Le prime 17 edizioni sono raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Gino Ruozzi e tavole di Gianluigi Toccafondo (Arti Grafiche Castello, Viadana, maggio 2010)
Anche se non ce n’era un gran bisogno è nata
FUOCOfuochino
Gli autori Silvano Freddi, Ihll Bihto, Lorenza Amadasi, Virginia Merisi, Roberto Barbolini, Tania Lorandi, Guido Conti, Afro Somenzari, Antoine Naville, Gianni Celati, Giuseppe Pederiali, Ugo Nespolo, Paolo Albani, Brunella Eruli, Alberto Casjraghy
la più povera casa editrice del mondo
Gli autori Camillo Cuneo, Paolo Colagrande, Vittorio Orsenigo, Marzio Sergio Bini, Ugo Nespolo, Sandro Montalto, Antonio Castronuovo, Anonimo, Max Blue Berni, Mario Aldovini, Armando Adolgiso, Miklos N. Varga, Roberto Barbolini, Giovanni Maccari, Cristiana Minelli, Lorenza Amadasi, Maurizio Maggiani, Pupi Avati, Massimo Gatta
Questa nota, divulgata agli amici nel mese di novembre 2009, è stata ed è imprescindibile. Dopo la presente pubblicazione le edizioni successive a tiratura limitata continueranno il loro cammino.
FUOCOfuochino
La più povera casa editrice del mondo
FUOCOfuochino
Altre 19 edizioni sono state raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Ernesto Ferrero e tavole di Guido Scarabottolo (Arti Grafiche Castello, Viadana, settembre 2012) La distribuzione dei due volumi è affidata a Maurizio Corraini in Mantova
Le stampe in fotocopie in numero di 11 (undici) esemplari verranno spedite agli amici, sempre quelli, giusto per vessarli quel tanto che basta. In più saranno stampate 9 copie, destinate al pubblico (a prezzo variabile), ognuna firmata Prova dell’Editore. Il formato è di cm. 14,8 x 21 e 4 è il numero massimo di facciate interne per ogni edizione. In quarta di copertina ogni copia reca un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova l’originalità. Non ci sono collane, c’è un catalogo, poverissimo ma c’è.
www.fuocofuochino.it
Le prime 17 edizioni sono raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Gino Ruozzi e tavole di Gianluigi Toccafondo (Arti Grafiche Castello, Viadana, maggio 2010)
Anche se non ce n’era un gran bisogno è nata
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Ringraziamenti Famiglia Bini e tutti i collaboratori della Arti Grafiche Castello. Copyright Š FUOCOfuochino 2014
FUOCOfuochino La pi첫 povera casa editrice del mondo
tavole di Ugo Nespolo
Nella sua guida minima (ma, a dispetto delle apparenze, quanto mai attendibile) alla Repubblica delle Lettere, Antonio Castronuovo si dice convinto che «esiste una letteratura che vive di altrimenti e tutto il resto, forse, è calligrafia da scalzacani». È raro che gli autori di FUOCOfuochino lo dicano in modo così esplicito, ma in realtà tutti loro incarnano con precisione l’altrimenti dal quale puntuale ci fa raggiungere Afro Somenzari con le sue edizioni, le più povere del mondo. Un po’ come l’«ortolano della letteratura» Alfredo Gianolio, ce lo si immagina battere i sentieri meno frequentati, Somenzari (o «L’Editore», come da un certo momento in avanti ha preso a firmarsi, con impersonalità ‘patafilologica da antico erudito), a raccogliere fiori di carta che poi ci offre con infallibile discrezione, e liberalità tanto semplice quanto preziosa. Per infine comporli in almagesti dal fasto rustico e ricercato: così accostando, con mancanza di pregiudizi che si può solo invidiare, il poeta di fama internazionale all’aedo vagabondo in cui s’imbatte sotto casa, il giallista mascherato all’urlatore sgangherato che un dì fu celebre. Come il più incondito dei suoi autori, l’amico Afro «trova la vita in tutto ciò che gli altri gettano via e che raccoglie per costruire»: e la trova sempre, come nel gioco d’infanzia dal quale ha preso il nome, andandola a cercare là dove s’era nascosta. Fiori. Vengono alla mente quelli, mostruosi e seducenti, cui con ironia sottile indulgeva Guido Scarabottolo illustrando lo scorso Catalogo; ma è a quelli memorabili di Palazzeschi che fa pensare, invece, l’allegoria micidiale di Paolo Albani (di Somenzari il complice più occhiuto, il più assiduo). Come il poeta d’animo puro del carissimo Aldo, che una certa notte scopre nel mondo in apparenza più innocente – quello dei fiori, appunto – le identiche perversioni che lo hanno allontanato dal volgare consorzio degli umani («– Che meraviglia! / Lesbica è la vaniglia. / E il narciso, quello specchio di candore, / si masturba quando è in petto alle signore […] / E la violaciocca, / fa certi lavoretti con la bocca…»), così è con solo apparente impassibilità che Albani (variante ‘patascientifica o ‘pataclinica di Somenzari) denuncia il «bibliofilo sporcaccione» che se la «spassa a letto con due plaquette francesi» (e, si mormora, «per le plaquette ancora intonse poi era disposto a tutto»). Vista dal suo buco, si scopre che «dietro la sua facciata di comodo» la letteratura
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– proprio come la flora di Palazzeschi – nasconde «qualcosa di anormale, di vizioso». E non c’è reazione più comprensibile, allora, di quella del carissimo Aldo: che esasperato invoca, infine, «un nascondiglio / fuori della natura». Un nascondiglio fuori della letteratura è il territorio fantastico, l’Entroterra fatato che esplora FUOCOfuochino. L’altro versante, il lato in ombra, il buco appunto della «letteratura» intesa in senso “pieno”. Piena, si capisce, di bestsellerismo e mondanità, futili fasti accademici, buone maniere stucchevoli che dissimulano sgarri non meno che gangsteristici. La letteratura da «defurbizzare», insomma, contro la quale protesta da sempre, con zio Zavattini, il nume tutelare Gianni Celati. Quella che occupa arrogante tutti gli spazi, che si autoincorona e si autoalimenta di continuo, sempre più tronfia e sempre più irrilevante («Ma come – / come dicono di vivere – / come dicono di vivere qui così?» scriveva appunto, Celati, nel primo Catalogo viadanese). È rispetto a tutto questo che, nella loro esibita povertà, i piccoli ardori di FUOCOfuochino si sottraggono. Disertano, incrociano le braccia: come quel famoso scrivano di Melville. E rappresentano, allora, davvero un buco, un «retro» (simile a quello di una certa poesia famigerata di Corrado Costa) o, proprio, un altrimenti: l’«eleganza del bastian contrario» che l’Editore pregia nei nuovi detti del Piovano Arlotto raccolti da Aldo Gianolio. A chi con querulo puntiglio voglia sapere «altrimenti» rispetto a cosa, il «contrario» di che esattamente, basterà leggere gli «epigrammi letteroidi» di Castronuovo per farsi un’idea precisa, nomi e cognomi, di quella «calligrafia» tanto celebrata che però, una volta la si sia letta davvero, può «fare soltanto l’effetto dei fagioli». Più corretta la domanda su come si possa fare, a sottrarsi. Dove si trova con precisione questo nascondiglio, questo buco? O, per riprendere l’interrogativo leopardiano che si fa Gino Ruozzi presentando certi versi neo-lucreziani di Valerio Magrelli, «il nostro mondo non è questo. Ma qual è?». La risposta la dà – con la saggezza segreta che sempre si nasconde al fondo del non-senso – uno dei «limericchi» di Virgina Boldrini: su quella «vecchia signora di Tolosa» che «regalava le sue cose facilmente, / tanto restava ricca, nel cuore e nella mente». Dissimulato dal tono dimesso e dall’ostentata marginalità, è un preciso progetto politico a soffiare
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il fuoco di Viadana: l’energia, insospettabile ma a ben vedere non meno che rivoluzionaria, del dono nel mondo dell’utile. Dell’assoluta gratuità coltivata nell’ingrata cosmopoli che ci carcera tutti i giorni. Parafrasando l’ineffabile Mario Aldovini, verrebbe da dire: il sonno dell’utile genera i nostri. In misura minore di lui, ma con spirito dal suo non diverso, donano il loro tempo e il loro spirito, infatti, gli autori gli illustratori gli stampatori i collaboratori di Somenzari: scoprendo con un sorriso qualcosa che in cuor loro, confusamente, sanno da sempre. La letteratura “piena”, quella con cui pensa di rimpinzarsi il mondo dei “furbi”, è della stessa natura di quelle che Dante, nel XV del Purgatorio, chiama «cose terrene»: beni materiali, cioè, che – divisi fra più beneficiari – fatalmente diminuiscono. Si chiede Dante, allora, «com’esser puote ch’un ben, distributo / in più posseditor, faccia più ricchi / di sé che se da pochi è posseduto?». E Virgilio allora gli spiega che, in contrapposizione ai beni materiali e quantificabili, esiste un’altra e tutta diversa forma di “bene”: quello «infinito e ineffabil bene» che «corre ad amore / com’a lucido corpo raggio vene». Di questa natura è l’altrimenti-letteratura: quella che, luminosa, molto semplicemente si dona. L’«inesprimibile nulla» di Ungaretti, «tra un fiore colto e l’altro donato». Un nulla, un buco. Ma pieno d’amore. Andrea Cortellessa
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Tutto lasciamo dietro, annunci, pagine, sputi, odore, azzurro. La parola resta perché insopportabile, messaggio in un tunnel flessibile, verbo nel deserto in fiamme, scintille sulle rotaie di questo treno che il viaggio vede distante. Corsa e passo di uno stesso cammino, velocemente malinconico come buio e luce. Un essere che vive in più esseri e questi che esistono in uno solo. Le scarpe di Colagrande, le sue maniglie, i suoi cartelli della stazione che piangono pioggia e nebbia. E questo lui dice: “… Nella nebbia puoi solo contare su riferimenti vivi, mobili, cioè uomini e donne, che cercano anche loro di orientarsi. Solo così si trova l’orizzonte, un orizzonte magari sbagliato ma scelto insieme”.
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Paolo Colagrande
NON BASTA CAMMINARE
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La sera parlavo alle mie gambe nel suono stupido di un treno che credeva di portarmi via da casa. Ma non avevo una casa avevo un letto una cucina nera sotto una caffettiera una macchina a gas che dormiva giù in strada. E poi un fiume di asfalto dove consumavo i piedi e le scarpe controllavo il tempo con la fatica del corpo lo sforzo tirato dei polpacci bicipiti tricipiti e su un cartello bagnato appeso ai muri della stazione. Mi chiedevano: perché corri? Non lo so. Per arrivare. Per arrivare non basta camminare. Ma poi da sempre c’è una voce che mi carezza il sonno dentro il nero delle gallerie il cuore del treno che sbatte dentro il mio perché scappi? le orecchie in pressione nella testa e le righe d’acqua sul finestrino perché scappi? Lo vedi questo treno? Be’ io scappo da questo treno. Dall’odore delle ruote sui binari dalla febbre di questo scompartimento
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dalla ruggine sulle maniglie dal colore malato di uomini e donne che somigliano alle figurine incollate alle porte dei cessi. Voglio una strada storta vicino a un fiume dove consumar le scarpe. Se ancora avessi le scarpe. Sentire il peso della testa delle braccia delle gambe delle ossa. Se avessi le ossa. Scappavo più forte e preciso del tempo scritto su questi cartelli bagnati, appesi al muro gli arrivi le partenze. Più lucido e vivo del fischio di questa locomotiva scappavo svelto perché tiravo vagoni vuoti. Stazione dopo stazione, vestito d’aria elegante come uno sposo. Lo vedi questo treno? Mi ha ucciso lui rabbioso d’invidia l’istante che ero fermo l’unico istante che ero fermo su tutti e due i piedi stabile e sicuro le mani ai fianchi e gli occhi chiusi a pensare dove scappare ancora e dove arrivare. Perché non basta camminare.
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Su quel fiume di asfalto ora c’è scritto per terra: Continui a correre con noi Niente da fare. Non posso, non ho le scarpe non ho il vestito non ho il cuore il fiato e neanche i piedi gli avampiedi i polpacci i bicipiti e i tricipiti figurati non ci riesco più. Correte voi io vi guardo.
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Lavorando in un cantiere navale si sente di tutto. Gli operai, parlottando tra loro, spendono e stendono strafalcioni talmente sublimi da diventare star-falcioni da cabaret o sit comedy. Come Sandrone si scusa perchÊ la propria ignoranza non è superiore a quella del principe, qui Cuneo raccoglie alcune delle piÚ belle invenzioni, irresistibili e involontarie, di giochi di parole. Sono lapsus dettati dal quotidiano sentire, qualitativamente di gran lunga superiori di quelli degli intellettuali che dimostrano, loro malgrado, rombando di trombone e grancassa, la vera mancanza di conoscenza.
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Camillo Cuneo
STAR-FALCIONI
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Auto-particolato (Autoarticolato) Stereo-dattilo (Stenodattilo) Sciarlòp (Charlie Chaplin) A San Donato non si guarda in bocca Se muoio mi faccio cromare Per questa cosa spezzo un’arancia Vado alle isole Baldine (Maldive) Il serpente catacomba (Anaconda) Cià avuto un ixt (Ictus) Ungarest (capitale della Bulgaria) Il giro di nozze Frang Sinatro Gianni Giscanni (Gengis Khan) Ciàn un bambino din (down) La pietra emiliana della canzone italiana Asterdà (Amsterdam) Uranio poverino La Delfia (Philadelphia) Flèd Aspèl (Fred Astaire) Alfred Icioch (Hitchcock) I Pinosauri Madam Ussein Orfeo e Giulietta Leopardo da Vinci 21
Il lancio del giambellotto Scote Laniar (Scotland-Yard) Scerlo Comps (Sherlock Holmes) Cian trovato un tumore al cancro Andare con i tasti di piombo Il monnolocale ciattrè stanze Non si può piangere sul latte macchiato Gi facciamo una bella bagna sauna Sexa-pile (Sex appeal) Repubblica centro avariana Laltro pologo Bassa nova Giorgio Gabriel (Giorgio Gaber) Galcio barilla Flesch brek (Flashback) Bel-caut (Black-out) Sabeto sera siamo andati in biscoteca Cian regalato il dabìro Pink froid Il gobbo di rotterdà (Notre-Dame) Santa madonna di campeggio (Madonna di Campiglio) Il tallone da killer Cuello-lì è un marciantonio Dammi un po’ l’errògarafo 22
Il monte cuello dell’afriche…il Kilimangiato Nel mondo prima o poi ce viene unpodicalisse È un nigerino È un algeriano È un giziano Chi più ne à lo ammetta La torr i fer (Tour Eiffel) Non dire allo zoppo che deve zoppicare Bombe al nepal Non mi fare uscire dai gamberi La vena giubilare della gamba Fiasco de gama
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Lo stesso Varga spiega la struttura dei suoi versi: “Si tratta di mezzi sonetti (7 versi) che si possono leggere su tre piani: intero (7 versi), versi più lunghi (4), versi corti (3). Questo per significare l’ambiguità dell’interpretazione multipla e semplice quanto l’architettura allineata (paranoica!) della composizione”. L’editore non avrebbe saputo dire di più né meglio, perciò si limita a sottolineare la forza di gravità delle parole multipla e semplice usate dall’autore, come il suono di sette bandiere e il soffio di una balena.
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Miklos N. Varga
MOMENTI
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Ritorno Memori segni d’amicizia mutanti nella mente le immagini del sentire parole già promesse come ritorno al dialogo scritture nel tempo altro sistema di valori
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Notturno insonni testimoni di vita presenze di paesaggio come richiami nella notte le ombre del pensiero e riflettere altre verità in viaggio senza mèta verso l’esilio dell’anima
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SocietĂ sfide nel senso comune la societĂ insegna i riti delle apparenze dal tutto al nulla ogni causa in ostaggio ipotesi di riforme nei tempi senza gloria
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La stanza di Francesca Bonafini è un testo pneumatico. A leggerlo supini si rischia di restare soffocati da spifferi ineguagliabili, da posizione prona, invece, una marea improvvisa potrebbe avere il sopravvento. Siamo al cospetto di un acquario dove vocali volano assenti e indisturbate e in una voliera in cui nuotano intere parole dalla trasparenza amaranto e anche un po’ ruvida. L’atmosfera del racconto è scura come un pozzo, inquietata da ombre patologiche e strozzata dalla persistenza dell’impossibile mentre il silenzio trionfa, come auspicabile per tutte le discipline.
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Francesca Bonafini
LA STANZA
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Ma io non l’ho mica mai capita questa faccenda balorda della gente che ha in gola sempre le parole da dire belleppronte a scorrere lisce giù per la lingua ed eccole lì che escono fuori a far la loro figura. Invece a me, mi ci vuole tempo lungo per farle scendere in bocca, le parole. E non è neanche sicuro che dopo ore e ore di travaglio si presentino organizzate funzionali comprensibili e significanti e insomma ho da rimandarle ancora dentro a vedere se riescono infine a mettersi d’accordo. Epperò bisogna anche capirle, poverine, perché stanno insieme ammassate in una stanza angusta ed è ovvio che fatichino a restar ferme tranquille senza litigare (che hanno tutte un sacrosanto punto di vista e ci tengono a farlo presente e pretendono che ogni ragione sia considerata) e infatti il baccano si sente eccome e mi tocca anche starci sveglia la notte e dopo mi nasce il nervoso a vedere la gente che dorme e io invece no. Non la sentono mica la cagnara? Mi viene il dubbio che quelli lì non ce l’abbiano, la cagnara delle parole. Che magari la stanzetta piccola la tengano in ordine. Che magari abbiano un bel tavolo con tutte le pile di parole già organizzate. Che magari ci sia qualcheduno che gliele organizza. Che magari ne facciano entrare poche, così stanno larghe e beate e non ci sono pretesti per discussioni. Non lo so il perché, ma io le parole le lascio che vengano dentro da tutte le parti e che rimestino. Hanno spaccato le certezze che avevo in dotazione e mi è venuta la paura giù nella pancia perché adesso c’è mica più niente di preordinato. E loro lì, le parole, a balbettare. A volte mi sembra che scendano in bocca con l’intenzione di uscire, e invece vengono a dirmi che, di fuori, preferiscono stare in silenzio.
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Il nonsenso inizia quando finisce il senso. Direi che il nonsenso ha un senso quando non ha senso il senso. Su questa linea sottile di demarcazione tra senso e non senso, un confine labile che sfora di qua e di là, tra senso e non senso, vive il limerick, componimento poetico che prende il nome da una città dell’Irlanda che produce lana e coltelli, e non sarebbe famosa se non avessero inventato un componimento poetico che porta il suo nome. È un limite come un sonno, dice l’autore Mario Aldovini, che genera molto Mario Aldovini. Undici componimenti di cinque versi rimati AABBA con l’ultimo verso che contiene il nome del protagonista. Leggi ferree per un componimento che ha dalla sua la massima libertà espressiva. Dall’attrito di questi due modi, schemi ferrei e libertà di senso fino al non senso, nasce il limerick di Mario Aldovini. Bestrice, Astrice e Monstrice costruiscono una catena di limerick dove un istrice ha crisi d’identità e pensa di essere un astice o un monstrice che vive tra il Belice e Monselice. Canto degli Emigrantici e Un istrice felice chiude la catena che passa così da tre a cinque limerick sorprendendo il lettore. Toh! E per colpa di una rima cambia anche nome a Bèlice che diventa Belìce, e così si finisce a Gela. Tra ragni di Gela e la pia Ermellina di Bolzano, possiamo alla fine chiudere dicendo che questa raccolta di componimenti altro non è che un bestiario, con un topo di Lubecca, il rinoceronte di Bronte e il Caimano di Limpopo che piange. Avendo iniziato con un non senso, siamo ritornati al senso: il FUOCOfuochino s’intitola La saga degli Istrici, e adesso ritorniamo al non senso, così si chiude il cerchio e buonanotte! Guido Conti
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Mario Aldovini
LA SAGA DEGLI ISTRICI UNDICI LIMERICCHI
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Il sonno della ragione genera molti. Mario Aldovini BESTRICE Sulla strada del Bèlice c’è un istrice che s’attacca gli aculei col mastice. Le lumache in velocipede schivano rapide l’appiccicoso istrice del Bèlice. ASTRICE Un altro allegro istrice del Bèlice per ridere diceva “Sono un astice!” ma quando, serio, un cuoco scaldò l’acqua sul fuoco non rise più, l’altro istrice del Bèlice. MONSESTRICE Stanchi di rime che li rendon comici via se ne vanno gli istrici dal Bèlice. “Basta coi risolini non siam mica cretini” dicono, e parton tutti per Monselice. CANTO DEGLI EMIGRANTICI Siam venuti, noi istrici del Bèlice, a cercare fortuna qui a Monselice: abbiamo patito e abbiamo capito che troveremo qui una vita fèlice.
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UN ISTRICE FELICE Un solo istrice resta, ed è felice che la pronuncia giusta sia Belìce. “Rima liberatoria mi cambi vita e storia!” canta nel suo negozio di camicie. UN RAGNO A GELA Informa la TV che un ragno a Gela, provando schifo per la ragnatela, di mosche si fa scorta col fucile a canna corta, quel brutto ragno mafioso di Gela. L.A.V. Una pia ermellina di Bolzano voleva andar dal papa in Vaticano: ci finì, e non sola, ridotta a stola la devota ermellina di Bolzano. CARATTERE Ho un carattere, ammetto, poco stabile vorrei però una vita meno flebile rendermi disponibile a qualcosa di nobile ... ma lascio perder tutto: son volubile.
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UN TOPO DI LUBECCA Un topo tabagista di Lubecca se ne fumava ogni notte una stecca e poi per tutto il giorno vagabondava intorno l’insonne topo fumoso di Lubecca. IL RINOCERONTE Aveva casa, moglie e figli a Bronte un gelosissimo rinoceronte che molto si arrabbiava se qualcuno domandava “Cu fu a mettirci lu cornu in fronte?”. IL CAIMANO Un grasso coccodrillo del Limpopo ripete che la vita ha un solo scopo e a chi chiede spiegazioni dice tra i lacrimoni “Se ti avvicini lo capisci... dopo”.
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Ho trovato tra le mie cose preziose un regalo di tanti anni fa, 1986. È “Il fecale” di Diego Rosa. Ho avuto un sussulto perchè mi sono tornate in mente le parole del mio maestro Deselby quando ne ha parlato a Codemondo, dove finisce il mondo. “Nel corpo a corpo culinario si esprimono migliaia di corpi: mille bocche inghiottono, mille ani espellono, mille ventri brontolano e migliaia di cibi, preparati, socializzati, sognati, li assaltano l’uno dopo l’altro, giocando con destrezza con le istituzioni, esplodendo nell’immaginario, alternativamente e simultaneamente. Citava l’amica Noelle Chatelet. Veniamo dunque a “Il fecale”, da cui è tratta questa Ode: poesia diretta, un percorso intellettualmente altro che va dalla macchina bocca alla macchina ano per irrorare il cervello. In questa società che l’industria ha ridotto a soli due sensi, la vista e l’udito, “Il fecale” ci rende sinestetici, consapevoli di noi stessi tutti interi. Anch’io ho la mia citazione da fare e un consiglio da dare. La citazione è da Flaubert: “non faccio altro che soffiare, sudare e bavare, sono una macchina per fare il chilo, un apparecchio che fabbrica sangue che pulsa e mi frusta il viso, merda che puzza e mi imbratta il culo”. Il consiglio: leggete “Il fecale” seduti a un tavolo di un’osteria o in casa vostra con amici seguendo le parole con uno stuzzicadenti perchè è dalla bocca che tutto inizia. Gigino Rafedi
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Diego Rosa
ODE
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Le mandibole ruotano / e incespicano su questo spezzatino /davvero divino. Tra le gambe / mi gratto e poi digerisco amatamente. Assaggia queste acciughe / salate non troppo ma bastanti per bere. Mi tengo lontano / dal cesso e decido di cagare poi / prima un calice/ ghiacciato di vino perlaggiato e secco / come una montagna di noci e un segno / nero su foglio bianco. Mi rivesto perchè penso / che nudo potrei bollirmi le emorroidi potrei / farle scoppiare in una scodella di agnoli / mentre l’intestino pieno di aria si sgonfia / ripiegando sulla puzza che da giorni ristagna / frollando marroncina come una vecchia / oliva in salamoia. Due capperi / e due tettine bianche come il latte / il latte che produce copiosa diarrea / mentre nutre perfetto per le sue qualità . Amo le salse / che mi bruciano dentro fino a scoppiare / in un immenso cioccolato odoroso / che copia non teme qualsiasi sia l’originale / ammesso ne esista uno innominato / e innominabile. Oh brasato brasato / e piccole verdure che fermentano dentro / diventando poi grandi grandi gonfiandosi / fino a divenire aria aria aria / odorosissima saporitissima / intensa come un caldo vomito. Scivola il vino / tra i denti a togliere 51
detriti carnosi / e dal sapore amaro sapore di calde / lacrime d’amore. Succhierei quella / testina di porchetta in mezzo agli occhi / alla sommità del naso dove genera il muco / e batte senza pietà la sinusite o chi per essa / per poi scendere fino alle labbra / per condire ogni parola. Oh geniale vinaigrette / che mi permetti la saggezza. Ho messo il vino / sui tortelli ad orgasmare con la zucca / tra i peli di una prossima anguilla marinata / ah con lei non c’è vino che tenga / penso all’ostrica carnosa e alla mia bocca / umettata del suo liquido mentre / spezzo il fegato grondando gocce di vino abboccato / sul sesso per profumare / ciò che normalmente ha profumo suo naturale. Un giorno metterò / un leggero pigiama di brodo di piccione / per un’avventura fuori dal normale / con contorno di cuori di palma su / un letto di fragole e panna mentre la pentola / a pressione scoreggia sul fuoco. Amabile trippa / intesino marcescente brodoso e carico di sapori. Dopo di te / ossi buchi con piselli per cagare verde / un verde piu’ scuro e con un diverso aroma / fino a spalmarmi il cavo orale / con l’umore di un rosso cotechino / fumante e grasso. Dio mio quelle bianche / palline di grasso su quel rosso gustoso / e quel vino forte 52
che vince il formitrol / e spumeggia altero sferzando dove tocca / fino a quando titillano quelle vene turgide / così amate perchè là in fondo / assaporano ogni cosa: i denti triturano / e lavorano stronzi che sono / non assaporano il nettare dell’intestino / quella poesia fatta di scambi di baci / di miasmi di vapori di sapori turbinanti / volubili vivi. Scoppia la biologica / e libera la vita. Quel denso odore / di vino che pervade le budella / mi conduce verso tutti gli altri cibi / che ho dimenticato e che vedo / satrapi assatanati richiedere la / loro parte di intestino la loro sublimazione / la loro via d’uscita il loro contributo / a questa ode dolcemente flatulente / intensamente puzzolente.
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Barbolini non gira in automobile, lo so per certo perchè ho amici che lo frequentano, ma con una nave volante. Ha già fatto tanti di quei viaggi che lui stesso non se li ricorda tutti: è entrato, per dire, nell’universo cosmico passando contromano sulla curvatura dello spazio-tempo, ha visto pianeti, nebulose, nane bianche e nane brune ed è anche entrato dentro la massa mancante intergalattica dove ha incrociato il motore immobile di Aristotele, l’Argo di Giasone, l’Albatros di Robur e lo scatolone volante di Cyrano de Bergerac. Di solito viaggiando ruba: l’ultima volta ha rubato la bellezza, lasciando dietro di sé un’eco lacrimoso di filosofi e poeti che adesso la rivogliono indietro. L’ha messa sul tavolo come fanno i veterinari coi cani e i gatti, l’ha studiata, l’ha misurata, le ha provato la pressione. Ne ha parlato poi con Shakespeare e Keats ma anche con Foscolo, Bradbury, Leopardi, Gauchet, Omero, De Andrè, Dio. Anche con Manganelli, mentre facevano merenda. Poi dice di averla lasciata libera, negli spazi interstellari. Ma non è mica vero, ce l’ha ancora lì in casa sua, in una cuccia in tinello, ogni tanto la porta fuori di nascosto, tenendole il guinzaglio corto. Se non ci credete provate a leggere. Paolo Colagrande
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Roberto Barbolini
DIECI COMANDAMENTI PER L’USO PERSONALE DELLA BELLEZZA
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Premessa La bellezza viaggia al buio. Come la luce negli spazi interstellari. Primo comandamento Mai esagerare con i trip. Anche per la bellezza, come per le droghe, esiste la modica quantità. Se la qualità è buona, perché non dovrebbe bastare? Se ne sconsiglia perciò lo spaccio su larga scala, raccomandandone invece un uso personale, meditato, mai ideologico né metafisico. Ma neppure prêt à porter. Secondo comandamento Vietato mettersi in posa davanti ai posteri. «Cosa hanno fatto finora per me?» si chiedeva sospettoso Groucho Marx. Non si fidava assolutamente di loro, e faceva bene. Evitiamo di sentirci già contemporanei del futuro: è la bellezza che deve essere nostra contemporanea. Solo cercandola nelle pieghe del tempo che ci tocca vivere possiamo renderle giustizia. Terzo comandamento Per tener vivo il senso della bellezza nelle generazioni future, bisognerà ispirarsi al modello Fahrenheit 451. Ricordate? Quel romanzo di Ray Bradbury dove una schiera di eletti fagocitava i libri del passato destinati al rogo: se li imparavano a memoria, trasformandosi in veri e propri uominilibro. O, se vogliamo, in i-Pad avantilettera. Le meraviglie dell’elettronica non devono farci dimenticare la nostra natura di pròtesi viventi. Persino Stephen King, che oggi scarica i suoi romanzi direttamente su Internet, ha scritto che «il miglior programma di videoscrittura del mondo rimane la penna». Quarto comandamento Ritrattazione del modello Fahrenheit. Divorare troppi libri può far male. Nei confronti dei classici va applicata seppure con criterio la
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dieta di Polonio, che Amleto ha spedito non là dove non si mangia, ma dove si è mangiati. Quinto comandamento Non avere paura degli stereotipi; per Omero il mare era sempre “color del vino” e l’aurora “ditirosata”. In fondo, mi ha detto una volta il mio amico Guido Fink, che cos’è lo stereotipo, se non quello che accettiamo negli altri e ci disturba se applicato a noi? Sesto comandamento Solo partendo dal basso ci si può appropriare del cliché senza esserne fagocitati, smontandolo nello stesso momento in cui viene applicato. Bisogna manipolare i generi per non esserne solo manipolati. Prima di storcere il naso, mai dimenticare che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior» (©Fabrizio De André). In effetti è difficile negare che, oggi, i migliori romanzi sono spesso graphic novel. Un genere che fu di massa, il fumetto, dà i suoi frutti più succosi in questa sua forma sperimentale e d’élite. Postilla Flaiano diceva che «il fumetto è l’unica manifestazione dello spirito odierno che si avvicina all’eternità: difatti, “continua”». Settimo comandamento Come antidoto al disincanto del mondo, che pure approviamo, recitiamo come un mantra la seguente frase di Marcel Gauchet: «L’arte (…) è la continuazione del sacro con altri mezzi». Ottavo comandamento Come antidoto all’antidoto, ripetiamo q.b. la seguente frase di Maurice Blanchot: «Mai potrai conoscere ciò che hai scritto, anche se lo hai scritto soltanto per riuscire a conoscerlo».
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Nono comandamento Diffidare di tutta quella poesia pseudofoscoliana, di quello stil sublime da Tour operator della parola ritrovata, che è il “vorrei ma non posso” di tanti mediocri in buona fede. Comandamento decimo e ultimo, ovvero: IL PARADOSSO In mancanza di autentica grandezza, è sempre meglio quel pizzico di genuina malafede che ci rafferma nell’idea di una letteratura come menzogna. È l’unico modo, paradossale, per cercare di DIRE LA VERITÀ: se non proprio quell’assoluta verità che per Keats coincide con la bellezza, almeno tutta la verità che ci è possibile, attraverso quanto c’è di più menzognero: le parole. Corollario personale Bella pretesa, non c’è che dire. Che mi condanna a maschere e falsetti, in un’ansia di «rovinare le sacre verità», sminuendole e travestendole fino a riproporle in termini apparentemente blasfemi. Se è vero che l’ateo è forse l’unico a dare ancora importanza a Dio, questo mio bestemmiare ciò in cui credo profondamente ha magari un senso. Ma è un senso sempre sfuggente, da rincorrere ogni volta sulla pagina, senza mai inorgoglirsi ma pure senza troppo cedere alla disperazione e al caos. Tutto questo non ha forse a che fare con la bellezza? Certe volte mi rispondo di sì. EPILOGO Come la luce negli spazi interstellari, la bellezza continua il suo viaggio. Nel buio.
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Il buco della letteratura è il punto di vista originale in cui si riflette il mondo; non è altro dal mondo, è il mondo nella sua essenza, curiosamente letterale. Paolo Albani regala ancora una volta un serio divertimento, che fingendo di scherzare dice molte cose sulle attrazioni primordiali e la sensualità corporale, sul piacere irresistibile dei libri, non solo quello che noi proviamo verso di loro ma soprattutto quello che essi provano verso di noi. Entrambi legati per la vita. Gino Ruozzi
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Paolo Albani
DAL BUCO DELLA LETTERATURA
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Lo ammetto, è una mia debolezza: mi piace guardare dal buco della letteratura. L’ultima volta che l’ho fatto ho visto un tale sdraiato sul letto, avvolto in una vestaglia di seta, che lentamente spogliava le pagine di un’opera poetica, le accarezzava morbosamente, le toccava in ogni parte intima, eccitandosi di fronte ai sospiri, ai gridolini di piacere dei versi più audaci che quelle pagine gli regalavano. Francamente non so come ci si possa ridurre a una simile feticistica dipendenza nei confronti della poesia. Tempo fa dal buco della letteratura mi è capitato di osservare un signore vestito di nero come un banchiere della City di Londra che si sbaciucchiava e leccava voluttuosamente gli indici di un libro di economia. Era un signore di Milano che andava matto per gli indici, indici di ogni sorta: generali, delle illustrazioni, degli autori citati, dei luoghi geografici, di borsa, del costo della vita, d’ascolto, ecc.; più dettagliati erano gli indici e più quel signore di Milano si scaldava e perdeva la testa; se poi gli indici erano analitici allora prendeva un frustino a cinque code e li percuoteva con forza gemendo come un gatto in amore; ma il massimo del godimento lo raggiungeva leccando l’Indice dei libri proibiti che si procurava da un bibliotecario compiacente e pervertito come lui. Un’altra volta dal buco della letteratura ho visto uno scrittore piegato a angolo retto sopra una scrivania che si faceva sodomizzare da un dizionario; era una scena davvero poco edificante; li sceglieva con cura i dizionari, andava in giro a scovarli nei posti più appartati, equivoci; le sue preferenze erano per quelli bilingue e analogici, i più aitanti e viziosi che c’erano, a suo parere, sul mercato della prostituzione linguistica; gli piacevano molto anche i dizionari dei neologismi, li trovava particolarmente dotati, atletici nella loro singolarità; tuttavia la prestazione da cui riceveva l’appagamento più completo era quella dei dizionari enciclopedici che riuscivano a dargli, diceva lui, «un piacere assoluto». Ne ho viste tante di cose strane spiando di nascosto dal buco della letteratura. Ricordo ad esempio un rilegatore di Catania, capelli neri unti di brillantina, basette lunghe e 67
lo sguardo da mafioso, che se la spassava a letto con due plaquette francesi, due smorfiosette dalla rilegatura indecente; più minute erano le plaquette e più lui, che era un bibliofilo sporcaccione, si divertiva e si sentiva maschio; per le plaquette ancora intonse poi era disposto a tutto, a indebitarsi e pagare cifre esagerate; sembra che per questo suo vizietto, cui non sapeva rinunciare, sia finito sul lastrico e abbia passato qualche annetto al fresco. Un altro me lo ricordo in ginocchio davanti a un divano che sbavava dietro il corpo originale di una prima edizione; era un nanerottolo non più alto di un metro e venti che aveva un debole per le pubblicazioni di una certa età, vecchiotte, meglio se sgangherate; le giudicava irresistibili e libidinose; era questa la sua perversione: l’amore per il passato, il che non vuol dire che fosse un passatista, solo che si sentiva attratto sessualmente da una pagina sdrucita, s’infiammava vedendo un dorso avvizzito, un piegamento irregolare, una macchia, una copertina illeggibile. «Il tuo dorso maturo, flaccido, mi fa letteralmente impazzire», sussurrava il piccoletto alla prima edizione che gli stava di fronte, discinta sul divano e in atteggiamento provocatorio come solo le vecchie edizioni, che hanno alle spalle una lunga esperienza d’intrallazzi amorosi, sanno inventarsi quando vogliono. Una certa tristezza, sbirciando dal buco della letteratura, mi fece un giovinastro dall’aria contemplativa, melanconica, sorpreso in piena esibizione di autosufficienza dato che si masturbava freneticamente davanti a una procace copia anastatica di un libro polacco, anche lei nell’atto di masturbarsi. Facevano entrambi molta tenerezza: il giovinastro, sconsolato, che si masturbava quasi controvoglia, con rabbia, come avesse voluto dimostrare a se stesso una maturità virile che gli mancava, e la copia anastatica, quattrocentoventisei pagine più l’introduzione, giunonica come certe bagasce dei bordelli dell’est europeo, che si capiva bene che si toccava da calco navigato, mestierante, simulando ripetuti orgasmi solo per soddisfare le voglie del suo amichetto occasionale. Io penso che guardare dal buco della 68
letteratura non è solo un fatto voyeuristico, un comportamento da degenerati, immorale; ritengo al contrario sia molto istruttivo poiché s’imparano tante cose guardando da lì, dal buco della letteratura, ad esempio, e non è poco, che la letteratura nasconde dietro la sua facciata di comodo, i suoi artifici manierati qualcosa di anormale, di vizioso.
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La prima azione della sua vita, confessa Robert Jones, fu afferrarsi il naso con entrambe le mani. La madre se ne accorse e gli disse che era un genio. Per quel gesto ebbe in regalo dal padre un Trattato di nasologia che ben presto il giovane imparò a memoria. Un giorno, raggiunta la maggiore età, il padre chiese a Robert qual era lo scopo principale della sua esistenza. È lo studio della nasologia, rispose Robert, facendo adirare il padre che lo buttò fuori di casa a pedate. Dopo quella esperienza Robert scrisse un pamphlet sulla nasologia ricevendo da numerosi giornali commenti entusiasti: «Che tipo intelligente!», «Ottimo scrittore!», «Filosofo profondo!», «Grand’uomo!», «Anima divina!» Chissà se all’astuto Ambasciatore che si rivolse al Re dei Nasi chiamandolo «Vostra Mucosità», di cui ci riferisce Carlo Battisti, sarebbe piaciuto questo racconto di Egdar Allan Poe. Paolo Albani
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Carlo Battisti
VITE SEGNATE
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VITE SEGNATE Ah che sgomento gente mia quando quella certa operazione aritmetica partorì il povero sciagurato! Era egli, infatti, uno zero: un povero zero solo soletto che meno non c’era nella gerarchia dei numeri. E certo un destino sinistro si poté subito intuire in quella sottile linea circolare chiusa da ogni lato, senza una punta, dico una, che lasciasse sperare nella più tenue delle opportunità… Ed infatti ad un così infausto natale corrispose una altrettanto tragica fine. Si, perché bisogna dire che il povero numerino covava, alimentato da una devastante frustrazione, un comprensibile desiderio di riscatto che, però, gli fu fatale. Morì soffocato da una sottile quanto inesorabile cintura, stretta in vita sino all’inverosimile, nel disperato quanto vano tentativo di sembrare un otto. VIAGGI Questa è la storia del viaggio intrapreso da La Formica Coraggiosa, fermamente decisa a conoscere fin dove l’avrebbe portata quella strada bruna e fredda. E si incamminò su un anello di ferro che cingeva una colonna. RE DEI NASI … e l’inedito titolo di “Vostra Mucosità” con cui l’astuto Ambasciatore si rivolse a Sua Maestà il Re dei Nasi conquistò subito la simpatia e la fiducia dell’umido Sovrano.
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Cosa c’entrino i bovi con le pie donne e i nonni, si evince forse dal dato di fatto che, in questo racconto di Butazzi (Buzzati era suo zio da parte di madre), gli intenti si mescolino pur essendo già fuorvianti alla base. Strutture e tempi si alternano in una lenta e implacabile perdita di coniugazione. Il gioco letterario si scioglie e coagula, attende e sottende, s’addormenta e veglia, aleggia sul sopruso di uso comune il quale risulta godibile per effetto delle passioni, una rincorsa ai primordiali esercizi di cibo e sesso. Ma non è questo che suggerisce l’autore, e se non è questo, sorge il problema della soluzione, che non c’è, se non in senso bandelliano.
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Renzo Butazzi
BOVI, PIE DONNE E NONNI
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Come tutti, donne uomini e bestie avevo due nonni ufficiali dei quali passavo per essere nepote, come incidevano allora. Essendo io nato all’età della pietra. Che quando ho avuto bisogno del certificato di nascita all’Anagrafe hanno trovato una lapide che mi ci è voluto un barroccio con due bovi per portarla a casa. Così che però purtroppo le ruote del barroccio si sono troncate, siccome i bovi non erano punto pii e neppure da amare, anzi forse un po’ odiosi per le immani cacche che lasciavano sul percorso e talvolta anche su pel Corso. Inoltre spesso erano alticci per il liquore di grano saraceno che bevevano, e sparavano dei rutti che d’estate facevano cadere tutti i fiori delle ginestre, rutti giustamente conosciuti come il rutto bovino. E poi facevano cadere anche le roselline selvatiche e sempre, grazie - prego - al rutto bovino, pure provocavano cascate di ghiande. Laonde per cui tra gli amici più intimi avevano scrofe e maiali grandi gustatori di ghiande purché siano quelle che gli piacciono perché quelle di leccio non piacion loro. O forse mi sbaglio? Per via di questi soffioni bovini con rumore - detti rutti bovini come appunto ho detto o anche rutti di bestie vaccine - che abbattevano i fiori, le pie donne che di maggio facevano la Fiorata sui selci del selciato un giorno li chiamarono. Facendo pissi pissi pio pio, li distrassero un attimino e trinciarono loro la carotide con i forbicioni che usavano per tagliare i fiori da offrire alla Madonnina disperdendoli per terra, che era proprio la Fiorata. I bovi scannati dalle pie donne non vennero dispersi per terra ma furono tramutati in bistecche che le sempre pie donne
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portarono ai poderosi fratacchioni del vicino convento. Detti religiosi, per ricompensa, si giacquero secoloro carnalmente e itticamente e le pie femmine ne trassero il giusto godimento. Il che fece infuriare i mariti delle donne che non erano pii ma bestemmiavano a quell’iddio, come uno dei miei nonni il quale anche beveva ponci, essendo livornese, e fumava il toscano. Egli di mestiere faceva la guardia del dazio alle porte di Siena e so che un giorno, infilando un lungo punteruolo con nicchia in cima che veniva usato per sondare i sacchi di patate e vedere se, anziché patate c’era piuttosto il grano, spinse troppo. Avvenne così che invece di grano e patate infilò le chiappe di un villano, detto anche bifolco o bifo per abbreviazione. Codesto manigoldo s’era nascosto sul carro per non farsi vedere dalla moglie quando intendeva andare in città alla Locanda’ del Lupo in Fregola, dove c’era sempre qualche donna di malaffare con la quale coricarsi a buon prezzo. Il villano tacque stoicamente, anche se lui non sapeva cosa volesse dire, ma se ne accorsero le guardie e gli astanti - che neppure gli astanti sapevano cosa vuol dire astanti e men che meno stoicamente - quando videro che dal carro cadevano gocce di sangue rosso, dunque di villano non essendo blu. Il villano venne tirato fuori e, come si usava allora con i villani, fu medicato con veli di cipolla che gli stagnarono il sangue. Una volta stagnato le guardie del dazio se ne impossessarono perché lo stagno rosso valeva un sacco di scudi, ma non denunciarono il villano. Per questa volta altro dirvi non so di tal nonno che chiamavasi Federigo, in famiglia Ghigo.
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Dell’altro, che si chiamava Giuseppe, in famiglia Beppe, potrei parlarvi un’altra volta se avetevi interesse. Tale interesse però, deve essere dimostrato con numero due bottiglie di vino di costo medio 6 euri al mio domicilio. L’indirizzo però non ve lo do perché poi, con la scusa del vino, venite sempre a sbattermi il batacchio del portone o mi scrivete lettere di insulti.
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La teoria del Bottone mancante (Francesco Altante, 1922) è sempre stata motivo di grandi discussioni teoricoscientifiche fino al momento in cui, nel 1978, l’antropologo francese Louis Sertach-Badille scoprì il fenomeno della Asola passiva che dimostrava in maniera lampante l’esistenza dell’anti-tessuto. Curioso come tutto fosse nato dallo studio del Vedo e non vero (1901) dello storico dell’Arte Helmut Bermutter, basato sulle forme del dipinto La sorgente che Jean Auguste Dominique Ingres realizzò tra il 1820 e il 1856. Anche Hans Tuzzi segue la linea della bellezza prendendo in esame il caso Zizi Bambula e allude alla continua filastrocca propugnatrice di falsi, refusi e contaminazioni che ci viene somministrata da scienze, storie e religioni rivelate. Lo fa in punta di bisturi per non risvegliare ambigue teorie e per destare curiosità nei confronti di piccoli racconti che, come accade per i giochi, mostrano più verità, più desiderio e soprattutto più libertà.
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Hans Tuzzi
ZIZI BAMBULA
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Nel 1908 a Parigi un impresario annunciò che avrebbe esposto al pubblico Zizi Bambula, l’unico esemplare vivente noto dell’anello mancante, la creatura che aveva permesso alle grandi scimmie antropomorfe di diventare uomini. La curiosità lambì anche il mondo scientifico. Non che ci si attendesse davvero di trovarsi di fronte al “missing link” darwiniano, ma l’annunciato uomo-scimmia (o meglio: donna-scimmia, poiché Zizi Bambula era una femmina, come quel tanto di vezzoso del nome poteva ben fare supporre) avrebbe forse potuto smentire una volta per tutte le leggende su incroci fra uomini e gorilla, fra uomini e oranghi. Che poi “orang”, nei dialetti malesi, significhi “uomo” e che in origine il termine “orang utan” servisse a indicare le primitive tribù che vivevano nelle profondità delle foreste indonesiane, come i kubu e i wedda, non è che uno di quegli scherzi linguistici dei quali la storia delle scoperte zoologiche abbonda: le alche, i primi uccelli chiamati pinguini, non erano, si sa, né pingui né pinguini, bensì “pen gwyn”, teste bianche. Può fare una certa impressione pensare che solo cent’anni fa, quando già l’uomo si apprestava a bombardare i suoi simili dal cielo, si potesse ancora credere ad incroci fra uomini e scimmie antropoidi, eppure soltanto fra il 1937 e il 1941 le ricerca di Ralph von Koenigswald a Giava permisero di datare definitivamente i resti di pitecantropo ad almeno trentamila anni fa. Benché già nel 1850 Otto von Kessel avesse descritto con grande precisione l’orang utan zoologico (la grande scimmia) separandolo nettamente da quello etimologico (gli indigeni delle tribù wedda), fu proprio la teoria darwiniana vulgata e distorta dalle gazzette a rilanciare presso il grande pubblico la speranza di trovare, nelle giungle indonesiane, il favoloso “uomo dei boschi”. Che poi gli evoluzionisti abbiano posto gibbone e orango ai gradini più bassi della scala degli antropoidi, privilegiando gli scimpanzé bonobo con i quali dividiamo il 98% del patrimonio genetico, questa è un’altra piccola burla della storia. Comunque, nella Parigi del 1908, la Parigi della Belle Époque, di Debussy, di Proust, di Liane de Pougy, di Picasso e di Modigliani, di Djagilev e d’ogni avanguardia dell’arte, per Zizi Bambula si era creata una certa aspettativa. Era la Parigi di Claude Lantier, il protagonista del romanzo in cui il campione del realismo Émile Zola getta la spugna, ammettendo che non è possibile rappresentare la contemporaneità concentrata in una grande metropoli con il linguaggio della realtà, e trasfigura Parigi nel corpo di una donna. La povera Zizi Bambula altro non era che un triste scimpanzé femmina reso completamente glabro da una malattia della pelle. 89
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Io questo Mammi lo conosco bene, perdio. Si dice in giro, negli ambienti solitamente ben informati, che Gianfranco Mammi non esista, invece eccome se esiste ed è un gran farabutto. Di chi credete che siano i pensieri che vengono pubblicati in questo libretto? Di Gianfranco Mammi per caso? Di quel tizio lÏ che ha messo il suo nome sulla copertina? No! Questi pensieri sono miei e il signor Gianfranco Mammi me li ha rubati mentre dormivo. Figuratevi dunque di che pasta è fatto. Antonio Stenelli
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Gianfranco Mammi
RIMEDI NATURALI
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Certezza Le guerre tra poveri forse un giorno spariranno. Le guerre tra coglioni, non credo. Anniversari Certo che in centocinquantuno anni ne abbiam fatte di cazzate. Rumore Manzini, per meditare, si concentrava sul rumore del condizionatore. Ambiente Habitat scarsamente antropizzato vuol dire che c’è poca figa. Interessante L’altro giorno alla tele han detto che un essere umano produce in media sei tonnellate di escrementi, nel corso della sua vita. Ecco, questa è una cosa che me l’ero sempre chiesta. Peso Io all’acqua preferisco la birra perché ha un peso specifico più alto. Francese Oggi il francese è più che altro una lingua africana.
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Rimedi naturali Contro la depressione, la figa aiuta molto. Arti marziali Martinelli va in giro a dire che lui è cintura nera di sushi. Le belle novità Ecco, la forfora nelle sopracciglia, quella ancora mi mancava. Gelosia Peretti era molto geloso di Vannini perché Vannini aveva un cane con la stessa espressione di sua moglie. Esempi Uno magari pensa che un grassone sia sempre stato grasso o un mingherlino sia sempre stato magro, ma non è così che funziona. Io per esempio è un periodo che sono grasso. Sui gemelli Io se avessi due gemelli, o anche tre, li vestirei sempre in modo diversissimo, da non sembrar neanche parenti.
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Problemi Dice Bartoletti che lui ha dei problemi a macchia di leopardo. 25 Io se mi dicessero che mi restano venticinque minuti da vivere mi farei una birra media alla spina. Linguaggio A volte ho l’impressione che il linguaggio dei cani non lo capiscan mica bene neanche i cani. 40 A me la pancetta è venuta a quarant’anni e un giorno, durante la notte. Sogni Era un sogno strano. Ci ho fatto anche una bella figura.
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Al fuoco, al fuochino! Di poeti incendiari che finiscono pompieri a tutt’oggi sono pieni i cimiteri. Poi ci sono i finti pompieri, in realtà incendiari, i forestali che danno fuoco al bosco sacro della poesia per precipitarsi subito a spegnere l’incendio e guadagnarsi così una piccola rendita d’opposizione, che in realtà è di posizione: molto fumo e poco arrosto, finché qualcuno non li dichiara in arresto. Ma il fuoco è un elemento primordiale che non perdona; e nulla sfugge allo spirto guerrier ch’entro gli rugge. Questo igneo ruggito viene colto da Daniela Marcheschi in tutte le sue vampe: senza pompe, la sua poesia prorompe, zampilla allegra sulla viottola infantile della frottola, brucia il libro del cuore (non l’odioso libro Cuore) nel fuochino-fuoco della controversia amorosa o nella cenere di capelli e corpi sparsi, arsi come il pruno che « forse parla», e per noi brucia, come tutte le cose che arden for men, in questo inferno-paradiso della nostra vita. Vita che non lasciò già mai persona viva che poesia non scriva. Considerate la vostra semenza, o Somenzari! Ridesto ai versi mai svampiti di Marcheschi, un fuoco Afro sale al cielo con un leggero afrore di bufalo cafro. Chi l’avrebbe mai detto? È questo afro sentore d’animale bruciacchiato il vero odore della poesia. E così sia. Roberto Barbolini
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Daniela Marcheschi
FUOCO
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FUOCO FUOCHINO (frottola moderna) Fuoco fuochino acqua fuocherello... Fuochetto fuocone, tu m’hai bruciato io t’ho bruciato: il libro del cuore è quello.
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FUOCO DI DRESDA (Dresda 1989; 2012) Nero e gusci La corrente di fuoco si arrampicava sulle pareti scendeva fin sui sassi del fiume. Soffi e scarponi fumanti la cenere di capelli e corpi: nel fuoco si arrendeva livido il filo degli anni.
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FUOCO Fiato di fuoco il pruno arde forse parla. Spreme calma il corpo la lingua la sua vampa azzanna trita le ossa prova l’oro dei giorni in verità e menzogna. Fuoco colonna torre che la vita umana netta disserra.
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FUOCO AFRO La fiamma di Afro non brucia la semenza non secca le fonti né la sua lancia di fuoco le incaverna. Anche la sua anima afra è fuoco, una criniera che non si consuma eppure fonde e di scintille l'alimenta. Così si arrampica fin sul fumo e monta lassù e più in su il fuochino-fuoco della sua lanterna.
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I limericks (o limericchi) di Virginia Boldrini hanno rime raffinate e spericolate, a volte ti sorprendono a tal punto che ti viene il dubbio e pensi: «Ma esisterà davvero quel paese lì?», o l’autrice se l’è inventato per esaudire sonorità rimanti (Ciconicco sembra fatto a posta per far rima con limericco)? Tranquilli: esiste, esiste quel paese lì, statene pur certi. La geografia cui si appella la Boldrini non è immaginaria, anche se a prima vista può sembrarlo. Seguire le sue rime è un bel viaggio, un viaggio istruttivo e uno non si stancherebbe mai di viaggiare insieme a lei e di visitare quel paese lì e poi quell’altro e subito dopo un altro, con un nome bislacco che però ha un suono gradevole. Perché la rete delle rime della Boldrini costruisce un divertente planisfero poetico di luoghi abitati da personaggi che, sebbene stravaganti (come quel pittore di via Pietro Ratto), ispirano simpatia. Paolo Albani
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Virginia Boldrini
LA FAMIGLIA DI TIGLIO
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La famiglia di Tiglio C’era una mamma affettuosa di Tiglio Che adorava il suo unico figlio. In verità non gli mancavano i difetti, Ma neppure i genitori erano perfetti La famiglia imperfetta di Tiglio. Il pittore dell’autoritratto Un pittore poco noto di via Pietro Ratto Dedicava molto tempo al nuovo autoritratto. Il risultato gli fece battere forte il cuore, Quel ritratto invecchiava, insieme al suo autore La fama raggiunse il ‘pittore dell’autoritratto’. Il sogno irrealizzabile C’era una anziana donna a San Felice Che coltivava un sogno: diventare scrittrice. Non andava oltre lunghe filastrocche, Molto spesso noiose, talvolta sciocche La ‘scrittrice’ ostinata di San Felice. Il bambino e l’Extraterrestre C’era un bambino intraprendente di Mestre Che aveva disegnato un Extraterrestre Lo stava dipingendo con molta cura Quando iniziò una straordinaria avventura: Tre occhi vispi ammiccavano al bambino di Mestre…
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L’albero di Ciconicco Nella piazza principale di Ciconicco Cresceva un grande albero di limericco. Dava frutti piccoli e succosi, Un po’ dolci, un po’ amari, spesso spiritosi Il rarissimo albero di Ciconicco. L’imbonitore straricco C’era un imbonitore di Alesso Che riscuoteva un notevole successo. Proponeva a chi era infelice Rimedi a base di cenere di fenice L’imbonitore straricco di Alesso. L’allieva perenne C’era un’anziana donna di Marilleva Che si sentiva sempre un’allieva. Desiderava solo imparare Senza provare mai a insegnare L’allieva perenne di Marilleva. L’uomo ‘lungimirante’ C’era un uomo di Mortegliano Che vedeva molto lontano. Percepiva in anticipo ogni novità E ogni tanto scorgeva perfino l’aldilà L’uomo ‘lungimirante’ di Mortegliano.
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La donna sola C’era una donna sola di Ostiglia Che desiderava tanto una propria famiglia. Non voleva, però, fare la mamma Ma farsi cullare al suono di una ninna nanna La donna-bambina di Ostiglia. La ricerca della felicità C’era un tale di San Donà Che decise di cercare la felicità. Non sapendo dove trovarla Pensò di fermarsi e di aspettarla Quel tale paziente di San Donà. La ricca signora C’era una vecchia signora di Tolosa Di indole buona e assai generosa. Regalava le sue cose facilmente, Tanto restava ricca, nel cuore e nella mente Così si giustificava la signora di Tolosa.
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Se si confondono le acque è meglio perciò, intendiamoci subito, è Gianolio che raccoglie i pensieri di Braciola e non viceversa. Ed è Braciola che glieli dice così a Gianolio i suoi pensieri, come farebbe una guida spirituale in un andiamo di zuppa zen e crudo realismo, una fresca accozzaglia di teorie che fanno sorridere, ma per poco. Poi ci si ferma a riflettere, perché se si vuole avvicinarsi a qualcosa o a qualcuno, bisogna riflettere per forza, altrimenti quel qualcosa o quel qualcuno non servono a niente. Braciola al bar o in giardino, spettatore di un incontro letterario o mentre mangia un panino con la mortadella incontra Gianolio. Che si scambino opinioni o meno va a vantaggio del pensiero che non è necessario divulgare, anzi è meglio confondere le acque, come dicevamo. Il disincanto di Braciola è costantemente presente, e c’è poco altro da fare se non imboccare il tunnel beffardo tappezzato di canzonature per uscirne dall’altra parte con l’eleganza del bastian contrario.
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Aldo Gianolio
BRACIOLA
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Sono ormai trent’anni che io e Braciola andiamo circa alla stessa ora al bar aziendale a fare colazione. Ordiniamo il solito, cioè un gnocco con la mortadella io, un panino col prosciutto lui, un frizzantino per uno e ci mettiamo al tavolino dove per mezz’oretta parliamo prolissi, verbosi e logorroici delle cose del giorno, le più disparate. Quella mattina però eravamo scoglionati e nessuno dei due ha aperto bocca. Dopo l’ennesima litigata con la moglie che non vuole che lui frigga in cucina perché viene fuori troppo odore di fritto, Braciola mi fa: Ma vacca boia! una volta friggevamo il gnocco in casa e avevamo il cesso fuori nel cortile; oggi, con il progresso dei tempi moderni, friggiamo fuori nel cortile e abbiamo portato il cesso in casa. Mi ha detto Braciola che una volta un musicista, giovane e un po’ ignorante, ha visto in casa sua il disco Early Ellington e gli ha chiesto: Ma è il figlio? Non so se la canzone più brutta mai stata scritta sia Imagine oppure New York New York. Braciola mi aveva detto con molta convinzione che lui cerca di evitare il più possibile di andare dai dottori, non si fida, perché muoiono anche loro. Se tu affermi una cosa, per esempio dici che l’arancio è più arancione del mandarino, il mio amico Braciola ha subito qualcosa da dire in contrario, risponde che è il mandarino ad essere più arancione dell’arancio. Se tu gli dai ragione dicendo che a pensarci bene è vero che il mandarino è più arancione dell’arancio, lui ancora una volta ti dà torto e dice: No, ma non vedi? sei daltonico? è senz’altro l’arancio più arancione del mandarino. Gli psichiatri i tipi come Braciola li
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chiamano oppositivi. Il popolino li chiama bastian contrari. Il popolino li chiama bastian contrari. Gli psichiatri li chiamano oppositivi. Il mio amico Braciola non aveva mai fumato in vita sua; ha cominciato quando su tutti i pacchetti delle sigarette hanno messo la scritta a caratteri cubitali, ancora più in grande rispetto alla marca della sigarette: IL FUMO UCCIDE. Uscendo dalla libreria Feltrinelli dove era stato presentato un romanzo d’avanguardia dove non ci si capiva una parola, Braciola, zitto e pensieroso durante l’intera presentazione, mi fa: Secondo me gli scrittori contemporanei dovrebbero fare come faceva Moliere, che prima di consegnare all’editore il manoscritto, lo leggeva alla sua serva. Le parti che lei non capiva, le riscriveva da capo e poi gliele rileggeva; se c’era ancora qualcosa che lei non capiva, tornava a scrivere, finché la serva non arrivava a capire tutto. Era molto convinto, Braciola, quando la mattina di un lunedì d’estate, dopo essere tornato in ufficio abbronzato per il week end passato al mare a Viserba, mi ha detto al tavolino del bar aziendale: Gli esperti fanno una cilecca dietro l’altra e noi siamo proprio dei coglioni ad andarci sempre dietro, che non beccano mai una nota. Come adesso, che dovrei credere a quell’esperto che ha affermato, è stato messo su tutti i giornali, che con il buco nell’ozono i raggi solari sono diventati pericolosissimi per la nostra pelle. Ma io quell’esperto lì lo mando a cagare, finché vedo i gatti che si distendono al sole. Io e il mio amico Braciola siamo un po’ sovrappeso. Da tutte le parti ci sassano i maroni dicendoci che dobbiamo dimagrire se non vogliamo lasciarci le penne anzitempo. Allora noi abbiamo fatto una ricerca statistica: ogni mattina per due mesi abbiamo guardato i necrologi dei defunti pubblicati sul giornale della nostra città e abbia-
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mo controllato dalle relative foto se i morti abbastanza giovani (cioè entro i sessant’anni) erano magri o grassi. Ebbene, il numero dei magri è risultato nettamente superiore al numero dei grassi. Nonostante l’evidenza scientifica, ci hanno detto che dobbiamo dimagrire lo stesso. Dì che ce ne sono, di stitici, in giro! ha detto Braciola l’altro giorno.
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Abituata a ragionare di Petrarca e Dante, impeccabile nell’abbinare scarpe cappello guanti, dotata di una casa seria, un fidanzato storico e uno spazzolino da denti per ogni borsetta, Simonetta Gilioli in realtà dorme con un orsetto di nome Lallo, possiede 6 marche diverse di deodorante, va in bagno lasciando la porta aperta e fa un uso irrituale del burrocacao. La sua scrittura dà voce, con taglio ironico, alle banalità del quotidiano. Silvia Mastronardi
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Simonetta Gilioli
BURROCACAO
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Tutte le volte che mi capita di pensarci ed è un pensiero che ricorre da anni almeno tre quattro volte al giorno, non riesco a non provare una profonda soddisfazione e persino quasi a complimentarmi con me stessa, per avere iniziato fin da piccola a usare il burrocacao. Avrò fatto forse la seconda o la terza elementare che mi erano venute delle croste tremende sul labbro superiore. In casa mia non si è mai parlato di herpes o meno specificatamente di febbri, ma sempre e solo di croste in modo generico, definizione che a ben guardare getta poi anche una luce sinistra sulla persona che ne viene colpita, lasciando intendere che è uno che si lava poco, che ama il disordine, che magari è sciatto… Queste cosiddette croste, ogni volta che aprivo la bocca per mangiare o per ridere crepavano, lasciandomi in bocca quel sapore dolciastro e terribile tipico del sangue e siccome a forza di mangiare e di ridere avevo sempre la bocca insanguinata, le cosiddette croste non guarivano mai. Allora il mio dottore mi aveva ordinato una pomata gialla che si chiamava Aureomicina, che era tanto gialla che imbrattava ogni cosa con cui veniva in contatto, ma soprattutto trasformava il mio labbro superiore, già un po’ gonfio per via delle cosiddette croste, in un organo a vedersi quasi animalesco, al punto che Sembri proprio un papero, Nani, con quel labbro mi sono spesso sentita ripetere in famiglia. Con questa pomata prodigiosa, che però aveva la controindicazione di rendere giallo tutto ciò con cui veniva in contatto, le cosiddette croste erano finalmente guarite, ma bisognava assolutamente evitare che si riformassero e così per la stagione più fredda avevo deciso di comprare un burrocacao. La scelta del burrocacao aveva assorbito parecchie energie, perché non era facile per una bambina di sette otto anni distinguere con esattezza la lanolina dalla vaselina o dalla glicerina oppure orientarsi tra i tanti messaggi pubblicitari che cercavano di vendere il prodotto puntando prevalentemente sul suo colore o sul suo sapore. Infatti anche in classe si era aperto un piccolo tavolo di confronto e mentre quasi tutte le mie compagne aveva129
no optato per il burrocacao di marca Labello e del Labello avevano scelto quello rosa leggermente colorante, perché volevano sembrare già delle signorinette, io mi ero orientata in un primo momento sul burrocacao della Diadermina, che era verde e che lasciava un fresco sapore di menta, al punto che anche quando avevo il raffreddore, se per caso ero a scuola e non avevo il Vicks a portata di mano, me lo spalmavo sotto al naso, lo respiravo un po’ e stavo subito meglio. Poi la mia migliore amica che adesso fa l’avvocato aveva scoperto il PL3, burrocacao che ho subito voluto provare anch’io per via di quel suo particolare cerchio rosa in campo bianco e che per anni ho poi continuato ad usare anche nella versione “neve” cerchio azzurro in campo bianco, perché garantiva una protezione totale e siccome da piccola andavo spesso a sciare con i miei genitori, avevo pensato che il PL3 Neve fosse più adatto del PL3 normale. Anche oggi che non vado più a sciare, ho naturalmente cambiato marca, ma il burrocacao resta un prodotto a cui non posso più rinunciare, al punto che in ogni zaino o borsa ne tengo sempre qualcuno e anche quelle volte in cui vado in giro senza zaino o senza borsa, per esempio la domenica mattina sulla ciclopedonale dietro casa mia, faccio sempre in modo di averne uno in tasca, anche perché il mio fidanzato che va a giocare a calcetto tre volte la settimana con qualsiasi tempo, a forza di giocare a calcetto d’estate con dei caldi della madonna o d’inverno con delle temperature bassissime, ha spesso l’herpes e così durante tutti gli anni della nostra vicenda sentimentale gli ho in più occasioni regalato degli stick di burrocacao, che però regolarmente dimentica in casa nel suo armadietto, venendo poi a elemosinare i miei. E anche l’altra sera quando ho visto che si stava preparando per andare a giocare a calcetto che fuori ci saranno stati quattro gradi sotto zero, gli ho chiesto se per caso aveva con sé il burrocacao Perché io gli ho detto Sono così contenta del mio burrocacao che lo metterei dappertutto, perfino nel culo ho aggiunto per provocarlo. Nel 130
sedere, ha precisato lui e siccome aveva quella tipica aria di uno che non crede a quello che ha appena sentito, aria che a ben guardare assume spesso quando gli dico qualcosa soprattutto su argomenti come questo, m’è toccato raccontargli di quella volta che in Polonia, siccome nella cittadina di Oswiecim, che per chi non ha la mia stessa passione per i campi di concentramento è il nome polacco della più famosa Auschwitz, siccome nella cittadina di Oswiecim c’è un solo cosiddetto albergo tre stelle, il Glob, che più che un albergo a tre stelle sembra una topaia, non perché sia sporco, che sporco non è sporco, ma perché offre dei servizi che a ben guardare equivalgono più a dei disservizi quando addirittura non costituiscono dei veri e propri danneggiamenti per il cliente, ecco lì al Glob per esempio la carta igienica è talmente ruvida che più che carta igienica sembra carta vetrata e mi aveva talmente irritato il culo che c’è mancato poco che non mi avesse fatto venire le croste. Allora, dato che non avevo l’Aureomicina con me per poter alleviare il bruciore, pomata che da anni non uso più e che ho eliminato persino dal mio armadietto delle medicine per via di quel suo inconveniente di imbrattare di giallo tutto ciò che toccava E se mi spalmassi il burrocacao nel culo, mi sono detta dopo una rapida riflessione e così con un paio d’applicazioni sono di colpo venuta a star meglio.
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L’arte dell’epigramma ha radici antiche, basta ricordare i poeti greci dell’Antologia Palatina e i latini Catullo e Marziale. Il genere conobbe rinnovato vigore in epoca umanistica, grazie a Panormita, Pontano, Poliziano, Tommaso Moro; per toccare nuovi picchi tra Sette e Ottocento con Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi, l’affilatissimo Tommaseo (contro Leopardi: «Natura con un pugno lo sgobbò: “Canta” gli disse irata: ed ei cantò»). Nel nostro Novecento spiccano i nomi di Flaiano, Fortini, Bassani, Pasolini, Fratini, Daria Menicanti e del purtroppo dimenticato Tito Balestra. È in questo contesto letterario che si inseriscono i tredici epigrammi sugli scrittori di Antonio Castronuovo, cultore e autore di aforismi, epigrammi, acute prose saggistiche. L’epigramma, scriveva Leopardi, deve essere «vibrato e racchiuso in un breve giro di parole»: secco, rapido e circostanziato. A volte tenero e più spesso velenoso (celebre questo dell’ospite ingrato Fortini: «Carlo Bo. No.»). È in questa scia di lungo corso che leggiamo ora la pungente corona di ritratti letterari di Antonio Castronuovo. Gino Ruozzi
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Antonio Castronuovo
TREDICI EPIGRAMMI LETTEROIDI
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Satira e ironia vanno fatte con misura; ci sta pensando Ermanno Cavazzoni che con penna lieve ma chiara, alla bodoni, ci dona pezzi e saggi di alta caratura. Tra mattoidi, scienze anomale e libri inesistenti ci ha indotto a pensare lo scrittore Paolo Albani ch’esiste una letteratura che vive di altrimenti e tutto il resto, forse, è calligrafia da scalzacani. In tivvù con la giacchetta concionando scosse la testa calva e proferì Saviano: passi ancora per la’ndrangheta ma con la camorra è meglio andarci piano. S’alzò un giorno da letto Camilleri e disse al caffè: faccio un altro romanzo, in fondo finisco questo dopo pranzo. Ma sì, perché no?, lo faccio volentieri. Pensò una volta Paolo Giordano a quanto i numeri primi siano soli; ma a noi, che abbiam letto piano piano ci ha fatto soltanto l’effetto dei fagioli. Va quest’anno il premio strega al bravo Nesi, vi si parla in breve di Prato e di cinesi. Ma io che son fastoso e meridionale avrei voluto qualcosa di più monumentale.
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Tutti questi scrittori moderni che lanciano messaggi dal tablét, pubblicano un solo libro e via, non riescono a tener testa a Ken Follét. Quanto mi piace Michela Murgia, m’attizza e stimola ogn’istinto, più la sogno, più m’accabbadora e più qualcosa mi s’atturgia. Rustico e selvaggio Mauro Corona schivo uomo di boschi e di radure redige la sue pagine in montagna ma lo fa sempre alla carlona. Ecco il nuovo libro di Massimo Gramellini, sembra chiaro ma è solo sciacquatura con qualche cosa dentro che fa ingorgo, e alla fine ci vuol lo sturalavandini. Niffoi si chiama issu, Salvatore inoltre, è bene dirlo, perché è in quel nome che senti u crucefissu. «Non ti muovere», sento che mi urla rigida e tassativa Margi Mazzantini, ma quell’ordine lanciato perentorio mi suona come vox di Mussolini.
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Dagli all’untore, invocava Bufalino mentre qualcuno gli porgeva il Campiello e lui gentile s’alzò dal seggiolino e fece anche un gesto col cappello.
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Incontri ravvicinati con esseri di altri mondi e inizio di una nuova era fondata sul cuore pulsante, primordiale di quel che chiamiamo amore sono i magmatici ingredienti di questo racconto. L’amore inconfessabile e inconfessato, magico mistero, criptato segreto messo sotto chiave, si coniuga con l’indeterminatezza del cosmo che porta con sé l’immensità di esseri soli come il sole e fratelli di pianeti vergini o sconvolti da esseri evoluti. Ovunque si vada, la possibilità di convivere ed esistere consiste in una sola parola, quella di Don Backy.
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Don Backy
I FIGLI DELLE STELLE
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Ther-Ha, non sapeva di dove gli arrivasse quella convinzione, quella strana sensazione che provava ogni qual volta comparava i suoi movimenti, per qualsiasi azione da compiere, dettati più da una logica – inquadrata in quel meccanismo (che sentiva esserci), contenuto nella scatola della sua testa – che dall’istinto, al quale si rifacevano tutte le altre specie viventi intorno a lui. Per questo motivo, si era convinto (ma non capiva perché), che il destino della sua specie, si trovasse nelle stelle, da dove – pensava – era arrivato il seme che aveva determinato la sua più rapida evoluzione rispetto agli altri esseri che pure abitavano quel pianeta. Era sempre rimasto affascinato – guardando il cielo – da tutto ciò che di fantastico vi galleggiava fin dalla eterna nascita del tempo e tutte le volte – con il naso all’insù – non un solo pensiero logico lo aveva sfiorato. Mai egli avrebbe condiviso (potendolo fare), una relazione del professor Zichichi o di qualsiasi altro luminare e – con tutto il rispetto – nessuna delle loro teorie così umane, così piene di buonsenso e di terrena scienza, tendenti a dimostrare la nostra solitudine cosmica, avrebbe attraversato il vasto spazio delle sua fantasia, fino a convincerlo. Non aveva bisogno di vederle le astronavi – anche se non le avrebbe mai conosciute con quel nome – per sapere che esse viaggiavano nel cielo, o forse è meglio dire nei cieli, usando un plurale che meglio rende l’idea della vastità interplanetaria. Proprio usando quella possibilità – che il primo barlume di intelligenza gli metteva a disposizione – aveva sviluppato nella sua fantasia, immagini che non appartenevano a nessuna realtà. L’immaginazione, era la prova della sua diversità unica sul pianeta. Mai – infatti – un brontosauro, un’iguana, un qualsiasi canide o anche un elemento della sua tribù, avrebbe potuto considerare di proiettarsi in pensieri contenenti progetti per realizzare una qualsiasi opera dell’ingegno,
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crearsi delle emozioni (le scariche improvvise che acceleravano i battiti di quella strana pompa che sentiva pulsare nel petto), o delle immagini virtuali, seguendo solo il filo della fantasia. No, essi andavano dietro solo a ciò che veniva loro dettato dall’istinto. Come era pensabile che tutto questo – invece – fosse possibile a lui e a lui soltanto? E così, anche quel giorno – dopo aver divorato carne di tapiro, bruciata al fuoco residuo di un albero colpito da un fulmine – si era sistemato sotto un grande baobab, e – circondato dalla sua tribù – aveva preso a raccontare (nella sua lingua gutturale, fatta di suoni e articolazioni della glottide, che solo lui era capace di emettere, ma che – incredibilmente – gli altri riuscivano a recepire) la sua precisa convinzione, seguendo il filo logico delle immagini che gli si presentavano nella testa. *** La prima astronave, sbucò attraverso le nubi in continua dissolvenza, bianche a cirri e grigie e rosa e in tante altre tonalità. Laggiù in fondo, squarci d’azzurro erano incendiati da un sole al tramonto sull’orizzonte, i cui bagliori sfumavano dal rosso arancio – in tutte le gradazioni di colore – fino a un pallido rosa fuso in un tenue azzurro, che – fuggendo dalla parte opposta – andava con cromaticità sempre più intensa di blu oltremare, blu cobalto e infine blu di Prussia, a tuffarsi nella notte scura. L’acqua – evaporando dal vasto oceano – creava una cortina tremula, che s’innalzava verso l’alto. La nave mandò baleni accecanti, librandosi immobile nel cielo. Suoni ovattati – simili a sbuffi di vapore fuoriuscenti da soffioni sulfurei – sottolinearono il roteare rallentato della cupoletta che lo sovrastava. Iniziò quindi, una manovra d’atterraggio. D’un tratto, il raggio intermittente dal colore indefinito che sembrava sostenerla, si spen-
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se di colpo. Il disco si piegò su se stesso. Uno schianto, un sollevar di polvere – con fuga starnazzante di uccelli senza piume e piccoli animali squamosi usciti dal luogo dell’impatto – poi il silenzio tornò assoluto. Tra le foglie, Horak guardava – con un po’ di apprensione, ma senza paura – quello strano meccanismo. La sua tribù non mostrava alcun interesse a quanto era avvenuto o stava per avvenire. Continuavano a dedicarsi allo spidocchiarsi, a mangiare formiche – traendole con appositi bastoncini dai termitai – sgusciare bacche o a suggere radici succose. Ogni tanto lanciavano a lui qualche sguardo, aspettando che fossero i suoi occhi a raccontare l’evento. Le sue nari fiutarono l’aria intorno, così, istintivamente, poi fece un gesto eloquente con il forte braccio peloso, si alzò sulle possenti zampe e si avviò – leggermente incurvato sotto il peso delle sue poderose spalle – verso quell’essere apparso nel vano di un portello, apertosi come d’incanto su un punto della navicella, sul quale nessuno avrebbe mai potuto intuire esserci un’apertura. La creatura, così sorprendentemente simile a loro nella struttura del corpo – anche se sentiva che non avrebbe cambiato con quel curioso individuo, nemmeno uno dei suoi acuminati unghielli – dopo aver aggeggiato con un marchingegno luminoso, che gli stava legato al braccio, si era staccato la testa, sollevandosela, per mostrarne – all’interno – un’altra più piccola, quindi – dalle narici di quello strano naso sporgente – aveva tratto ampi e goduti respiri. Solo allora – Horak – pensò che gli sarebbe piaciuto avere la possibilità di cambiare la sua testa. Senz’ombra di ostilità, lo sconosciuto alzò la mano destra e la portò al cuore. Horak lo imitò felice, ridendo. La sua tribù rise con lui. Le sue mogli, i suoi amici, le sue sorelle, i figli, tutti risero mentre si ergevano e – finalmente – mostravano segni d’interesse verso quel cu-
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rioso essere. Poi seguirono il loro giovane e forte capo branco e tutti insieme – dopo aver annusato il nuovo venuto e aver stabilito che in lui non c’era odore di paura o di aggressività, decisero di accettarlo. Alcuni Pterodattili gracchiarono nell’aria rotta dalle loro ali pesanti, disegnando nel cielo ghirigori decisi. Frusciarono le foglie dal verde abbacinante, scosse da quel leggero vento improvviso. *** Quanti cicli vitali erano passati da quel momento? Chissà se – dal suo pianeta – sarebbero mai venuti in suo soccorso, ma ormai non ci sperava più e – tutto sommato – Ah-Ka, adesso non lo desiderava nemmeno. Sentiva che la sequenza dei suoi giorni su quel curioso, magnifico pianeta, aveva mutato ritmo. Molte volte aveva visto le foglie germogliare, la neve cadere, il sole farsi torrido. Chiuse per un attimo gli occhi, lisciandosi la fluente barba d’argento. Rivide - in una nebbia lontana – Yip-Sylon suo figlio e Ze-Tha, sua moglie. Sperò che loro, su Hapry-Korn, se ne fossero fatta una ragione e non lo aspettassero più. Ripensò per qualche istante di poter accarezzare di nuovo la pelle liscia e vellutata di lei, alla voglia di poter baciare le sue labbra sensuali – che lo aveva martoriato nei tempi successivi al suo forzato atterraggio – e alla grande forza di volontà, cui aveva dovuto far ricorso per non impazzire. Rivide – e un leggero sorriso gli increspò le già rugose labbra – Tarak, la sorella di Horak, che gli diveniva sempre più familiare – con i grandi occhi curiosi sgranati su di lui – toccarlo, accarezzarlo.... Ricordò la prima parola che dopo tanti anni era riuscito a insegnarle, e tutte le volte che poi – lei – gliela aveva ripetuta: ‘Amore, amore, amore, amore...’. Poi fu buio. Qualcuno pianse e questo non era mai accaduto prima d’allora. 148
Quanti cicli vitali erano trascorsi da quel momento? Poi – un bel giorno – era nato lui, e dopo tanti tentativi, l’evoluzione aveva compiuto un nuovo passo avanti. *** L’astronave compì l’atterraggio con grande precisione. Il sole illuminò la sua superficie levigatissima, mandando barbagli argentati. Il biondo Ther-Ha, pronipote di Ah-Ka e di Tarak, uscì dal bosco camminando eretto sulle robuste gambe, si avvicinò agli esseri che stavano andando verso di lui, si pose una mano sul cuore e sorridendo pronunciò quella sola parola: ‘AMORE’.
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Cosa posso mai dire di Alfredo Gianolio? Per me Alfredo Gianolio è così Alfredo Gianolio che quando ho saputo stavan facendo un film, su Alfredo Gianolio, ho pensato che quel film lì sarebbe stato bello anche se fosse stato brutto, e questa è forse l’unica cosa che posso dire di Alfredo Gianolio. Paolo Nori
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Alfredo Gianolio
ELOGIO DELL’IGNORANZA
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Diceva una mia vecchia zia: “Più studi e più diventi coglione”. Sembra una boutade e invece è una constatazione che ha illustri precedenti in osservazioni di filosofi e scienziati, i quali, incuranti di apparire autolesionisti o masochisti, sono giunti al punto di fare l’elogio dell’ignoranza. Come, ad esempio, lo scrittore Bonaventura Tecchi, docente di letteratura tedesca all’Università di Roma, che, sulla “Fiera letteraria” del 1° giugno 1952, scrisse un articolo intitolato appunto “L’elogio dell’ignoranza”. E ci si chiede come sia arrivato a questa conclusione “uno scrittore che per di più ha nome di essere colto e ha, anche, obblighi di insegnamento da una cattedra, e dunque di istruire gli altri. Purtroppo l’ignoranza tende oggi a sparire nella “bassa”, dove è stata l’ingrediente del talento di tanti grandi pittori, a cominciare da Antonio Ligabue. Le cose sono cambiate anche perché, come ha scritto, documentato e filmato Gianni Celati, vi è stata l’invasione di un’informe periferia urbana, dove non vi sono soltanto case che crollano, crollano anche tipologie umane, scompaiono gli “uomini di Po”, non vi è più, come ha lamentato il pittore Galliano Cagnolati di Boretto, chi ha i calli nelle mani per il maneggio del remo. E, di conseguenza, è sparita anche l’ignoranza. Quell’ignoranza che lo scultore-pittore Marino Mazzacurati, della Scuola Romana, aveva scoperto essere la condizione che aveva reso possibile ad Antonio Ligabue di toccare nell’arte un vertice che i pittori colti non si sarebbero neanche sognato. Nel crudo inverno del 1928 Mazzacurati andò a trovare Ligabue nel bosco golenale del Po presso Gualtieri, dove aveva trovato rifugio in una capanna, infagottato dentro una vecchia divisa da carabiniere che, essendogli larga e per difendersi dal freddo, aveva imbottito di paglia. Non gli fu facile avvicinare Ligabue perché era terrorizzato dalla gente e voleva difendere strenuamente la sua non conoscenza del mondo. Ci vollero molti giorni, prima che potesse avviare una conversazione con lui, perché continuava a starsene prudentemente a parecchi metri di distanza. I boschi lungo il Po erano per lui giungle impenetrabili, teatri 155
di fantasiose lotte cruente, alle quali lui stesso partecipava, ruggendo, mugolando, emettendo urla. Mazzacurati riuscì finalmente a convincerlo ad entrare nella sua villetta liberty a Gualtieri, a fornirlo di colori e a farlo dipingere. I suoi quadri straordinariamente espressivi avevano destato la sua ammirazione ma gli avevano posto non pochi interrogativi. Per avere qualche lume ne prese uno sottobraccio e lo portò in via Fondazza, a Bologna, per farlo esaminare da Giorgio Morandi, il quale sentenziò: “Chi lo ha dipinto la sa lunga!”. Mazzacurati sentì crollare dentro si sé un mondo. Era stato sino ad allora per lui indiscutibile quanto aveva sostenuto nel suo trattato cinquecentesco Leon Battista Alberti, che aveva innalzato la creazione artistica a vera disciplina “liberale” (di uomini liberi, non servi), richiedente “una severa formazione intellettuale”. Il crollo di questo mondo continuò quando partecipò a Gualtieri a un pranzo di pittori, organizzato per iniziativa di Gino Villani, artista, scrittore e pubblicitario, fondatore, con Cesare Zavattini, del Premio di pittura di Suzzara, con lo scopo di avvicinare l’arte al lavoro, in palio un vitello con lo slogan: “Non è il vitello che abbassa l’arte, ma è l’arte che innalza il vitello”. Al pranzo partecipò anche il pittore naif Bruno Rovesti, che non faceva altro che squittire, interloquendo ad alta voce a proposito e a sproposito. Era presente anche il direttore dell’Accademia di Brera, prof. Moro, che disse: “Ma può saper dipingere un simile individuo?”. Mazzacurati, finito il pranzo, lo accompagnò a vedere i quadri di Rovesti nella sua stamberga a Co’ di Sotto. Il direttore di Brera li ammirò incredulo ed esclamò: “Quanti dell’Accademia si bacerebbero il gomito, se sapessero dipingere così!”. Filosofi e teologi, che non starò qui ad elencare, ritenevano che, grazie all’ignoranza, l’uomo si avvicinasse alla natura e ad essa finisse per identificarsi, divenendone parte integrante. Zavattini, dopo aver elogiato la limpida e invidiabile ignoranza dei naif Bruno Rovesti e Pietro Ghizzardi “che scrivono da analfabeti, sanno quello che devono sapere, quello che a loro conviene sapere e soprattutto amare”, introduce la necessità dell’egua156
glianza, in mancanza della quale il sapere, non solo abdica alla sua funzione, ma diviene, quando è di pochi, a volte senza rendersene conto, struttura portante di un potere oppressivo, foriero di sciagure e catastrofi. Zavattini invoca la partecipazione unanime alla cultura, anche degli ignoranti, perché “non è vero che chi non sa deve tacere, ma deve parlare e domandare e non rattrappirsi; più si intima l’alt”, dice, “più i diventati muti per soggezione parleranno e saranno loro davanti a tutti, non i poeti, perché i poeti parlano da secoli e loro da mai”. A sostenere che il genere umano fu vittima del volontario abbandono del suo stato di innocente ignoranza fu uno dei massimi pensatori di tutti i tempi: Giacomo Leopardi. Nello Zibaldone medita sulla Bibbia, in particolare sul significato che assume l’albero della scienza che intrappolò Adamo ed Eva, concludendo: “La corruttela e il decadimento del genere umano da uno stato felice è nato dal sapere e dal troppo conoscere. L’origine della sua infelicità è stata la scienza e di se stesso e del mondo e il troppo uso della ragione” (Zib. 2939- 2941, 11 luglio 1823). In linea e in perfetta armonia col pensiero di Giacomo Leopardi è stata inconsapevolmente la mia vecchia zia che, come ho detto all’inizio, ebbe modo di constatare il danno che mi arrecava l’affaticarmi sui libri, con l’amara conseguenza che mi dimostravo sempre più sprovveduto e privo di senso pratico, con la testa altrove. Ebbe le sue buone ragioni, quindi, per lanciarmi questo anatema: “Piò te stodi, piò t’advènt coioun”.
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Che confusione nella testa e nel mondo! Ma sarà possibile resistergli e trovare una propria dimensione di esistenza non dico felice ma almeno vivibile? (passabile?). Sono quasi terribili queste poesie umanisticoscientifiche di Valerio Magrelli, in cui si avverte un tam-tam assordante (precedente o successivo alla civiltà delle macchine?). Sono tra l’altro poesie in cui, come negli Uccelli di Hitchcock, l’io persona è alle prese sfibranti e perdenti con i molti assordanti invasori, gli innumerevoli incalcolabili nostri nemici, interiori ed esteriori. Chi può loro resistere? Magrelli non arretra di un passo davanti alle brutte domande che ci riguardano. Come le formiche di Pirandello, Brancati e Calvino, le api di Magrelli non lasciano scampo. Il nostro mondo non è questo. Ma qual è? Gino Ruozzi
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Valerio Magrelli
QUATTRO POESIE SCIENTIFICHE
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1. Lo sciame
Per non dimenticare il Policida
Si dice “sciame di scosse”, come fossero api, ma api che ci cacciano da casa, api che fanno un miele amaro amaro, di dolore, di nausea, di paura. Ci eravamo accampati sopra il loro alveare, ecco perché ci cacciano. Non siamo a casa neanche a casa nostra, anche la nostra casa è casa d’altri, la casa di qualcuno arrivato da prima e che adesso ci caccia. Vengono a sciami, si riprendono casa, la loro casa, da cui ci scuotono via, punendoci per la nostra presunzione: essere stati tanto fiduciosi da credere che il mondo si potesse abitare.
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2. La scrittura dell’elica Invisibile e invincibile è lo stampo che porto dentro me, stampo del mondo impresso a me nel mondo e che mi fa essere al mondo soltanto nella forma dello stampo. Dov’è la libertà, se la malinconia raccoglie le sue nuvole senza nessun perché? Sto qui e subisco il loro lento transito solo aspettando all’ombra di me stesso.
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3. “Quando l’aria s’illumina compare” Quando l’aria s’illumina compare sospesa la natura della polvere, la sua essenza volatile, la discesa sul mondo. Il pulviscolo è l’ombra della luce, non quella data dalla sua mancanza, ma la sostanza agente, il buio vivo, l’alimento notturno del fulgore.
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4. Voliera La coscienza di essere coscienti sarebbe sorta dall’integrazione fra coscienza primaria, memoria simbolica e linguaggio. In questa emersione, avrebbe avuto un ruolo centrale il meccanismo del cosiddetto “rientro”, ossia l’incessante brusio neuronale tessuto dalla diffusa sincronizzazione tra mappe cerebrali differenti… (da un articolo di quotidiano) L’incessante brusio neuronale, ho letto, e ho subito capito cosa significasse. Perché lo sento sempre, il cicaleccio talamo-corticale, un cinguettìo da voliera, e gridano, gridano, gridano, milioni di sinapsi, in attesa del cibo che gli porto, che gli devo portare. Aspettano i pensieri, i miei pensieri, e gli si azzuffano intorno, quando lascio la gabbia, in un frullare di impulsi elettrostatici.
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Da molti anni nutro una passione sconfinata per la ghigliottina: ripercorro sempre con gioia l’immagine della testa del condannato collocata nella lunette a faccia in giù, la lama trapezoidale incardinata là in alto, tra montanti alti quattro metri, fissata con bulloni al blocco di legno del mouton e tenuta ferma dal piolo. Che attimo stupendo di crudeltà! Quando il condannato è pronto, ben disteso a pancia in giù, le mani legate e il mento proiettato in avanti, ecco che il boia tira la corda che libera il piolo: il mouton si sgancia e, con la spinta della gravità, piomba giù alla velocità di ventitre chilometri all’ora. La lama incontra la nuca in un terzo di secondo. Una storia che dura pertanto meno di un attimo. Il collo ha uno spessore di circa tredici centimetri e una resistenza davvero inconsistente: con una lama così pesante diventa come un biscotto friabile. Applicando una corretta formula ai tre parametri (diametro del collo, sua minima resistenza, velocità di caduta della lama), ne risulta che il tempo di troncamento è di circa due centesimi di secondo. Un destino che si compie in un batter di ciglia. Come in un batter di ciglia si legge questo racconto di Andrea Soncini, trasposizione ironica di una storia antica e così breve... Antonio Castronuovo
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Andrea Soncini
PAUSA PRANZO AL PATIBOLO
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Giuda era il suo nome, e per mestiere portava dolore. La donna inginocchiata ai suoi piedi si chiamava Gessica Antonietta. Attorno a loro, in basso, ondeggiava una folla vociante. In alto un carosello di rondini si lanciava in picchiata per catturare insetti. Dopodiché gli uccelli tornavano in quota, volavano in cerchio, e defecavano gorgheggiando sulla torma eccitata. Gessica Antonietta venne invitata ad appoggiare la guancia sul ceppo intarsiato da mille colpi di scure. Giuda era pronto. A torso nudo. Spostò i capelli che gli cadevano sugli occhi con uno scatto della testa e strinse le dita sull’impugnatura della mannaia. Stava per eseguire il suo pezzo migliore: quell’unico, preciso fendente che in poco tempo, da giovane disoccupato cronico, lo aveva reso idolo delle ragazzine e pupillo del suo datore di lavoro. Qualcuno rimasto in disparte fece un gesto scaramantico che ancora si usava, il segno della croce. Qualcun altro, mentre imprecava, scoprì denti di alluminio derivati da lattine di bibita gasata riciclate. Uno urlò sopra tutti gli altri “Boia d’un Giuda!”. Il ragazzo con l’ascia trattenne un sorriso. Niente facili compiacimenti, per lui che credeva nella meritocrazia promossa dal nuovo ordine sociale, ma tanto lavoro svolto con dedizione. Nessuna distrazione fino alla fine del turno. Giuda sollevò la lama. Gessica Antonietta, aggiustando la testa, incrociò lo sguardo del ragazzo. “Difficilmente una donna del mio rango si lascia andare a questo tipo di confessioni”, disse con un filo di voce, “ma credo che per te perderò la testa”. Giuda scrutò quegli occhi supplichevoli. Uno, bellissimo, di un blu intenso. L’altro marrone perché una lente a contatto era andata perduta mentre trascinavano la donna verso il patibolo. I bicipiti rigonfi, lo strumento di lavoro improvvisamente fattosi pesante, per Giuda il mondo si fermò. Perse di vista l’orda convulsa di uomini adornati di cravatte bisunte, di ragazze dalle calze di nylon smagliate che fasciavano a fatica polpacci e cosce generosi, di donne mature dai seni 173
afflosciati come orologi di Dalì. Gessica Antonietta, da quella posizione scomoda, con l’esperienza di una lunga serie di apparizioni televisive in prime time, lanciò all’indirizzo di Giuda un seducente sorriso al botulino, il migliore che le circostanze permettevano. Un momento prima che, il suo destino al capolinea, automaticamente iniziasse a scorrerle davanti agli occhi, classico di tali occasioni, il film della sua vita. Un’esistenza fatta di corti regali e regalie di uomini corti, calciatori rotti e tecnocrati corrotti, gran balli e beceri bulli, vizi di tutti i giorni e avvizziti politici di molte notti, d’irreality e talk show. E di auto blu, di mille bolle blu, di Mille Miglia, di sbattere di ciglia e molto altro. Come imprevedibile risultato dell’inaspettato combaciare di due mondi così diversi eppure confinanti, a Giuda accadde lo stesso. Fatto sta che lassù, al ragazzo che si era fatto di sasso, inerte come una statua messa lì a rappresentare il paese bloccato per anni di malgoverno, di colpo si accese una luce dentro la testa. Quella di un proiettore che montava la pizza del film della sua vita prima del nuovo corso. Il puzzle di un incubo i cui tasselli avevano la forma di contratti a progetto e ingiunzioni di sfratto, di colleghe sfatte e superiori strafatti, di ricchi padroni e gozzoviglianti ladroni, di sconforto puro e un futuro al cianuro. Un dark-o-(d)rama che scorse veloce e impietoso fino all’ultimo fotogramma. Senza intervallo. Fino ai titoli di coda che scivolavano su una colonna sonora fatta di un lamento sordo che esplose in un boato. Era il ruggito degli impiegati in pausa pranzo, le voci eccitate delle casalinghe che sventolavano presine al suo indirizzo come fosse una panolada al Bernabeu, lo squittire dei ragazzini che i professori avevano portato in gita scolastica, ora che finalmente i soldi tornavano alla scuola pubblica. Che tutti insieme aspettavano impazienti la celebrazione del rito. Nella baraonda si fece avanti un uomo di chiesa, un freelance che si era avvantaggiato dell’abolizione degli ordini professionali. Era arrivato su una moto col sidecar insieme a 174
un alto funzionario provinciale, seppure basso di statura. Ma si capiva che era un’autorità. Lo dimostrò rizzandosi in piedi per vedere meglio oltre la folla, inarcando la schiena, i pugni orgogliosamente puntellati sulle anche, un sorriso di quelli da velina della reclame dei materassi, a denti stretti, come una smorfia causa di indicibile bruciore alle emorroidi. Una fascia tricolore gli correva obliqua lungo il tronco, nascondendo parzialmente le macchie di sudore che chiazzavano una t-shirt stretta. Un lampo e uno schianto. La testa di Gessica Antonietta cadde dal ceppo, rimbalzò un paio di volte e rotolò per un metro. Si fermò sul bordo del patibolo come fosse il risultato di un tiro calibrato di croquet, i boccoli biondi impastati di sangue alla stregua di meches che penzolavano nel vuoto. “Vi amo” – urlò Giuda facendo un inchino. Poi scandì di nuovo la frase senza emettere alcun suono, muovendo le labbra a ralenty per i più lontani, che avrebbero letto il labiale sullo schermo gigante montato dietro la forca. Scesi gli scalini del patibolo, prima di entrare nel tunnel di plastica che lo proteggeva fino alle docce dagli slanci delle fan più calde, il giovane boia gettò lo sguardo sulla folla che scemava. Era tempo di happy hour. C’erano un sacco di gole secche o irritate da lenire, commenti da fare seduti civilmente al tavolino del bar di una piazza. Una ragazza accovacciata sulle spalle di qualcuno che si era attardato, alzava tra le mani un cartello con su scritto: “Giuda uno di noi”. Ancora chiamavano a gran voce il suo nome e gli lanciavano omaggi di tutti i tipi, dai fiori di plastica ai cellulari con autoscatti porno, sia uomini che donne. Modelli obsoleti, vero, da gettare. Ma è il gesto che conta, si disse. “Brava gente” – pensò. “Alla fine di una dura settimana avete diritto al vostro svago. Come potrei non dare sempre il massimo?”.
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BIOGRAFIE
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Paolo Colagrande è lo scrittore che nel 2007, a Viareggio, a cena prima di una lettura, si è tirato addosso un piatto di triglie alla livornese e non aveva da cambiarsi. Una delle triglie è rimbalzata sul vestito della moglie di un noto scrittore contemporaneo. Camillo Cuneo è nato a Genova nel 1962. Dopo aver organizzato, tranne che nella città di Antofagasta, esposizioni in tutto il mondo, ha preferito dedicarsi alla contemplazione visiva e sonora dell’universo che appartiene alla virtù della parola scritta e poco verbale, anche se non rifiuta colloqui con animali, piante, zebre e pulcini, (accidentalmente con esseri umani). Una sua mostra a New York ha ottenuto folate di vento e qualche nota a saracinesca sulle ventitré del mattino successivo la nomina in carica. Vive sufficientemente appartato in una casa del bosco di Favale di Malvaro in Liguria. Miklos N. Varga è nato a Milano nel 1932. Ex Docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ha pubblicato tra l’altro: Ideologia dell’amicizia (presentazione di Salvatore Quasimodo), Napoli, 1968; Come sette paesaggi (presentazione di Roberto Sanesi, incisioni di Guido Biasi), Milano 1977; Frammenti lirici (presentazione di Vincenzo Accame, acquarelli di Vincenzo Frattini); De-cantare Urbino (presentazione di Paolo Volponi, incisioni di Arnaldo Pomodoro), Pesaro, 1985. Per la casa editrice SE ha curato i libri: William Hogarth, L’analisi della bellezza, 1989; Montesquieu, Saggio sul gusto, 1990; Denis Diderot, Trattato sul bello, 1995. Francesca Bonafini (Verona, 1974) è pigra, golosa, lussuriosa, inconcludente e gode di pessima reputazione. Ha pubblicato il romanzo Mangiacuore (Fernandel, 2008), numerosi racconti in antologie e rivi-
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ste, una parola amata nel Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango, 2008) e insieme a tre amiche narratrici il romanzo Il cavedio (Fernandel, 2011). Ha scritto di musica italiana in Sex machine. L’immaginario erotico nella musica del nostro tempo (Auditorium, 2011). Mario Aldovini è nato a Modena nel 1939. Ha insegnato filosofia, storia e psicologia fino al 1983, da allora esercita la libera professione come psicoanalista. Ha pubblicato alcuni articoli di carattere psicoanalitico, ma soprattutto ha pubblicato tre libri col Pulcinoelefante. Nel 1998 a Pomponesco ha ottenuto il Diploma di ‘Patafisico e successivamente è stato inserito nel World Institute of Hystoric Lunch (WIHL) per il suo piatto invernale “Lingua fredda in gelatina.” Per FUOCOfuochino ha pubblicato Una voce così (2011). Diego Rosa è nato a Viadana 66 anni fa. Ha vagato in quel mondo dove non volevano si vagasse, l’ha fatto talmente in punta di piedi che nessuno se n’è accorto. Ha la stessa biografia di un Kerouac della bassa, mille lavori, baracche a valanga, tante frequentazioni, curiosità, interessi ed è fiero di non essersi mai mosso. È il più grande amico di Gigino Rafedi, critico di scuola deselbyana. Trova la vita in tutto ciò che gli altri gettano via e che raccoglie per costruire. Roberto Barbolini (Formigine, 1951). Dopo avere ottenuto un buon punteggio in un concorso si è trasferito a Vienna. Al ritorno in Italia ha vissuto in un piccolo centro un po’ degenerato dove la attrattiva principale era una strada illusoria in cui si vedevano più bestie e un gruppo musicale che per il 27% era orecchiabile, il resto non si sa. Forse è in questo periodo che ha scritto saggi dedicati al fantastico letterario tra i quali uno in cui parla di un celebre scrittore che si batte contro un drappello di squinternati. All’Albergo Europa di Viadana, per tutta una notte gli ha tenuto compagnia un ratto. Per FUOCOfuochino ha pubblicato Grand Tour (2009), La vigna di Salomone (2011). Attualmente si occupa di ricette di cucina. Paolo Albani nasce il 3 dicembre 1946 a Marina di Massa, in una strada lunga e stretta che porta fino al mare. Fino dalle elementari mo-
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stra uno spiccato interesse per le ricreazioni. In età matura frequenta opifici di vario genere. Occupa diverse cattedre senza fissa difùra fino ad eccellere nella compilazione di dizionari assurdi che però trovano un nutrito seguito di disparati. Invitato spesso a kermesse letterarie si cimenta in performance bizzarre che non hanno niente a che vedere con nessuna delle meraviglie del mondo, tuttavia, tramite un Tam Tam è stato segnalato per una nomination a “Patrimonio dell’Umanità”. Per FUOCOfuochino ha pubblicato Manualetto pratico ad uso di coloro che vogliono imparare a scrivere il meno possibile (2010). Nello stesso anno ha ottenuto il diploma di Console Magnifico dall’Istituto ‘Patafisico Vitellianense. Carlo Battisti (autobiografia) Sono nato il 23 novembre del 1945. Era domenica: forse speravo di trovare chiuso… Da ragazzo Renzo Butazzi aveva due hobby: scrivere e giocare a boccette. Giocare era più remunerativo: in genere la posta erano due paste con vermut e spesso vinceva. Scrivere soddisfaceva la sua vanità, almeno quando qualcuno diceva “carino quel tuo articoletto …”. Ma non rendeva niente. Cresciuto il necessario si mise a lavorare come impiegato di concetto. Non avendo tempo per due hobby abbandonò le boccette e seguitò a scrivere. Non è ancora sicurissimo di aver scelto bene. Dall’anno 2000 Hans Tuzzi vive sulle spalle di Adriano Bon scrivendo saggi sul collezionismo librario editi da Sylvestre Bonnard, con Bollati Boringhieri i “gialli” che hanno a protagonista il commissario Melis e il romanzo Vanagloria (2012) e, con Rizzoli, Metropolis (2012) “Viaggio sotterraneo nella storia segreta delle città d’Italia”. Gianfranco Mammi è nato a Caracas per errore, vive a Modena per pura abitudine e scrive libri che di solito non vengono pubblicati. Di se stesso pensa abbastanza male, ma non se ne vanta. Daniela Marcheschi è nata a Lucca, città dove sta bene quando può godersela, il che non capita spesso. Ha infatti una vita movimentata, piena di fuoco e di passioni, dinamica anche nella stratificazione del
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lavoro. Come critico e studiosa di letteratura italiana, ha curato i Meridiani Mondadori delle opere di Carlo Collodi (1995) e di Giuseppe Pontiggia (2004); e più di recente sia una nuova edizione dell’Umorismo di Luigi Pirandello, Milano, Oscar Mondadori, 2010, sia un saggio su Leopardi e l’Umorismo, Pistoia, Petite Plaisance, 2010. Ha scritto su tanti poeti, vivi e morti (ad es. Penna. Corpo, Tempo e Narratività, Roma, Avagliano, 2007 e Nessuno è poeta. Scritti su Giacomo Noventa, Lucca, Trasciatti Editore, 2011), ma anche su Tradizione e poesia (Il sogno della letteratura. Luoghi, maestri, tradizioni, Roma, Gaffi, 2012). Poi, udite udite, prova lei stessa a scrivere versi in cui cerca di evitare il “poetese”: L’ amorosa erranza, in AA.VV., Collettivo di Poesia n. 1, prefazione di Felice Del Beccaro, Siena, Quaderni di Barbablù n. 23, 1984, pp. 15-30; Sul molo foraneo (Poesie 1979-1990), introduzione di Giuseppe Pontiggia, Firenze, Esuvia Edizioni, 1991; La regimazione delle acque Poesie 1992, con il saggio Una classicità senza classicismi di Amedeo Anelli, Parma, Il Cavaliere Azzurro, 2001; Si nasce perché l’anima. Poesie e Poemetti 1995-2003, Lucca ZonaFranca, 2009. Qualcuno, specie all’estero, la prende molto sul serio. Nel 1996 ha ricevuto un Rockefeller Award per la Letteratura e nel 2006 il Tolkningspris dell’Accademia di Svezia. Virginia Boldrini è nata a Mirandola nel 1951. Coltiva giochi di e con le parole ma di scritture brevi non se ne parla, almeno per il momento. Ha pubblicato per Campanotto Editore Un’idea tira l’altra. Esercizi di scrittura creativa (2004) Viaggio a Limerick e dintorni (2006) e Limericcando (2012). Per l’editore Joker ha pubblicato Limerick, 99 (2009). Vive a Udine. Aldo Gianolio fin dall’età di tre anni ha manifestato apertamente la sua passione per la letteratura. Infatti andava sempre a pescare. Le scuole alimentari sono state dure: alla refezione scolastica tutti i giorni c’era la zuppa di cavolo. Ha avuto comunque un’infanzia felice: “donne, vino e salame” era il suo motto. Se non ci fosse il salame, sarebbe vegetariano. Se non ci fosse il vino, berrebbe solo acqua. Se non ci fossero le donne, non andrebbe a donne. Quindi non ha vizi; o meglio, solo uno: non fuma. Per il suo grande interesse verso
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la musica e la pittura, ha cominciato a scrivere racconti e romanzi. Novelle, marachelle e qualcos’altro di poco scaltro, edizioni Blasfeme, 1970 (assieme a Daniele Benati, adottando gli pseudonimi Oscar Dalla Volpe e Tazio Godezza); Pistolario fruibile, edizioni Blasfeme, 1976 (carteggio con Daniele Benati, quando erano a soldato); La Grande Enciclopedia Italiana, edizioni Blasfeme, 1978 (sempre con Daniele Benati); A Duke Ellington non piaceva Hitchcock, edizioni Mobydick, 2002; Teste quadre, Aliberti editore, 2006; La verità sul complicato caso Pulcher, edizioni Mobydick, 2011. Di prossima pubblicazione (almeno lui spera): Ottavio il timido. Simonetta Gilioli, dopo la laurea in Lettere classiche, ha pensato bene di non ammorbare generazioni di studenti con tutte quelle regole di grammatica che ci son nella lingua greca, così ha deciso di insegnare solo il Latino oltre all’Italiano e di tenere per sé tutto il resto. Visto che però anche l’insegnamento è un lavoro per persone serie o che lei, almeno, prende molto seriamente, ogni tanto scrive. Di che cosa, ci si potrebbe chiedere, di argomenti impegnati, come quella volta sul Campo di concentramento di Mauthausen, Un percorso della memoria per il Comune di Reggio Emilia nel 1997. Erano gli anni in cui collaborava con l’Istoreco, che è l’Istituto storico di Reggio Emilia oppure di argomenti beatamente disimpegnati, come stavolta. Antonio Castronuovo (1954). Saggista: Suicidi d’autore (2003), Libri da ridere: la vita i libri e il suicidio di A.F. Formìggini (2005), Macchine fantastiche: manuale di stramberie e astuzie elettromeccaniche (2007), Ladro di biciclette: cent’anni di Alfred Jarry (2008), La vedova allegra: storia della ghigliottina (2009), Alfabeto Camus: lessico della rivolta (2011) tutti per Stampa Alternativa. Nel 2010 per FUOCOfuochino ha pubblicato Versi tossici. Traduttore di opere di Jarry, Apollinaire, Gide, Bousquet, Éluard, Cendrars, Simone Weil, Irène Némirovsky. Curatore di Miguel de Unamuno, Nebbia (Rizzoli BUR, 2008), Stendhal, Il rosso e il nero (Barbèra, 2009), Isabelle Rimbaud, L’ultimo viaggio di mio fratello Arthur (Via del Vento, 2009), Albert Camus, La commedia dei filosofi (Via del Vento, 2010). Collaboratore di riviste: “Cortocircuito”, “Il Caffè illustrato”,
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“L’Indice”, “Platypus”, “Technè”. È “Reggente di Patafisica Generale & Dialettica delle Scienze Inutili” nel Collage de ’Pataphysique. Don Backy (1939), pseudonimo di Aldo Caponi, già prima dello scoccare dei 60, è protagonista di alcune esibizioni nel genere rock and roll – insieme al gruppo, Kiss – con il nome d’arte di Agaton. Nel 1962 entra a far parte del Clan e partecipa alla prima edizione del Cantagiro – con il nuovo nome di Don Backy. Scrive il testo in italiano di Stand by me, di Ben E. King, col titolo di Pregherò, incisa poi da Celentano, come quello di un’altra cover Don’t play that song, che diventa il seguito di Pregherò, col titolo di Tu Vedrai – incisa da Ricki Gianco – oltre a quelli di Sabato triste e Sono un simpatico, sempre per Celentano e – in maniera spassionata – per molti altri artisti, tra i quali, Little Tony, Milva, Santercole, Milena Cantù, Ricky Gianco. L’esordio al festival di Sanremo nel ’67 con L’immensità, lo colloca di diritto tra i cantautori più popolari. Nello stesso anno, pubblica per Feltrinelli, il libro: Io che miro il tondo. Nel 1968 per il Festival di Sanremo scrive due canzoni: Casa bianca, cantata da Marisa Sannia e Ornella Vanoni, che si classificherà al 2° posto della classifica finale – dopo aver vinto la prima serata – e Canzone, cantata da Celentano – che nel frattempo gli si è sostituito, imponendosi all’organizzatore – in coppia con Milva. Attivo sul fronte cinematografico come attore in numerosi film, tra i più famosi, Banditi a Milano, di Carlo Lizzani, con G.M. Volonté. I 7 Fratelli Cervi, di G. Puccini, sempre con G.M. Volonté. Barbagia, ancora di Lizzani, con Terence Hill e Satyricon di G.L. Polidori, con Ugo Tognazzi. La passione per i paesaggi di neve fiamminghi, lo porta a dipingere una cinquantina di tele, per la sua personale galleria www.donbacky.it “Pennelli e colori”. Inizia a scrivere il racconto della sua avventura artistica, a partire dal 1955, con l’avvento del rock and roll, in un prezioso volume illustrato e ricco di ricordi: Questa é la Storia... (1955/1969), (Coniglio, 2007) e lo riedita per la propria edizione, L’Isola che c’è (2008). Prosegue quindi il racconto, decidendo di arrivare fino ai giorni d’oggi. Ricca anche la produzione di Album/Cd, con circa 20 titoli, da L’amore (Clan, 1965) a Il Mestiere delle Canzoni (Ciliegia bianca, 2010).
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Alfredo Gianolio è nato il 27 maggio 1927 a Suzzara. Dopo la guerra si è laureato in giurisprudenza e, nel corso degli studi, si è dedicato al giornalismo, iniziando nella redazione reggiana del Progresso d’Italia, della quale era caporedattore il pedagogista Loris Malaguzzi. Ha pubblicato storie di diversi paesi (Sant’Ilario d’Enza, Campegine, Collagna) da lui definiti “libri-giornali”. Per diversi anni è stato redattore dell’Unità, e dopo i “fatti di Ungheria” si è dedicato all’avvocatura. Quasi in forma maniacale ha frequentato la “bassa”, in particolare Guastalla e Luzzara. A Luzzara ha fatto parte della Giuria del Premio Nazionale dei naïfs con Cesare Zavattini, che lo onorò della sua amicizia. Era allora anche redattore del Bollettino dei naïfs, un periodico tirato a ciclostile del quale Zavattini, incurante delle formalità, era direttore. Ha iniziato allora a registrare, per pubblicarle sul “Bollettino”, storie che gli narravano i naïfs che andava a intervistare: ne ammucchiò centinaia che vennero poi pubblicate in Vite sbobinate (Ed. Incontri, Sassuolo, 2000, 2011). Seguì Pedinando Zavattini (Diabasis, Reggio Emilia, 2004), mettendosi sulle sue tracce da Luzzara a Cerreto Alpi, secondo la “poetica del pedinamento” ideata dallo stesso Zavattini e applicata nei suoi confronti. Alfredo Gianolio è convinto che, per scrivere, non sia necessaria la fantasia, essendo sufficiente registrare delle storie vere, talmente curiose che anche la più fervida fantasia non potrebbe concepire. Si ritiene così una sorta di “ortolano” della letteratura, limitandosi a raccogliere la verdura che cresce spontaneamente. Valerio Magrelli, nato a Roma nel 1957, ha pubblicato cinque raccolte di versi. Le prime tre (Ora serrata retinae, Feltrinelli 1980, Nature e venature, Mondadori 1987, Esercizi di tiptologia, Mondadori 1992), sono state riunite nel volume Poesie e altre poesie (Einaudi 1996), cui hanno fatto seguito Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi 1999) e Disturbi del sistema binario (Einaudi 2006). Parallelamente alla scrittura in versi, Magrelli ha sviluppato una ricerca in prosa che si è dispiegata in quattro volumi: Nel condominio di carne (Einaudi 2003), La vicevita. Treni e viaggi in treno (Laterza 2009), Addio al calcio (Einaudi 2010) e Geologia di un padre (2013). A questi due percorsi, si sono poi affiancati testi diversi come Che cos’è la poesia? La poesia raccontata ai ragazzi in ventuno
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voci (Sossella 2005, libro e cd), Sopralluoghi (Fazi 2006, libro e dvd), Il violino di Frankenstein. Scritti per e sulla musica (Le Lettere 2010) e il saggio Magica e velenosa. Roma nel racconto degli scrittori stranieri (Laterza). Docente di letteratura francese all’Università di Pisa e poi di Cassino, ha diretto la collana di poesia “La Fenice” Guanda e la serie trilingue “Scrittori tradotti da scrittori” Einaudi (Premio Nazionale per la Traduzione 1996). Tra i suoi lavori critici, Profilo del Dada (Lucarini 1990, Laterza 2006), La casa del pensiero. Introduzione a Joseph Joubert (Pacini 1995, 2006), Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry (Einaudi 2002, poi, come Se voir se voir, l’Harmattan 2005, a cura di A. Ciancimino e P. Climent-Delteil), Il lettore ferito. Cinque percorsi critici: Larbaud, Apollinaire, Lamartine, Perec, Breton (Teatro di Roma, 2005) e Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire (Laterza 2010). Nel 2002, l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attribuito il Premio Feltrinelli per la poesia italiana. Andrea Soncini, come cantano i Police, è “born in the ‘50s”, in verità quasi ‘60s, ma adora la musica dei ‘70s. Ha lasciato pensieri, parole e qualche foto sulle pagine di Rockerilla, Rock Star, Jam, Mu:zik, La Gazzetta di Modena, ELLE, Musica Leggera. Ha scritto note di copertina per album e cd, ha curato testi critici di mostre e di festival musicali. Ha tradotto le biografie di King Crimson, Dream Theater, e “Aqualung”, libro del musicologo inglese Allan Moore sull’omonimo disco dei Jethro Tull. Ha nei cassetti una buon numero di racconti che si ostina a prediligere (i racconti degli altri, non i suoi) mentre ripete che il racconto è come il maiale, non si butta via niente.
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INDICE
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Ove non citato, le prefazioni sono a cura dell’editore
ANDREA CORTELLESSA
Prefazione
5
PAOLO COLAGRANDE
Non basta camminare
12
CAMILLO CUNEO
Star-falcioni
20
MIKLOS N. VARGA
Momenti
28
FRANCESCA BONAFINI
La stanza
36
MARIO ALDOVINI
La saga degli istrici
42
DIEGO ROSA
Ode
50
ROBERTO BARBOLINI
Dieci comandamenti per l’uso personale della bellezza 58
PAOLO ALBANI
Dal buco della letteratura
66
CARLO BATTISTI
Vite segnate
74
RENZO BUTAZZI
Bovi, pie donne e nonni
80
HANS TUZZI
Zizi Bambula
88
GIANFRANCO MAMMI
Rimedi naturali
94
DANIELA MARCHESCHI
Fuoco
102
VIRGINIA BOLDRINI
La famiglia di Tiglio
112
ALDO GIANOLIO
Braciola
120
SIMONETTA GILIOLI
Burrocacao
128
ANTONIO CASTRONUOVO Tredici epigrammi letteroidi
136
DON BACKY
I figli delle stelle
144
ALFREDO GIANOLIO
Elogio dell’ignoranza
154
VALERIO MAGRELLI
Quattro poesie scientifiche
162
ANDREA SONCINI
Pausa pranzo al patibolo
172
Biografie 189
177
Siate gentili coi refusi
Finito di stampare nell’Agosto 2014 presso Arti Grafiche Castello - Viadana (MN)
Le prime 17 edizioni sono raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Gino Ruozzi e tavole di Gianluigi Toccafondo (Arti Grafiche Castello, Viadana, maggio 2010)
Anche se non ce n’era un gran bisogno è nata
FUOCOfuochino
Gli autori Silvano Freddi, Ihll Bihto, Lorenza Amadasi, Virginia Merisi, Roberto Barbolini, Tania Lorandi, Guido Conti, Afro Somenzari, Antoine Naville, Gianni Celati, Giuseppe Pederiali, Ugo Nespolo, Paolo Albani, Brunella Eruli, Alberto Casjraghy
la più povera casa editrice del mondo
Gli autori Camillo Cuneo, Paolo Colagrande, Vittorio Orsenigo, Marzio Sergio Bini, Ugo Nespolo, Sandro Montalto, Antonio Castronuovo, Anonimo, Max Blue Berni, Mario Aldovini, Armando Adolgiso, Miklos N. Varga, Roberto Barbolini, Giovanni Maccari, Cristiana Minelli, Lorenza Amadasi, Maurizio Maggiani, Pupi Avati, Massimo Gatta
Questa nota, divulgata agli amici nel mese di novembre 2009, è stata ed è imprescindibile. Dopo la presente pubblicazione le edizioni successive a tiratura limitata continueranno il loro cammino.
FUOCOfuochino
La più povera casa editrice del mondo
FUOCOfuochino
Altre 19 edizioni sono state raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Ernesto Ferrero e tavole di Guido Scarabottolo (Arti Grafiche Castello, Viadana, settembre 2012) La distribuzione dei due volumi è affidata a Maurizio Corraini in Mantova
Le stampe in fotocopie in numero di 11 (undici) esemplari verranno spedite agli amici, sempre quelli, giusto per vessarli quel tanto che basta. In più saranno stampate 9 copie, destinate al pubblico (a prezzo variabile), ognuna firmata Prova dell’Editore. Il formato è di cm. 14,8 x 21 e 4 è il numero massimo di facciate interne per ogni edizione. In quarta di copertina ogni copia reca un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova l’originalità. Non ci sono collane, c’è un catalogo, poverissimo ma c’è.
www.fuocofuochino.it
Le prime 17 edizioni sono raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Gino Ruozzi e tavole di Gianluigi Toccafondo (Arti Grafiche Castello, Viadana, maggio 2010)
Anche se non ce n’era un gran bisogno è nata
FUOCOfuochino
Gli autori Silvano Freddi, Ihll Bihto, Lorenza Amadasi, Virginia Merisi, Roberto Barbolini, Tania Lorandi, Guido Conti, Afro Somenzari, Antoine Naville, Gianni Celati, Giuseppe Pederiali, Ugo Nespolo, Paolo Albani, Brunella Eruli, Alberto Casjraghy
la più povera casa editrice del mondo
Gli autori Camillo Cuneo, Paolo Colagrande, Vittorio Orsenigo, Marzio Sergio Bini, Ugo Nespolo, Sandro Montalto, Antonio Castronuovo, Anonimo, Max Blue Berni, Mario Aldovini, Armando Adolgiso, Miklos N. Varga, Roberto Barbolini, Giovanni Maccari, Cristiana Minelli, Lorenza Amadasi, Maurizio Maggiani, Pupi Avati, Massimo Gatta
Questa nota, divulgata agli amici nel mese di novembre 2009, è stata ed è imprescindibile. Dopo la presente pubblicazione le edizioni successive a tiratura limitata continueranno il loro cammino.
FUOCOfuochino
La più povera casa editrice del mondo
FUOCOfuochino
Altre 19 edizioni sono state raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Ernesto Ferrero e tavole di Guido Scarabottolo (Arti Grafiche Castello, Viadana, settembre 2012) La distribuzione dei due volumi è affidata a Maurizio Corraini in Mantova
Le stampe in fotocopie in numero di 11 (undici) esemplari verranno spedite agli amici, sempre quelli, giusto per vessarli quel tanto che basta. In più saranno stampate 9 copie, destinate al pubblico (a prezzo variabile), ognuna firmata Prova dell’Editore. Il formato è di cm. 14,8 x 21 e 4 è il numero massimo di facciate interne per ogni edizione. In quarta di copertina ogni copia reca un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova l’originalità. Non ci sono collane, c’è un catalogo, poverissimo ma c’è.
www.fuocofuochino.it