di incorporarle nelle proprie attività economiche e nei rapporti sociali. Lo sviluppo economico 12
Prefazione
continua a essere un processo di trasformazione dell’economia e della società fondato sull’accumulo di capitale, conoscenza, tecnologia, capacità di gestione e organizzazione, educazione, forza lavoro e stabilità e permeabilità delle istituzioni all’interno delle quali la società fa transitare i propri conflitti e mobilita il proprio potenziale di risorse. Lo sviluppo è accumulo in senso lato e si svolge, in primo luogo, all’interno dello spazio appartenente a ogni Paese. Lo sviluppo implica l’organizzazione delle risorse di ogni Paese per mettere in moto i processi di accumulo in senso lato. Il processo non è delegabile a fattori esogeni che, abbandonati alla propria dinamica, disarticolano lo spazio nazionale e lo organizzano attorno a centri decisionali extranazionali. Pertanto rendono vani i processi di accumulo e quindi lo sviluppo. Un Paese può crescere, aumentare la produzione, l’occupazione e la produttività dei fattori sotto lo stimolo di fattori esogeni come avvenne in Argentina nella fase di economia primaria di esportazione. Ma può crescere senza sviluppo, e cioè senza creare un’organizzazione dell’economia e della società capace di muovere i processi di accumulo inerenti allo sviluppo o, per dirla in un altro modo, senza incorporare le conoscenze scientifiche e le loro applicazioni tecnologiche nell’insieme della propria attività economica e sociale. In sintesi, i due temi centrali per la soluzione del dilemma dello sviluppo nel mondo globale sono la natura dei rapporti economici internazionali e il ruolo dello Stato. Sono gli stessi temi a cui fanno riferimento gli esponenti del pensiero sviluppista latinoamericano. Come sostiene Raúl Prebisch, il primo requisito di una strategia efficace è rifiutare il pensiero “centrale” e cioè l’insieme di teorie elaborate dai Paesi dominanti per regolare le Relazioni Internazionali e le politiche pubbliche nel resto del mondo a beneficio dei propri interessi. Ad esempio, i vantaggi comparativi della teoria classica del commercio internazionale o, attualmente, 13
la razionalità inerente al comportamento dei mercati finanziari della teoria delle aspettative razionali. Da questa teoria nascono le raccomandazioni di subordinare le politiche pubbliche alle aspettative dei mercati e la riduzione dello Stato alla condizione di mero garante del libero gioco tra le forze economiche. Questo nuovo e splendido contributo del Professor Marcelo Gullo chiarisce tali temi fondamentali dalla cui soluzione risultano, in definitiva, lo sviluppo e la sovranità o l’arretratezza e la subordinazione. L’opera si divide in due parti. I primi due capitoli vogliono inquadrare la questione nel contesto storico e culturale. La seconda parte presenta lo studio di casi importanti, dalla prima economia industriale della storia al successo delle “Tigri asiatiche” contemporanee. Tutti i casi appartengono ai cinque secoli di storia del dilemma sullo sviluppo nel mondo globale e confermano lo scopo fondamentale dell’opera. Nella cornice degli straordinari cambiamenti prodotti dalla continua rivoluzione tecnologica e scientifica, lo sviluppo continua a essere essenzialmente un processo di costruzione nazionale e lo Stato lo strumento di vocazione e capacità di trasformazione di una società. Infine, il mio ringraziamento va all’Autore per l’onore riservatomi nella richiesta di queste parole introduttive a un’opera che, oltre ad essere di interesse generale, costituisce un prezioso contributo per la docenza. Aldo Ferrer
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Prefazione
Aldo Ferrer, dottore in Scienze economiche (Università di Buenos Aires), politico argentino, è professore emerito in Economia presso l’Università di Buenos Aires ed ha insegnato anche presso l’Università Nazionale de La Plata. Ha ricoperto le cariche di Ministro dell’Economia e delle Finanze (Provincia di Buenos Aires, 195860), dei Lavori e Servizi Pubblici (1970) e dell’Economia e del Lavoro (Argentina, 1970-71). Presidente della Banca della Provincia di Buenos Aires (1983-87) e della Commissione Nazionale per l’Energia Atomica (CNEA), è stato uno dei fondatori e primo Segretario esecutivo (1967-70) del Consiglio Latinoamericano delle scienze sociali. Editorialista per il “Clarìn”, è autore di numerosi saggi, articoli e libri. Dal 2008 caporedattore del “Buenos Aires Económico”, è stato Ambasciatore argentino in Francia (2011-2013).
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Introduzione Istituzioni e sviluppo economico: i motivi del declino
Il libro di Marcelo Gullo si collega alla scuola sviluppista latinoamericana, che contesta con forza la visione liberista (e neo-liberista) dello sviluppo economico. La tesi stimolante, che il libro riprende sotto molteplici angoli visuali, è che il pensiero liberista fu elaborato e diffuso come “arma ideologica” di sfruttamento di alcune parti del pianeta da parte delle nazioni europee, a partire dal ‘500, ma che, in realtà, le ricette liberiste non furono i veri motori di uno sviluppo economico, che fu basato, in larga parte, sul protezionismo e l’intervento statale. L’ideologia liberista fu invece esportata verso quelle aree del pianeta che furono piegate al predominio economico e politico dell’Occidente. Per difendere questa tesi, Gullo effettua una vasta ricostruzione storica delle condizioni dell’economia di selezionati Paesi negli ultimi cinque secoli, dal Portogallo alla Spagna, con escursioni al Canada, agli Stati Uniti alla Corea e altri ancora. Questo approccio storicista è quello, a detta dell’Autore, che può meglio mettere in luce l’intreccio fra economia e potere, svelando come la crescita economica sia stata generata da un congiunto di fattori, in cui la libertà di commercio e il libero mercato hanno favorito solo alcuni. La comprensione di questi meccanismi può condurci a spiegare il declino delle Potenze economiche occidentali, in termini del prevalere delle classi capitalistiche finanziarie sugli Stati stessi e sulle Istituzioni democratiche che ne dovrebbero dirigere il funzionamento. In particolare, si esamina il ruolo che la crisi in corso sta giocando nella depressione economica dell’Europa, a
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confronto dei Paesi emergenti dell’Asia e di altre parti del globo. Questo approccio è quello ritenuto corretto dagli studiosi e viene seguito in molti studi recenti. Fra tutti vorrei citarne due, che Gullo non include nella bibliografia, che si discostano dalla visione di Gullo, in quanto portatori di tesi in cui una componente liberista trova più ampia legittimazione. Uno è il libro di Acemoğlu e Robinson1, l’altro quello di Ferguson2. Questi lavori non sono “liberisti” in senso stretto, non accentuano il ruolo del libero mercato come unico fattore dello sviluppo economico dell’Europa, a partire, almeno, dal XVIII secolo, ma essi pongono in primo piano uno sviluppo delle istituzioni parallelo e congeniale allo sviluppo della produzione e dei commerci. Acemoğlu e Robinson, ad esempio, sottolineano il ruolo di istituzioni “inclusive”, cioè capaci di generare una più ampia partecipazione di nuove classi sociali nel processo economico. Il terreno di confronto, che è al centro dell’attenzione della storiografia liberista, è ovviamente la glorious revolution avvenuta in Inghilterra nel 1688. La letteratura “liberale” sostiene che la limitazione del potere della monarchia, con larghe concessioni alla libera iniziativa, sono alla base di un nuovo sviluppo, in cui il processo di innovazione tecnologica ha avuto un ruolo preponderante. La visione convenzionale è che le libertà politiche e sociali abbiano poi reso possibile la Rivoluzione Industriale che portò al primato dell’Inghilterra nei secoli XVIII e XIX. Gullo propone una lettura differente. Un elemento della crescita dell’Inghilterra fu la colonizzazione politica ed economica. Quest’ultima largamente resa possibile da una ideologia, quella liberista appunto, che 1 D. ACEMOGLU, J. A. ROBINSON, Perchè le nazioni falliscono, Il Saggiatore, 2012. 2 N. FERGUSON, Il grande declino, Mondadori, 2013.
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Introduzione
piegò molti popoli ad un predominio commerciale che si rivelò determinante per provocare quelle asimmetrie che hanno arricchito qualcuno a costo dell’impoverimento di altri. Protezionismo e intervento statale furono determinanti in questo processo. Numerosi storici, ad esempio J. R. Jones, condividono l’opinione che il Bill of Rights sia stato un atto di natura sostanzialmente conservatrice, che ebbe effetti solo a vantaggio di una ristretta classe di nobili e di classi clientelari. Tuttavia, osservano Acemoğlu e Robinson, ebbe il merito di aprire ad una visione “inclusiva” della società, una realtà che mette in gioco idee e forze nuove. Si trattò di un’apertura limitata, che però avrebbe dato frutti nell’evoluzione ulteriore verso forme democratiche più sviluppate. Anche Ferguson osserva, da parte sua3, che l’importanza della glorious revolution fu quella di consentire ai Parlamenti di legiferare su materie che avevano una forte valenza ai fini dello sviluppo economico, «proteggendo la neonata industria tessile, incoraggiando le recinzioni dell’agro pubblico, dando impulso alla costruzione di strade e canali navigabili a pedaggio. Persino la guerra divenne un’attività proficua, quando i whing cominciarono a perseguire la supremazia globale nei commerci». Questa lettura, da parte di un fautore dell’idea liberista, trova una singolare concordanza con le tesi di Gullo: le istituzioni inclusive di Acemoğlu e Robinson si rivolgevano ad una classe privilegiata. Non riguardavano tutti e, soprattutto, non si estendevano ai popoli con cui si intendeva intrattenere relazioni commerciali, relazioni che furono sostenute col protezionismo ma anche con la guerra. E, fra le armi più potenti, aggiungerebbe Gullo, quella ideologica del libero mercato. Tuttavia, le nuove 3 Ivi, p. 29, Ferguson cita qui S. C. A. PINCUS e J. A. ROBINSON, What Really Happened during the Glorious Revolution?, NBER Workin Paper 17206, luglio 2011.
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istituzioni ebbero, nell’immediato, la forza di produrre leggi che, nelle condizioni dell’epoca, sottraevano l’economia al controllo regio, tenendo in conto una gamma più ampia di interessi. Fu il primo, fondamentale passo di un’evoluzione in cui il nesso fra sviluppo economico e istituzioni democratiche si sarebbe rivelato come un asse portante. Questa visione, trova conferme nell’epoca della globalizzazione? Secondo Gullo, per come io ho inteso il suo argomento, la risposta è si. I Paesi emergenti (Gullo approfondisce fra gli altri il caso della Corea), hanno usato anch’essi protezionismo e intervento statale, divergendo dalle prescrizioni del libero mercato. Quelli che hanno invece seguito le ricette neo-liberiste avrebbero al contrario registrato l’arricchimento delle élite locali, a danno delle popolazioni. Nella mia opinione, distinguerei fra idee liberali e neo-liberismo. Non c’è dubbio che l’inclusione sociale, favorita da istituzioni liberali o democratiche, sia un forte fattore di crescita economica, sia perché libera risorse umane nuove, sia perché permette di rafforzare i mercati interni, quelli che si rivolgono a soddisfare il benessere della popolazione, non di una élite di esportatori. Il neo-liberismo, invece, non è una necessaria conseguenza di istituzioni inclusive, ma è quello che propugna il libero mercato, il libero scambio e l’assenza dello Stato nell’economia, con i corollari dell’ordine dei bilanci pubblici e conseguenti politiche di austerità. Sarebbe questo il fattore che, nell’analisi storica, ha sbaragliato le difese dei Paesi che hanno soggiaciuto alla penetrazione commerciale e finanziaria dei grandi poteri dell’economia mondiale e sta provocando profonde trasformazioni nella distribuzione del reddito nei Paesi industrializzati. Però la rivoluzione liberale ha contribuito, a partire dal ‘700, al benessere dell’umanità, anche dei Paesi in via di sviluppo che l’hanno recepita. 20
Introduzione
È il concetto dei diritti di proprietà. L’essere umano non dà il meglio se deve lavorare per gli altri. Questo è in qualche modo collegato alle istituzioni inclusive: diritti di proprietà ben definiti stimolano l’arricchimento individuale e questo, «vizio privato, ma pubblica virtù»4, crea esternalità positive a vantaggio dell’intera collettività. La visione istituzionale enfatizza la nascita della rule of law come la fine del prevalere di élite parassitarie sul benessere generale. L’analisi dello studioso peruviano Hernando de Soto mostra chiaramente come le economie che producono in nero, cioè non tutelate da leggi che difendono i diritti di proprietà, siano “capitale morto”, cioè accumulano ricchezze che non generano nuovo sviluppo. Non c’è dubbio che alcuni Paesi abbiano dato inizio ad una vigorosa crescita e, molte volte, ad una più equa distribuzione della ricchezza, proprio quando hanno adottato politiche inclusive e istituzioni maggiormente garantiste dei diritti di proprietà (si veda il caso del Brasile). Questo ci conduce al tema conclusivo del libro di Gullo: i motivi del declino della supremazia dell’Occidente. Gullo sottolinea il ruolo dei grandi poteri internazionali, la grande “banca privata”, che mediante l’enorme capacità finanziaria, riesce a condizionare gli stessi governi e a porre persone proprie in posizioni strategiche per l’economia mondiale e le stesse istituzioni democratiche. Cita fra l’altro, non senza nostra inquietudine, gli eventi recenti che hanno segnato la politica italiana. La finanziarizzazione dell’economia è una delle cause di una scarsa crescita delle economie una volta dominanti, quali quelle degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone. C’è però un’altra interpretazione, che si rifà alla visione istituzionalista. Le conquiste liberali delle epoche passate incontrerebbero ora una fase di involuzione, con perdita di democrazia e 4 Mi riferisco alla “favola delle api” di Mandeville.
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conseguente minore inclusione (o esclusione di chi era prima incluso, come la classe media). Ferguson parla di “inglorious revolution”. Questa spiegazione non approfondisce a mio avviso la spiegazione dei motivi per i quali i governi abbiano ceduto potere e, in certi casi, sovranità, a forze esterne alle nazioni che essi dovrebbero rappresentare. Né della decadenza delle istituzioni che in precedenza avevano permesso di resistere a quelle forze. Gullo fornisce la spiegazione che il cambiamento (involutivo) sia stato diretto dall’esterno. Si riferisce correttamente, fra gli altri, al dettame neo-liberista del pareggio di bilancio. Un’arma potentissima, con la quale la finanza internazionale è riuscita ad indebolire il ruolo dei governi e a dettare l’agenda di riforme che stanno profondamente alterando gli equilibri economici e sociali dell’epoca precedente. In particolare per quanto riguarda l’Europa, con la crisi quale momento culminante di questo processo. Questa interpretazione è condivisibile, con un supplemento di analisi. Gullo vede nelle politiche di austerità il cavallo di Troia con cui è stata indebolita la capacità di azione dei governi. Bisogna, a mio avviso, investigare invece sulle cause interne di questa decadenza, cioè sulle cause che si originano nel corpo stesso di una società e che la crisi ha contribuito a mettere in evidenza, accentuando un processo già in atto. L’involuzione delle democrazie occidentali è un fenomeno diffuso, che trova spiegazione nella perdita di rappresentatività delle élite politiche che dirigono un Paese. La politica è una terza forza in gioco, che non ha subìto, ma probabilmente assecondato il processo neo-liberista, soprattutto nell’occorrenza della crisi, in cui ha potuto in tal modo sopravvivere senza perdere i privilegi accumulati grazie ad una involuzione (o incompiutezza) della democrazia di più antiche origini. Il dibattito stesso, che anche Gullo richiama, fra austerità e maggiore flessibilità di bilancio, andrebbe letto in quest’ottica. La classe politica può sfruttare a proprio vantaggio entrambe 22
Introduzione
le impostazioni, eludendo le proprie responsabilità. L’austerità permette di alzare le tasse e la crisi ne fornisce il pretesto. Ma anche la flessibilità di bilancio permette di attuare una spesa pubblica non necessariamente rivolta alla crescita, quanto piuttosto al finanziamento della supremazia della élite politica. È il regresso della rule of law. Le società in cui questo avviene, sostengono Acemoğlu e Robinson, assistono a un arretramento dei diritti fondamentali, quali la nascita di tasse improprie o mascherate, esproprio della ricchezza, perdita dei diritti acquisiti. È uno scenario cui assistiamo con preoccupazione in Paesi come il nostro. Cui aggiungerei la retroattività delle norme e il rovesciamento dell’onere della prova, in materia fiscale ma non solo. Con conseguente avvitamento negativo sulla crescita e maggiore aggressività delle élite per conservare ugualmente la propria ricchezza. Su questo punto sono auspicabili studi ulteriori, quello di Gullo ne costituisce una premessa importante. Enzo Rossi
Enzo Rossi, professore ordinario di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, ha insegnato Economia politica, Economia delle istituzioni, Politica economica ed Economia internazionale presso l’Università degli Studi di Perugia e la LUISS “Guido Carli”, oltre alla stessa Tor Vergata. Dal 2003 è Direttore del Centro di Ricerche Economiche e Giuridiche (CREG) dell’Università di Roma Tor Vergata. È autore di numerosi volumi, saggi ed articoli di carattere scientifico pubblicati in Italia e all’estero. Nel 1983 ha vinto il Premio Saint Vincent per l’Economia. È membro del Consiglio scientifico dell’IsAG.
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Premessa
Questo libro vuole essere una riflessione sulla costruzione del potere e dello sviluppo delle nazioni nella storia. Se negli scritti precedenti abbiamo posto l’accento sulla questione della costruzione del potere nazionale, oggi ci concentriamo sulla questione dello sviluppo economico che certamente, come elemento costitutivo del potere nazionale, ne è un elemento necessario anche se non sufficiente. Ci tuffiamo nella storia per cercare di trovare le ragioni chiave del fallimento e del successo delle nazioni. Tuttavia, ed è fondamentale chiarirlo sin dall’inizio, non proponiamo un’analisi economica perché – come ripetuto da Aldo Ferrer, data la complessità dei fattori che influiscono sullo sviluppo economico di uno Stato, «[…] l’analisi della questione supera le possibilità di un avvicinamento di tipo economico»5. Così, lo studio dello sviluppo delle nazioni richiede necessariamente «l’incorporazione dei diversi piani della realtà in una prospettiva storica a lungo termine»6. È proprio questa prospettiva storica a lungo termine – proposta da Aldo Ferrer – che ci permette di affermare che le nazioni più sviluppate, anche quelle che hanno appena raggiunto questo stadio – come la Corea del Sud – propongono come formula del successo economico e sociale un percorso totalmente diverso da quello nel quale sono transitate. Vi è una falsificazione della storia – costruita dai centri egemonici del potere mondiale
5 A. FERRER, De Cristóbal Colón a Internet: América Latina y la globalización, Buenos Aires, Ed. Fondo de Cultura Económica, 2002, p. 92. 6 Ibid.
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– che occulta il cammino reale percorso dalle nazioni oggi sviluppate per costruire il proprio potere nazionale e raggiungere l’attuale stato di potere e sviluppo. Tutte le nazioni sviluppate sono arrivate a esserlo rinnegando alcuni dei principi fondamentali del liberalismo economico, soprattutto rinnegando l’applicazione del libero commercio, cioè applicando un forte protezionismo economico; tuttavia oggi consigliano ai Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati di seguire rigidamente una politica economica ultraliberale e di libero commercio per arrivare al successo. Lo studio di questi casi riusciti di sviluppo permette di affermare che tutti (al di là delle differenze e peculiarità di ognuno, prodotto delle enormi differenze religiose, culturali, geografiche e politiche) hanno avuto due caratteristiche fondamentali in comune. In tutti i casi si sono verificati: 1) Una vigorosa contestazione al pensiero liberoscambista dominante che viene identificato come ideologia di dominazione. Ne consegue l’adozione, quando le forze si volgono a favore, di un’adeguata politica di protezione del mercato interno. 2) Un adeguato impulso statale al processo di sviluppo attraverso sussidi, dichiarati o meno, all’industria emergente e alle attività scientificotecnologiche. È per questo che sosteniamo, come ipotesi, che tutti i processi di sviluppo riusciti sono stati il risultato di un’insubordinazione fondante, e cioè il risultato di una conveniente coniugazione di un atteggiamento di insubordinazione ideologica verso il pensiero dominante (insubordinazione che rompe il primo anello della catena che lega tutti gli Stati al sottosviluppo e alla dipendenza) e di un efficace impulso statale che provoca la reazione a catena di tutte le risorse in forza nel territorio dello Stato. D’altra parte, è importante rilevare che, in maggior o minor misura, tutti i Paesi sviluppati – iniziando dagli Stati Uniti – una volta ottenuto l’accesso 26
Premessa
al club esclusivo dei Paesi industrializzati (e cioè alla struttura egemonica del potere mondiale), si sono convertiti in ferventi sostenitori dei benefici del libero commercio e del non-intervento dello Stato nell’economia. Non è ovviamente la cattiveria intrinseca dell’élite dirigente che porta questi Paesi a comportarsi così, bensì la natura stessa del Sistema Internazionale che fa sì che ogni Stato tenda ad evitare sempre, nei limiti delle proprie possibilità, l’apparizione di possibili concorrenti. Tale contraddizione, tra quanto predicato dai Paesi sviluppati e ciò che è successo storicamente, è una verità che dovrebbe essere ovvia ed evidente per ogni politico, industriale, giornalista o studente universitario argentino o latinoamericano. Ciononostante non lo è a causa del peso enorme della subordinazione teorica al pensiero egemonico prodotto dai grandi centri di eccellenza accademica dei Paesi sviluppati. In questo modo, la subordinazione ideologico-culturale costituisce ancora, nei nostri Paesi, il primo anello della catena che li lega al sottosviluppo endemico e alla dipendenza. Per questa ragione è necessaria un’analisi acuta della natura del Sistema Internazionale e una revisione storica che, ponendo i fatti su base reale, ci permetta di concepire una politica di costruzione del potere nazionale e, pertanto, di sviluppo nazionale con criterio e realismo. Diventa necessario, quindi, fare un esame storico delle politiche effettivamente applicate dai Paesi attualmente sviluppati che metta a nudo la falsificazione della storia e che di conseguenza permetta ai Paesi attualmente sottosviluppati di prendere il vero “buon esempio” per raggiungere lo sviluppo e il benessere delle proprie popolazioni. Non ci proponiamo, tuttavia, il compito ciclopico di fare una rassegna della storia di tutti gli Stati attualmente sviluppati. Per avere un’idea il più definita possibile delle circostanze nelle quali si possono raggiungere o perdere le opportunità di sviluppo abbiamo deciso di focalizzarci solo su alcuni casi chiave. 27
Così studieremo il caso del Portogallo perché dimostra che, dagli inizi della globalizzazione, l’impulso statale è stato il fattore fondamentale per l’incorporazione della conoscenza che diviene, da quel momento, condizione necessaria e imprenscindibile sia per la costruzione del potere nazionale che per raggiungere lo sviluppo economico. L’esempio della Spagna dimostra che uno Stato, pur godendo delle migliori condizioni economiche, può sprecarle se non ha una élite politica qualificata. L’Inghilterra fu il primo Paese a occultare e falsificare la propria storia economica affinché gli altri Paesi non potessero seguire lo stesso percorso che l’aveva portata all’industrializzazione, alla prosperità economica e alla grandezza nazionale. Il caso della Francia, che dimostra come l’ideologia può fare scacco matto al potere nazionale e a quello economico. Gli Stati Uniti, perché furono il primo Stato ad avvertire che la dottrina economica diffusa nel mondo dall’Inghilterra su come arrivare al progresso economico non aveva niente a che vedere con quanto effettivamente era stato messo in atto dall’Inghilterra per diventare la prima Potenza industriale del mondo. Furono gli Stati Uniti il primo Stato insubordinato ideologicamente contro la dottrina economica egemonica che l’Inghilterra presentava come “teoria scientifica”. Tale insubordinazione divenne armata durante la guerra d’indipendenza prima, e poi durante la Guerra Civile nordamericana, conosciuta anche come la “Guerra di Secessione”. Analizzeremo poi il caso del Canada perché si tratta, a differenza di quello nordamericano, di un esempio di insubordinazione pacifica riuscita che dimostra che anche in questo modo si può arrivare ad una insubordinazione fondante e, quindi, allo sviluppo7. Inoltre il caso del Canada dimostra che 7 Un altro importante esempio di insubordinazione pacifica è quello dell’Australia.
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l’Argentina, scegliendo un percorso diverso, quello della subordinazione, nel decennio del 1880 – sebbene possedesse favorevoli condizioni naturali – rese vano il cammino del proprio sviluppo industriale. Il modello canadese dimostrò che esisteva un percorso alternativo e all’avanguardia che, nel tempo, portò il Canada allo sviluppo e all’autonomia. L’Argentina, nel percorso di inserimento nel Sistema Internazionale, come semplice produttore di materie prime, restò nella frustrazione e nella dipendenza. Affrontiamo anche il caso della Corea del Sud perché dimostra che persino un Paese piccolo, povero, privo di materie prime e di risorse energetiche può sollevarsi contando solo sulle proprie risorse, a condizione di rifiutare totalmente il pensiero liberale egemonico. Va detto che la Corea del Sud ha potuto raggiungere lo sviluppo industriale in tempi recenti e a solo pochi chilometri di distanza da un Giappone molto sviluppato sia industrialmente che tecnologicamente. In definitiva dimostra che, persino oggi, il percorso è possibile. Infine, il fatto che la principale Potenza mondiale – la prima nazione a portare a termine, nel secolo XVIII, un processo di insubordinazione fondante e a costruire uno Stato continente – si trovi in una delle più gravi crisi mai avute, ci obbliga a riflettere, negli ultimi capitoli, sulle sue cause profonde. Tale crisi sta provocando un deterioramento enorme del grado di sviluppo e benessere che queste nazioni erano riuscite a raggiungere dopo la Seconda Guerra Mondiale e che ha di nuovo provocato incredibilmente l’apparizione, in queste società, dei fantasmi della povertà e della fame che si credevano definitivamente sconfitti. D’altra parte è fondamentale capirne le cause per identificare le chiavi del fallimento e del successo delle nazioni per il futuro della storia ma, soprattutto, è fondamentale capire le cause della crisi che sta colpendo, in particolare, l’Unione Europea – principalmente per i Paesi che formano l’America del Sud – per non ripetere gli stessi errori commessi dall’Europa nel suo processo d’integrazione. 29
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1.1 Il primo ordine economico globale Come sostiene Arnold Toynbee nel suo libro La Civilización puesta a prueba8, i viaggi oceanici di scoperta di cui sono stati protagonisti i navigatori della Castiglia, del Portogallo e poi di Inghilterra, Olanda e Francia rappresentarono un evento storico epocale in quanto, dal 1500 circa, l’umanità risultò riunita in un’unica società universale9. Va detto che con i viaggi oceanici dei grandi esploratori iniziò a formarsi lentamente un ordine economico che comprendeva l’intero pianeta10. La nascita di questo primo ordine economico mondiale coincise: «… con un progressivo aumento della produttività, inaugurato 8 A. TOYNBEE, La civilización puesta a prueba, Buenos Aires, Emecé Editores, 1967. 9 A differenza di Toynbee, anche se approviamo la sua analisi, nel nostro studio, seguendo il criterio di Raymond Aron, non utilizziamo il concetto di “Società Internazionale o Universale” ma di “Sistema Internazionale”. Secondo noi tutti gli attori delle Relazioni Internazionali si inseriscono o appartengono a quello che denominiamo “Sistema Internazionale”. In questo senso, tutti gli attori che integrano il sistema sono legati tra di loro dall’influenza che ciascuno esercita sull’altro. In ultima istanza, un cambiamento in uno degli attori genera un cambiamento anche negli altri. Ma è importante chiarire, come sostiene Raymond Aron, che le influenze reciproche degli attori che integrano il sistema non sono simmetriche ma asimmetriche dato che alcuni attori esercitano, grazie alle loro dimensioni e alla loro potenza, un potere di “fatto” sul sistema. 10 A. FERRER, Hechos y ficciones de la globalización, Buenos Aires, Ed. Fondo de Cultura Económica, 2001, p. 11.
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dall’incipiente progresso tecnico registrato durante il Basso Medioevo. La coincidenza della formazione del primo ordine economico globale con l’accelerazione del progresso tecnico non fu casuale. L’espansione oltremare fu possibile grazie all’ampliamento della conoscenza scientifica e il miglioramento delle arti di navigazione e guerra. Fino a quel momento la crescita della produzione era stata molto lenta e le strutture economiche e le entrate medie dei Paesi molto simili. Così le Relazioni Internazionali, come pure la conquista e l’occupazione di un Paese da parte di un altro, incidevano marginalmente sui livelli di produttività e sull’organizzazione della produzione. Man mano che il progresso tecnico e l’aumento delle entrate trasformavano la struttura della produzione e la composizione della domanda, le relazioni di ogni Paese con il proprio intorno esercitavano un’influenza crescente sul proprio sviluppo» 11. È sotto l’egemonia britannica che si produce la piena espansione capitalista mondiale che fu polarizzante perché il Sistema Internazionale si basava su un mercato integrato di merce e capitale, ma non di lavoro. In questo modo l’espansione capitalista non sarebbe stata, nella periferia del Sistema Internazionale, portatrice di progresso – come credeva Marx – ma di miseria e sottosviluppo12. 11 A. FERRER, De Cristóbal Colón a Internet: América Latina y la globalización, cit., pp. 55 e 56. 12 Marx ed Engels ritenevano erroneamente che la penetrazione di una Potenza capitalista nel mondo arretrato doveva portare, necessariamente, all’introduzione del capitalismo in tale mondo sottosviluppato, costituendo un grande progresso storico. Questo ragionamento portò Karl Marx ad affermare, erroneamente: «Se si introducono le macchine nel sistema di locomozione di un Paese che possiede ferro e carbone, non si può impedire che questo Paese fabbrichi tali macchine…Il sistema ferroviario diventerà quindi, in India, un vero precursore dell’industria moderna». A sua volta il ragionamento portò Engels ad esaltare la guerra di conquista nordamericana del Messico: «Abbiamo assistito anche, con soddisfazione, alla sconfitta del
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Come giustamente affermò Samir Amin, dal momento in cui la merce e il capitale uscirono dallo spazio nazionale alla volta del mondo, sorse il problema della suddivisione della plusvalenza su scala mondiale. In questo scenario politico ed economico, alla periferia del sistema, solo gli Stati che, attraverso un processo di insubordinazione fondante, raggiunsero la subordinazione delle relazioni con l’estero alla logica e alle esigenze dello sviluppo interno, riuscirono a portare a termine una vera politica di sviluppo industriale. Nel XIX secolo gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone – citati nell’ordine cronologico delle rispettive insubordinazioni fondanti – grazie a una vigorosa contestazione al paradigma dominante della divisione internazionale del lavoro e a un appropriato impulso statale, riuscirono a realizzare un processo di industrializzazione che permise loro di trasformarsi in società sviluppate, uscire dalla condizione periferica e trasformarsi in Paesi effettivamente autonomi prima e in membri a tutti gli effetti della struttura egemonica del potere mondiale poi13. Sia gli Stati Uniti sia la Germania che il Giappone, quando riuscirono a completare il proprio cammino verso l’industrializzazione, iniziarono a predicare come formula del successo – come aveva fatto l’Inghilterra – un percorso totalmente diverso da quello che loro stessi avevano percorso per raggiungerlo.
Messico da parte degli Stati Uniti. Anche questo è un passo avanti. Perché quando un Paese, la cui miglior prospettiva sarebbe stata la sottomissione industriale all’Inghilterra, vede avanzare il proprio progresso storico, non abbiamo altro rimedio che considerarlo un passo in avanti. Per l’interesse del proprio sviluppo, era più conveniente che il Messico cadesse sotto alla tutela degli Stati Uniti». Non serve dire che la storia smentì Marx ed Engels. A. RAMOS, Historia de la Nación Latinoamericana, Buenos Aires, Ed. del Senado de la Nación, 2006, pp. 407 e 408. 13 Per approfondire i concetti e il modo in cui si produssero le insubordinazioni menzionate, si veda la nostra opera, La Insubordinación Fundante, Breve Historia de la Construcción del Poder de las Naciones, Ed. Biblos, Buenos Aires, 2008.
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1.2 La posizione e il ruolo degli Stati nel Sistema Internazionale Come più volte ribadito da Helio Jaguaribe, una lettura oggettiva della storia della politica internazionale permette di affermare con chiarezza che sono sempre state le condizioni reali del potere a determinare la posizione e il ruolo degli Stati nel Sistema Internazionale – includendo in queste condizioni la cultura di una società e la sua psicologia collettiva. Analizzando in questo modo le Relazioni Internazionali – afferma il grande intellettuale brasiliano – si osserva dall’antichità orientale ai giorni nostri che tali relazioni si caratterizzano per essere rapporti di subordinazione che vedono la presenza di popoli e Stati subordinanti e di altri subordinati. Ciò porta alla formazione, in ogni ecumene e in ogni periodo storico, di un sistema centro-periferia caratterizzato da una forte asimmetria nella quale dal centro provengono le direttrici di regolazione delle Relazioni Internazionali e verso il centro si dirigono i benefici, mentre la periferia fornisce i servizi e i beni di minor valore, restando così sottomessa alle norme di regolazione del centro. Le caratteristiche che determinano il potere degli Stati e i rapporti centroperiferia cambiarono nella storia, acquisendo una notevole differenziazione a partire dalla Rivoluzione Industriale. Attualmente tale differenziazione sta ulteriormente aumentando con la piena realizzazione della rivoluzione tecnologica. 1.3 Le Strutture Egemoniche del Potere Lo scenario e le dinamiche internazionali – come sostiene Samuel Pinhero Guimarães – nei quali agiscono gli Stati periferici, si organizzano attorno a strutture egemoniche di potere politico ed economico il cui nucleo è formato
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dagli Stati centrali. Tali strutture sono il risultato di un processo storico14, favoriscono i Paesi che le integrano e hanno come obiettivo principale la propria perpetuazione. Tali strutture egemoniche del potere sono formate da una rete di vincoli d’interesse e diritto che lega tra loro diversi attori pubblici e privati la cui attività tende alla permanente elaborazione di norme di condotta che vanno a formare il cosiddetto “ordine internazionale”. Nel nucleo di tale struttura vi sono sempre le grandi Potenze che, a loro volta, nella propria struttura interna, presentano alleanze di fattori di potere. Storicamente l’alleanza fondamentale – all’interno delle grandi Potenze – fu quella tra le borghesie industriali nazionali (ossia “il capitale produttivo”)
14 «Le strutture egemoniche hanno origine dall’espansione economica e politica europea, che inizia con la formazione dei grandi Stati nazionali. In Spagna, con la conquista di Granada e l’espulsione dei Mori (1492). In Francia, con la fine della Guerra dei Cent’Anni (1453), l’espulsione degli Inglesi e la creazione, da parte di Enrico IV, dello Stato unitario; e, in Inghilterra, dalla salita al trono della Regina Elisabetta (1558-1603). L’espansione europea accelera con il ciclo di scoperte, dopo la caduta di Costantinopoli (1453), che intensifica la ricerca della via marittima all’Oriente e la conseguente espansione commerciale e accumulazione di ricchezze con la formazione degli imperi coloniali a partire da Cortés (1521) e Pizarro (1553) e, in Brasile, dalla canna di zucchero a Pernambuco. La Rivoluzione tecnologica, militare e industriale del XVIII e XIX secolo, con la macchina a vapore, consolida la supremazia europea a livello internazionale. La dinamica dei cicli di accumulazione di capitale e delle relazioni tra il grande capitale privato e quello dello Stato e tra tecnologia, forze armate e società, spiega, in gran parte, i processi di formazione delle strutture egemoniche del potere. Questi processi passarono, tra il 1917 e il 1989, per una fase cruciale di disputa con il modello socialista alternativo di organizzazione della società e dello Stato, interrotta dal 1939 al 1946, dal conflitto sorto all’interno delle stesse strutture con gli Stati contestatori, Germania, Giappone e Italia (1939-1946). Superata tale fase cruciale, le strutture egemoniche hanno provato a consolidare la propria straordinaria vittoria ideologica, politica ed economica espandendo la propria influenza e azione in tutto il mondo, in particolar modo sui territori che, fino a poco prima, erano sotto l’organizzazione socialista e su quei territori periferici ai quali esse avevano permesso, tatticamente, varianti di organizzazione economica e politica nel periodo più intransigente della disputa con il modello socialista alternativo». S. PINHEIRO GUIMARÃES, Cinco siglos de periferia. Una contribución al estudio de la política internacional, Buenos Aires, Ed. Prometeo, 2005, p. 30.
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e l’élite politica. Si tratta di un’alleanza fondante nella quale, dopo la Seconda Guerra Mondiale, si è incorporato il mondo del lavoro dando origine allo Stato del Benessere e ai cosiddetti “trent’anni gloriosi” sia in Europa che negli Stati Uniti. Tale alleanza, che per propria dinamica e natura è variabile, a metà degli anni ’70 iniziò ad avere una mutazione che la portò progressivamente a sciogliersi. In quei momenti la classe politica, che adottava principalmente come ideologia politica il neoliberalismo, inizia a rompere la propria tradizionale alleanza con le borghesie industriali nazionali che non hanno “dislocato” la produzione e il lavoro per progressivamente iniziare ad allearsi con le imprese transnazionali e il capitale finanziario-speculativo internazionale fino a divenirne, oggigiorno, la sua stessa espressione. La fucina definitiva di questa “alleanza” è quella che finisce per consacrare il capitale finanziario-speculativo come predominante all’interno del potere dello Stato, al punto tale da sopraffare quello politico. Tale sopraffazione dell’élite politica da parte del capitale finanziario è la causa dell’attuale crisi finanziaria mondiale. Oggi gli Stati centrali sono subordinati al capitale finanziario speculativo internazionale. Questa è la “ragione ultima” che spiega, a nostro parere, la reazione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea di fronte alla crisi: l’impegno massiccio del denaro pubblico per salvare le entità finanziarie e la messa in atto di programmi di regolazione che incidono profondamente sui settori popolari15. 15 Il piano di aggiustamento applicato in Italia nel dicembre 2011 dal Primo Ministro Mario Monti è un chiaro esempio di come lo Stato neoliberale fa ricadere il peso della crisi principalmente sui settori popolari. Il piano di Monti alzò l’età di accesso alla pensione a sessantadue anni per le donne e a sessantasei per gli uomini. Congelò le pensioni superiori a 960 euro e portò l’IVA al ventitrè percento, ma non aumentò l’imposta sui redditi più alti né stabilì – come richiesto da alcuni settori – una tassa sui patrimoni immobiliari maggiori di un milione di euro.
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La nostra posizione tuttavia è quella del primato della politica e cioè che la politica tende generalmente, a lungo termine, ad avere il primato sull’economia. L’unico caso in cui, apparentemente, l’economia risulta più importante della politica è quello in cui le élite politiche vengono “conquistate” dalla finanza in modo tale che sia quest’ultima a detenere il potere politico generando una “diffusa” impressione che l’economia predomina sulla politica o peggio ancora che quest’ultima è impotente nel controllarla. Ma quando ciò si produce negli Stati sviluppati, la popolazione degli stessi inizia a soffrire gli effetti dello sfruttamento economico. Ragione per cui questo tipo di equilibrio è per sua stessa natura “instabile” poiché secondo noi tende a provocare, come reazione, in un determinato momento storico, che gli abitanti di questi Stati non sopportino più il malessere (al quale non sono abituati, prodotto dalla cosiddetta “economia del fumo” delle banche e della speculazione) e si buttino nella protesta politica. Iniziano quindi a prodursi le condizioni per il ritorno alla predominanza della politica, che avviene alla fine grazie all’apparizione di una nuova élite politica che spezza il predominio del capitale finanziario internazionale e ricostituisce le basi del potere e del benessere nazionale. Infine, va rilevato che la struttura egemonica del potere mondiale sta soffrendo una profonda alterazione a causa dell’emergere della Repubblica Popolare Cinese come Potenza mondiale. Ma, diversamente dalle altre potenze mondiali, in Cina il potere finanziario è potere dello Stato nazionale.
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