Unità nella diversità anteprima

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L’unità nella diversità Religioni, etnie e civiltà del Kazakhstan contemporaneo a cura di Dario Citati e Alessandro Lundini Postfazione di Roberto Valle

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IsAG - Fuoco Edizioni


ORIZZONTI D’EURASIA Collana diretta da Dario Citati e Tiberio Graziani COMITATO SCIENTIFICO Sultan Akimbekov (Istituto di Economia Mondiale e Politica, Astana, Kazakhstan), Aldo Ferrari (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), Caterina Filippini (Università degli studi di Milano), Nažen Sarsembekov (Ph.D College of Trade Astana), Roberto Valle (Università “La Sapienza” di Roma), Fabrissi Vielmini (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie), Andrej Volodin (Accademia delle Scienze della Federazione Russa). L’unità nella diversità. Religioni, etnie e civiltà del Kazakhstan contemporaneo a cura di Dario Citati e Alessandro Lundini Stampa Universal Book – Rende (Cosenza) Italia 1^ Edizione Novembre 2013 ISBN 97-88897363-77-4 Cartografie interne a cura di Lorenzo Giovannini © Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) Piazza dei Navigatori 22, 00147 Roma +39 3341117081 www.istituto-geopolitica.eu Fuoco Edizioni Indirizzo: Via Quirino Majorana 86, 00152 Roma e-mail: contatti@fuoco-edizioni.it Telefono e fax: 06 64690953 www.fuoco-edizioni.it


«Қазақтың бір мақалы: «Өнер алды – бірлік, ырыс алды – тірлік» дейді. Бірлік қандай елде болады, қайтсе тату болады - білмейді. Қазақ ойлайды: бірлік - ат ортақ, ас ортақ, киім ортақ, дәулет ортақ болса екен дейді. Олай болғанда байлықтан не пайда, кедейліктен не залал? Ағайын құрымай мал іздеп не керек? Жоқ, бірлік - ақылға бірлік, малға бірлік емес. Малыңды беріп отырсаң, атасы басқа, діні басқа, күні басқалар да жалданып бірлік қылады! Бірлік малға сатылса, антұрғандықтың басы осы. Ағайын алмай бірлік қылса керек, сонда әркім несібесін құдайдан тілейді, әйтпесе құдайдан тілемейді, шаруа іздемейді. Әуелі біріне-бірі пәле іздейді. Не түсін, не ажарын, не өкпесін бұлдап, ол болмаса, бір пәле салып, қорғалатып, әйтеуір бірін-бірі алдаудың амалын іздеседі. Мұның қай жерінен бірлік шықты?» «Un proverbio kazako recita: il principio della vittoria è l’unità, la base del benessere è la vita. Ma quale unità leghi le persone, e come esse possano raggiungere la concordia, i Kazaki non lo sanno. Pensano magari che si ottenga mettendo in comune il bestiame, le proprietà, il cibo. Ma se così fosse, quale beneficio porterebbe la ricchezza e che sventura sarebbe la miseria? Bisogna lavorare per la ricchezza, senza mai allontanarsi dai propri consanguinei? No, l’unità deve trovarsi nelle menti, non nella comunione dei beni. Si possono unire uomini di diversa origine, credenza o spirito, dividendo generosamente con loro il bestiame. Ma raggiungere l’unità a prezzo di bestiame è l’inizio della decadenza morale. I fratelli devono vivere in concordia non perché dipendono gli uni dagli altri, ma sperando nelle proprie forze e capacità, confidando ciascuno nel proprio destino. Altrimenti dimenticheranno anche Dio, abbandonando le proprie occupazioni, e inizieranno ad attaccarsi gli uni contro gli altri, invischiandosi in calunnie, maldicenze e offese reciproche. Come si può raggiungere qui l’unità?» Abaj Kunanbaev (1845-1904), poeta nazionale kazako, “Parole grezze”



Presentazione editoriale

La Repubblica del Kazakhstan, che ha acquisito l’indipendenza nel 1991 in seguito alla dissoluzione dell’URSS, è uno dei Paesi più variegati del mondo sotto il profilo della composizione nazionale e religiosa: sul suo vasto territorio si contano infatti oltre 130 gruppi etnici e 40 confessioni all’interno di una popolazione di circa 16 milioni di abitanti. Una realtà che si potrebbe definire tanto complessa quanto poco conosciuta, specialmente in Italia. Questo libro, che inaugura la collana “Orizzonti d’Eurasia” di Fuoco Edizioni, costituisce pertanto un unicum nel panorama editoriale italiano. Frutto di un lavoro collettivo di studiosi esperti di tematiche differenti, esso è concepito come un volume divulgativo ma che al tempo stesso presenta i risultati di una ricerca condotta con rigore analitico e approfondimento scientifico. Il lettore non specialista potrà dunque trovarvi un’introduzione completa alla storia passata e recente del Kazakhstan, mentre gli addetti ai lavori vi individueranno spunti di riflessione soprattutto in ordine agli avvenimenti più recenti del Paese. Dopo una contestualizzazione sulla problematica dei concetti di identità e civiltà in Asia centrale, la ricerca ripercorre la storia del popolo kazako dalle antiche orde nomadi sino alla conquista russa, per illustrare poi il destino della Repubblica sovietica del Kazakhstan, la diffusione dell’islam e la situazione da gestire al momento dell’indipendenza. Viene quindi dato ampio spazio ai vent’anni del Kazakhstan indipendente, descritto nella sua composizione nazionale e confessionale, offrendo così una panoramica dettagliata relativamente alle politiche attuate in materia di concordia etnicoreligiosa di cui vengono illustrati risultati e criticità. L’approccio prescelto è dunque di tipo multidisciplinare, in quanto alla ricostruzione storica si affianca un’analisi culturologica e geopolitica, che legge l’evoluzione del Paese anche alla luce dello specifico contesto territoriale. Crocevia tra Europa e Asia, privo di significative barriere naturali al suo interno, il Kazakhstan

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è stato quasi vincolato dalla geografia fisica ad essere terreno di incontro, e qualche volta di scontro, fra popoli e culture. Il titolo del volume si ispira alla definizione utilizzata per indicare la strategia perseguita dal governo kazako (l’unità nella diversità, o in alcuni documenti l’unità attraverso la diversità), che a partire dall’indipendenza si è trovato a governare in piena autonomia su una realtà estremamente eterogenea. La scelta delle autorità è stata quella di puntare sulla costruzione di una identità “kazakistana”, ossia civile, laica e sovranazionale, che ambisce a garantire una convivenza pacifica proponendosi come modello di dialogo fra civiltà. La distinzione tra identità “kazaka” (cioè etnicamente e linguisticamente connotata) e identità “kazakistana” (chiamata ad accogliere popoli diversi sotto una cittadinanza esplicitamente multiculturale) costituisce il cuore di questa strategia. Difficilmente comprensibile all’infuori del contesto centroasiatico, per sua natura multietnico e plurilinguistico, il caso del Kazakhstan è stato valutato da più parti come una delle esperienze più riuscite sotto il profilo della convivenza tra civiltà differenti. Senza tacerne gli aspetti critici e la dimensione propagandistica, esso costituisce dunque per il lettore italiano un motivo di interesse per almeno due ragioni. In primo luogo, per la testimonianza concreta di un’esperienza che sembra porsi agli antipodi dei modelli che hanno fatto dello “scontro fra civiltà” il destino ineluttabile della convivenza inter-etnica. In secondo luogo, per un approccio che si presenta come pienamente laico, ma al contempo non osteggia le grandi tradizioni religiose e cerca di comprenderne l’importanza per le comunità di credenti che vi si riconoscono, valorizzandone la grandezza storica e la dimensione di riconoscimento pubblico. Il volume è arricchito infine da un’appendice documentaria, costituita da quattro testi kazaki tradotti in lingua italiana e da un’intervista inedita, che consente al lettore di conoscere attraverso fonti dirette i presupposti culturali e politici di questa “unità nella diversità”.

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Capitolo 1 Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

Il Kazakhstan è una delle repubbliche nate nel 1991 in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la più grande per estensione territoriale dopo la Federazione Russa. Il suo nome significa letteralmente “Paese dei Kazaki”, un popolo turco dell’Asia centrale antropologicamente classificato all’interno del tipo meticcio-turanoide sud-siberiano1. La lingua kazaka (in kazako qazaq tili) rientra nel sottogruppo kipčaq delle lingue turche, all’interno del quale forma, assieme alle lingue nogaj, karakalpak e karagaš, il ramo detto kipčaq-nogaj. La denominazione di questo Stato non potrebbe essere più ingannevole: richiamando un etnonimo preciso, il lemma Kazakhstan lascerebbe intuire l’omogeneità o almeno la netta preponderanza del popolo kazako, mentre la sua storia e il suo presente testimoniano esattamente il contrario. Per comprendere le ragioni di tale equivoco è indispensabile collocare le vicende del Paese all’interno della regione di cui fa parte: l’Asia centrale. Questo territorio ospita oggi altri quattro Stati sovrani, che come il Kazakhstan nacquero come Repubbliche federate dell’URSS negli anni Venti del XX secolo e sono divenute pienamente indipendenti con il suo scioglimento: l’Uzbekistan, il Tagikistan, il Turkmenistan e il Kirghizistan. Si tratta di una regione in cui i confini della geografia politica non coincidono con quelli dell’etnografia né della geografia fisica. Come ha affermato Olivier Roy, “in senso ampio, l’Asia centrale costituisce tutto lo spazio in cui il mondo turco delle steppe è entrato in contatto con la civiltà persiana e musulmana: in questo senso l’Asia centrale si estende dai confini orientali della penisola anatolica sino alla regione cinese 1 O. ISMAGULOV, A. ISMAGULOVA, Il popolamento del territorio del Kazakhstan dalla preistoria fino ai popoli moderni, in F. FACCHINI (a cura di), Popoli della yurta. Il Kazakhstan tra le origini e la modernità, Milano 2008, p. 192.

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del Xinjiang, attraversando il Nord dell’Afghanistan”2. Il primo aspetto che contraddistingue lo spazio centroasiatico è senza dubbio la netta continentalità, una caratteristica di cui questa regione detiene il primato su tutte le altre aree del globo terrestre. Si calcola infatti che nessun punto dell’Asia centrale si trovi ad una distanza inferiore ai 1400 km dagli oceani3, mentre la zona più interna – corrispondente alla regione del Kazakhstan che i Kazaki definiscono Žeitsu e i Russi chiamano Semireč’e – si trova a oltre i 2000 km dall’Oceano Indiano. La collocazione marcatamente interna del territorio, delimitato a Sud dalle catene montuose dei Monti Elbruz, dell’Hindu Kush e del Tiān Shān ed aperto invece verso Nord agli spazi della Siberia, ha fatto sempre dell’Asia centrale un’autentica fascia di collegamento tra la parte occidentale e la parte orientale della massa continentale euro-afroasiatica, di cui gli esempi storici forse più celebri sono l’impero di Alessandro il Macedone e la Via della Seta. Una seconda caratteristica morfologica che nel corso dei secoli ne ha consentito l’inquadramento all’interno di una dimensione geostorica relativamente unitaria è l’uniformità orografica del territorio. L’assenza di rilievi significativi e la morfologia pianeggiante ha spesso facilitato sia l’unificazione dell’Asia centrale sotto dominii politici unitari, sia i fenomeni migratori e il costante contatto fra popolazioni. In ambito storiografico, negli ultimi anni sono state avanzate numerose proposte interpretative che definiscono l’Asia centrale come una regione caratterizzata dalla tendenza costante ad essere inserita sotto una compagine politica unitaria e centralizzata4. Si parla in questo senso di “successione degli imperi” che hanno attraversato e dominato il territorio dell’Asia centrale, in tutto o in parte, dall’antichità sino ai giorni nostri. Tale successione potrebbe partire già 2 O. ROY, L’Asie centrale contemporaine, Paris 2001, p. 7. 3 P. CHUVIN, R. LETOLLE, S. PEYROUSE, Histoire de l’Asie centrale contemporaine, Paris 2008, p. 34. 4 Si veda ad esempio C. BECKWITH, Empires of the Silk Road. A History of Central Eurasia From the Bronz Age to the Present, Princeton 2009; D. CHRISTIAN, Inner Eurasia as a Unit of World History, “Journal of World History”, V (1994), n. 2, pp. 173-211; ID., A History of Russia, Central Eurasia and Mongolia. Vol. 1: Inner Eurasia From the Prehistory to the Mongol Empire, Oxford 1998.

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Capitolo 1 - Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

dagli antichi cavalieri sciti menzionati da Erodoto prima dell’era cristiana; passando poi per i Xiongnu, confederazione di nomadi che costituì un potente impero localizzato nella zona più orientale dell’Asia centrale ai confini con la Cina (tra III secolo a.C. e I-II secolo d.C.); gli Unni, loro presunti discendenti che a loro volta unificheranno politicamente le steppe dell’Asia centrale con l’Europa orientale (IV secolo d.C.); quindi l’impero Göktürk (“Turchi Blu”) che tra VI e VIII secolo coprirà buona parte del territorio dell’Asia centrale, scindendosi rapidamente nei due khanati occidentale e orientale; l’impero karakhanide, che occupò la regione tra il 840 e il 1212; ovviamente l’impero mongolo fondato da Gengis Khan nel XIII secolo, la cui estensione supererà di gran lunga tutti i precedenti; quello di Tamerlano, durato poco più di un secolo (1370-1506), sino ai tre grandi imperi multietnici, quello shaybanide, quello safavide d’Iran e quello Moghol che tra Cinquecento e Settecento governeranno porzioni della regione sino alla conquista russa che le restituirà un dominio unitario. Altri khanati più o meno indipendenti che si avvicendarono nei secoli, governando segmenti di territorio dell’Asia centrale spesso ai suoi confini occidentale e orientale (rispettivamente, steppe ponto-caspiche e Cina settentrionale) costituirono quasi sempre ramificazioni di strutture politiche derivate dalla frammentazione dei suddetti imperi. L’elemento che tradizionalmente assurge a criterio storico-geografico di divisione interna dell’Asia centrale è rappresentato dal fiume Amu Darya, che gli antichi Greci chiamavano Oxus. Questo corso d’acqua, lungo circa 2650 chilometri, separa la zona delle steppe dalla Transoxiana (il territorio “a Est del fiume Oxus”, appunto), area urbanizzata, sedentaria e islamizzata in modo più uniforme a partire dalla conquista araba di Samarcanda nel 712. È importante notare che questa divisione tra steppa e pianure irrigate dall’Amu Darya, che per secoli ha certamente separato stili di vita nomadi e stili di vita sedentari, economia pastorale ed economia fondata sull’agricoltura e sul commercio, non ha mai corrisposto però ad una chiara distinzione etnolinguistica tra i popoli di famiglia turca e quelli di famiglia iranica. L’impero timuride, ad esempio, unificò tutta la Transoxiana sviluppando una brillante civiltà turco-persiana intorno alla città di Samarcanda, ove le lingue di comunicazione erano tanto il turco čagataj quanto il fārsi. Per molti secoli,

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sia nelle steppe che negli insediamenti urbani di tutta l’Asia centrale, il senso di appartenenza nazionale e per certi aspetti anche quello religioso è stato un fenomeno molto fluido e malleabile, tale per cui il fattore identitario discriminante era più legato alla dislocazione geografica e allo stile di vita nomade o sedentario che all’origine etnica o al dato linguistico. Essere cioè un abitante di Samarcanda, di Chiva o di Buchara (oppure un nomade della steppa affiliato a una data tribù e magari ad un’orda) costituiva un criterio di identificazione spesso più dirimente della lingua o dell’effettiva origine etnica. Ciò si spiega proprio in ragione della relativa uniformità orografica cui si è fatto riferimento poc’anzi: l’assenza di grandi barriere naturali non solo ha favorito la costituzione di grandi entità politiche ed imperi, ma ha anche consentito dinamiche migratorie in grado di generare identità ibride. Gli effetti di tali dinamiche, gravidi di opportunità non meno che di problemi, si possono riscontrare sino a tempi recenti. Ad esempio, benché gli studiosi odierni datino alla fine del XV secolo la comparsa dell’etnonimo “Kazaki”, prima del Novecento non era d’uso distinguere in modo unanime una nazione kazaka da una nazione kirghisa (che taluni etnografi considerano tuttora due componenti dello stesso popolo, stanziate rispettivamente nelle steppe pianeggianti e nella zona montagnosa, confluite in entità politiche separate solo nel momento in cui furono costituite le repubbliche sovietiche sotto l’egida russa). A riprova di ciò, basti pensare che dopo la Rivoluzione d’Ottobre il Kazakhstan fu inizialmente denominato “Repubblica Sovietica di Kirghisia”. Anche la distinzione tra Kazaki e Uzbeki è individuabile solo a partire dal XV-XVI secolo, in concomitanza con processi di sedentarizzazione e separazione fra entità politiche, in quanto la strutture familistiche e clanicotribali preesistenti non consentivano una netta demarcazione, né sul piano antropologico né tantomeno sotto il profilo dell’autocoscienza nazionale. Per comprendere quanto sia problematico il concetto di civiltà in Asia centrale, un momento ineludibile è quindi senza alcun dubbio il rapporto storico, geopolitico e culturale che lega questa regione alla Russia. A cominciare dalla colonizzazione delle steppe kazake nel Settecento e proseguendo poi nel secolo successivo con l’annessione dei Khanati uzbeki della Transoxiana, cioè Buchara (1865), Chiva (1873) e Kokand (1876),

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Capitolo 1 - Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

l’impero zarista si impadronì di fatto di tutta l’Asia centrale, che ricevette e mantenne a lungo la denominazione di Turkestan, ossia “Paese dei Turchi”, ancorché ad abitarlo vi fosse una consistente presenza di etnie di lingua e di origine persiana. Sino all’avvento del bolscevismo il rapporto della Russia zarista con l’Asia centrale fu senz’altro complesso, non esente certo dalle caratteristiche vessatorie tipiche di ogni colonizzazione. Tuttavia, come indicato dalla storiografia più recente, questo rapporto non si ridusse solo ad una politica di dominio e di sfruttamento, in quanto sotto molti aspetti rese possibile momenti di acculturazione e di convivenza pacifica all’interno della compagine plurinazionale dell’impero5. La chiave di volta delle relazioni fra Russia e Asia centrale è però la storia novecentesca, allorché la regione entrò a far parte dell’Unione Sovietica e nacquero le cinque repubbliche che oggi sono degli Stati pienamente indipendenti. L’esperienza sovietica è estremamente complessa e finanche contraddittoria, al punto che è molto difficile proporne una valutazione unanime, in quanto ogni giudizio cambia notevolmente a seconda della prospettiva da cui ci si pone. Da un lato, l’URSS rappresentò indubbiamente una linea di continuità geopolitica con l’esperienza imperiale russa, perché le repubbliche dell’Asia centrale non goderono mai di indipendenza sino alla sua caduta. Adottando questo punto vista, non si può del tutto negare legittimità alle posizioni che oggi assumono alcune élite culturali e politiche di questi Paesi, che vedono nell’esperienza sovietica una propaggine coloniale del vecchio impero zarista. Dall’altro lato, è tuttavia indiscutibile il fatto che gli Stati d’Asia centrale, le cui classi dirigenti assumono per l’appunto un atteggiamento critico verso il passato sovietico, non esistessero come entità politico-amministrative prima dell’Unione Sovietica stessa e siano quindi da considerare come una sua creazione. I localismi in conflitto e le identità culturali e politiche odierne sono in gran parte un frutto della politica sovietica delle nazionalità; anche se, non bisogna dimenticarlo, fu solo in epoca sovietica che l’ex Turkestan conobbe una sua prima industrializzazione, mettendo in piedi una rete infrastrutturale 5 Ci si limita qui a segnalare il classico, disponibile anche in italiano, A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, a cura di A. Ferrari, Roma, 2001.

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e produttiva che le repubbliche centroasiatiche oggi indipendenti hanno ereditato. L’ingresso nella modernità per i popoli dell’Asia centrale avvenne in definitiva sotto la bandiera rossa dell’URSS, con tutto ciò che questo poteva implicare: una laicizzazione estremista, portata avanti come imposizione ideologica dell’ateismo di Stato e sradicamento di antiche culture; una centralizzazione economica che non lasciava spazi all’iniziativa privata; una sostanziale mancanza di libertà democratiche; ma anche un processo di alfabetizzazione di massa e di modernizzazione infrastrutturale, la creazione d’un sistema di istruzione ideologizzato ma di buona qualità, l’integrazione di tutte le repubbliche in un blocco economico integrato e sovranazionale. La maggioranza degli studiosi individua proprio nella politica sovietica delle nazionalità la causa delle tensioni che ancora oggi lacerano l’Asia centrale. Secondo quest’interpretazione, l’istituzione delle cinque repubbliche fu il risultato di una costruzione artificiale e fittizia, basata sull’attribuzione di porzioni di territorio ai diversi popoli sulla base di criteri etno-linguistici molto discutibili, rispondenti a una logica di divide et impera che peraltro lasciò scontenti molti dei soggetti coinvolti. In ossequio al principio sovietico “nazionale per forma, socialista per contenuto”, l’obiettivo dichiarato era quello di creare degli Stati-nazione sul modello europeo offrendo a ciascun popolo una repubblica: il Tagikistan come “Paese dei Tagiki”, il Turkmenistan come “Paese dei Turkmeni” e così via. Impresa del tutto aleatoria per l’impossibilità di riscontrare gruppi nazionali precisi all’interno delle popolazioni centroasiatiche. Un esempio spesso addotto in proposito è la divisione tra Uzbekistan e Tagikistan. Due importanti città come Samarcanda e Buchara avevano una popolazione a maggioranza persofona (composta quindi da Tagiki), ma furono attribuite all’Uzbekistan; per converso, i molti locutori turcofoni che abitavano la regione di Fergana ma si identificavano in una propria etnia (ad esempio, i Kipčaq o i Qarluq), furono costretti invece a dichiararsi Uzbeki nel censimento del 1937. La provincia di Leninabad, nome con cui venne rinominata Chudžand, fu dapprima attribuita all’Uzbekistan e poi al Tagikistan6. Non solo sul piano politico-amministrativo, ma anche 6 Cfr. O. ROY, L’Asie centrale contemporaine, cit., pp. 19-41.

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Capitolo 1 - Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

su quello culturale fu imposta una sorta di nazionalizzazione identitaria per decreto. È in questo periodo infatti che i linguisti sovietici teorizzano l’esistenza d’una “lingua letteraria tagika”, che l’iranistica odierna considera del tutto impropria, in quanto tra il tagiko e il fārsi vi è un rapporto analogo a quello esistente tra il francese del Québec e il francese di Parigi. Quanto al Kazakhstan, come si è ricordato poc’anzi, negli anni Venti fu chiamato dapprima “Repubblica di Kirghisia” proprio per la secolare confusione tra Kazaki e Kirghisi. Gli esempi di una divisione artificiale e discutibile, insomma, non mancano di certo. In questo senso la politica sovietica delle nazionalità rappresentò quindi, sul piano dei rapporti inter-etnici e di civiltà, una rottura rispetto alla tradizione imperiale russa, che aveva sempre preservato il carattere plurinazionale senza creare barriere giuridiche divisorie, consentendo in tal modo a popolazioni diverse di convivere nei medesimi luoghi di insediamento. Tra impero russo e Unione Sovietica vi fu insomma continuità geopolitica, ma non amministrativa né ovviamente culturale e ideologica: la suddivisione in repubbliche e in regioni autonome inaugurò una prassi di amministrazione locale su base clanica che sarebbe risultata fatale nei rapporti di vicinato non meno che in quelli con il centro. La dissoluzione dell’URSS ha significato quindi non soltanto la fine di un grande soggetto geopolitico, ma ha anche costretto a ripensare i concetti di identità e di civiltà. Uno dei paradossi più evidenti è che, nel revival nazionalistico di cui sono protagoniste alcune classi dirigenti delle attuali repubbliche centroasiatiche, da una parte viene espresso un giudizio negativo sul passato sovietico (interpretato nei termini di un’occupazione coloniale russa), ma dall’altra viene totalmente rivendicata la legittimità storica di quegli Stati che in realtà sono appunto una creazione dell’Unione Sovietica stessa. Si assiste così a letture storiografiche revisioniste molto controverse e reciprocamente inconciliabili, tese a retrodatare la “vera” origine delle repubbliche e il carattere ancestrale delle culture che ne costituirebbero il nerbo vitale. Qualche esempio concreto può aiutare a comprendere la natura parziale e tendenziosa di tale revisionismo. In Kirghizistan, durante la presidenza di Askar Akaev, si sono potute osservare fastose celebrazioni in memoria di

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Yūsuf di Balasağun, un letterato dell’XI secolo, presentato e commemorato come il “poeta nazionale kirghiso”, a cui è intitolata l’Università di Biškek7. La tomba di questo poeta si trova effettivamente nel territorio nell’attuale Kirghizistan, che in epoca medievale era parte però del già citato Khanato karakhanide, il vasto impero multietnico che governò su tutte le tribù della Transoxiana fra 840 e 1212. Yūsuf di Balasağun, inoltre, adottava una lingua scritta che forse non è più prossima all’attuale kirghiso di quanto non sia ad altri idiomi della famiglia altaica. Non a caso è difficile trovare un manuale di turcologia che lo qualifichi come “kirghiso”, denominazione che potrebbe sembrare ardita a molti specialisti: l’Enciclopedia Britannica, ad esempio, preferisce classificarlo all’interno della letteratura uzbeka8. Si tratta di un caso evidente in cui una singola repubblica avoca per sé l’eredità di un poeta che è invece patrimonio di tutte le popolazioni turche d’Asia centrale. Oppure, per citare un altro caso, si può ricordare come gli irredentisti tagiki rivendichino ancora le città di Buchara e Samarcanda, considerate come esclusivamente persiane e dunque tagike. Nella sensibilità del nazionalismo uzbeko, al contrario, Tamerlano rappresenta il fondatore dell’Uzbekistan, di cui Buchara e Samarcanda sarebbero da sempre state parte integrante. Si tratta di visioni egualmente unilaterali, perché la maggior parte degli storici è concorde nell’affermare la fusione turco-persiana della cultura timuride e in particolare la grande apertura cosmopolita di Samarcanda9. Un’atmosfera non isolata nella storia dell’Asia centrale: il complesso di Merv, che si trova oggi nella Repubblica del Turkmenistan, fu ad esempio una delle più suggestive città-oasi della Via della Seta nel Medioevo. Già satrapia dell’impero achemenide nell’antichità, essa raggiunse un periodo di splendore sotto il 7 D. GULLETTE, A State of Passion: The Use of Ethnogenesis in Kyrgyzstan, “Inner Asia”, vol. 10 (2008), n. 2, pp. 261-279. 8.http://www.britannica.com/EBchecked/topic/621057/Uzbek-literature/279701/Theclassical-period. 9 Una fonte essenziale, anche perché registra le impressioni di parte europea, per comprendere la vivacità e la complessità del regno di Tamerlano, è il resoconto di viaggio del diplomatico Ruy González de Clavijo, che fu ambasciatore di Enrico III di Castiglia nell’impero timuride durante i primi anni del Quattrocento: R. GONZÁLEZ DE CLAVIJO, Viaggio a Samarcanda 1403-1406. Un ambasciatore spagnolo alla corte di Tamerlano, Roma 2010.

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Capitolo 1 - Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

sultanato dei Turchi Selgiuchidi, in particolare tra la fine dell’XI e la metà del XII secolo, quando le fonti coeve la ricordano come “punto di incontro tra il grande e il piccolo”, magnificandone la densità demografica, le biblioteche, la ricchezza dei commerci, la produzione di ceramica e di oggetti d’artigianato, nonché la presenza del grande poeta e astronomo persiano Omar Khayyām10. Dal 1999 Merv è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità, mentre nel 2001 la University College of London ha avviato con il governo turkmeno e l’Accademia delle Scienze locale l’Ancient Merv Project, per conservare e valorizzare la grande ricchezza storica, artistica e archeologica di questo insediamento11. Esiste pertanto una costante che può dirsi davvero trasversale alle epoche storiche: le migliori espressioni della cultura in Asia centrale si sono realizzate sempre in una cornice di plurilinguismo, di composizione multietnica e spesso anche di unità geopolitica. Si tratta di una verità ben chiara ai più lungimiranti esponenti dell’intellettualità centroasiatica contemporanea. Tra questi, l’economista uzbeko Šafchat Arifchanov sostiene apertamente la necessità di ritrovare un forte legame con la Russia, di smussare le tendenze nazionaliste delle repubbliche della regione, comprese quelle del suo Paese, di riavvicinare i sistemi di istruzione, le economie e le linee politiche dei Paesi d’Asia centrale puntando all’adesione nei diversi formati di integrazione eurasiatica12. La questione del dialogo di civiltà, ossia della convivenza fra religioni, etnie e culture in Asia centrale resta purtuttavia estremamente complessa per due ragioni. In primo luogo per la difficoltà di intendere in modo univoco quali siano i confini tra nazionalità e in che misura esistano “civiltà” distinte o espressioni locali che rientrano in una sola e medesima civiltà; in secondo luogo, a motivo di un passato storico recente che, attraverso l’esperienza sovietica, ha avuto come effetto quello di accrescere l’antagonismo reciproco tra le varie componenti. Ciò malgrado, l’indissolubilità del legame che, nel 10 Sulla realtà di Merv, da un punto di vista sia scientifico sia divulgativo, si rimanda all’ampia selezione di titoli riportata in Merv: A Bibliography of Published Research, http://www. britishmuseum.org/pdf/Merv_bibliography.pdf. 11 Per approfondire, si veda http://www.ucl.ac.uk/merv. 12 Si veda il suo volume Š. ARIFCHANOV, Central’naja Azia: nastojaščee i buduščee. Geopolitika, geoêkonomika, bezopasnost’, Taškent 2012.

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bene e nel male, tiene unita tutta l’Asia centrale alla Federazione Russa, è testimoniata da un fatto incontrovertibile che ciascun visitatore può osservare de visu: la diffusione della lingua russa. Ancora oggi, il russo costituisce non soltanto l’idioma veicolare tra le repubbliche dell’Asia centrale, non soltanto esso mantiene un’importanza essenziale nel linguaggio amministrativo e nella sfera dell’istruzione, ma spesso è addirittura la lingua di comunicazione della vita quotidiana internamente a ciascuna repubblica. In Uzbekistan, ad esempio, gli abitanti di Samarcanda e quelli della capitale Taškent interloquiscono gli uni con gli altri in lingua russa. A Samarcanda o Buchara, infatti, non si parla uzbeko (che neppure tutti i residenti della capitale conoscono), ma tagiko: conseguentemente, il russo risulta la lingua franca per la popolazione della Repubblica dell’Uzbekistan nel suo insieme. Situazioni analoghe si ritrovano in tutte le repubbliche centroasiatiche indipendenti e soprattutto in Kazakhstan13. D’altronde, il letterato Abaj Kunanbaev (1845-1904), considerato il poeta nazionale e il fondatore della letteratura scritta in lingua kazaka, fu un profondo conoscitore e ammiratore della cultura russa ed europea. Anche nei nostri giorni la lingua russa è sempre lo strumento più agevole di comunicazione in tutta la regione, nonostante l’esodo dei Russi etnici e i tentativi politici di limitarne l’uso che alcune repubbliche hanno avanzato. Tentativi che, in una prospettiva regionale, appaiono del tutto controproducenti, in quanto enfatizzano i particolarismi persino linguistici per aizzare sentimenti di appartenenza che in realtà non possono minimamente essere paragonati alla storia delle nazioni europee. Non a caso, il celebre intellettuale kirghiso Čingiz Ajtmatov (1928-2008), autore di sublimi affreschi narrativi dei paesaggi d’Asia centrale, amante sincero della propria patria e al contempo ottimo scrittore in lingua russa, sosteneva che “l’abbandono del russo sarebbe 13 Sul bilinguismo russo-kazako, si vedano i dati e le statistiche fornite da E. SULEJMENOVA,“Tempora mutantur, et nos mutamur in illis”: jazykovaja identičnost’ molodych kazachstancev, in Ulica Ševčenko 25 korpus 2. Scritti in onore di Claudia Lasorsa, Cesena-Roma 2011, pp. 219-228. Per un’approfondita disamina sui Russi nel Kazakhstan postsovietico, si rimanda all’ottima monografia di M. LARUELLE, S. PEYROUSE, Les Russes du Kazakhstan. Identités nationales et nouveaux États dans l’espace post-soviétique, Paris 2004.

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Capitolo 1 - Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

una perdita irreparabile che i nostri discendenti non ci perdonerebbero”14. In questo quadro d’insieme il Kazakhstan costituisce un’indubbia eccezione, un tentativo forse unico di armonizzare realtà linguistiche, culturali e religiose molto diverse, attutendo le tensioni che nascono dai campanilismi di ogni genere. Per le enormi dimensioni del suo territorio e per l’estrema varietà etno-linguistica che esso ospita (anche in rapporto alla densità demografica), la Repubblica del Kazakhstan indipendente ha scelto una strada affatto peculiare: quella dell’unità nella diversità, cioè dell’accettazione delle differenti e molteplici componenti, armonizzate da una coscienza civile comune. Il “modello kazakistano” non è certo esente da difetti né tantomeno universalmente proponibile, costituendo piuttosto una sintesi pragmatica tra la necessità di rispondere a sfide contingenti, proprie del contesto centroasiatico, e la volontà di costruire una strategia di lungo periodo. La tesi di questo libro è che i risultati concreti ottenuti in vent’anni d’indipendenza, se rapportati al contesto specifico del Paese, possono dirsi complessivamente positivi. Al contempo, bisogna sottolineare con chiarezza che la chiave del successo della strategia del Kazakhstan costituisce paradossalmente anche il suo punto debole, l’aspetto su cui maggiormente è chiamato a lavorare l’establishment del Paese. Non si può negare che gran parte dei risultati sinora raggiunti siano dovuti alle iniziative dirette e al grande potere concentrato nella persona di Nursultan Nazarbaev, un Presidente certo non più giovanissimo (n. 1940). Questo fatto appare problematico non tanto per le critiche astratte a cui può essere sottoposta la sua gestione di governo non sempre coincidente con gli 14 Čingiz Ajtmatov: potomki nam etogo ne prostjat, “Trud”, 17 dicembre 2005. Per avere un’idea dell’impoverimento culturale che comporterebbe (e in parte ha già comportato) la messa in secondo piano della lingua russa in Asia centrale, basti pensare al fatto che l’alfabetizzazione di massa è avvenuta solo in epoca sovietica e si è realizzata soprattutto in lingua russa. Nelle lingue turche locali, sino ad oggi, è stata tradotta e pubblicata una percentuale assolutamente irrisoria di libri moderni da lingue straniere. Nel momento in cui una qualsiasi università d’Asia centrale non prevedesse alcun corso tenuto in lingua russa, la formazione degli studenti risulterebbe assai problematica: dalla chimica alla fisica, dalla letteratura alla storia, dall’ingegneria alla medicina, il materiale disponibile sarebbe di gran lunga inferiore.

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standard liberaldemocratici d’Occidente – che peraltro non rappresentano né l’unico né il miglior modello possibile – ma essenzialmente per l’interrogativo che esso pone in un ottica futura: quale avvenire si prospetta per il Paese nel momento in cui si verificherà un cambio di guardia? Il successore di Nazarbaev sarà in grado di mantenere gli equilibri raggiunti e far fronte a nuove sfide? Il rischio di una concentrazione eccessiva di potere è insomma speculare alla fragilità istituzionale, aspetto particolarmente delicato in una realtà complessa come quella del Kazakhstan e più generalmente dell’Asia centrale. Nella misura in cui la prassi politica risulta legata non a un sistema di regole condivise e a meccanismi di equilibrio potestativo ben collaudati, bensì al carisma individuale di un singolo, il rischio frammentazione può farsi serio e pericoloso nell’ora dell’avvicendamento al vertice. Entrando nel merito della politica di concordia religiosa, inoltre, si può osservare che l’identità “kazakistana” – il concetto di fedeltà civica allo Stato multiculturale che verrà ampiamente illustrato in questo libro – presta il fianco a ragionevoli obiezioni. I valori che essa propone appaiono inclini a costruire “l’unità nella diversità” attraverso una sorta di patriottismo sincretista, in cui soprattutto il quid specifico della religione rischia di essere sacrificato all’altare di una statolatria relativista ed estemporanea. Ne è in qualche modo testimonianza non solo la dimensione inevitabilmente retorica dei discorsi di Nazarbaev, ma anche i punti di vista sociologici che guardano con favore alle confessioni maggiormente “leali verso lo Stato”, ossia quelle più facilmente manipolabili da parte del potere politico. Per converso, tuttavia, non si può negare la necessità oggettiva di mantenere la stabilità interna in un Paese ove il peso e la rappresentanza dei gruppi sono estremamente frazionati e favoriscono (anche loro malgrado) il rischio di ingerenze esterne, soprattutto per ciò che riguarda il proselitismo delle piccole sette e il terrorismo islamico. Come tale, il modello kazakistano non costituisce dunque un esempio da imitare in senso assoluto, ma va sempre compreso all’interno della realtà centroasiatica cogliendone però gli aspetti positivi e pragmatici. Esso va valutato essenzialmente come una prudenziale risposta politica e amministrativa, volta a garantire una coesistenza accettabile ad una foltissima eterogeneità di gruppi etnici e confessioni. Se letto in quest’ottica – cioè senza

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scetticismo aprioristico né esaltazione acritica – il modello kazakistano appare in una luce certamente originale. Esso ci si presenta infatti come una forma di “laicità” che quantomeno non esclude per principio le culture tradizionali dallo spazio pubblico, come sta accadendo invece in molti Paesi dell’Unione Europea, dove il progresso civile ritorna ad essere concepito nei termini di un’ostilità militante verso i valori religiosi in quanto tali, acutizzando inevitabilmente i contrasti tra il potere politico e la popolazione credente e impoverendo un patrimonio culturale e spirituale bimillenario. Nella più grande repubblica centroasiatica, benché nel tendenziale sincretismo proprio dell’ideologia kazakistana, è invece tributato un riconoscimento pubblico alle tradizioni religiose che spesso si stenta a trovare nelle società secolarizzate di molti Paesi dell’Europa o dell’America del Nord. Si assiste così ad un paradosso che non potrebbe essere più stridente: mentre in Europa avanza ormai da alcuni anni il preoccupante fenomeno della cristianofobia (abolizione di feste e usanze religiose; frequenza quasi quotidiana degli atti di vandalismo e blasfemia; discriminazioni contro le manifestazioni pubbliche della fede; negazione giuridica della nozione di famiglia naturale)15, la Chiesa cattolica in Kazakhstan conosce margini di libertà e spazi di evangelizzazione non irrilevanti, con le sue quattro diocesi di Astana, Almaty, Karaganda e Atyrau. Spazi che appaiono importanti se inquadrati nel contesto kazako, ove i cattolici sono pur sempre una esigua minoranza (circa il 2%) in una regione sempre sotto la potenziale minaccia del terrorismo di matrice islamica che lo stesso governo laico di Astana si trova a fronteggiare. La presenza latina nella regione, decisamente minoritaria rispetto a quella cristiano-orientale, è nondimeno molto antica e offre spunti interessanti nello studio dei rapporti fra civiltà improntati ad un dialogo che non sia retoricamente ecumenico e livellatore d’ogni differenza fra i culti, ma sappia apportare una reale fecondità. Iniziata in età medievale, l’attività missionaria 15 Una denuncia di questo fenomeno, da un punto di vista peraltro non confessionale, è stata fatta recentemente da E. GALLI DELLA LOGGIA, Una libertà minacciata, “Corriere della Sera”, 2 giugno 2013. Per approfondire il tema, si vedano gli atti del Convegno raccolti da F. BERNABEI, Cristianofobia. Quale libertà di apostolato per i cattolici oggi?, Chieti 2010.

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europea conobbe il suo apice con la predicazione del francescano Giovanni da Montecorvino (1247-1330), che soggiornò a Karakorum gettando le basi per la diffusione della fede anche nel futuro territorio kazako. Quest’esperienza rivelò un sentire che ha molti punti di contatto con quello che sarà l’approccio del gesuita Matteo Ricci nella Cina del XVI secolo: saldezza sul piano dottrinale nella predicazione dell’integralità della fede, accompagnata però da una grande capacità di comprensione dell’altro da sé, di inculturazione degli elementi locali e valorizzazione delle tradizioni autoctone intese come anticipazioni incompiute di verità universali16. Relativamente alla presenza attuale della Chiesa cattolica, molto si deve al lavoro svolto da Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare di Astana, il quale – oltre all’impegno nella difficile e meritoria opera di rettifica e di contrasto alla grave crisi dottrinale che attanaglia il cattolicesimo contemporaneo – in recenti interviste ha ricordato i risultati positivi dell’apostolato in terra kazaka. A Karaganda esiste ad esempio l’unico seminario di tutta l’Asia centrale; vengono regolarmente ordinati sacerdoti kazaki e tra la popolazione si registrano conversioni e battesimi; vi è una crescente attività di edilizia religiosa, come testimonia la consacrazione, nel settembre 2012, di una maestosa Cattedrale in stile gotico dedicata alla Madonna di Fatima, dopo che nel 2003 l’episcopato locale aveva ottenuto la licenza da parte delle autorità17. Proprio mentre il presente volume va in stampa, nel settembre 2013, è stata inoltre consacrata la chiesa greco-cattolica di San Giuseppe ad Astana, di rito bizantino ma pienamente in comunione 16 Per una sintesi storica, breve ma essenziale, della presenza cattolica in Kazakhstan, si veda G. PRICHODKO, La storia del cristianesimo in Kazakhstan e in Asia centrale, http:// www.catholic-kazakhstan.org/jp/It/Art%20Osservatore%20Romano%20Gregorio%20IT.doc. Sulla figura di Giovanni da Montecorvino, cfr. P. SELLA, Il Vangelo in Oriente. Giovanni da Montecorvino, frate minore e primo Vescovo in terra di Cina (1307-1328), Assisi 2008. 17 Cfr. Parliamo con Mons. Athanasius Schneider, http://www.hogardelamadre.org/it/rivistahm/articoli/interviste/3289-athanasius-schneider; Le profonde radici cristiane del Kazakistan: intervista al vescovo Athanasius Schneider, http://www.zenit.org/it/articles/le-profonde-radicicristiane-del-kazakistan; Kazakhstan: una nuova Cattedrale dedicata alla Madonna di Fatima nella terra dei gulag, http://www.lucisullest.it/kazakhstan-una-nuova-cattedrale-dedicata-allamadonna-di-fatima-nella-terra-dei-gulag/. Si veda anche l’intervista inedita pubblicata nella sezione “Documenti” del presente volume.

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Capitolo 1 - Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

con Roma in quanto chiesa sui iuris18. Se si considera che tutto ciò avviene in un Paese a maggioranza musulmana, uscito da settant’anni di ateismo di Stato, e in un’epoca in cui in Francia o in Olanda le chiese vengono abbattute per far spazio a parcheggi e centri commerciali, la relativa libertà dei cristiani in Kazakhstan – e più in generale il clima culturale di valorizzazione del fatto religioso come tale – risulta senz’altro degna di nota. Una situazione a cui i diretti interessati rispondono con la piena comprensione, al di là della propria irrinunciabile specificità confessionale, delle condizioni particolari del Paese. È altamente indicativo che il 23 settembre 2001 il Pontefice allora regnante Giovanni Paolo II tenne una prolusione nell’Università Eurasiatica di Astana (oggi Università Nazionale Eurasiatica “Lev Gumilëv”), in cui, “professando con fierezza e umiltà la fede dei cristiani”, commentò così il senso della denominazione dell’ateneo: “Il suo stesso nome, Eurasia, ne indica la peculiare missione, che è la stessa del vostro grande Paese posto come cerniera tra l’Europa e l’Asia: missione di collegamento tra due continenti, tra le rispettive culture e tradizioni, tra gruppi etnici diversi che vi si sono incontrati nel corso dei secoli”19. Questa profonda comprensione del ruolo del Kazakhstan da parte del Papa ha un rilievo capitale anche da un punto di vista specificamente geopolitico. Proprio il concetto di cerniera, coniato in sede scientifica da Tiberio Graziani e ribadito costantemente nei lavori prodotti dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie20, rappresenta infatti una proposta ermeneutica e operativa che si oppone frontalmente all’idea di “Balcani 18.Cfr.http://www.fides.org/it/news/53528-ASIA_KAZAKHSTAN_Una_nuova_chiesa_ greco_cattolica_in_memoria_di_vescovi_e_preti_prigionieri_nei_gulag#.UklK7tLxrZ4. Per aggiornamenti sulla situazione del cattolicesimo kazako, si veda http://www.catholickazakhstan.org/index.htm. 19 Discorso del Santo Padre, Astana – Università Eurasia, Domenica 23 settembre 2001,. http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2001/september/documents/hf_jpii_spe_20010923_kazakhstan-astana-youth_it.html (corsivi nel testo originale). Il lemma “Eurasia” veniva usato dal Papa nel senso ampio per il quale è preferibile la dizione “EuroAsia”: cfr. su questo Programma di Ricerca “Eurasia” – Autori alla fine del presente volume. 20 T. GRAZIANI, L’integrazione eurasiatica: un nuovo raggruppamento nel mondo che cambia,.http://www.geopolitica-rivista.org/19516/lintegrazione-eurasiatica-un-nuovoraggruppamento-nel-mondo-che-cambia/.

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eurasiatici” portata avanti da Zbigniew Brzezinski, la quale fa leva al contrario sulla frammentazione e sulle rivalità interne per ostacolare la cooperazione continentale e favorire gli interessi degli attori esterni. Come affermano Marlène Laruelle e Sébastien Peyrouse, “se l’Asia centrale è percepita come un terreno ove si confrontano le logiche di potenza, i governi locali si sentono costretti a scegliere un ‘campo’; ma se invece essa è pensata in termini di sviluppo, le logiche geoeconomiche divengono complementari: i bisogni sono tali che la concorrenza si dissolve, almeno sul medio periodo, e ciascuno porta il suo contributo alla stabilità della regione”21. Per tutte queste ragioni, il Kazakhstan costituisce un oggetto di studio meritevole di conoscenza e approfondimenti, specialmente alla luce del rilievo crescente che il Paese riveste nello sviluppo dell’Unione Eurasiatica, uno dei poli geopolitici in grado non solo di restituire una fisionomia unitaria all’Asia centrale, ma anche di condurre la transizione verso un sistema mondiale pienamente multipolare. Nel prosieguo del presente volume viene presentata per la prima volta al lettore italiano una narrazione della storia del Kazakhstan che utilizza come chiave di lettura proprio l’incontro tra popoli e culture, al fine di comprendere le scelte dell’attuale dirigenza politica nella gestione di quello che è, senza dubbio alcuno, un mosaico etnografico tra i più frastagliati del mondo. Nel capitolo seguente è contenuta una panoramica storicogeografica del Kazakhstan dalle origini alla caduta dell’Unione Sovietica. Il terzo capitolo fornisce invece una sintesi dei vent’anni di indipendenza focalizzando l’attenzione sulla composizione etnica del Paese, mentre il quarto inquadra la pluralità di confessioni religiose presenti e le politiche 21 M. LARUELLE, S. PEYROUSE, L’Asie centrale à la aune de la mondialisation. Une approche géoéconomique, Paris 2010, pp. 215-216. I due Autori minimizzano tuttavia il ruolo divisorio giocato delle potenze esterne al continente euro-asiatico e sembrano insistere soprattutto sulle ambizioni egemoniche di Russia e Cina come fattori di caos. Senza certo sottovalutare i rischi di un condominio russo-cinese poco rispettoso delle esigenze centroasiatiche, a chi scrive appare tuttavia che l’ingerenza degli USA e della Gran Bretagna costituisca ancora il principale catalizzatore delle frizioni regionali. Come dimostra la guerra all’Afghanistan, proprio grazie alla lontananza territoriale gli attori geopolitici extracontinentali possono influenzare i destini dell’Asia centrale senza patire direttamente le conseguenze della conflittualità che essi stessi generano.

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Capitolo 1 - Identità e civiltà in Asia centrale: un’introduzione

adottate dal governo di Nazarbaev per regolarne la convivenza. Il quinto capitolo si concentra su un case study specifico, relativo alla presenza e alla diffusione della religione islamica, quella maggioritaria del Paese; il sesto, infine, prende in esame le peculiarità del “modello kazakistano” per un’analisi di carattere politologico e geo-culturale che ruota intorno all’opposizione fra i concetti di dialogo e scontro di civiltà. La ricerca è arricchita infine da un’appendice documentaria costituita da quattro testi tradotti in lingua italiana che presentano direttamente il punto di vista kazako: un articolo dello studioso Sultan Akimbekov, Direttore dell’Istituto di Economia Mondiale e di Politica di Astana; un discorso del Presidente Nursultan Nazarbaev sulla tematica della concordia inter-religiosa; un documento programmatico sulla Dottrina dell’Unità Nazionale; il testo di legge n. 70-4 della Repubblica del Kazakhstan sull’Assemblea del Popolo. Nell’appendice rientra inoltre anche un documento inedito: un’intervista a Mons. Schneider, Vescovo Ausiliare dell’arcidiocesi di Astana, che espone il punto di vista della comunità cattolica. La postfazione di Roberto Valle, professore di Storia dell’Europa Orientale all’Università Sapienza di Roma e membro del Comitato Scientifico di “Geopolitica. Rivista dell’IsAG”, corona il lavoro con un confronto culturologico tra l’idea russa e l’idea kazaka di Eurasia. Mentre la visione russa dell’Eurasia è incentrata sulla vastità dello spazio come ubi consistam di una civiltà insieme unitaria e plurale, la concezione kazaka ha insistito sull’elemento del tempo, ossia sull’incontro fra nazionalità e culture come prodotto di ritmi storici che si alternano ciclicamente.

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