Anche se non ce n’era un gran bisogno è nata
FUOCOfuochino la più povera casa editrice del mondo Le stampe in fotocopie in numero di 11 (undici) esemplari verranno spedite agli amici, sempre quelli, giusto per vessarli quel tanto che basta. In più saranno stampate 9 copie, destinate al pubblico (a prezzo variabile), ognuna firmata Prova dell’Editore. Il formato è di cm. 14,8 x 21 e 4 è il numero massimo di facciate interne per ogni edizione. In quarta di copertina ogni copia reca un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova l’originalità. Non ci sono collane, c’è un catalogo, poverissimo ma c’è.
Questa nota, divulgata agli amici nel mese di novembre 2009, è stata ed è imprescindibile. Dopo la presente pubblicazione le edizioni successive a tiratura limitata continueranno il loro cammino.
www.fuocofuochino.it
Ringraziamenti Famiglia Bini e tutti i collaboratori della Arti Grafiche Castello. Copyright Š FUOCOfuochino 2016
FUOCOfuochino La piĂš povera casa editrice del mondo
tavole di Giuliano Della Casa
Muoviamo, giusto per cominciare, da un autore sconosciuto, ma non dei peggiori. Libertàa, libertàa… hinndomà i liber che restenliber anca quandhinnligàa.1 Che i libri, certi libri, siano liberi, la casa editrice Fuocofuochino lo sa bene. Si definisce “la più povera del mondo”, ma in tempi di penuria generale bisognerà trovare un aggettivo più qualificativo. Noi proporremmo appunto “libera”: una parola a rischio di retorica, come insegna il poeta, eppure non inadatta a questo piccolo, mantovano centro del mondo, che si è liberato ab initio dalla zavorra delle monete d’oro (fossero pure quelle di Pinocchio, seppellite nel Campo dei Miracoli) e ha proseguito per una sua strada poco battuta. Fuocofuochino, del resto, è un nome beneaugurante. Nella sua prima parte allude a un bersaglio centrato, a una meta raggiunta. Subito dopo però si corregge e, con quel diminutivo, ci ricorda che nessuna meta è raggiungibile. Quanto al bersaglio, il genio – si sa – non è chi lo colpisce, ma chi ne scopre uno che noi non avevamo visto. È interessante quella correzione di tiro (fuoco-fuochino), in tempi di vincenti che esibiscono i loro illusori trionfi. E se, come qualcuno ha detto, “chi vince perde”, per la proprietà transitiva possiamo aspettarci molto da una casa editrice che si assume subito, e in proprio, le perdite. A proposito di vittorie e sconfitte. Fuocofuochino è nata in provincia, sia pure in terre di nobile ascendenza gonzaghesca che – come si legge in tutte le guide turistiche – risalgono addirittura alla gens romana di Vitellio. Ora, “provincia” deriva dal latino “pro-victa”, conquistata prima. Eppure se, come diceva Eschilo, Atena (vale a dire l’intelligenza) “diserta il campo dei vincitori”, crescere in una terra victa ha i suoi punti di forza. (Il provincialismo, invece, è una dimensione della mente e non ha nulla a che fare con la geografia. Si può essere provinciali a Manhattan e non esserlo a Rio Bo). 1 “Libertà, libertà…/ Son solo i libri/che son sempre liberi/anche quando sono legati” (Libertàa, con un’incisione di Franco Rognoni, Edizioni Pulcinoelefante, Osnago 2012)
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Questa nuova raccolta ha qualcosa che la accomuna alle tre precedenti. Il lettore non troverà neanche qui frasi fatte o espressioni di circostanza. Troverà un’attenzione anfibia ad autori conosciuti e a poeti senza cattedra (lontani però dalla retorica dell’escluso, più simpatica della prosopopea dell’incluso ma ugualmente perniciosa). Vi troverà, ancora, un filo di follia dadaista, che del resto ha avuto a Mantova una delle sue capitali: una follia vera, non la follia acclamata, che è più conformista della razionalità accademica. Troverà poi altre cose che non ci permettiamo di anticipare, anche per non trattenere chi ha in mano il libro e impedirgli, girando pagina, di incominciare la lettura. Con l’augurio che la serie, di cui esce ora il numero 4, prosegua fino al numero un milione: numero che fa pensare al signor Bonaventura, ma fa anche pensare alle stelle.
Elena Pontiggia
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Chi scrive semaforismi è un uomo prudente o un cavallo scalpitante? La domanda sorge naturale leggendo questi aforismi semaforici di Franco Nasi, composti secondo i tempi delle brevi alternanze cromatiche (che però talvolta sembrano eterne e invece tac! Se uno scrive ed è assorto in un pensiero importante e forse decisivo scatta il verde subito). In questi aforismi d’attesa c’è una rapida visione del mondo, ogni istante è una fotografia di come siamo e di come ci specchiamo nei volti e negli oggetti degli altri. Stare fermi al semaforo offre anche l’estro di numerose domande, di fulminanti “kodak” sul senso (nonsenso) della vita, avrebbe detto l’ottimo irascibile Leo Longanesi. I semafori, le code, le strisce bianche mettono a dura prova. Chi non ricorda gli irriverenti mostri di Dino Risi? Ma anche la sferzante Sosta al semaforo di Ennio Flaiano, che elenca “varie maniere di ammazzare il tempo durante la sosta: guardare il guidatore o la guidatrice della macchina accanto, mettersi le dita nel naso, controllarsi i capelli allo specchio retrovisore, sfogliare il giornale, accendere la sigaretta, pensare che si sta facendo una vita da stronzi”. Leggere Nasi per credere (e andare oltre). Gino Ruozzi
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Franco Nasi
ASPETTANDO IL VERDE DICIASSETTE SEMAFORISMI
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Da quando hanno costruito le rotonde non c’è più tempo per inventare semaforismi.
I semaforismi giungevano all’improvviso, aspettando il verde.
Rosso di sera, aspetti uguale.
Non si sa mai se si è arrivati troppo presto rispetto al verde che scatterà, o in ritardo rispetto al verde che c’era prima.
L’auto del vicino è sempre più pulita.
“Aspetta e spera” è una frase fatta che non dice nulla.
Il semaforo invece offre solo certezze.
Meglio essere al verde che essere in rosso.
Il verde con la freccia è un verde dai poteri limitati.
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Chissà perché i semafori non sono bianco rosso e verde come la bandiera italiana? O bianco rosso e blu come quella francese o inglese o russa o americana? Forse l’inventore del semaforo veniva dal Mali o dal Benin o dal Burkina Faso o dalla Guinea o dal Camerun o dal Congo o dal Senegal o dalla Bolivia o dalla Lituania, che hanno le bandiere giallo rosso verde. E come mai molte di queste nazioni sono in Africa?
Non tutti i semafori di notte sono neri come le mucche.
Una volta nei bar c’erano dei flipper con le polaroid. Se arrivavi a 10.000 punti ti scattavano una foto premio che portavi subito a casa. Oggi ai semafori ci sono degli impianti fotografici che ti scattano una foto se passi con il rosso, e poi a casa stai in ansia per giorni, in attesa che arrivi la multa.
Chissà perché gli arbitri di calcio oltre al cartellino rosso e a quello giallo, non hanno anche quello verde?
Una volta al posto del semaforo c’era un vigile, su una pedana, al centro dell’incrocio, con l’elmetto bianco che si muoveva come un mimo a teatro, e se passavi quando non dovevi, ti vedeva, e ti faceva la multa subito, senza fotografia.
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A volte, quando il rosso è troppo breve, vengono fuori semi-aforismi come questo.
Le 50 sfumature del rosso non contano nulla nel linguaggio del semaforo.
Finché c’è verde c’è speranza.
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Lino Di Lallo, che, come è a tutti noto, sa giocare magistralmente con i colori e con le linee, è abilissimo anche nei giochi di parole. Non sono pochi nel Novecento i giocolieri che si sono divertiti con calembour, freddure, nonsense e altre acrobazie e volteggi nelle allitterazioni e nelle assonanze. Dossi e Svevo sottolineavano la fecondità semantica della rima: per trovare quella giusta coinvolgi tutto il vocabolario finché non appare il significato che non sapevi di cercare. Savinio, oltre alla fertilità dei refusi, esaltava la sfida che la freddura vince nei confronti del concetto prevedibile. Un pittore con cui Lino condivide l’esperienza del neosperimentalismo del secondo Novecento, Toti Scialoia, ha sollevato il nonsense a stratosferici livelli intellettuali. Non si scherza con i giochi di parole: sono una cosa seria, anche se per loro natura non prendono nulla sul serio. È arte per ridere questa, perché anche per Di Lallo la risata è premessa di saggezza quanto per il poeta e pittore surrealista Max Jacob. Al quale pare un gran bel peccato il gioco ed è “fuoco divino” l’allegria. E ora riscaldatevi, ridete e state allegri con il fuoco molto umano degli aforismi di Lino. “Ai tempi del Buonarroti, tutti i pittori sognavano/ di fare – non una cinquina – ma una Sistina”. Se è per questo, anche a Lino Di Lallo – che qui arriva solo a due versi – sarebbe piaciuto fare una terzina di Dante. Rotola ambiguamente verso altri significati l’anagramma sul Palladio: “Palladio: dio-palla” In una parola, c’è la circolarità dell’architettura del grande artista ma non è blasfemo trovare anche la sua pallosità. Non date però calci, è pur sempre un Dio. In quanto a “La torre del PISANELLO”, si tratta di una poesia visiva in cui il Pisanello sta eretto a Pisa come un pisello. Comunque non fate come il Moschetti e il Cecchini, i “due armigeri della critica d’arte”. Non sparate. È un gioco ed è felice. Walter Pedullà
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Lino Di Lallo
AFORISMI ARTEFATTI
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Due armigeri della critica d’arte: il Moschetti e il Cecchini.
Burri, ovvero: La vita di Benvenuto Cellotex.
La catena montuosa dell’arte italiana: Giovanni da Monte Monti Paolo Monteverde Giulio Montagna Bartolomeo Jacopo da Montagnana. E sopra il Monti sta il Caprioli.
M O N D R I A N vive dell’angolo retto.
P I S A N E L L La torre del O
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Il Longhi, dopo aver individuato il “rosso afro” nelle opere del Battistello e del Caravaggio, si stupiva di non averlo trovato in nessuna Composizione di Afro Basaldella.
Anagramma Palladio: dio palla.
Il Parmigianino, pittore DOC, rifiutò con sdegno di lavorare nella Parrocchiale di Grana.
Il Valsoldo con tono corrucciato: “Siamo sul lastrico?” Il Sermoneta dichiarò pungente: “Peggio, siamo sull’istrice”.
Due pittori in ciccia: Francesco Solimena detto l’Abate Ciccio e Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccia.
Ai tempi del Buonarroti, tutti i pittori sognavano di fare – non una cinquina – ma una Sistina.
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Filippo Tommaso Marinetti arriva rombante e veloce in auto, davanti agli affreschi della Cappella Sistina ma, inaspettatamente, invece di proferire la sua solita filippica, frena sul giudizio.
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I PIEDI SANNO ANCHE LA FINE Ciò che ha senso e gli affetti lasciano tracce imperiture. L’immaginazione, invece di essere una “forza” derealizzante, alla Sartre, è una potenza costruttiva, realizza: realizza un più che reale e lo sommuove, interroga, spiazza e fa riflettere. Nutrita di cose concrete, di meraviglia e di libri meravigliosi, la scrittura di Adamo Calabrese, come quella di Lewis Carroll o di Jan Potocki o di Béla Balázs, e di una scaltrita tradizione, abita e tesse più spazi e più mondi. Innanzi tutto la stupefazione delle cose e della natura, poi la condensazione del passato del presente e delle protensioni future in un dialogismo e fusione di tempi e culture. Poi la “ventilazione” teatralizzante dello spazio narrativo, in cui sapienzalità, auspicio, cronaca fantastica, tradizioni, saperi, si fondono in amalgama. Un amalgama ricco di umori e di sapori che sa mantenere la leggerezza e l’incanto della profondità, pur muovendosi sulle strade del mondo negli orizzonti delle relazioni e dei costumi. In questa direzione di realtà potenziata ha più di una parentela con il realismo “visionario”, una scrittura forte e saporosa, di Guido Conti, ma con una diversa levità e meraviglia che lascia più spazio all’arcano ed al favoloso. Amedeo Anelli
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Adamo Calabrese
LE MAREE AL TEMPO DI CARLO MAGNO
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Quando mia madre si spense non ne volle sapere di andare al cimitero nonostante io le avessi promesso un cespuglio di rose bianche sulla tomba. Così è rimasta in casa, sistemata sulla sedia accanto alla porta per potermi parlare ogni volta che esco. “Sii generoso”. mi dice. “Sii paziente”. ed ancora: “Abbi fiducia”. Io seguo i suoi consigli, porto le patate lesse ai poveri, ascolto i guai di chi incontro e saluto tutti togliendomi il cappello. I consigli di mia madre riguardano anche il tempo. Già ai primi di marzo, con il mondo rallegrato da qualche occhio di sole, lei mi prega di togliere scarpe e calze e camminare a piedi nudi. “I piedi sanno ciò che è buono e ciò che è cattivo. Sanno che il terriccio è buono e i sassi sono cattivi, cioè, non proprio cattivi, ma permalosi”. Tra aprile e maggio, all’epoca dei temporali, lei mi esorta a non ripararmi dalla pioggia. “La pioggia è la benedizione del cielo”. dice “Lascia a casa l’ombrello e vai a testa alta”. “Ubbidisco”. Vado a testa alta sotto i rovesci mentre l’acqua mi scorre addosso con puerile freschezza. Arrivo a scuola fradicio, ma pervaso di fiducia, come deve essere un buon maestro. Soprattutto nel mio caso, in quanto insegno a una classe di persone anziane, diciamo pure vecchi. È un doposcuola di scienze naturali, dagli specchi di Archimede alla velocità della luce. I miei studenti mi stimano, mi vogliono bene. Se mi vedono grondante le alunne mi si stringono intorno e mi asciugano con i loro fazzoletti, mi asciugano e mi accarezzano. Gli uomini mi offrono le loro prese di tabacco che io annuso volentieri. Il loro tabacco sa di paesi lontani e ciò mi piace perché i paesi lontani sono il luogo dove, alla fine, andrò a vivere. Le mie lezioni non seguono un programma ma rispondono alle domande che frullano in testa ai miei allievi. Una volta aveva alzato la mano quella vecchia signora col collo di volpe. “Come erano le maree al tempo di Carlo Magno?” aveva chiesto. Di primo acchito ero rimasto sorpreso: “Le maree al tempo di Carlo Magno…?”. Aveva levato la mano anche quel signore con il cappello graduato di fettucce dorate, ex ufficiale delle dogane. Anche altri allievi avevano alzato la mano. 27
“Bene”, avevo detto “costruiamo delle ipotesi. Anzi cominciamo con qualche corollario riguardante la luna che è la causa delle maree”. Poi mi era venuto un dubbio: diverse teorie imputano le maree al passaggio delle comete. Così avevo spiegato sia le fasi della luna che le scie delle comete invitando tutti a riflettere. Tutti riflettevano quando era suonata la campanella della fine della lezione e, come al solito, la classe mi aveva invitato per un caffè, nel bar della piazza, alla fermata degli autobus. Il momento più bello della scuola è proprio quello, nel caffè della piazza, dove si sta accalcati, uno vicino all’altro, con la tazzina sollevata un po’ in alto, per non sgocciolare il caffè addosso a qualcuno. Si parla, si racconta la vita, non tanto quella attuale ma quella trascorsa. Le signore raccontano storie d’amore, per lo più vicende dolorose, comunque straordinarie, storie di persone amate che non ci sono più, persone che sono andate in qualche paese lontano o hanno cessato di vivere, che non è lo stesso che morire. Un conto è cessare di vivere, un conto è morire. Chi cessa di vivere può anche riprendersi, non si sa mai, dipende dagli affetti che lo circondano. Così succede nel caffè alla fermata degli autobus, è un luogo dove non si può morire con tutti quegli ottoni lucidi, lampade accese, vasi di cristallo pieni di torroni, per non parlare delle teste di cervo imbalsamate che guardano stupiti dalle pareti come se volessero chiedere dei boschi dove hanno vissuto. Si sta nel caffè finché arrivano gli autobus. I miei alunni, ordinatamente prendono posto e seduti accanto ai finestrini mi salutano. Quando gli autobus ripartono io resto solo sotto la pensilina e mi viene da piangere. Non piango per una ragione precisa, piango così, per spontanea malinconia. Ubbie, ubbie. Me ne torno a casa lemme, lemme. Non sempre ritrovo mia madre, specialmente se rientro tardi. Se è già sera mia madre non è più alla porta ma nella stanza di sopra, inginocchiata accanto al letto dove è spirato mio padre. Naturalmente mio padre non c’è ma è come se fosse seduto nel letto con i cuscini dietro la schiena e le mani posate sul libro aperto che gli ha fatto compagnia. 28
Quella volta della lezione sulle maree sono rientrato che nevicava. Era la fine di febbraio ma nevicava come a dicembre. Mia madre non c’era. La chiamo. Non risponde. Vado di sopra, non c’è neppure accanto al letto di mio padre. Guardo dalla finestra e non vedo che neve. Neve che turbina in fantastico silenzio. Sto alla finestra come facevo da bambino guardando dai vetri accanto a mia madre che mi spiegava il mondo. “Ecco”, mi diceva “Quelli sono alberi” e io ripetevo “Alberi…”. “Quelli sono uccelli:” “Uccelli...”. “Uccelli migratori che vanno lontano”. “Lontano, dove?”. “Non lo so”. “Non lo sai?”. “Io so ciò che succede intorno a me. Per ciò che succede lontano c’è tuo padre”. I miei genitori si erano divisi il mondo: lei le pentole, la macchina da cucire i fiori sul balcone; lui i libri di chimica, l’atlante geografico, la collezione dei minerali. Comunque tra di loro c’era una specie di enciclopedia che sfogliavano assieme. Infine trovo mia madre sotto il letto. “Cosa fai lì?”. “Aspetto tuo padre”. “Sotto il letto?”. Lei annuisce, poi bisbiglia. “Dov’è lui, è tutto buio. Devo andargli incontro perché non si perda”.
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Conosco Sergio Sozi da diversi anni. È stato uno dei primi collaboratori di Letteratitudine, partecipando ai dibattiti e predisponendo - nel ruolo di critico letterario - post dedicati ai grandi classici da rivalutare e da rileggere. E conosco Sergio altrettanto bene nel suo “ruolo” di autore e creatore del personaggio letterario di Euterpe Santonastasio. La prima volta che mi imbattei in Santonastasio (era appena uscita la raccolta “Il maniaco e altri racconti”, edita da Casini nel 2007) fui colpito dalla simpatica e farsesca stravaganza di questo capitano siciliano (all’epoca sessantenne), dipendente della Compagnia Carabinieri Trieste II, in attesa della pensione e alle prese con assurdi e fantastici casi irrisolvibili, come quello del “maniaco alfabetico-depressivo” che scrive ed elargisce consigli sulla vita attraverso lettere indirizzate a persone scelte a caso dall’elenco telefonico. Già allora fui positivamente colpito dalla capacità affabulatoria di Sozi e dalla sua attitudine a miscelare scene di vita (e di indagini) quotidiane con elementi grotteschi e surreali. Euterpe Santonastasio ritorna qualche anno dopo in questo gradevole racconto dedicato all’incontro calcistico Italia-Slovacchia (incontro che, nella realtà, ha decretato l’eliminazione degli Azzurri dai mondiali di Johannesburg). È un po’ invecchiato, il buon Euterpe. Ha settantun anni, è andato in pensione, ma non ha affatto perso la sua verve. Così come non ha perso la sua verve stilistica Sergio Sozi, che in queste pagine riesce ancora una volta a farci sorridere senza rinunciare alla scrittura di qualità. Massimo Maugeri
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Sergio Sozi
ITALIA-SLOVACCHIA 2 a 0
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La forma del pallone è fatta a limoncello: calci da questo e quello, ed esso in porta va (Achille Campanile) Si mette le dita nel naso, lui. Ancora. Come se avesse cinque anni. E per scaramanzia si è appena tagliato la barbaccia incolta, trasformandola in un paio di baffi all’umbertina che... manco negli anni Venti. Be’, ormai l’avrete capito: Euterpe Santonastasio è tornato fra noi, anche se le sue settantuno primavere sul groppone ce lo mostrano meno pimpante e bevitore di qualche tempo fa, quando sparí dalla circolazione: prima la pensione come capitano dei carabinieri in forza alla Compagnia Trieste II, poi qualche indagine privata, infine... infine boh! Si faceva i casi suoi, diciamo. E adesso eccolo qua che, seduto da solo davanti al televisore – in bianco e nero nell’Anno Domini 2010, mese di giugno, giorno 24 – si sta accaldando in mutande e ciabattacce mentre la fanfara suona l’Inno di Mameli. Lui lo canticchia sfumacchiante. Guarda il salotto liberty del suo appartamento liberty nella Trieste unpocoliberty anch’essa, ruotando gli occhi spiritati, e d’un botto si alza mentre infila la cicca in quella bocca stortignaccola, pertugio quasi senza labbra. Speriamo di fare in tempo – dice in fretta, col diavolo al culo e i mutandoni che fanno giacomogiacomo. Cosí messo, inizia a girare per l’ambiente. Ahi! Per poco non si brucia i sullodati baffi, dunque, bestemmiando fra i denti, spenge il mozzicone sul pavimento ma non si ferma... prosegue il giro d’ispezione, vieppiú nervoso, elettrico. Finché: Eccolo! L’ho trovato! Stava sotto al canapé qui in sala, il vigliacco! E si calma, ripiazzandosi sulla poltrona rosso pompeiano a ghirigori dorati ellenicoarabi. L’Inno è appena finito e sullo schermo c’è la tesa confusione, tipica degli istanti precedenti alle cause sportive salo-
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moniche; ancora dieci secondi e il primo scarponcino darà l’avvio alla tarantella. Intanto l’oggetto del desiderio appena conquistato da Santonastasio noi lo possiamo proprio vedere in primo piano: È un indispensabbile amuleto, questo! – dice lui compiaciuto, e lo accarezza, se lo strofina al cuore, lo tiene stretto fra le gambe per farlo sentire amato e vezzeggiato, onorato come un pascià. Il bicchierino ne gode, con la sua forma a capitello corinzio: è di purissimo cristallo artigianale e ha sempre accompagnato il padrone nelle sue gite fra grappe bosniache, ivoriane e guatemalteche. Prima apparteneva ai nonni, sappiamo, ed aveva attraversato l’Adriatico per giungere a Siracusa, in casa Santonastasio, a fine Ottocento, provenendo dalla natia Venezia, o meglio Murano. Una minuscola riproduzione a rilievo della Cornucopia, posta sotto il fondo, l’ha reso sin dal battesimo quel che tutt’ora resta: il principe degli antisfiga, o meglio, dice Euterpe, il re degli scudi contro gli jettatori, l’imperatore delle armi che, solo a vederle, fuggono digrignanti e sconfitti i demoni e i triconi, i monatti e gli impestatori vari – depressi impasticcati e mezzemaniche delusi compresi, che dicono “Eeeh... mi sa che qui si va a perdere... eh sí... eh sí...’’ mentre hanno lo sguardo cinereo e giallognolo, loro, certo! Hanno l’occhiastro tumefatto che si infilza dritto dritto nei cosciotti degli Zambrotta e dei Cannavaro a fiaccarli e sgambettarli. Maledetti mezzemaniche sabotatori, canterò le lodi del vostro licenziamento, un vicino giorno. Ma il Capitello non ci sta con i menarogna, no, lui vede prevede e provvede. Provvederai, vero? – dice Euterpe Santonastasio, guardandolo con indicibile amore. E alza gli occhi. Alza gli occhi e vede nero dove c’era uno stadio in tripudio adrenalinico. Nero. Non quarantaquattro scarpe a tacchetti zanniformi e ventidue calzoncini sventolanti in mezzo alle ronzantiparanoiche trombette sudafricane. No. Neronero. Chiamarlo panico è ridicolo. Questo è annichilimento, a casa Santonastasio. A casa vostra cosa sarebbe, cosa comporterebbe quel buio televisivo al posto della diretta di Italia-Slovacchia? No, non ditemelo. Vi dirò io piuttosto che Euterpe in tre secondi di numero è già al contatore e muove spolette, preme pulsanti, gira manopolacce 36
gialloblú, accende un’Emmessemaild che gli cade ecchissenefrega, con la mancina molla un pugnotto all’aggeggio elettrico e con la destra ne accende un’altra, di cicca, che gli si infila nelle mutande e chissenefrega, se la smorza a schiaffoni e pacche fra il pelo del bassoventre. Che partita, ragazzi! Ma qui niente si riaccende, i volt e i watt fanno congiura: Complottano... e allora va bene, complottate, su, datevi da fare! – urla il vecchio caramba levando gli occhi al cielo, quasi a ringraziare gli dèi per l’intuizione che lo ha appena colpito. Cosí prende a correre come un giaguaro in crisi d’astinenza da lepri selvatiche: attraversa il corridoio, confligge contro l’erma in gesso di D’Annunzio del povero nonno Ermeneuta e abbatte la porta rosarancio della camera da letto. Entratovi s’infila sotto il materasso del baldacchino e ne scivola come se fosse lubrificato fino al centro – lí tossisce per i fiocchi di polvereliberty che gli fan festa nel gargarozzo, agita le braccia che un elicottero in confronto è un fossile del mesozoico e finalmente vualà: Amo la radio perché libera la gente... – canticchia con il rosso parallelepipedo a batterie fra le mani e intanto scodinzola verso il bordo del letto, si rialza, muove l’interruttore, si avvia verso la sala. Un gracchio sussurra... dei balbettii... frammenti inclassificabili e cacofonie, voci? fffrz... salve ami... frzzzhk... zumpapà!... khrrr... sono le or... tttrrrrzzzh... telefonatec.... bzzzzz. Le pile le ho cambiate il mese scorso – medita Euterpe. Si piazza ancora sulla poltrona di prima cercando la sintonia giusta; ma invece della voce del radiocronista, un crac gli giunge da dietro le spalle. Che c’entra mo ‘sto crac... che... che però non viene proprio da dietro le spalle, per niente, viene da... sotto... dal... fondoschiena. Sí, esattamente da... Noooo! La Cornucopia! Alé! Ci beccheremo otto a zero! – e intanto recupera i frammenti del Sacro Bicchierino che lui stesso – lui stesso! – ha violato anzi, che dico, ha ucciso, ucciso, capite!? Empietà! Blasfemia massima! Vergogna delle vergogne! Euterpe lancia l’apparecchio balbettante con forza da nevrastenico, senza curarsi di dove vada a spiaccicarsi, purché deceda anch’esso, visto che suicidarsi seduta stante gli sembrerebbe dopotutto mossa 37
eccessiva, nonostante l’atto spregevole – dal suo inverecondo deretano appena compiuto. E ora? Ora, una resa su tutto il fronte gli pare cosa ovvia: Mica andrò anche a sentire, io il fascinatore, io la causa della sconfitta, io il maligno, mica andrò dico a sentire la voce del commentatore mentre annuncia Italia zero Slovacchia tre. No. Io sto in pensione dopotutto. E adesso me ‘mbriaco! Sparsi – con rabbia e rassegnazione fritte assieme nel cuore e nel cervello – i frammenti del fu amuleto (ogni pezzettino di cristallo a splendere chissadove in sala), in un attimo l’ex ufficiale è al mobilebar. E trascorsi degli ulteriori forse venti minuti, eccolo che dorme steso sulla moquette con la boccia di un plebeissimo brandy accanto – vuota lei, pieno l’altro. E anche il suo giuramento di astemia andato in gita premio sulle nuvole, dopo diversi mesi di fedeltà. Dorme della grossa, sí... lui... privo di sensazioni, simulacro di uomo. Ma il suo ultimo pensiero forse avrà biascicato parole simili a queste: Lo sbaglio iniziale è stato quel giurare di non riempirlo piú di grappa: me la sono voluta, la maledizione. - Ma che ti saresti voluto, fesso, caruseddu mio! Ah, sei tu, avo cornacchione... come mai... ti fai vivo dalle tue paludi lassú, tu? Chi t’ha evocato? - Se venissi solo quando mi chiama un mortale, starei in questa palude eterna pacifico e tranquillo per secoli e secoli, visto il materialismo che gira in terra. No, caruseddu: ho preso io, in prima diciamo persona, l’iniziativa di scendere a trovare il mio pronipotaccio. Sai cosa ho appena finito di fare, Euterpe? E cosa, dài... lasciami dormire... ah non smammi, stai qui a farti vedere, secco inguastito che sei, con la tunica e la barbetta, gli occhi a razzo... be’, cosa? Un sacrificio in onore di qualche eroe dei tempi tuoi... dimmi e scompari, te ne scongiuro, avo... - Sei fuori strada, modernuccio mio... no, no, no... io invece ho fatto un incontro che magari ti interesserà, ne son certo. Vuoi vederlo, Euterpe? E fammelo vedere. Uff. Stavo tanto bene senza sogni fra i corbelli 38
io... dài, allora. - Bene. Ti saluto. Goditi la visione che ti mando nella capoccia: pronti, partenza, via! Venere lancia i due candidi dadi privi di numero e dice: - Dodici! Ho vinto! - Calma – rimanda Marte al suo fianco, adagiato come tutti sul vermiglio triclinio che poggia sul prato di nuvole (grigie ma luminose). - Adesso ti sistemo io. – E lancia i dadi – Ecco: tredici! - Tredici – sottolinea Venere – ah, allora qui si bara! - Tutti noi lo facciamo, che storia... – risponde stancamente Giove. Ma adesso tocca a me – e butta i dadi in aria con noncuranza. Passa del tempo, e del tempo... oltre i tempi regolamentari, direbbe Nando Martellini con spirito secolare. - Ué... – interviene finalmente Mercurio – sono scomparsi... ma... senza i dadi, chi avrà vinto? - Io al padre Giove non glieli chiedo di sicuro – sussurra al suo orecchio Eolo – mica voglio farmi mandare in esilio laggiú in Sicilia un’altra volta, eh... - Ah sei stato tu a spingerli dove vuole il Fato, con la forza dei tuoi polmoni? – dice Giunone al Ventoso approfittando del fatto che Giove al momento sembra essersi un tantino assopito. - Io? Mi siano testimoni gli umani se mai farei una cosa simile solo per far perdere Venere. Umaaaaaniiii! Diiitemi! Ho forse fatto perdere Veeenereee? In quel momento una baraonda irrompe nelle recchie del Santonastasio, una cosa villana e chissà se olimpica, ma di certo fragorosa, tempestevolissima: Eccheccè – si chiede il capitano in pensione. Poi va alla finestra della camera da letto, che dà sulla strada e lo ripete: Checcè? Come che c’è... – urla un giovanotto con il Tricolore avvolto intorno alla testa quasi fosse un burq’a – non lo sa, lei, ma dove vive, anzi: vive? 39
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Duecento punti… Tilt. Il flipper, col suo tintinnio, lasciava sgomenti ma… Insert coin e si poteva ricominciare. Quattrocento punti… Game over, un punteggio o l’altro, la partita era finita. Mael è l’essere vampiresco che, nel testo di Elena Fantasia, ricorda i tilt e i game over di un tempo passato. In quegli anni nelle piazze si proclamava War is over, ma anche questo era un gioco, per dire che la guerra invece, quella vera, non finisce mai. La lacrima di Mael fugge la possibilità della fine perché dopo la morte tutto resta come sempre. Tra una incrostazione e l’altra, tra una apocalisse e un dòmino senza tregua, tra un mercenario e un angelo sterminatore si allarga il baratro della barbarie che spaventa più della morte. La palla del flipper finisce così in una buca… Cinquecento punti.
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Elena Fantasia
GAME OVER
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La figura prendeva forma dal vortice in un crescendo di velocità. La si poteva intravedere a tratti quando veniva in superficie dal buio verso la luce. Assomigliava a un uomo con la testa che pendeva verso sinistra, gli occhi vuoti e profonde rughe sulle guance. Bocca e naso non erano tratteggiati. Le braccia magre e ossute sembravano brandelli di stoffa che ondeggiavano nell’acqua. Le dita delle mani non si potevano distinguere, mentre erano vistosi i piedi enormi, tenuti insieme da lacci di cuoio. Le gambe erano nude e lunghe e portavano i segni di fossili di conchiglie e animali marini. All’improvviso il gorgo sospirò e invertì il flusso per permettere alla creatura di scavalcare il confine e affiorare sulla calma circostante dell’acqua. Il figlio del tempo era stato partorito. Adesso Mael era solo e si accingeva a portare a termine il suo destino. Si issò sulle gambe rigide, intorpidite dalla lunga assenza, e compì i primi passi sulla battigia tra i flutti che ancora gli cingevano i polpacci, come se volessero accompagnarlo lungo il cammino. Era rinato ancora più forte; ogni volta che ritornava acquistava potere. Si sentiva invincibile, invaso da un senso di ebbrezza. Gli uomini potevano essere coraggiosi, ma niente potevano fare contro le sue capacità superiori. Si guardò intorno come in cerca di qualcosa di familiare. Vide in lontananza una nave che si destreggiava tra le onde tempestose in prossimità del vortice; allungò una mano e la fece scivolare dolcemente nel palmo. Avrebbe potuto salvare l’equipaggio, ma l’umanità lo aveva esiliato e non era più soggetto alle sue regole, perciò la stritolò. Lui era il manipolatore della realtà venuto per confondere l’uomo, per riportarlo al suo più basso grado di stupidità, ai livelli inferiori di intelligenza. 45
Doveva smontare l’impalcatura dell’ingegno che si era solidificata nei secoli e che aveva reso l’essere umano quasi divino. Troppi illuminati avevano scoperto i giochetti con cui sapientemente, nel corso del tempo, aveva truccato la realtà con l’illusione. Adesso erano in molti che sapevano vedere oltre. Sarebbero arrivati tra poco sicuramente a smascherare le tenebre e ad insidiare la verità. E lui, Mael non poteva permettere tutto questo. Doveva instillare nel cuore dell’uomo frustrazioni, paure, sofferenza, invidia; sentimenti mediocri e seducenti che imprigionassero le menti e appagassero l’ego. Il suo piano era quello di disgregare le comunità, privando la gente della capacità creativa; lo aveva già fatto in passato con la civiltà Maya e con Atlantide, era arrivato a cancellare tutto, ma gli uomini non erano soddisfatti. Avevano capito che la chiave del loro futuro era nascosta nel passato. E avevano cominciato a studiare la storia con rinnovato interesse, la matematica, le filosofie ermetiche, la fisica, il misticismo. Le cose stavano per cambiare. L’umanità era alle soglie di una nuova era in cui stavano per essere svelate le risposte, la verità sarebbe apparsa nuda e accessibile a tutti. E lui sarebbe stato spazzato via nel vortice della sapienza. Sotto gli occhi di Mael si materializzò un elenco disegnato sulla sabbia. Guerra Terremoto Alluvione Malattia Clima Carestia Morte Stette un attimo in bilico, leggendo le parole sul suolo come se un pensiero lo avesse assalito. 46
“Il destino dell’uomo è segnato. È un circolo vizioso. Tanto più la mente esplora le sue potenzialità, tanto più deve venire distrutta. È un peccato, però. Tanto lavoro per niente”. Alcune lacrime scesero bagnando quel volto impassibile. Non era compassione, certamente non poteva provare un tale sentimento. Era una sorta di empatia emotiva che lo portava a sentirsi vicino all’essere umano per la frenetica e vana ricerca interiore che non portava da nessuna parte. Il dito della sua mano cercò il pulsante del joystick e selezionò tutte le diciture. Ci volle un attimo per cliccare il bottone e il mondo fu annientato. GAME OVER
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Con eccessive cariche di aggettivi da overdose, Giorgio Bellodi esagera come sempre. Lui, gli aggettivi li mette ovunque, nella scarpe, in auto, li usa come cuscino per combattere attacchi di cervicale, li mangia come biscotti e li beve come il vov. Laddove manca un ingrediente lui, come niente fosse, ci infila un aggettivo e lo conserva, per sempre sigillato tra le righe, come un portachiavi nella paglia. Poi si spinge a descrivere banalitĂ con affilata minuzia, si lancia ad alta velocitĂ in cerca di disparati aggettivi roboanti e barocchi, scarta di lato il Bellodi e si butta in una selva offuscata da nubi minacciose di semplificazione, traccia percorsi che si trovano solo su mappe extrasensoriali. Infine corre senza sosta, ansimando come una quaglia, scrivendo discorsi come questo che, se uno non sta attento, va a finire che gli crede.
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Giorgio Bellodi
DISCORSO ALLA POLACCHIA
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Le arciretoriche lamentazioni del mio predecessore allo scranno d’onnipotente non porteranno il mio cuore al posto del cervello, né mi tremeranno la voce e i polsi di fronte agli insulti. Gli attacchi personali dell’ex amministratore dell’Innocente Patria possono scalfire soltanto il marmo bizantino da lui scelto come tavolo da lavoro. Mai e poi mai vacillerà l’ambigua gente di questo capzioso paese se la diffamazione lo conquisterà. All’ex virgulto, giovane speranza spodestata, dico che sempre giusto risulterà di fronte alla Storia segnare la sua sorte con l’impiccagione in piazza, e che non si lamenti. Popolo, il plenipotenziario delle regioni nascoste dei vostri cuori sono io. Non affannatevi a cercare l’animo in petto, a spendere i vostri sensi in inutili pensieri di riscossa. I dormiglioni di questo paese sono la sua salvezza. In occasione dei festeggiamenti per l’insediamento del nuovo governo monocratico, proclamo la destituzione dello stesso. Popolo, sii felice del regalo concessoti. Che le maestranze portino in trionfo la forma breve dello scritto! L’apertura alle sue potenzialità è obbligatoria per decreto. È vietato l’uso di sostantivi non accompagnati da attributi. È vietato anche il contrario, con legge vergata a biro cancellabile. Popolo delle salumaie, quanti etti dovrò ordinare prima che l’approssimazione lasci il posto alla scientifica verità dell’ettogrammo? Probabilmente tra qualche chilo di prosciutto otterrò ciò per cui tanto mi adopero: un ettogrammo tondo tondo, tara esclusa. L’insanabile scarto tra le realtà produttive di questo paese e l’abitu53
dine all’ozio degli operai, sarà colmato al più presto dall’“Ordinanza Generale per la Creazione di Opere Letterarie”. La vostra guida metaforica e letterale vi ordina di concepire quanto prima un’opera letteraria originale. Riempiremo i nostri forni, i nostri serbatoi, i nostri pozzi, delle pagine della nostra nuova neo-letteratura. Rinnegheremo il legno, il ferro, il cemento armato. Ci ciberemo della fantasia del nostro popolo. Noi non saremo i soliti contingentati senza dio dell’era moderna, né una serie di inetti da Novecento spinto. È pur vero che l’uomo difficilmente riesce a sopravvivere senza abbassare il capo, specie se la guida in questione è il solito fattorino consegna-verità. Il vero guerriero della patria è l’arcinoto inadatto per eccellenza: se è indispensabile assecondare la volontà di chicchessia, dia il guerriero almeno dimostrazione di un certo stile. La prossima volta che presenzieremo ad un matrimonio (o a un funerale, o a quattro funerali) lo faremo con un cedro in mano. Ci presenteremo al bar citando Leopardi (il buon giacomino dal pessimismo involuto) Questo è quel mondo? questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? e ci inseriremo all’improvviso e con la massima competenza in una disquisita e aneddotica serie di riflessioni sul calcio, esattamente mentre gli altri ciarlano di politica. Ovviamente ciarleremo di politica con la massima competenza e lucidità mentre altri discutono di convocazioni o medaglie d’oro. Inadatti. Questo è quanto. Semplice, futurista, efficace. Alla castagnata arriveremo con una bottiglia di Franciacorta millesimato ed esigeremo una fiorentina ben cotta. Senza gaffe, convinti, spiazzati e spiazzanti. Noi saremo quel chianti da 25 euro alla cena 54
di pesce e dimostreremo la verità: che il vino bianco è arbitrario e subisce un razzismo circospetto, quindi noi saremo circospetti e arbitrariamente escluderemo il bianco arrivando alla verità. Noi siamo i figli della Patria e la nostra Patria è una ciste nervosa. Odiamo i dandy perché il nostro fine ultimo è essere gli schiavi più colti del faraone, non i più elegantemente sfrontati. Abbasseremo anche noi la testa di fronte al dio-sole, proprio perché noi potremmo oscurarlo. Diogene lo disse ad Alessandro Magno. Galileo lo dimostrò al Papa. Noi lo raglieremo agli asini. Popolo, infine non posso sopportare l’idea che in altre case, lontane dalla mia, in altri paesi, lontani dal mio, ci siano oggetti immobili nelle stanze. E’ un’idea che proprio non concepisco. Pertanto dispongo e ordino che tutti quelli che posseggono oggetti, meglio se in plastica, fermi da qualche parte in qualche stanza, li rimuovano o facciano in modo che non restino mai fermi.
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Jacopo Felix Narros è stato visitato dallo spirito di Ponge. Le circostanze fattuali di questo incontro misterioso e misterico non vuole per lo più svelarle, ma resta il fatto che, come i migliori rappresentanti della tradizione teosofica, avrebbe fatto casualmente (la mattina, dopo aver innaffiato i fiori, come sostiene lui stesso) conoscenza con lo spirito del famoso poeta francese Francis Ponge, autore de Le parti pris des choses, il quale gli avrebbe confidato di aver dimenticato di includere in vita nella sua raccolta alcuni preziosi frammenti. E quali?, si domanderà il lettore. Questa pubblicazione ne è la risposta. Una piccola lista di cose, uno svelto inventario ragionato di oggetti comuni nei quali l’uomo lascia distrattamente la sua impronta mentale, e che l’assorbono. In questa Wunderkammer quotidiana, fondamentale per un’interpretazione completa di Ponge, si scorgono ombre metafisiche negli scontrini. Alipio Santos
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Jacopo Felix Narros
LO SCONTRINO DI PONGE
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L’ombrello L’ombrello è stato creato per essere dimenticato. Si tratta in realtà di una calamita per i luoghi morti del nostro campo visivo. L’ombrello abbandonato è una fauna tipica di tutti i locali pubblici, come i virus, i batteri e le mosche. Fa la sua comparsa, ovviamente, nella stagione delle piogge. Frutto di plurimillenari esperimenti sui cancelli e le ringhiere più anonimi e in ombra, che lo bramano e lo chiamano a sé, è figlio del consumismo globale: ogni ombrello sa che verrà abbandonato e che il suo sacrificio porterà alla vita di un altro esemplare con le stesse caratteristiche funzionali e le stesse aspettative esistenziali. Questi pensieri ne fanno un soggetto triste, incline alla malinconia. Fondamentalmente l’ombrello è una vittima, e un maleficio; la sua creazione è una truffa colossale. Lo si è inventato per la paura di sciogliersi sotto la pioggia, ma soprattutto per fare dei soldi. Il non usarlo ridurrebbe i costi nelle bollette dell’acqua. La sedia La sedia ci infonde poteri. Per diventare supereroi basta trovare la sedia buona. Re, Papi, politici sono tali in virtù delle differenti sedie su cui stanno. Si può pensare che la storia dell’umanità si possa scrivere in funzione di ciò su cui nei secoli essa si è seduta, stabilendone così la struttura sociale, la sua variegata visione del mondo. Ci sono sgabelli, sedie da barbieri, sedie di tortura. Ci sono sedie per i gatti e sedie rituali. Ci sono anche sedie per ricchi e per poveri, antiche e piene di tarli o moderne con ruote, regolabili, reclinabili, con razzi propulsori. Si può pensare alle conseguenze di un’eliminazione totale delle sedie (e dell’atto del sedersi: niente Toro Seduto, niente rito del tè cinese, niente sedute spiritiche), o di una sostituzione tra i loro sottogruppi: una sedia di chiodi da fachiro in luogo di una poltrona, di un cesso, di un trono imperiale. Poi ci sono le sedie delle sale d’attesa, tutte uguali, svedesi e subdole: bisogna prestare a queste la massima attenzione, perché sono sedie che intrappolano, e uno si appoggia noncurante e non può più rialzarsi, neanche se c’è un terremoto. 61
La valigia La valigia è come un piccolo noi che ci portiamo appresso. La si tiene per mano come un bambino, o la si porta al guinzaglio come un cane un po’ pigro, cocciuto e con le ruote. A proposito delle ruote applicate alle valigie, sono assassine a piede libero: hanno col tempo decimato i facchini, ma fortunatamente anche gli strappi muscolari, le ernie al disco e quelle inguinali. La valigia, nostra appendice essenziale, può contenere un coniuge accoltellato, delle banconote false, una bomba ad orologeria. In alcune (ci si interroga su quali) sta nascosto semplicemente un omino, seduto comodo su un divano, che aspetta che la valigia venga aperta. Lo scontrino Lo scontrino rappresenta un compendio dei nostri gusti, delle nostre malattie. Può essere visto come un ritratto, un minuscolo identikit che dice se siamo santi o apostati, vegani in potenza o cannibali frustrati. Dietro la banale ratifica di una avvenuta transazione commerciale ci sono le pieghe della nostra identità, del nostro rapporto con dentifrici, chiodi, polli allo spiedo. Un’analisi storica di tutti gli scontrini di una vita porterebbe a scoprire le modulazioni, le incrostazioni di tempo, degli autoritratti di Rembrandt, ci riaggancerebbe ad amori dimenticati, a paesi scomparsi inghiottiti dal mare. Ci sono sciamani che dietro ad uno scontrino intravedono catastrofi, il giorno della nostra morte. Si parla di un luogo dove giaccia, su di un tavolo, lo scontrino definitivo, totale: sarebbe sorvegliato da tre Parche, travestite da cassiere. Il cibo Il cibo è centrale per ogni cultura, ed è un concentrato solido di felicità. È di attinenza del cuoco, alchimista, un Leibniz che mette sapientemente alla prova la combinatoria degli ingredienti, fino ad ottenere la pietra filosofale, quell’elisir della giovinezza che è un piatto succulentemente riuscito. Per il vero ingordo lo stomaco pieno rappresenta la finitudine della natura umana, la frustrazione del 62
suo desiderio, e ogni boccone deglutito è in realtà una lacrima. Il cibo può essere utile e buono, ma anche gramo, rivoltante. In tutti i casi è sacro. Il fatto che l’unico cibo disponibile per determinate persone possa essere stomachevole e disgustoso, è la conferma che pure dio può non essere buono. “Anche in cucina ci sono degli dèi” diceva un antico, e infatti le dispense, le pentole, gli arrosti sul fuoco risuonano dei loro discorsi. L’orologio Barthes parla di idioritmo come dell’ideale accordo tra i ritmi di vita dei singoli e quello della collettività: gli unici che lo attuerebbero all’unisono in maniera perfetta, tuttavia, sarebbero dei lontani monaci asceti. Agli uomini della strada come ponte e norma livellatrice è toccato l’orologio, in tutti i suoi possibili avatara, che col suo procedere a mulino indica il soffio lento e costante del tempo. Vecchi filosofi pensano all’universo come ad un orologio, e a dio come ad un orologiaio. Ma l’orologio è pure un torchio, macchinario attento e sanguinario che inchioda gli uomini e le loro azioni. Non stupisce che nel 1871, tra le barricate parigine, il primo gesto simbolico che compirono gli insorti fu quello di rompere gli orologi, rappresentazione del tempo borghese. È sicuro che l’orologio lo ha inventato lo stesso matto che ha fatto i treni e le tasse. Forse, senza gli orologi, ci sarebbero più galli, e il ritardo, nella sua forma più lieve, sarebbe tanto diffuso da sparire dall’umana percezione. L’orologio è maledetto, si sa (lo dice pure Auden): anche Luigi XVI ci giocava, e gli hanno tagliato la testa.
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Alto è l’interesse degli artisti verso il vetro, un nome per tutti: Scheerbart. Ma il suo vetro è solo vetro: simbolo di trasparenza. Qui invece si tratta di cocci di vetro. Per l’esattezza «tanti piccoli vetri di ogni sfumatura possibile»; frantumi cristallini che traversano i quattro racconti scivolando da una mano all’altra, tra personaggi che pian piano si rivelano la fonte di quei cocci, cioè personaggi di vetro. È un vetro che non taglia, no. Non di schegge si tratta; piuttosto di cubetti, frammenti inoffensivi, e anzi belli, coloratissimi come biglie. Non li potremo usare per farne offendicoli da incalcinare sulla sommità di un muro, a tenere lontani i ladri di uva e pomodori. No: potremo farne invece reliquie di fragili corpi. Perché in fondo – come sempre nei buoni racconti, ancorché surreali – qui si parla di noi stessi. Noi fatti di vetro, ma anche cuori desideranti: verrebbe voglia di appostarsi alla fine dell’ultima riga per portarci via il sacchetto dei vetri colorati. Antonio Castronuovo
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Sara Ricci
VETROFANIE
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Al quarto piano di rue du Mensonge, in un palazzo che in passato aveva goduto di un certo fascino, viveva Monsieur Vitrail, pittore. Si vociferava che fosse scorbutico, misantropo e sgradevole. Un orso, o peggio, un lupo, se non addirittura un mostro. Il nostro pittore, dal canto suo, conduceva un’esistenza tranquilla, priva di scossoni, interamente dedita all’arte. Si era imposto di dipingere una tela minuscola, che riproducesse la bellezza del mondo: una visione ideale e meravigliosa, che tuttavia non prendeva corpo, sfilacciandosi ad ogni pennellata. Era la sua ossessione. Giorno e notte cercava di risolvere l’enigma e puntualmente la tela, muta, si beffava di lui. Una mattina, Vitrail decise di uscire di casa. Il mondo – diceva tra sé – era fuori dalle quattro opprimenti pareti che lo imprigionavano. Ogni cosa sarebbe stata diversa, oltrepassata la barriera delle tende della finestra, che occultava agli sguardi la sua esistenza misteriosa. Nello scendere cautamente le scale, un ronzio di voci gli risuonava nelle orecchie. Alla notizia dell’evento straordinario, l’intero palazzo si era riversato sui pianerottoli. Nessuno lo vide, ma ciascuno affermò di aver udito, all’improvviso, un rumore di vetri infranti. * Ogni mattina Monsieur Rebattu era solito passeggiare lungo il viale alberato che costeggiava il fiume, svoltare in rue du Mensonge e dirigersi al Café per leggere indisturbato il giornale. Qualche metro più in là, due vecchi signori intenti ad aggiornare il catalogo delle sciocchezze umane. Un cane randagio, un uomo in bicicletta, che talvolta si dilettava a seminare terrore tra i passanti estraendo un revolver, una scimmia cinocefala. Una volta giunto in rue du Mensonge, all’altezza di un palazzo un tempo certamente ricco di fascino, sul quale in quegli anni circolavano strane voci, Rebattu scorse un particolare mai visto prima. Sul marciapiede, in corrispondenza del portone, c’era un mucchio di vetri colorati. Non poteva trattarsi di una negligenza del netturbino: nel resto della strada non c’era neppure una foglia
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o un mozzicone di sigaro abbandonato. Strano che nessuno avesse provveduto a raccogliere quei cocci. Erano pericolosi, qualcuno avrebbe potuto farsi male. Decise di raccoglierli in un fazzoletto, che custodì gelosamente in tasca fino a quando, tempo dopo, alcuni passanti non lo trovarono morto su una panchina del lungofiume. * Il piccolo André era un bambino particolarmente intraprendente. Lasciava correre la sua mente in ogni direzione, mentre il suo corpo era costretto a camminare al passo ritmato e ordinario degli adulti. In una assolata domenica mattina, con impazienza, si diresse sul lungofiume. Amava pescare e restare ore e ore ad attendere il momento opportuno, l’istante in cui la preda abboccasse all’amo. Sognava di diventare pescatore, di costruire una piccola casetta lungo un fiume, lontano dal trambusto della città, e viverci semplicemente, seguendo il ritmo indolente della natura. Tirò fuori il necessario: la canna, le esche, una piccola tovaglia in cui aveva avvolto generi di conforto, necessari per affrontare lunghe ore di attesa. A un tratto, nei pressi di una panchina ombreggiata da un olmo secolare, notò un sacchettino. Accostatosi, comprese che si trattava di un fazzoletto. Fu il contenuto a destare la sua attenzione. Aprì con delicatezza, guardandosi attorno, quasi temesse di commettere un atto improprio. Erano vetri colorati, tanti piccoli vetri di ogni sfumatura possibile. Come se un pittore avesse voluto raffigurare tutti i colori del mondo e il vetro, attraversato dalla luce, ne moltiplicasse le gradazioni. Conservò quel tesoro per anni, cercando di non dimenticare mai la sua semplice bellezza. Da grande scrisse molti libri e fu ricordato per la straordinaria vivacità della sua penna, intrisa di quella energia che solo i colori possiedono. *
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Ho ritrovato un sacchetto di vetri colorati. Non comprendo per quale ragione mio padre abbia deciso di conservarli gelosamente. Sparsi sul tavolo li osservo uno a uno. Sembrano tessere di un mosaico senza senso, questo mi sembra un occhio umano, quest’altro una mano, quello un cuore. Con pazienza ricostruisco, pezzo dopo pezzo, il profilo di un volto. Folle ma vero, il disegno si forma davanti ai miei occhi curiosi. C’è un uomo di vetro sul mio tavolo, un uomo che mi fissa con i suoi enormi occhi di vetro azzurro. Allunga la mano di vetro sulla mia e mi sfiora, ferendomi inavvertitamente. Si scusa imbarazzato e mi dice che è sempre stato difficile, per lui, avvicinarsi agli altri. Ora è seduto accanto a me e guarda fuori dalla finestra. Ascolto il suo respiro, noto che i vetri del torace si appannano. Non sembra preoccuparsi della sua strana nudità. Mi dice che il corpo di vetro gli ha creato problemi in passato, specialmente durante i pasti. Non era piacevole, al ristorante, osservare il percorso di ogni boccone. Aveva preferito vivere lontano da occhi indiscreti, nella casa di rue du Mensonge. Fin quando una mattina, desideroso di aria, aveva pensato di uscire. Gli fu fatale una folata di vento. Una volta ridotto in mille pezzi, aveva soggiornato in una tasca e poi in un sacchetto. Ho chiuso la finestra. Mi osserva in silenzio mentre scrivo e sorride con un imperscrutabile sorriso di vetro. Solo una crepa sottile tradisce la sua emozione.
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Alcuni, dicono che il mondo finirà nel fuoco, Alcuni dicono finirà nel ghiaccio. ... Credo di conoscere abbastanza il male Per ammettere che per la distruzione Il ghiaccio è pure forte e sarebbe sufficiente. Robert Frost Fuoco e ghiaccio
Narrazione on the road, ricorda vecchi films dei primi anni ’60: il vecchietto seduto sotto alla veranda che racconta; ma anche il vagabondo che intona una cantilena. E la costante ripresa: sempre lo stesso incipit fino all’ossessione. Alla lettura di Gelo (+ Gelo + Gelo) si associa un’idea, si risente l’inizio e il tema ripreso molte volte del “Soulmates” suonato da Drechsler. È fatale che si pensi al soul, o alla ballata, e ci si spinga a nord, Scozia, Inghilterra, oppure a ovest, oltre oceano. E in tutto questo, uno sguardo che ha lasciato il cielo per la terra. Lidia Beduschi parla per tre righe di cielo in un altro racconto, racconto della vita e dell’infanzia. Qui lo sguardo sta sotto alla linea dell’orizzonte, dov’è il tronco del ciliegio, e i peschi, i meli, i cachi gli albicocchi, poi un treno, la scatola di latta dei biscotti, una bottiglia con del caffè da riscaldare, il lago. Il lago però è completamente ghiacciato, e la terra suona sotto i piedi. Ecco la forma mitica: questa. Ed è la sola che consenta di non eludere del tutto i problemi. Alberta Sereni
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Lidia Beduschi
GELO
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Un inverno così freddo, da queste parti, non lo si ricorda dal ‘29. Non nevica ormai da tre giorni (dopo che la neve è venuta ininterrottamente per una settimana), ma il ghiaccio ha gelato anche i rumori. Bianco, ghiaccio e silenzio. Se non che di notte, quando la temperatura si abbassa ancora, si sentono gli schianti degli alberi che si spaccano per il gelo, nei giardini delle case e nei parchi pubblici. C’è gente che accende fuochi per salvare le piante più robuste che possono nascondere qualche linfa liquida nei tronchi: non nei rami, i rami sono perduti. Ma verrebbero polloni nuovi a primavera, anche se di sicuro stentati e disarmonici. Infruttiferi i meli, i peschi, i cachi, gli albicocchi, che si coltivano qui. Un inverno così freddo, da queste parti, non lo si ricorda dal ‘29. La scorsa notte siamo stati svegliati due volte dallo schianto del ciliegio spaccato dal gelo: l’abbiamo visto la mattina, divaricato dalla base in due tronconi simmetrici. Gela e non nevica. I cachi sono risultati immangiabili: appena portati dentro, si sono sciolti in un brodo giallo e acquoso che ha liberato tre semi lucidi e scuri. Inia se ne sta tutto il giorno rannicchiata e avvolta di coperte che puzzano di naftalina, davanti al televisore: pare che il freddo non abbia risparmiato nessun luogo né a nord né a sud. Il lago è completamente ghiacciato e anche la terra suona sotto i piedi. Temo che non ci saranno radici a primavera. Un inverno così freddo, da queste parti, non lo si ricorda dal ‘29.
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La notte scorsa siamo stati svegliati tre volte dallo schianto dei tronchi che si spaccano per il gelo. Gela e non nevica. Una settimana fa, a mezzogiorno, un treno s’è fermato sui binari appena cento metri fuori dalla stazione: la gente è scesa e se n’è andata. Da allora, qui intorno non s’è mosso più niente. È un inverno lunghissimo, interminabile. Dentro casa, passiamo i giorni a guardare dietro i vetri. Per fortuna le provviste non mancano e con le coperte sulle gambe ora dormiamo, a momenti parliamo un po’, o ci allunghiamo in silenzio la scatola di latta dei biscotti. Il quindici di marzo, intorno alle tre del pomeriggio abbiamo cominciato a sentire il rumore di un motore, ma la macchina è arrivata solo due ore dopo. Dev’essere il freddo che amplifica così i suoni. Era una macchina di modello vecchio, bicolore, sicuramente riverniciata, ma ben tenuta, con le cromature lucidissime. Scese di corsa la donna che stava alla guida (dietro sedeva qualcuno con la testa completamente avvolta in una sciarpa). Le aprimmo svelti solo quando la sentimmo sull’ultimo scalino. “Si sa qualcosa?” le chiese M. “Vengo dalla costa, là è di ghiaccio anche il mare”. Chiedeva di scaldare del caffè che teneva in una bottiglia termica ed era preoccupata per la strada che doveva fare: “Non ho quasi più benzina e vorrei arrivare prima di notte”. Trafficavo intorno alla bottiglia, volevo asciugarla e gliela restituii avvolta in un tovagliolo per preservare un po’ il calore.
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“Non le pare che il sole sia più piccolo e lontano?”. “Sì – rispose lei – anch’io ho la stessa impressione, ma a lui non l’ho detto”. Ormai s’è capito che non ci sarà primavera.
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«Io parlo ai perduti» proclamava Antonio Delfini nei suoi Diari. «Amo sempre i perdenti» è invece il motto poetico di Guido Oldani. C’è un’aria di famiglia, ma tra perduti e perdenti corre anche una bella differenza: quantitativa innanzitutto. Perché se i perduti sono solo una sparuta minoranza, che rischia sempre di ritrovarsi a Chi l’ha visto?, perdenti oggi lo siamo un po’ tutti, sotto i cieli di lardo evocati da Guido nei suoi versi, in cui la «poetica degli oggetti» cara a tanto Novecento giunge infine al suo combattimento d’Armageddon. Profeta lucido e leggero di un’apocalisse che a poco a poco s’è già consumata nella nostra distrazione, Guido Oldani è un diagnosta faceto ma spietato di quel realismo terminale che prende atto d’una definitiva metamorfosi: la trasformazione degli oggetti nei nuovi soggetti, rispetto ai quali noi «nati già clienti/utili solamente se si è in tanti» siamo targati solo come target, bersagli immobili davanti a un terminale, nel termitaio di megalopoli affollate. Ma l’arte rimane un vitale nutrimento, come il girasole di Van Gogh che «sembra una minestra» uguale a quella, fumante lì nel piatto, che il poeta sta mangiando in lode al mondo, e generosamente offre a tutti noi. Roberto Barbolini
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Guido Oldani
I PERDENTI
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I perdenti amo sempre i perdenti e su di loro investo anche me stesso, volentieri, ciò con lo sfarzo d’impreviste forze. Similmente ho l’odio per gli oggetti utili o no sia brutti che eleganti e ogni volta che gli passo a presso mi escoriano e senza alcun rispetto; nascostamente, io li manometto.
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L’unghia mozziconi di sigarette, accesi, gli sguardi di noi nati già clienti utili solamente se si è in tanti. Nei fiati abbiamo odore di denaro, così che siamo uguali dentro e fuori e l’ammontare, la cui banca è il cielo, è quasi quasi sovrannaturale, e cresce uguale all’unghia e come il pelo.
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Il piatto ed è praticamente sderenato a furia che si cambi e di rifarlo il paesaggio, peggio di una sberla. Ed in casa il girasole di Van Gogh che ogni giorno è fresco di giornata dentro la stampa sembra una minestra come quella che mangio qui nel piatto, e lodo il mondo; lÏ nella finestra.
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Isabel Furey ha dichiarato piÚ volte di avere le prove di essere la pronipote di Michael, sfortunato personaggio de I morti di Joyce e sostiene che il bisnonno non sia morto come scritto nel racconto ma, sposato, abbia avuto figli e nipoti e sia scomparso in tarda età . L’autrice, innamorata dei surrealisti, e di Desnos in particolare, corre su territori caldi e luminosi dove i pensieri si avvicendano in un ritmo antirisolutivo, pervaso da toni a volte catartici altre volte cristallini. La scrittura automatica di questo testo commuove per il debordante fluire delle parole senza ostacoli e senza finzioni. Le descrizioni profumano di autentica visione del possibile come pratica sonora, come cura contro la complessità del quotidiano per un recupero del diritto alla proclamazione di uno stato di costante sogno.
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Isabel Furey
IL NUMERO DI LANCILLOTTO
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L’intestino mi salta… Adesso vado perché c’ho il fiume sfocato e non la vedo una gran cosa… Penso sempre a te, faccio troppo la serata… Mio padre mi ha detto vai ed è venuto anche lui una volta o due… Vedrai che è uno che ti punta… Ci sono delle ragazze, io ci vado poco e niente… C’è una stùffia che non c’è mica tanto da correre… Se ho il numero, altrimenti faccio senza… Fanno delle cose vietate, vietate per modo di dire… All’infuori c’è mancia di sigarette… Anche stanotte mi hanno detto che la bambina ha pianto tutta notte... Con questa nebbia mi metto ferma, prendo la bicicletta ma adesso non ci vado più perché dovrei adoperare lo schermo… Mio figlio viene a casa anche alle nove di sera, lavora agli ingressi con tutte le noci dentro… Quando viene a casa lo abbraccio come fosse un bambino… C’è il caso che mi arrivi a vedere sperando che vada tutto bene… Mah! Nella vita… Loro mettono i banconi piccoli con i fiori come fosse la fine del mondo… Io facevo le poste di bugno… L’altra sera è venuto a casa mio figlio… Sono contenta di mio figlio… Andiamo a fare la spesa e se c’è la dobbiamo affrontare… Non è che si interessano, c’è una coperta verde… Il padrone fa aprire qualcosa a schiera districante… Il baghèro è una notavìglia, presentarla bagnata, è del mio còmpero se mi vien tolto a me questa bagnacàgna, si vede che non vogliono una sciocca come me… Provitìna e creonàte io sono sciocca perché avrò fatto una brutta cosa, la prendiamo e ci prendiamo assieme… Lavatura nuova, deve venire lei prossimamente, si vede che la fanfalùra l’altra mattina la lasci lì perché anche i tuoi per il valore della mia panza… Smonta dal cuneo e viene dentro la sera, c’ha la compagnia, sì, si mangia bene, non so perché non voglio mandarlo via… Il malìzio lui la cambia e però fanno quello che vuole… C’è della sigillina che va sempre se c’è bisogno… Suonare un tènfibon a me non fa niente, anzi, invece ci vuole tanta modernìa, mi sembra un punto di rabbia, forse non del tutto… Lavoravo 93
sfebbrata, il dottore, abbiamo preso quella cosa lì… Mi piaceva più quello che facevo prima, ma adesso va bene perché me lo vedo più addosso… Mi sento più pacifica, veh! Domattina dovrei andare dal dottore perché i bàttoli più provano e più buttano tutto a rovescia… Adesso vedremo... Cambiare i frutti ed è già finita… Adesso fanno valere due cose che le conosco, prima ci voleva tanto, adesso ci vuole meno… Va bene così, anche stamattina mi hanno lavato tutta… Non mi piace, hanno messo un fazzoletto col muschio e un bicchiere di razza prima di darla in mano… Le hanno operate e devono aspettare e mi ha detto se anche lui ha una cosa grossa… Sono venuta via che c’erano già dei ragazzi lì, la gioia del tremore… Tende piuttosto le vizie, comincia abbastanza bene, da uomo va a scuola e può cadere e non cadere un mattone… A casa nostra gli schimi, le infrasiglie pagano meno, portare dei soldi sì, c’è quelle cose lì, ma del resto non c’è altro… Sono andata a sentire dal suono, mi date gli spiriti perché devo mangiare… Qualcosina te la muovono ma non sempre… Bisogna vedere strada facendo... Adesso ti fermiamo perché dobbiamo fare delle altre linee… Il missale con sua moglie ha sentito che avevano quelle cose lì, passano dove passano… Non sto bene perché c’ho i frapponi di fegato e devo andare a vedere le mie amiche lì che mi aspettano però ci vado se ho tempo… Due sapetti perché c’è un magazzino in ferro per avere più affetto… C’è una donna vestita di bianco è la donna del fuoco e se abbiamo bisogno, lei c’è… Se ho dei problemi vado dallo sgogòl… Gli schelmi, prendeteli voi, non c’ho neanche guardato, non ho potuto osservarli bene… Le mie amiche sono ingegnose, vogliono credere un paramezzo e quando vado a letto sono una povera donna… Le semenze le danno sempre in tempo... Vedere se negrèffano adesso, vado a vedere che una deve andare al bagno, ma deve andare con la madre… Giocavo con le scorze e bottiglie per lavarsi… Ci sono cappelli infangati, erano panni vecchi,
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ci ha pensato lui a dargli un colpo, purtroppo il mondo è così, non si scappa… Figorìno e spiròfago non sempre sono uguali… Mi piace sentire il mugore, dammi il numero di Lancillotto, voglio fargli vedere la reggia, ma non è un granché… Dei fori da sistemare, bisogna vedere se è meglio o peggio… I rigòni fanno cose grosse e i righini sono altre cose.
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Tutti gli altri esseri sono legati al suolo e da esso si staccano soltanto per brevi tratti; se prendono il volo, esso è figlio dell’artificio e non della loro natura. Tutti gli altri esseri infliggono alla terra e alle acque la loro gravità, soprattutto gli uomini, che sono della stessa sostanza del gorilla e dell’elefante. Gli uccelli, invece, non appartengono alla terra. Distanti, sembrano giudicarla dall’alto; talvolta la sfiorano irridenti e anche quando si posano al suolo attratti da una briciola che essi soli vedono, lo fanno in maniera soffice e impercettibile, come lo scendere dei fiocchi di neve. Essi appartengono piuttosto al vento, quando, a sciami fitti come foglie accartocciate, giocano con le correnti per la sola gioia che dà l’esser leggeri. E anche sono della stessa natura dei pensieri, delle fantasie e dei sogni: come questi sono fugaci e incostanti, abitano le più alte fronde, le nuvole e i paesi di là dal mare. Anche li ritrovi, talvolta, curiosi e saggi come vecchi filosofi, tra le pagine dei poeti. Fabrizio Azzali
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Giancarlo Baroni
UCCELLI IMPROBABILI
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Dei pennuti
Dei pennuti è impossibile annoiarsi non appena avvicinati si dileguano basta questo per renderli mirabili benchÊ non gli interessi. * Li aspettiamo nei soliti luoghi mirando fra nubi e rami spuntano invece da dietro i cespugli guardinghi a passo lento imitandoci.
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Da quassĂš
Nemmeno se guardiamo dall’alto quando sembrate delle ombre temiamo potreste scomparire sospettiamo la vostra inesistenza. * A questa altezza i serpenti non esistono molto oltre galleggiano per aria in terra si trascinano qui incontriamo soprattutto i nostri simili e qualche oggetto che cerca di imitarli. * Dicono discendiamo da un dinosauro immenso ma i suoi figli risultano piatti piÚ della terra a noi che li osserviamo oggi dal cielo.
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Uccelli improbabili
fringuelli darwiniani Per scarsitĂ di cibo scelgono di variare il becco in tredici forme; durante i rari incontri si consolano sapendosi piĂš goffi che al principio. scricciolo Lo scricciolo canta molto forte per convincere infine una compagna di farsi corteggiare impedendo ai maschi piĂš sommessi di sedurla. tacchino Colli di condor lombi di pavone piace il tacchino ai padri pellegrini che sbarcano in America affamati.
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I poeti sono viaggiatori dell’anima e Gabriele è un viaggiatore appassionato. I suoi itinerari più memorabili sono quelli fatti a piedi attraverso il territorio remoto e ventoso dei ricordi, da cui provengono suoni soffocati e voci insonni che hanno l’assordante eco del silenzio e ancora fluttuano in quella pianura incolta e segreta che si incontra “lungo la via delle noci”. Ma per lui qualsiasi appuntamento con gli oggetti del reale è un viaggio che va lontano, anche quando tale realtà è lì a due passi. È infatti un itinerario che tocca la profondità essenziale e metaforica del mondo, proprio nel senso della leopardiana “doppiezza” della visione degli oggetti. La natura, che è la protagonista della poesia di Oselini, viene dunque umanizzata, incorniciata in quadretti impressionisti, dalla tessitura essenziale, che divengono quinte ideali di una storia naturale e sentimentale, dove fiori, frutti, alberi, campi assopiti nel materno cullare delle stagioni sono oggetto di evocazione e allusività. Potremmo dire che il suo è una sorta di antropomorfismo animistico, capace di infondere vita e incisività ai bassorilievi delle cose, o meglio alla loro anima segreta e altrimenti muta e di coglierne il palpitare intimo, sentirle sorelle e amiche fraterne. È la magia che sottende ad ogni aspetto della realtà, un fascio di mutevoli apparizioni al di là della materialità delle cose, che il poeta coglie in filigrana sull’infinito caleidoscopio del mondo come fossero vene azzurre intraviste sotto la pelle. Fabrizio Azzali
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Gabriele Oselini
LA VIA DELLE NOCI
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Vecchi amici nei giardini affrescati dai glicini ho rivisto superbi narcisi gialli ho salutato crocchi di alberi verdi e rossi li ho abbracciati come vecchi amici di gelati briscole e chinotto.
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La mia casa la mia casa del vecchio cortile verde edera panni bianchi luci raccolte attorno al fuoco della Germania accesa di notte ed io sicuro avvolto nel mio gatto in un brivido di febbre sopito dal riflesso delle braci sotto la cenere non aveva stanze su piĂš piani la mia casa ma porte spalancate e grandi muri con portoni verdi assi di legno rosso e cancelli aperti su filari di mele cotogne pesche e ciliege per il rito sacro a mia madre della mostarda di Natale.
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La via delle noci rose scarlatte del muretto tra foglie e ragnatele coperte da un cielo indaco pulito con la bruma adagiata nei campi arati e il suo grigio sempre amato che le protegge lungo la via delle noci.
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Nel Limbo stazionano anime che non hanno avuto il battesimo, anche se, nel nostro caso, si suppone che il destinatario della lettera lo abbia avuto. Allora perché non metterlo in Purgatorio o all’Inferno? No, il Limbo affascina perché imprendibile, è luogo inesistente dove le anime si ritrovano nel nulla, ma il nulla è l’invisibile che c’è, c’è ma è intangibile, fragilmente infrangibile. La lettera di Davico Bonino indirizzata al divo Giulio è struggente perché ironica al punto giusto, dopo una paziente cottura. All’accusa, non tanto velata, di essere stato sottoposto a sofferenza, si aggiunge una punta di nostalgica invidia per quella compagnia che si aggira nel Limbo e che, anche se non sembra divertirsi, gode di un certo conforto. Davico Bonino si serve di immaginazione e li vede tutti lassù o laggiù, dipende, a conversare. Il clima però non è quello di via Biancamano, la rovente atmosfera dei leggendari mercoledì è svanita per lasciare posto a un leggiadro convivio.
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Guido Davico Bonino
LETTERA A GIULIO EINAUDI
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Caro Editore, ho letto con vivo disappunto, qualche giorno fa, su “La Repubblica”, che hanno abolito il Limbo. A me pare una gran panzana. Primo: il Limbo non l’hanno mica creato per padre Dante! Capisco che qualche merito, come poeta, ce l’aveva: ma non si mette su un posto come il Limbo, col suo bel castello, il prato verde e la riviera, solo per quattro o cinque poeti d’una volta! Secondo: finché c’è la Costituzione, ognuno è libero di pensarla come vuole: e dunque io penso che il Limbo c’è, e che ci sono finiti e ci finiranno tutti quelli che sono stati e sono malati del Morbo delle due elle: Libro e Letteratura. Dunque, è nel Limbo che sono convinto che Lei sia e che ci si trovi bene. Ed è lì che indirizzo questa mia, che non contiene altro che qualche consiglio pratico. Eh sì, perché non vorremmo che Lei lassù, dopo essersene stato, così a lungo, quatto quatto e zitto zitto, sì, insomma, ricominciasse – mi scusi l’espressione – a far casino!... A farla breve, i consigli sono questi: – Per il tè delle 5, mi rivolgerei alla Grande Signorina: alla Compton Burnett, di cui Lei ha tradotto quattro romanzi. Deve averne parecchie scatole di quello buono. Di nome fa’ Ivy: glielo ricordo, perché Lei con i nomi…; – Per il Campari delle 7, Le suggerisco il Giovanni, che di cognome fa’ Arpino: sono disposto a mettere le due mani sul fuoco, che non è salito lassù senza una bella scorta; – Per la Barbera della cena, quelli di San Giacomo ci tengono a pensarci loro (io avrei suggerito un Dolcetto, che è migliore); se comunque non arrivasse, si ricordi di cercare Beppe Fenoglio, che ad Alba ha diverse entrature; di Calvino, invece, non si fidi, perché a San Remo fanno un nostralino amarognolo e lui, poi, ha fatto sempre finta di bere…; – Per il whisky del dopocena, io, fossi in lei, mi metterei a cercare – in nome della vecchia amicizia – Hemingway; beve un 117
bourbon un po’ grasso, ma è meglio che niente. Di soprannome fa’ Papa. Se non lo trova è perché è salito lassù molti anni fa e in modo un po’ brusco, e può darsi che il Gran Barbuto ce l’abbia con lui. In ogni caso può sempre chiedere il recapito riservato alla Pivano. Questo per le ore cruciali del pomeriggio e della sera. Quello che mi preoccupa – e su questo voglio parlar chiaro, a costo di bisticciare per l’ennesima volta! – è il mercoledì pomeriggio. Non vorrei che Lei si rimettesse a far riunioni. Lo so, lo so, ce li ha tutti lì: Pavese, Mila, Venturi, Balbo, Leone e Natalia, Calvino, Cerati, Ponchiroli, Bollati (anche lui, ne sono sicuro), Manganelli, Guido Neri, Orengo, Fossati, eccetera. Ma è proprio questo che non va! Pensi cosa direbbero e farebbero gli altri! Due tipetti invidiosi come l’Alberto Mondadori e il Giangiacomo Feltrinelli. Forse che non ce li hanno anche loro, lassù, i loro bravi Debenedetti, Cantoni, Paci, i loro bravi Filippini? E cosa diverrebbe allora il Limbo? Una masterclass di editori? Non oso nemmeno pensare cosa farebbe quel venalone di Eric Linder, l’agente letterario con i suoi bravi rialzi sugli anticipi: “Giulio, sono Eric, tra due mesi scade il contratto Salinger… Te lo ricompri tu o lo do ad Alberto?”. Per carità, La prego, La supplico (anche se con Lei, pregare e supplicare…) non si rimetta a fare, anche nel Limbo, l’editore. Al massimo qualche scambio di idee, durante le solite passeggiate (come quelle d’estate in Val di Rhêmes) mettendo sempre – secondo le sue migliori abitudini – l’uno contro l’altro. Quaggiù – e mi scuso se non Le do buone notizie – va sempre peggio… Della situazione generale non parlo, anche lassù da voi qualche notizia filtrerà, m’immagino… Ma, anche restando nel nostro piccolo mondo, siamo ad un passo dalla catastrofe… Le case editrici portano i libri contabili in tribunale; le librerie chiudono l’una dopo l’altra; quelle che sopravvivono tengono le 118
novità sul tavolo un dieci-quindici giorni al massimo per poi rispedirle al mittente, gli unici libri che si vendono sono quelle cag… immonde (mi scusi, lo so che il Presidente Luigi Le ha insegnato a odiare le parolacce!) scritte da quelle solite teste di c… (mi scusi un’altra volta, non riesco a trattenermi!) di canzonettari-telefilmaioli-gigionazzi da strapazzo!!! Quanto a via Biancamano, che il santo Iddio le tenga la mano sulla testa! Non so come sono lassù i vostri rapporti con Lui… Se i suoi, in particolare, sono buoni, veda – La prego – d’intercedere. Noi quattro gatti superstiti (il Molina Oreste, il Carena Carlo, che han girato la boa degli Ottanta, il Ferrero Ernesto e lo scrivente, che sperano di girarla, visto che è ad un paio di bracciate) facciamo voti che al Cavaliere, inceronato e impacchettato com’è da sembrare la caricatura di Riccardo III, non manchino mai i processi, perché, se appena s’accorge che quelli dello Struzzo esistono… Lasci che L’abbracci, ma come piace a Lei, a debita distanza. Sono, nonostante tutto quel che m’ha fatto soffrire, sempre il Suo g. d. b.
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Si sono scritti interi volumi sulla valenza del topos culturale del giardino. È stato hortus deliciarum, e conclusus, larvarum, animae; artisti della parola e visivi di tutte le epoche lo hanno magnificato nella sua opulenza fruttifera e allegorica ma anche nell’insidia di ciò che tale apparenza cela, ne sono state cantate le ingegnose tramature o la penosa decadenza, è apparso, secondo etimologia, paradiso, e il suo contrario: hanno esalato, i suoi fiori, sublimi selezionati afrori, talvolta mescidati a un sentore di macerazione, di guasto, di proibizioni trasgredite; lo stento che non di rado lo assale ha voluto alludere a umanissime, disperate miserie. Dino Baldi, allestendo il suo personale giardino, sceglie di farne un enorme teatro disabitato. Troppo facile, ma non inesatto, affermare che il labirinto di vegetazione, costruito con rara maestria di stile, sia una sorta di equivalenza della mente che lo pensa. Proprio il rilievo stilistico ci parla di un doppiofondo, di una voce che sceglie la calma e l’ampia campata perché teme di spezzarsi e finire in singhiozzi o in ingiurie; cedere all’urlo o alla preghiera. In ogni caso, lasciare che il giardino dilaghi nella realtà, la riempia tutta della sua labilità minacciosa. Tra i molti esempi che la cultura dell’autore potrebbe suggerire, credo che convenga tenerci al più scontato e insieme più grande: grazie al richiamo a Franz Kafka, infatti, la minuziosa eleganza, con epifanie figurative di gusto quasi parnassiano, dell’incessante descrizione si carica di un allarme che non è soltanto quello che lambisce la follia, investendo la ricerca strettamente morale di un significato che spieghi la maledizione del protagonista e unico sopravvissuto della sua famiglia. E tanto è morale questa domanda, nella sua essenza, da prevedere in via ipotetica un’oscura responsabilità biologica, di schiatta, che finisce per dotare l’io narrante dell’autorità non voluta di chi dal fondo della paralisi alimenta dubbi sulla libertà di movimento. Sicché lo stesso orrore che connota i campi lunghi come le zoomate sul singolo dettaglio, schizza fuori dall’enorme schermo montato a celebrare l’ambiguità del giardino, e perlustra chi scrive e chi legge chiedendo ragione di questo incubo così seducente, della nostra stessa attrazione per i viaggi nel sogno e nell’incubo. Paolo Maccari
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Dino Baldi
IL GIARDINO
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Il giardino, che circonda la villa appartenuta da sempre alla mia famiglia, fu costruito molti secoli fa per volontà del capostipite, pochi anni prima che morisse. Nessuno degli avi successivi si astenne dal curarlo e dargli forma: il primo lo terminò, gli altri lo accrebbero e lo modificarono seguendo ciascuno una propria indole bizzarra, ma sostanzialmente univoca. Soltanto io non ho voluto toccarlo, e non ci sono mai neppure entrato. Ho un giardino più piccolo interno alla casa, circondato da uno stretto portico retto da colonne sottili, dove scendo ogni tanto a guardare il cielo e l’erba che cresce fra le pietre. Qualche volta, passando davanti all’entrata del giardino maggiore, mi siedo in cima alle scale e osservo la luce che taglia di netto l’ombra dalle commessure del grande portone di quercia. Sono sicuro che se lo aprissi la maledizione avvererebbe, quella mai pronunciata, ma che io conosco come ovvia, e dentro quel dedalo intricato sarei costretto a svolgere per intero la mia esistenza, come dichiarata dai nodi che lo compongono. Chi entra col corpo non esce con la mente: questo si legge in un quadro del salone, che raffigura un giovane dallo sguardo ottuso e rassegnato. Ma non servono dipinti per scoprire l’anatema che io so da sempre, come lo sapevano i miei antenati, colpiti fin dall’adolescenza da quel male che ci prende tutti. Il giardino si appropria della vita e la vive come vuole, l’abbatte e la rifonda, l’annoda a un chiodo fisso che la fa girare in tondo, sfianca la mente fino a che non cede e si sconquassa. Conosco il giardino solo dalle mappe, dai disegni e dagli appunti ereditati dai miei avi: dati imprecisi e contraddittori, oppure ingannevoli nell’apparenza di completezza, per lasciare l’illusione del segreto svelato ai reverenti epigoni; ma i suoi confini stessi sono incerti, e nessuno sa dire dove arrivi, se fino al monte qua davanti avvolto di sudore, oppure ancora oltre, nella valle senza nome che nessuno abita. Il giardino fu costruito in posizione favorevole per il clima, ben riparato e ben illuminato da mattina e sera; lo attraversa un ruscello ricco di acque, che si disperdono in piccoli canali nascosti fra le piante, numerose e di ogni genere. 125
Ma l’essenza del giardino non è data solo dai labirinti, dai salici, dai bossi figurati e dalle grandi vasche di pietra in cui nuotano, o forse ormai nuotavano, i grandi pesci che mio padre amava guardare per ore. Non tutto è così salubre e rigoglioso in questo specchio della vita umana, come non tutto lo è nella vita stessa; e il nostro caso è semplice, se osservato con attenzione: il giardino rappresenta una vita rovinata dal giardino. Vi si trovano allora angoli spazzati da un vento incessante di ponente, paludi malsane rinvigorite da piogge torrenziali, forre taglienti, ruvidi precipizi in fondo ai quali si intravedono brandelli di stanze ancora arredate, e poi terreni crettati dalla siccità che danno rifugio a rettili avvelenati, pascoli bruciati dal freddo, caverne che si inoltrano in umidi recessi, non si sa se naturali o fatti apposta per imitare la natura più cruda e inospitale. Sono luoghi sterili, di desolazione e di morte, malati per l’incuria o forse per la troppa cura dell’assiduità. Anche io spesso percorro con la mente il giardino in preda all’ansia della devastazione, o con la rassegnazione che spinge a cercare gli angoli peggiori ed i pericoli, sperandoci la fine che non trovo, perché la cattiva mente insegue e consuma, non uccide. Rendono difficile il cammino le molte porte che spengono i sentieri e vincolano i percorsi successivi. In nessun luogo si arriva se non da una ed una sola porta, con un tragitto ogni volta diverso ed esclusivo. Lungo la via si trovano disseminate grosse chiavi di forme diverse, ma nessuno sa dire perché appaia una chiave piuttosto che un’altra, perché si possa oltrepassare l’uno e non l’altro sbarramento: se in virtù del caso che non sceglie, o per un progetto definito da scopi e mezzi che vuole dirigere il percorso. Comunque sia una volta entrati si deve proseguire, e dicono che un sogno abbia ispirato il progetto di questo labirinto, e altri sogni le modifiche e gli ampliamenti successivi. Come quell’unico e lungo viale ineludibile e in discesa, chiuso ai lati da colonne di marmo alle quali sono inchiodati cadaveri grinzosi vestiti con abiti di fogge antiquate. Su ognuna delle colonne, alte poco più di un uomo, poggiano dei teschi, che la notte illuminano il funebre 126
cammino tartagliando dalle orbite la fioca luce di una candela. Per chi ispirò il sogno, quei cadaveri osceni fissati in spasmi idioti volevano essere un memento, che si può leggere in un cartiglio retto da una mummia all’imbocco della strada: “L’essenza dell’umano muove al riso. Ci se ne dia la pace eterna”. Se chiudo gli occhi, talvolta mi pare di aver letto questa frase, e di aver visto questi morti, molto tempo fa; non è un racconto o un sogno cattivo che me li evoca alla mente. Forse ero bambino, con mio padre, non ricordo bene. I resti umani che decorano la via, questo lo so per certo, sono i miei antenati: tutti gli uomini e le donne che dal primo nascere del giardino gli si offrirono spontaneamente, suggellando così la propria esistenza eterna fra i suoi simboli e i suoi sfarzi segreti. E so per certo che anche io fra non molto dovrò dare il mio contributo: scenderò le scale, aprirò la porta e raggiungerò il viale dove mi aspettano tutti, non si può sfuggire. Con la sola consolazione di essere l’ultimo della stirpe, di non aver generato altri infelici da sacrificare a questa pazzia geometrica, che racchiude tutto il disumano che l’uomo può pensare e realizzare in tante vite. Eppure, la memoria è incerta, la vista è debole, e io mi sento già dentro la fine. Da qualche tempo non sono più sicuro di niente, non so più niente, è come se strisciassi per tenermi più vicino possibile alla terra. Sento accanto a me delle voci insistenti, la notte e ormai anche il giorno. Sussurrano che il giardino è tutto, che non si può sfuggire, che anche la casa in cui mi trovo è nel giardino. Dicono che io sono già qui, morto fra i morti, giardino nel giardino.
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C’era un tale, nato il 3 dicembre di un anno vattelapesca, che pensò bene, in un periodo in cui si sentiva particolarmente giù, di togliere da tutti i calendari disseminati per la casa la data del 3 dicembre così che quando si arrivava all’ultimo mese dell’anno nei calendari di quel tale (ne aveva uno su ogni scrivania, tavolo e mensola e altri appesi al muro, in quasi tutte le stanze, eccetto il ripostiglio e la cantina) la successione dei giorni era siffatta che si saltava direttamente dal 2 al 4 dicembre; in altre parole ciò significava che il 3 dicembre come giorno canonico del calendario ufficiale - quello gregoriano introdotto nel 1582 da Gregorio XIII con bolla papale Inter gravissimas promulgata dalla sua residenza di Villa Mondragone presso Monte Porzio Catone a Roma - era da considerarsi abolito per sempre, cancellato, rimosso. I calendari che quel tale teneva in casa erano dei segna-giorni speciali, stampati a posta per lui in una ventina di copie a colori dalla tipografia Erminio Franchini & Figli di Busto Arsizio. Il menabò che ogni anno puntualmente quel tale consegnava al tipografo, oltre alle foto di paesaggi marini o belle ragazze in costume da bagno scelte per illustrare i dodici mesi dell’anno, prevedeva l’eliminazione del giorno 3 dicembre, corrispondente, come s’è detto, alla sua data di nascita. Con questo piccolo, semplice accorgimento, ovvero la soppressione del giorno 3 dicembre, quel tale evitò di festeggiare il suo compleanno e questo lo rendeva particolarmente felice, perché, se non festeggiava il compleanno, voleva dire in sostanza che ogni anno era in grado di eludere il rituale oppressivo di compiere gli anni e questo, a tutti gli effetti, gli dava l’illusione, abbastanza plausibile dal suo punto di vista, che si potesse in un certo qual senso fermare il tempo, che insomma il tempo non passasse mai. Se qualcuno gli domandava: «Scusa, ma tu quando compi gli anni?», lui rispondeva sicuro: «Mai!» e poi si affrettava a spiegare: «Sono nato il 3 dicembre, ma siccome il 3 dicembre non esiste nei miei calendari, ordinati in modo tale che si passa immediatamente dal 2 al 4 dicembre, ne consegue che io in pratica non compio mai gli anni». E in effetti, messo così, il discorso di quel tale non faceva una piega. Paolo Albani
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Paolo Pergola
FESTEGGIAMENTI
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Oggi viene fuori che è il mio compleanno. Io il compleanno non lo festeggio. Non ho mai vissuto in un posto abbastanza a lungo da avere amici che sappiano quando è il mio compleanno. Quindi non ho mai festeggiato. Forse ho festeggiato a un anno, e a due anni, ma già a tre anni sono sicuro di non aver festeggiato. Me lo ricordo. Cosa vuol dire poi il compleanno. Il festeggiamento di un evento che non è poi così eccezionale. La nascita non è altro che un evento relativamente predeterminato al momento del concepimento. Né più né meno come il primo giorno di scuola. Oppure come il primo vaccino. Mica lo festeggiamo l’anniversario del primo vaccino. Io il compleanno non lo festeggio. Cosa c’è poi di speciale, in un evento relativamente predeterminato al momento della concezione, in un evento che riguarda l’ostetricia? In un evento in cui non è successo altro che uscire fuori. Mica festeggiamo tutti gli anniversari di tutte le volte che usciamo di casa. Casomai, se ci fosse un evento eccezionale, è quello del concepimento. Lì sì che abbiamo vinto una gara. Lì sì che abbiamo unito le nostre due metà, due mezze cellule, pensate un po’, roba eccezionale, un uovo in fondo al corridoio che aspetta, e un nugolo di spermatozoi che nuotano all’impazzata. Chi arriva prima si getta sull’uovo alla disperata, neanche a Pasqua si vedono scene simili. Roba incredibile. Ogni mezza cellula che poi diventerà noi, porta solo metà delle informazioni. Roba da pazzi. Per dire, sull’uovo c’è scritto che avrete gli occhi azzurri, e sullo spermatozoo c’è scritto che avrete gli occhi neri. Vincono gli occhi neri, però avrete per sempre quel marchio occhi azzurri, si dice recessivo perché ha perso, come forbici col sasso, o il sasso con carta, e quel marchio lo potrete ritrovare sui vostri figli,
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se vi accoppierete con una persona che ha anche lei quel marchio, anche se ha gli occhi neri. Insomma, al concepimento è stato deciso tutto su di voi, lo spermatozoo che ha vinto, i suoi geni, il rimescolamento con i geni dell’uovo, roba eccezionale, altro che la nascita. Secondo me, invece del compleanno, bisognerebbe festeggiare l’anniversario del concepimento. Se non si è sicuri di quando è successo, basta una stima. Nove mesi prima della nascita. Sempre meglio festeggiare la stima di un evento eccezionale, che festeggiare un evento predeterminato e ostetrico come la nascita. Oggi lo so, che è il mio compleanno, ma qualche volta me lo sono anche dimenticato. A parte che non lo festeggio, casomai festeggerei l’anniversario del concepimento, ma non festeggio neanche quello, non mi piace neanche tanto l’idea del compleanno. Mi ricorda una specie di contatore. Come se quelli dell’Enel venissero a fare festa ogni volta che arriviamo a mille chiloherz di consumo. Nel mio caso poi, mi ricorda anche che col passare degli anni il numero delle cellule nervose diminuisce, e che diminuisce pure la capacità rigenerativa degli altri tessuti. Le donne, poi, loro nascono già con tutte le uova. Man mano che le usano, ne hanno sempre meno. Volendo, si potrebbe dire già a una quindicenne, ehi, tu hai altre quattrocento uova da sfornare. Vedi tu. Fatti un po’ il calcolo. I maschi no, noi produciamo spermatozoi in continuazione. Su richiesta, si può dire. C’è anche una teoria che dice che ogni persona ha a disposizione due virgola sei miliardi di battiti cardiaci. Poi basta. Sta a lui vedere cosa farci, con ‘sti battiti. Vai a fare cardio-fitness in palestra? Ma bravo! Cento battiti al minuto, per un’oretta, fa seimila battiti. A stare fermo, invece del cardio-fitness, avresti consumato tremilaseicento
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battiti in un’ora. Risultato, hai buttato via duemilaquattrocento battiti, circa quaranta minuti della tua vita, a fare cardio-fitness. Se poi hai anche pagato, sono sicuro che hai anche pagato, facciamo cinquanta euro al mese per due ore settimanali, fa circa sei euro l’ora, allora hai buttato via anche sei euro.
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I pochi versi che seguono ricapitolano in modo fulmineo ed esemplare l’opera già densissima del loro autore. Paolo Maccari è un poeta che riesce a tenere miracolosamente insieme l’oratoria più astratta e la più concreta, straziata notazione biologica. Ragiona ostinatamente, apertamente, ma mentre lo fa distrugge il proprio pensiero, sempre destinato a scontrarsi con l’oscena – l’aggettivo è suo tipico – materialità della nuda vita. È una materialità che esorbita da qualunque teoria compiuta, fosse pure la più negativa e armata delle teologie. Nel mondo maccariano non c’è spazio per una vera lotta sentimentale e intellettuale, per un vero scontro e dunque per un vero, dignitoso onore delle armi: domina un’insensata zuffa tra organismi ormai disumanizzati, bestiali o robotici, magari galvanizzati da un improbabile atletismo. Per rappresentare questa zuffa, Maccari chiama l’osceno sulla scena: appronta, come dice il titolo, un teatro estremo, dove le sue sagome troppo sofisticate e troppo ottuse appaiono in tutta la loro evidenza tenera e ripugnante, violenta e inerme. “Morbida e pellicciata/gioventù bruciata”: recita un distico più che mai maccariano nel suo stile disperato e beffardo, nella sua capacità di dare una sorprendente consistenza marmorea e aforistica al luogo comune. Nei contenuti e nella forma, questo atteggiamento sardonico quanto pietoso ha qualcosa di leopardiano. Forse i primi due testi possono essere letti come una scorciata “storia del genere umano”. E senza dubbio questa poesia, leopardianamente, vive solo malgrado e contro se stessa. Non è la poesia di un epigono. Viene dopo ogni epigonismo, e dopo ogni canonica dissonanza o parodia. È piuttosto una poesia che, rinascendo dalle ceneri moderne e postmoderne, si dimostra tanto più acerbamente viva, tanto più patetica e “rinverginata” quanto più si presenta come non-poesia e come irridente falso. Riesce a restare intatta mimando il gesto di chi tocca il fondo del non-stile, o esibendo i calchi di originali “ben morti” per troppo illustre antichità o per un’attualità troppo volgare. Qui sta il teatro maccariano: in un nauseato artificio che si brucia tutto in una originalissima nudità di discorso. È una nudità ormai spogliata da ogni pretesa estetica romantico-decadente. Soltanto a lampi, quando si riveste liricamente come la donna dell’ultimo verso, ritrova la vergogna e il rimorso moderno della Poesia. Paolo Marchesini 139
Paolo Maccari
ULTIMI ATTI
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1 Un dio disperato lo ha salvato come suo ultimo atto. E poi si è ammazzato. Lui invece ha vissuto. Si è moltiplicato, ha pianto e goduto. Cauto ha simulato, trovato una tana per il suo riscatto. Ha condotto a fine difficili trame con serve e regine, belle del reame. È stato premiato, escluso, bandito: detto genio e matto. Ora tutto ha trovato adempimento ogni cosa è tornata al posto giusto, officia riti con contegno augusto in alta lode del dio del momento. Non prova riconoscenza per l’altro. Il dio esaurito, il pallido suicida. Non è ingratitudine, nemmeno sfida: Per non morire si è costretto scaltro. Si veste con gusto. Ha un sigaro spento. Non dorme da solo che quando è scontento. Un dio fanatico lo inchioda al suolo.
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2 Avevano piedoni senza slanci, muscoli da velocista senza balzi mani anchilosate e inerti. Erano quasi soltanto slabbrati marsupi; genitori apprensivi, rintanati nei rari cespugli a curare un prole fragile e viziata, incline a sbucare fuori per sfidare la strada gli investimenti le gomme incessanti. Morbida e pellicciata gioventÚ bruciata. I vecchi bizzarri animali li scovavo dappertutto, lo sguardo umido di cane in peccato, e poco lontano vedevo i cuccioli intenti a rischiare, alcuni feriti altri invasati. I piedoni, le mani anchilosate, le cosce muscolose di vecchi canguri rassegnati. Genitori che parevano nonni proletari di fronte a una nuova generazione di sventati e arroganti. Pregai per l’incarnazione di animali violenti che ponessero fine alla decadenza. Animali feroci, rivoluzionari che sventassero la hybris ridicola della specie e imperiosi riconducessero alla quadrupedia alla mitezza rassegnata chi ha osato erigersi e saltellare.
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(Un sibilo di un serpente mi fece per un attimo sperare. Poi lo vidi, osceno, digerire. Era un affamato, non un assassino. Non ebbe requie da guerriero ma da bramino). 3 C’è una camera e la luce che filtra. Un atleta si veste per partire. La sua donna, rimasta nuda, guarda supina la televisione spenta dove il suo corpo si riflette vagamente. Si sorride. Si gira verso l’atleta in mutande e camicia. Gli sorride. Lui la guarda svagato. Le cosce dell’atleta sono gonfie. La donna ha un bel seno. Suona la sveglia, loro ridono nello stesso istante. Hanno l’impulso di parlare entrambi e entrambi gli resistono. L’atleta si mette davanti a uno specchio ovale. S’annoda la cravatta. Nella stanza filtra sempre più luce. La scintilla della medaglia acquista intensità. L’atleta manda un bacio alla sua donna, la mano alla maniglia apre la porta. La donna è sola e si accende una sigaretta. Si alza con aria trasognata e gaia. Prende la medaglia, apre la finestra. La stanza è tutta perlustrata dalla luce. A un tratto, con assoluto nitore, la donna, rivestita, si vergogna.
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Sapevo che l’avrebbe fatto, prima o poi. Che avrebbe messo nero su bianco e bianco su nero quei giorni del ’68 nei quali vagolava tra il fumo delle molotov e l’imagination au pouvoir. Me lo raccontò anni dopo, di fronte agli ulivi centenari della sua Sardegna, vicino ai suoi asini pazienti e dolci, ai cardi e al mirto. Antonio Ficante (Tony) era così, lasciava i ricordi scorrere tra le ultimi luci del giorno, vicino alla cisterna dell’acqua che dava ristoro alla sua sete contadina. “La pulisco da me ogni giorno – mi disse – non lo faccio fare a nessuno: è un lavoro di fatica e mi piace così. Lo faccio io, da sempre. È «basso», non è un lavoro importante. Mi sporco assai. D’estate sudo e bestemmio. D’inverno muoio di freddo. Mi resta il nerume sotto le unghie ma mi qualifica per quello che sono: un contadino. Questo lavoro agro mi ricorda che non sono più importante di così e questo mi rasserena: a uno che zappa la terra e pulisce una cisterna piena d’acqua non può succedere niente di male”. Così Antonio, in quella sera di tanti anni fa. Già, ma prima d’allora? La Parigi del tempo era abbagliante, un pulviscolo tenue ricopriva il sorriso delle ragazze sedute per terra davanti alla Sorbonne, i lunghi capelli unti dei maschi sostavano per un attimo in quel sorriso per poi fluire altrove. Antonio trascorse quei giorni del ’68 parigino pieno di un rigore emotivo, una gioia soffusa che traspare in questo suo scritto dove, come un vino forte, si è acclimatato tutto lo stupore di quei giorni. Mi disse anche che il numero 99 l’aveva usato perché gli ricordava l’insegna di un ciabattino e il “suo” Rimbaud, l’uomo dalle suole di vento, appunto. È infatti anch’essa una poesia piena di vento, di corse e di sguardi. Antonio avrà scritto altro? D’allora non ho più avuto sue notizie. Ma anche questo “mi piace così”, direbbe lui. Anche questo silenzio “mi rasserena” perché, dico io, a chi sa apprezzare il vuoto “non può succedere niente di male”. Ciao Tony. Massimo Gatta
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Tony Ficante
LA 99
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La 99 attraversava la città di notte e portava esseri dagli occhi di pozzanghera e smeraldo. La 99 era sempre puntuale e qualche volta arrivava fino all’oceano intrecciando l’aria con la forza di una radice. La 99 tossiva e ringhiava come un cantante preso da sbadiglio e starnuto durante un concerto. La 99 si occupava anche degli oggetti smarriti sulle sue poltrone, li annusava e li gettava dai finestrini. La 99 quando andava in rimessa a riposare sbuffava come mio zio Renzo che da bambino chiamavo G1. La 99 sembrava solo un numero ma aveva anche addobbi e casse e fiori, le persone si abbracciavano, qualcuno piangeva. La 99 somigliava un po’ a una lunga respirazione, un grande affanno come di un lupo che ha corso per tanto tempo. La 99 persisteva nell’impossibile e conosceva l’instabilità della persistenza ma aveva lo stile di paperelle che nuotano in un canale. La 99 si soffermava sul silenzio delle lucciole e sul palpito delle falene, se l’assaliva la malinconia si sedeva vicino a un paracarro. 149
La 99 era l’ultimo spazio disponibile, parlava tutte le lingue, alle signore non negava il saluto, davanti ai signori si fletteva leggermente all’indietro. La 99 era provvista di comodi servizi, per tutto il viaggio proponeva dolci soste ma anche dolori leggeri che passavano alla vista di un delfino. La 99 non pretendeva nulla, agiva sui cardini delle altalene e sulle viti degli stipiti lasciando andare un unguento, le sue maniglie erano di avorio nero. La 99 una volta deragliò perché un bambino le stava attraversando il cammino, gli addetti scuoterono la testa. La 99 era più lucente di oggi, col tempo anche lei invecchiò ma non mollava la presa, qualcuno la prendeva di petto, altri lasciavano correre. La 99 sulle pareti interne aveva appeso dei fogli con delle scritte a inchiostro simpatico, che si leggevano solo di notte perché la luce del giorno le rischiarava e non si leggeva più nulla. La 99 ospitava anche animali di vario genere, un anno, durante tutto il mese d’agosto sembrava l’arca di Noè.
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La 99 non ebbe vita semplice perchĂŠ correva dietro a tutti e come accade in teatro, qualcuno lo prendeva, altri scappavano dietro le quinte.
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Scientemente e impunemente ha dettato le sue regole, i suoi tempi rabbiosi come i colpi di vanga e la bestemmia a fiorir di labbra. La vedevi arrivare di lontano, la frustata che si sarebbe abbattuta tra capo e collo o schiusa tra le labbra e quella fessura di metallo grigio degli occhi quando scendono in pianura e riverberano l’aria azzurra. Se potevi, schivavi. Ma anche ingroppavi la testa nel collo, e stavi in silenzio o tra parole, gesti, cartelle di poesie da sfilare dalla pila senza sbagliare colore e sfumatura. La poesia per oltre trent’anni è stata la sua arma segreta, lo stradone su cui incontrare stare a sentire inondare di regali amici e figli di amici. Non l’ha pubblicata per poterla regalare. La poesia come dono e comunione tra amici; potendo scegliere, optava per i figli degli amici, ricerca e avventura, gioco e invasamento, da inviare e controllare tra pochi, confidando che lì si sarebbero conservate le carte da far uscire. Dopo. Ha scommesso l’osso del collo su poesia e amicizia. A Gorgo si è appartato per necessità, sosteneva, ma anche perché quello era il fortino e l’osservatorio. E da lì non ha smesso mai di guardare ascoltare, vangare e scrivere. Cercando interlocutori che lo amassero, che come lui fossero appassionati, un po’ invasati e sempre stralunati. Pronto a scommettere sulla terragnità, chino sulle “parole amate” con una assoluta fedeltà di ricerca e segno; proprio quando lamentava di essere balbuziente, con un volo di passero usciva dal dialetto di Po con endecasillabi di quotidianità istintiva e instancabile lavorìo. Il suo segreto sottosuolo. Elia Malagò
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Umberto Bellintani
NELLA NOTTE DI POCA LUNA
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Non sempre la campana del cuore suona
Non sempre la campana del cuore suona dolorosamente. Stamattina invece sĂŹ, appena sveglio. Ferma la dolorosa campana dissi, rompile le corde, falla in mille pezzi.
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Se tu non m’aiuti
Non posso pulirmi da solo raschiarmi il luridume dal corpo dal cuore dall’anima non posso se tu non m’aiuti. E di me che sarà se tu non ci sei? Ti chiamo. Ma la distanza tra noi è ora immensa distanza inimmaginabile sono io di là della Galassia. Sono solo e il buio ecco è acqua che lava.
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Nella notte di poca luna
Difendi e alimenta la fede in Dio anche se non c’è, mi disse l’amico buono e caro accostandomi alle spalle, sussurrando nella notte di poca luna. Poi se ne andò, senza che io ne sentissi il rumore dei passi.
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Nel corrente 2014, la scrittura di Valentina Fortichiari (come la sua pratica segreta della fotografia) è stata feconda di frutti nuovi rispetto alle storie da lei composte in passato. Protagonista sovrano di tali nuovi racconti è il mare; i personaggi foche, delfini, capodogli e altri animali che sopra il liquido elemento si sostengono – per echeggiare quel Leonardo cui da anni Fortichiari dedica una porzione non piccola delle sue ore di studio. Nella rappresentazione di questi animali marini – giovani e vecchi, madri e figli – nonostante la compenetrazione della scrittrice non c’è traccia di concessioni all’antropomorfismo. Come a titolo di programma, in esergo al primo racconto due versi dai Quartetti di T. S. Eliot ricordavano al lettore che “the sea has many voices, / many gods and many voices”. Ciò che in verità ispira la narratrice è l’unità radicale della natura, l’amore per l’uguaglianza delle sue creature, ciascuna specie nel rispettivo habitat. Come tale uguaglianza radicale possa essere sconvolta e persino annientata è ciò che in primo luogo ci mostra il racconto che qui si pubblica. I personaggi, in questo caso, non sono cetacei ma umani: emigranti clandestini, che a conclusione di una drammatica “traversata della speranza” dalla costa libica a quella siciliana, a bordo di uno scafo che è solo più un precario contenitore di corpi, debbono scoprire come la loro individuale sopravvivenza possa infine dipendere dalla soppressione del proprio fratello. Ma non è mors tua vita mea la morale della scrittrice, consegnata alla potente immagine simbolica che conclude il racconto: il brulichio delle cento e cento piccole tartarughe che, emergendo dalla sabbia dove si sono schiuse le loro uova, subito prendono per istinto la via del loro ambiente, l’acqua del mare mai visto prima, sotto lo sguardo attonito del piccolo deracinè scampato al naufragio della carretta. Donato Barbone 163
Valentina Fortichiari
LA CARRETTA DEL MARE
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In mare, dov’era caduto, si era sentito subito artigliare un polpaccio, una mano cercava, strappandogli le carni, di portarlo giù e servirsi del suo corpo per risalire. Quella forza lottava con la disperazione per non soccombere, ma a prezzo della sua vita: quando, in pochi secondi, lo capì mentre ingoiava acqua salata, ingaggiò l’estrema resistenza per svincolarsi. Erano partiti dalla costa libica insieme a una quantità inverosimile di altra gente, che avrebbe finito con l’affondare la misera carretta del mare. Li avevano caricati e ammassati a spintoni e botte, come sacchi di farina. Fortunatamente non era toccato a loro di scendere nella stiva, dove altri avrebbero fatto una fine atroce, soffocati, la fine dei topi. Imbarcandosi, nessuno conosce il proprio destino e molti non sanno nuotare, oppure pregare, se per avventura cadono in mare. Loro si erano tenuti vicini, senza mai lasciar andare le mani intrecciate, le dita strette: il papà, la mamma, lui che aveva 7 anni, il fratello di 4, la sorellina di pochi mesi. Avevano dato via tutti i risparmi per quel viaggio improbabile e assurdo verso un mondo che nemmeno riuscivano a immaginare: una terra di nessuno, a credere ai racconti di altri, che prima di loro avevano percorso lo stesso interminabile e infausto braccio di mare, fatale a tanti. Caduti in acqua, spinti da chissà chi, mentre il padre a cavalcioni sul bordo della barca gridava a squarciagola – uno per uno – i nomi della famiglia, dopo lunghi secondi, al posto della mente ormai in preda al panico, i suoi occhi avevano intuito la salvezza e non l’avrebbero mollata più. Non avrebbe dimenticato le immagini di sua madre che fluttuava inerte nella trasparenza, manichino con braccia e gambe disarticolate, i capelli lunghi e sciolti, tentacoli di meduse, la bocca spalancata, senza bolle d’aria, e la sorellina neonata, una bambola di stoffa trascinata ormai lontano dalla corrente. Voleva finire così? Lasciarsi andare anche lui, arrendersi senza combattere? Sapeva bene che, ancora pochi istanti, e avrebbe guardato in faccia la morte. 165
Lo sapeva bene perché era l’unico in famiglia che sapesse stare a galla. Per la verità non era l’unico: anche la vecchia, che non si separava mai da un cane pieno di pulci, sapeva muoversi in acqua e qualche volta lo portava con sé in un tratto di spiaggia deserto, pieno di sterpi e sabbia, al margine delle dune. Poteva essere sua nonna? Se l’era chiesto, ma nessuno ci teneva a spiegargli com’erano andate effettivamente le cose: troppe bocche da sfamare, un litigio, due donne che si prendono a botte. La vecchia solitaria parlava poco, ma gli piaceva. I piedi bruciavano sulla sabbia nell’ora del sole caldo, ma a forza di bruciare, la pelle sotto si era indurita come una suola di scarpa. Scarpe del resto non ne aveva, soldi risparmiati. All’insaputa di tutti, lei si lavava in mare ogni giorno, anche d’inverno, e gli aveva insegnato qualche regola per non affogare. Trattenere il respiro, poi soffiare adagio l’aria da naso e bocca, muovere braccia e gambe alla maniera di un cane, che sa d’istinto come fare. Quando la vecchia smise improvvisamente, da un giorno all’altro, di entrare in acqua e non ci fu verso di trascinarla con sé, lui aveva capito che si avvicinava la sua fine. Se ne stava accucciata alla stessa maniera del cane, ma teneva d’occhio il ragazzino quando lui non rinunciava alle nuotate, durante le quali ripassava da solo le istruzioni per non andare a picco. Non voleva annegare, aveva terrore del respiro che si blocca in gola, nelle narici, mentre l’acqua entra dappertutto, persino nelle orecchie, e ferma il cuore. Una volta ci era andato vicino, perché il mare era mosso e la corrente lo spingeva al largo; ma anche allora era sopravvissuto. Adesso, finito sotto la carretta del mare, cominciava a sentirsi soffocare, non ce la faceva più. Per nulla al mondo sarebbe rimasto sotto, voleva tornare a posare i piedi a terra. La vecchia, cosa gli avrebbe consigliato per salvarsi?
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Per un attimo pensò di afferrare e trascinare con sé la mano che lo avvinghiava, forse in due potevano ancora farcela. Poteva cercare di portare con sé il fratellino, perché era lui che lo teneva stretto, suo unico e ultimo gradino per la salvezza. O lui o me, decise, talmente in fretta che gli parve di non aver neppure pensato. Intanto, altri corpi erano caduti in mare, in un agitarsi scomposto di onde. Sulla barca, evidentemente, qualcuno si era sbarazzato dei corpi pesanti e inutili: cadevano già immobili, abbandonati, arresi, non tentavano neppure di agitarsi. Erano morti. Non vedeva più nulla, ma non aveva più spazio nei polmoni, che reclamavano ossigeno. E gli era rimasta addosso soltanto una maglietta, nient’altro lo appesantiva. Tranne l’acqua che cominciava a bere, a denti stretti. Con l’ultimo strappo liberò la gamba, poi il piede, sentì le dita di suo fratello che si allentavano, mollavano finalmente la presa. Neppure un rammarico, un addio. Non aveva più macigni, le catene che lo spingevano in profondità. Si arrampicò su su, come una furia, sull’ultimo corridoio d’acqua, verso la luce in superficie, con tutta l’energia che ancora poteva metterci. Nel liquido ormai torbido, come scalando una parete senza consistenza, senza appigli, scalciava, batteva le braccia forsennatamente, con un unico scopo: raggiungere il punto luminoso in alto e riemergere all’aria. Lì c’era la vita, la sua vita; il mare poteva essere solo la sua tomba, non gliel’avrebbe data vinta. Emerse con un urlo rauco, un conato, vomitò acqua salata: la sua fame d’aria pareva non trovare sollievo neppure in superficie. Inalava e sputava muco, tutto insieme, da naso e bocca. Piangeva e gridava, come un cucciolo appena nato. La carretta, stracolma, sul pelo del mare, imbarcava acqua. Si girava su se stessa, tornava indietro. Per lui? No, virava incontro alla nave della capitaneria che spingeva i motori a tutta forza.
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Si trovò quasi in mezzo e sperò che lo avvistassero, nonostante il riverbero della luce. Stava per lasciarsi andare, aveva perso ogni speranza, ogni linfa, proprio adesso che era vicina la salvezza. Si sentiva svenire e non vedeva più nulla. Forse svenne, ma si ritrovò sul ponte. Tremava e ancora voleva liberarsi lo stomaco, gli avevano messo addosso una coperta, abbandonandolo lì. Gli parve una eternità. Sbarcato, non si teneva in piedi, le labbra secche crepate, una sete disumana ma incapace d’inghiottire; si era messo in un angolo in terra, appoggiato al muro scrostato. Suo padre, impazzito di dolore, gli gridava davanti a tutti che non lo voleva con sé, voleva soltanto sua madre, che non c’era più. Passavano cadaveri, e una processione di bare d’alluminio. La morte non gli faceva effetto, ci era andato vicino, si erano quasi conosciuti, in acqua. Poi, in fila con tutti gli altri, una mano a conchiglia sul sesso nudo, in attesa di una sistemazione, vide una ragazza dal viso dolce che lo fissava e gli sorrideva. Gli ricordò sua madre. Era un medico: quando fu il suo turno, gli chiese forse come stava, non si capivano. Lei si limitò a dargli dei vestiti. Quelli come lui sopravvissuti, ragazzi e bambini di ogni età, non sapevano dove andare, stavano sempre nei dintorni del centro di accoglienza, mangiavano poco. Lui, lontano da suo padre che se n’era andato a piedi verso le campagne in cerca di lavoro, teneva occhi e orecchie aperte, e aspettava una via di fuga. Le notti sotto le stellate estive erano calde e umide come nel deserto. Un giorno la dottoressa lo prese per mano e lo portò con sé verso la spiaggia. Doveva essere mezzogiorno, la campana della chiesa batteva i rintocchi. C’era un gruppo di persone, scherzavano in allegria; lui, l’unico dalla pelle ambrata, non parlava la loro lingua e si sentiva
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estraneo, ma insieme incuriosito. Andavano verso un punto preciso, dove si misero chini sulle ginocchia. Scavavano con le mani nella sabbia, fecero una buca ampia. Lui fece altrettanto, ma senza capire. Lentamente, da quella buca vide affiorare zampette scure, gusci, teste: emergevano, una dopo l’altra, una quantità incredibile di piccole tartarughe, di colore verde bruno e nero, cosparse di sabbia umida. Scalciavano forsennatamente, arrancavano, si facevano largo e subito prendevano la via del mare, per istinto. Le voci umane alte le incitavano, accompagnandole sino a riva. Quel brulichio di nuova vita, scuro e vivacissimo, risaltava sul biancore della sabbia: le tartarughe sapevano bene dove dirigersi. Per nulla al mondo avrebbero perso l’orientamento o rinunciato a scendere verso la loro dimora nel mare. A volte si sovrapponevano una all’altra, spingendosi, superandosi, per la fretta di arrivare. E altre uscivano dalla buca: non era mai finita, dovevano essersi schiuse centinaia di uova, tutte insieme, il primo giorno d’estate. L’acqua, una strana salvezza per questi animali marini, lui invece, nel mare, aveva dovuto fuggire la morte. Si commosse, pensando alla lotta per la vita, allo sforzo immane, il suo, per tornare a terra, e quello delle piccole tartarughe appena nate, che fiutavano l’acqua senza averla mai vista prima.
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I militari sono rudi, lo sapevamo. Ma poco sappiamo delle militari: sono rudi anch’esse? e come bilanciano la rudezza con la femminilità? Perché sì, è vero, sono militari, ma in quel luogo sembrano starci fuor di luogo. Non sembra invece fuor di luogo la mora Samantha, che ci sta benissimo e anzi lo ha sempre sognato, fin da quando il nonno alpino se la ballonzolava sulle ginocchia intonando canti di cime e trincee. E non solo ci sta benissimo: bilancia perfettamente la rudezza con una dirompente femminilità, fatta di esuberante quinta di seno, procaci labbra a rossetto, voce da pornostar, guepierre di cuoio e un attizzante perizoma (l’autore non lo dice, ma Samantha lo indossa, ne siamo certi). Insomma: questo racconto mette a posto le cose e dimostra, in maniera definitiva, che non c’è alcun attrito tra vita militare e femminilità; credono il contrario ormai solo i vetusti maschilisti. Io tengo per Samantha. Una sola cosa mi dispiace: che l’eroina sia stata battezzata dal figlio di suo nonno col nome di Samantha. Perché qui sta il problema, una questione che da qualche tempo mi ruba il sonno. Penso ai ragazzini di nome Deborah, Maicol, Samantha, Jessica. Penso a quando avranno ottant’anni e saranno loro a fare i nonni. Nei miei incubi appare la figura del nipotino/nipotina che, giocando, implora: «Mi passi la scatola dei lego, nonno Maicol?». Oppure: «Nonna Samantha, domani mi comperi il gelato?». Ecco: che un venerando vecchiarello possa chiamarsi così mi fa sbellicare dal ridere. Perché una può chiamarsi Samantha se fa la militare, non la nonna. È come se Samantha dal seno prosperoso non possa accumulare nella vita – per il solo fatto di chiamarsi così – un senno prosperoso. Ma forse questo racconto ci vuole dire proprio questo: che tra seno e senno ci corre più di un cenno (non era facile trasformare il proverbio e conservare la rima, ma insomma). Antonio Castronuovo 173
Alfonso Lentini
L’ALPINO SAMANTHA
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L’alpino Samantha porta la quinta di reggiseno ed è una mora strepitosa. Ha un cellulare che risplende azzurrino cip cip nella grande notte della camerata e la sua tuta mimetica tutta chiazze verdi e marron le sta che è uno schianto. L’alpino Samantha beve solo coca-cola, niente grappa, ma ha un nonno alpino. L’alpino Bortolot Samantha è nata a Vallesella di Cadore ed ha sempre sentito parlare di alpini. In chiesa cori di montagna. Al bar gestito da sua madre, cori di montagna, canti alpini. L’alpino Samantha, da bambina, veniva presa sulle ginocchia dal nonno che se la ballonzolava hop hop e le cantava Tapum le canzoni degli alpini. In casa giornali sugli alpini, quadretti con le stelle alpine e un alpino che scala il monte fra le stelle alpine. Il più bel fiorellin del mondo / è sempre l’edelweiss. A Belluno il “Ponte degli alpini” è sorvegliato da due alpini di pietra, sbalzati massicci, coi drappeggi di pietra del mantello di pietra che ricoprono i loro visi di pietra sino agli occhi. L’alpino Samantha, in forze alla Brigata Marche di Belluno, ha una madre che all’inizio non voleva, ma poi. L’alpino Samantha ascolta musica truzza e tifa Milan. Non va a votare che poi tanto son tutti uguali. Va a sciare, ma solo qualche volta. L’alpino Samantha sino a quindici anni ha frequentato l’istituto professionale sezione sarte perché se non la prendevano nell’esercito magari faceva la stilista chessò. Ma poi. Al corso l’hanno presa subito. L’alpino Samantha è amica dell’alpino Jessica e dell’alpino Cristina. La sera vanno a mangiare la pizza tutte insieme al Mirapiave in via
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Santa Maria dei Battuti. Già alle nove di sera Belluno è deserta. La notte di Ferragosto erano in cima al Peralba, stese per terra col naso all’insù per vedere le stelle cadenti. L’alpino Samantha ne ha viste sette. L’alpino Samantha non è una che crede a quelle balle tipo l’esercito impegnato in missioni di pace operazioni di soccorso azioni umanitarie e tutta quella pappa. L’alpino Samantha si è arruolata perché vuole menare, spaccare le reni a quei porcibastardi. Punto. L’alpino Samantha crede nella guerra e vuole imparare a sparare. Punto. Sul cappello che noi portiamo / c’è una lunga penna nera / che a noi serve da bandiera / su pei monti a guerreggiar. Certo, porta la penna nera con orgoglio, l’alpino Samantha; questo sì, ma niente pappe, tutto quel grasso che cola sugli alpini che si battono per la pace che invocano Dio Signore delle Cime che salvaguardano la natura amano i boschi i monti. Sui monti dai ripidi d’argento. Sì le montagne: per scavare trincee, per sparare meglio dall’alto casomai il nemico arrivasse da quelle parti, casomai. Al comando dei nostri ufficiali / caricheremo cartucce e mitraglia / e se per caso il colpo si sbaglia / a baionetta l’assalto farem. L’alpino Samantha da qualche tempo fa sollevamento pesi per farsi due bicipiti così. L’alpino Samantha da qualche tempo nasconde nel suo armadietto una frusta, stivaloni, catene e un paio di manette persino. E una guepierre di cuoio.
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L’alpino Samantha, se la chiami al cellulare, si presenta dove vuoi tu con le labbra di rossetto rosso fuoco e per pochi soldi ti frusta ti ammanetta ti stordisce e poi si lascia prendere da dietro. E intanto ti racconta tutta quella roba lì, sussurrandoti all’orecchio con voce da pornostar, ti dice delle marce massacranti che fanno, dei turni di guardia, dei muli, dei fucili da oliare, del poligono di tiro, dell’alzabandiera. Ti fa godere da matti. Forse inventa tutto, però sembra vero.
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BIOGRAFIE
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Franco Nasi, saggista e traduttore, insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra le sue pubblicazioni La malinconia del traduttore (Medusa 2008), Specchi comunicanti (Medusa 2010), e la cura (con A. Albanese) del volume I dilemmi del traduttore di nonsense (Longo 2012). Lino Di Lallo [1946] Scrittore e artista visivo, vive e lavora a Firenze, dove si è laureato in Architettura con Eugenio Battisti. Ha pubblicato le raccolte di poesie La disperazione (1980) e Penniscopio (1987), entrambe con El Bagatt di Bergamo, e Quo lapis? Inventare una scuola colorata (Einaudi 1994). È condirettore di Tèchne (nuova serie) e collabora a il Caffè illustrato. Adamo Calabrese Stradivarius. Mio padre mi ha lasciato una cassa di libri dentro la quale ho coltivato la mia età dell’oro. Da mio padre ho imparato a scrivere, da Gustave Doré ho appreso il disegno, un vecchio suggeritore mi ha educato a recitare Shakespeare. Scrivo con la mano destra e disegno con la mano sinistra per separare il giorno dalla notte. Per campare ho venduto spade e coltelli spingendomi fino agli estremi mercati di Samarcanda. Sergio Sozi (Roma, 1965) come critico letterario inizia a vaneggiare a Perugia nel 1995 con la fondazione del trimestrale culturale I Polissènidi. Ostinato come una capra pubblica di cultura su L’Unità, Avvenimenti, Trieste Arte e Cultura, Il Giornale dell’Umbria, Inchiostro, Letteratitudine, Lankelot, Italialibri. Nel 2000 si trasferisce in Slovenia ove pubblica il romanzo Il menù, (Castelvecchi, Roma 2009), Il maniaco e altri racconti (Casini, Roma 2007), Intervista a Claudio Magris (Historica, Cesena 2010), la curatela di Papir in meso, antologia slovena di novellisti contemporanei italiani (Beletrina ŠZ, 2005) e il volume croato di AA.VV. Lapis Histriae (2008). Vive a Lubiana.
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Elena Fantasia (Trieste, 1962) con lo pseudonimo Ellen Fay pubblica il suo primo romanzo Colori, profumi, sapori e note della vita (Il Filo, 2006). Nel 2007 vince il concorso internazionale di letteratura Montecatini Terme con il racconto Bianca. Dal 2008, con la casa editrice Giulio Perrone, pubblica poesie e racconti nelle antologie di autori vari. Nel 2009 vince il concorso letterario di poesia con il testo Spazi promosso dal sito “L’isola della poesia”. Nel 2011 pubblica la raccolta di racconti Non chiedermi perché (Demian edizioni). Vive e lavora a Trieste. Giorgio Bellodi (Viadana, 1978) dopo il conseguimento della più classica delle lauree in lettere classiche a Bologna, avendo ancora molto da imparare, decide di ritornare a casa e cominciare a insegnare. Attualmente vive a Mantova e, di contratto in contratto, continua a imparare molto dai suoi studenti. Per Pulcinoelefante ha pubblicato La via (2003) e Una poesia (2005). Un po’ poco, ma è tutta colpa sua. Non si è mai capito se e quando sia stato davvero dittatore di Polacchia, ma le vivide descrizioni di quel periodo fanno propendere per la veridicità delle sue affermazioni. Jacopo Felix Narros è nato all’ospedale maggiore di Cremona il 29 maggio 1990. Studente presso il Dipartimento di Studi Umanistici all’Università degli Studi di Milano, è redattore e articolista della rivista Lapisvedese. Ha pubblicato la raccolta di lapilli letterari Il Senzaventre (Tapirulan 2013), con illustrazioni di Jacopo Ghisoni. Sara Ricci, a detta di suo padre, nata novantenne nel 1980, ringiovanisce progressivamente, rinverdendo i fasti di una tardo adolescenza mai superata. Cultrice di lingue morte e agonizzanti, traduttrice, pianista, lettrice vorace e scrittrice compulsiva. Tenta di diffondere il morbo della letteratura potenziale nelle ammuffite aule universitarie, turbando il sonno di accademici ottuagenari ancora ostinatamente in attività. Fa parte del Corpo delle Membrane del Collage de ‘Pataphysique in qualità di Uditrice Reale. All’attivo numerose e ignote pubblicazioni (saggi, traduzioni, racconti, recensioni e note). Ha curato per un breve ma intenso periodo una rubrica di letteratura potenziale sulla rivista on-line Il Colophon, ora chiusa per ferie. Lidia Beduschi. È nata senza averlo chiesto, come d’altronde tutti noi. Per ora vive.
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Guido Oldani è il padre del Realismo Terminale, che si appalesa nel III millennio, e l’inventore della similitudine rovesciata. Nella realtà, la natura è divenuta azionista di minoranza, azionisti di maggioranza sono gli oggetti. Si annulla la distanza fra i prodotti e l’uomo che incomincia ad assimilarli. Nasce un modo radicalmente diverso di interpretare il mondo e di rappresentarlo, anche artisticamente, a partire dalla poesia. Nato nel 1947 a Melegnano (MI), Oldani è attualmente una delle voci poetiche internazionali più riconoscibili. Ha pubblicato sulle principali riviste letterarie del secondo Novecento ed è autore delle raccolte Stilnostro (CENS 1985), introdotta da Giovanni Raboni, Sapone (2001), edita dalla rivista internazionale “Kamen”, La betoniera (LietoColle 2005). È stato curatore dell’Annuario di Poesia; Crocetti; è presente in alcune antologie, tra cui Il pensiero dominante (Garzanti 2001), Tutto l’amore che c’è (Einaudi 2003) e Almanacco dello specchio (Mondadori 2008). Collabora con L’Avvenire e Affari Italiani. Con Mursia ha inaugurato la Collana Argani, che dirige, pubblicando Il cielo di lardo e nel 2010 Il Realismo Terminale. Nel 2013 esce, per i tipi di Mursia, La faraona ripiena, curata dagli italianisti Elena Salibra e Giuseppe Langella, è una raccolta di saggi critici sul Realismo Terminale. Isabel Furey (Galway, 1937) è autrice di saggi sulla scrittura automatica Night the seagull (Oedipus, 1965) e I don’t know of the hammer (Eraserbell, 1990). Nel 2004 si è aggiudicata il prestigioso Opposition Prix. Il numero di Lancillotto, pubblicato a Londra col titolo di Hardboyled Lancelot (Phantom Inc., 2009), è il suo primo testo tradotto in italiano. Vive a Galway. Giancarlo Baroni è nato a Parma nel 1953, sogna spesso di essere in pensione. Ha scritto due romanzi brevi, qualche racconto, un libro di riflessioni letterarie e cinque raccolte di versi; l’ultima, con una prefazione di Pier Luigi Bacchini, si intitola I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick, 2009). Gabriele Oselini (Viadana, 1953) si è laureato in Pedagogia presso l’Università di Parma. Negli anni Settanta ha incontrato Daniele Ponchiroli, caporedattore della casa editrice Einaudi, col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia. Per Fara Editore ha pubblicato Specchio (2006), Finito (2008) e Piove (2011). Vive a Viadana.
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Guido Davico Bonino è nato a Torino nel 1938. Ha lavorato nella casa editrice Einaudi dai 23 ai 40 anni. È stato tra i 40 e i 50 critico teatrale de’ “La Stampa”. Ha insegnato nelle Università di Cagliari, Bologna e Torino. Ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi dal 2001 al 2003. Dino Baldi è nato ed abita a Prato. È stato tra i collaboratori della rivista «Il Semplice. Almanacco delle prose», curata da Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati. Ha pubblicato Morti favolose degli antichi (Quodlibet, 2010) la traduzione e cura dell’Anabasi di Senofonte (Quodlibet, 2012) e Oracoli, santuari e altri prodigi. Sopralluoghi in Grecia (Humboldt-Quodlibet, 2013). Lavora nell’editoria e collabora con l’Università di Firenze per l’ambito degli studi classici. Paolo Pergola non è nato nel 1934, né nel 1938, 1946, 1952, 1962, 1968, 1971, 1972, 1973. Non è nato né a Napoli né a Milano, e neppure a Belluno, Castro Marina, Rovereto, Milazzo, Gonnosfanadiga. Non è laureato in Lettere e Filosofia, ma neanche in Economia e Commercio o in Medicina. Non si è mai occupato di letteratura Giapponese dell’Ottocento, e neppure di musica dodecafonica. Per diversi anni non è stato né direttore né redattore del Secolo Decimo Nono, del Resto del Carlino e neanche del Corriere della sera. Suoi racconti non sono mai stati pubblicati sulle riviste Alfabeta, Il Caffè Illustrato, e molte altre. Un suo romanzo, mai scritto e il cui titolo non è La fuga non è stato pubblicato recentemente e contemporaneamente per Einaudi e Feltrinelli. Attualmente non vive a Singapore. Paolo Maccari è nato nel 1975 a Colle Val d’Elsa (SI) e da vent’anni vive a Firenze. Ha pubblicato diversi saggi e volumi di critica letteraria. Le sue raccolte di poesia sono: Ospiti (2000), Mondanità (2006), Fuoco amico (2009), Contromosse (2013). È maestro elementare. Tony Ficante (Alghero, 1948) è coltivatore diretto che dorme in campagna e vive in città. Dal 1990 è impegnato nella ricerca della bosma, del fojonco e, della palpàstriga. Ha pubblicato il poema a fumetti Tex, lex e sex (Argentfluid, 1997) e il romanzo Il brodo di Corniglio (Manzi & Lonza, 2002). Vive a Modena. Umberto Bellintani (Gorgo di San Benedetto Po, 1914-1999) è stato un protagonista, seppur appartato, della poesia italiana del Novecento. Nel 1953 per Vallecchi pubblica la raccolta Forse un viso tra mille, seguita da Paria (Edizioni della Meridiana, 1955) e da E tu che m’a184
scolti (Mondadori, Lo Specchio, 1963). In seguito, intrattiene un denso epistolario con le maggiori personalità della cultura del Novecento ma rifiuta di pubblicare fino al 1998 quando esce per Mondadori Nella grande pianura. Nello stesso anno esce Canto autunnale (Perosini) e nel 2006 Suzana Glavaš cura il volume Se vuoi sapere di me, Poesie inedite per i tipi di Poiesis e La Mongolfiera. Nel 2011 esce Al vento della vita, il carteggio Bellintani-Parronchi dal 1947 al 1992 (Olschki). Nel 2014 Passigli ripubblica Forse un viso tra mille seguito dal carteggio con Don Primo Mazzolari. Valentina Fortichiari da bambina faceva a gara coi coetanei a chi si arrampicava più in alto sugli alberi e nuotava nel Po. Da grande è nuotatrice a tutti gli affetti, ama l’acqua, il sole e i tour de borse. L’altro amore sono libri che legge e scrive poi li mette tutti dentro una specie di frullatore. Il prodotto finale è mistero di parole e silenzi con l’aggravante di un coraggio e tenacia senza limiti. Vive a Milano. Alfonso Lentini è nato a Favara (AG), nel 1951. Due libri Piccolo inventario degli specchi e Un bellunese di Patagonia sono stati pubblicati dalle edizioni Stampa Alternativa. Con il romanzo Cento madri (Foschi, 2009) ha vinto il premio letterario “Città di Forlì”. Il suo volume più recente è Luminosa signora, lettera veneziana d’amore e d’eresia (Pagliai, 2011). La raccolta poetica “Il morso delle cose”, finalista alla 23a edizione del Premio Montano, è stata pubblicata in formato e-book nel 2012 a cura della rivista online “La Recherce” diretta da Roberto Maggiani. Recentemente ha pubblicato, sempre in e-book, “L’uccisione del fuoco”, raccolta di versi finalista all’edizione 2014 del premio “Opera Prima” di “Poesia 2.0”. Insieme ad Aurelio Fort, è autore del progetto artistico internazionale “Resistere per Ri/ esistere” terminato il 25 aprile 2013 con un’installazione urbana per le piazze e le vie del centro storico di Belluno. Elena Pontiggia (Milano, 1955) insegna Storia dell’arte all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano. Dal 2011 scrive su La Stampa. Si occupa in particolare dell’arte italiana e internazionale fra le due guerre e del rapporto tra modernità e classicità. Si interessa agli scritti di poetica, pubblicando i principali testi teorici degli artisti da Cézanne e dalle avanguardie a Pollock. Ha fatto parte fino al 1993 del Comitato Scientifico del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e dal 2002 al 2006 del Consiglio d’amministrazione della Quadriennale di Roma. Tra le mostre, al P.A.C. di Milano, ha organizzato Sironi. Il mito dell’archi-
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tettura (con A. Sironi e F. Benzi), nel 1990 e Persico e gli artisti, nel 1997. Per la Fondazione Stelline di Milano ha organizzato le mostre Arturo Martini (con C. Gian Ferrari e L. Velani) nel 2006 e Stupore nello sguardo. La fortuna di Rousseau in Italia da Soffici e Carrà a Breveglieri nel 2011. Per Abscondita ha pubblicato Edward Hopper. Scritti, interviste, testimonianze, (2000), La Nuova Oggettività tedesca, (2002), Il Novecento Italiano, (2003), Il ritorno all’ordine, (2005) Il movimento di Corrente, (2012), Christian Schad, (2015). Ha inoltre pubblicato La grande Quadriennale. 1935: la svolta dell’arte italiana (con C. F. Carli), Electa, Milano, 2006, Modernità e classicità. Il ritorno all’ordine in Europa dal dopoguerra agli anni trenta, (Bruno Mondadori, Milano, 2008) e Mario Sironi. La grandezza dell’arte, le tragedie della storia (Johan & Levi, Milano, 2015). Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla quarta raccolta (2016). Gianluigi Toccafondo (San Marino, 1965) nel 1985 si diploma presso l’Istituto d’Arte di Urbino. Nel 1989 ha realizzato il suo primo cortometraggio, premiato al Festival di Lucca dell’anno seguente. Realizza sigle di programmi televisivi come Tunnel, Carosello (1997), Almanacco delle profezie e anche per la 56ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia; inoltre crea spot pubblicitari come quello per la Sambuca Molinari, Avanzi e per l’azienda Fandango. Ha diretto anche i cortometraggi La piccola Russia nel 2004, con cui ha vinto vari premi e candidature internazionali e Essere morti o essere vivi è la stessa cosa nel 2000. È stato aiuto-regista per il film Gomorra di Matteo Garrone. Come illustratore, ha lavorato per Einaudi, Feltrinelli, Mondadori, Fandango, Scott Free e altre case editrici; inoltre ha collaborato con le riviste Linea d’ombra, Lo Straniero e Abitare. Ha esposto i suoi lavori a Parigi, Tokyo e in Italia. Ha realizzato le tavole per la prima raccolta di FUOCOfuochino (2010). Gino Ruozzi (1958) insegna letteratura italiana all’Università di Bologna. I suoi studi sono in particolare rivolti alla tradizione italiana ed europea delle forme brevi: aforismi, pensieri, massime, epigrammi, favole, apologhi, bestiari, facezie, dal Medioevo al Novecento. Ha curato, i volumi Pensieri diversi di Francesco Algarotti (Milano, Angeli, 1987); Facezie e Dialogo de la partita soa di Ludovico Carbone (Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1989); Scrittori italiani di aforismi (2 volumi, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1994-1996); Epigrammi italiani (Torino, Einaudi, 2001); Favole, apologhi e bestiari (Milano,
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Rizzoli Bur, 2007); gli Aforismi di Luigi Pirandello (Milano, Rizzoli Bur, 2007). Ha pubblicato le monografie Ennio Flaiano, una verità personale (Roma, Carocci, 2012), e Quasi scherzando. Percorsi del settecento letterario da Algarotti a Casanova, (Roma, Carocci, 2012). Ha scritto la premessa alla prima raccolta di FUOCOfuochino (2010). Guido Scarabottolo (Sesto San Giovanni, 1947), laureato in architettura presso il Politecnico di Milano, nel 1973 è entrato a far parte dello studio Arcoquattro che si occupa di architettura e comunicazione visiva in ambito editoriale e pubblicitario. Grafico e illustratore ha lavorato per tutti gli editori italiani, la RAI, le principali agenzie di pubblicità e le maggiori aziende nazionali; ha collaborazioni in Giappone e negli Stati Uniti. Negli ultimi 12 anni ha progettato tutte le copertine di Guanda illustrandone la gran parte. Designer per diletto, di tanto in tanto realizza oggetti e mobili. Ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 2 (2012). Ernesto Ferrero, torinese, ha lavorato a lungo nell’editoria, dove è stato direttore editoriale di Einaudi e Garzanti, e direttore letterario di Mondadori. Dal 1998 è direttore del Salone del libro di Torino. Tra i suoi romanzi, N. (Premio Strega, 2000), L’anno dell’Indiano, Disegnare il vento (Premio Selezione Campiello, 2011) e Storia di Quirina, di una talpa e di un orto di montagna, tutti presso Einaudi. All’età dell’impero ha dedicato anche le Lezioni napoleoniche (Mondadori, 2002, 2014), il monologo teatrale Elisa (Sellerio, 2002), il saggio Napoleone e i libri (Edizioni Henry Beyle, Milano, 2015). È anche autore di un libro di memorie einaudiane, I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2005). Tra i suoi saggi si ricordano anche Primo Levi. La vita le opere (Einaudi, 2007) e La luna del Manzoni ed altre storie di grano saraceno (Nodo Libri, Como, 2009). Traduttore di Flaubert, Céline e Perec, per i bambini ha scritto L’Ottavo Nano (Battello a vapore) e Il giovane Napoleone (Gallucci). Collabora a “La Stampa”, “Corriere della sera” e “il Sole 24Ore”, ed è presidente del Centro Internazionale di studi Primo Levi di Torino. Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla seconda raccolta (2012). Ugo Nespolo è nato a Mosso, Vercelli, nel 1941. Una infinità di cataloghi, libri e libricini sono il suo corredo. Ha esposto in tutto il pianeta, sul lato chiaro della Luna e sul secondo anello di Saturno. Ha viaggiato su satelliti naturali e artificiali; il suo spirito arte-vita lo ha portato a divulgare l’Ordre de la Grande Gidouille presso tutti gli abitanti del
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suo condominio. Chissà perché, invitato a Pomponesco e a Casalmaggiore, non è mai pervenuto. È Faraone e Ministro dell’Etoile d’Or. Per FUOCOfuochino ha pubblicato e Faraone Totale e Cru & Crudo, entrambi nel 2010. Ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 3 (2014). Andrea Cortellessa è nato a Roma nel 1968. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre. Fra i suoi libri Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella prima guerra mondiale (Bruno Mondadori, 1998) e La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi (Fazi, 2006). Il suo ultimo libro è Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi (Exòrma, 2016); insieme a Marco Belpoliti ha curato il numero di «Riga» dedicato a Goffredo Parise (Marcos y Marcos, 2016). Con Luca Archibugi, nel 2010 ha realizzato per RaiCinema il documentario Senza scrittori. Per Giancarlo Cauteruccio ha curato le drammaturgie di Canti Orfici. Visioni (da Dino Campana, Teatro Studio di Scandicci, 2014) e di Tre movimenti di luce (da Dante, Maggio musicale fiorentino, 2015). Per Bompiani, Adelphi, Garzanti, Le Lettere e Feltrinelli ha curato testi di Giorgio de Chirico, Giorgio Manganelli, Elio Pagliarani, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli e Luigi Di Ruscio. Per L’orma editore dirige la collana di testi italiani contemporanei fuoriformato. Collabora a «doppiozero», a «Tuttolibri» e ad altre testate. È nella redazione delle riviste «alfabeta2» e «il verri» e collabora ai programmi culturali di RAI-Radio Tre. Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla terza raccolta (2014). Giuliano Della Casa è nato a Modena nel 1942. Cresce nell’Emilia di Spatola, Ghirri, Parmiggiani, e quella rete aperta e vivacissima di scrittori, musicisti, artisti visivi segna la sua formazione accanto alle Scuole d’Arte. Si afferma presto come pittore, dalla prima personale a Modena nel 1966 espone i suoi acquarelli in Italia e nel mondo, fino a considerare la California una seconda casa. Illustra monumenti letterari per i Millenni Einaudi come La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (2001) e Gargantua e Pantagruel di Rabelais (2004), realizza copertine, lavora con scrittori e poeti alla concezione di opere che intrecciano parole e immagini, disegna bozzetti di scena per il teatro. È Sultano Protocalligrafo per l’Istituto Patafisico Vitellianense. Nel 2016 ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 4.
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INDICE
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Siate gentili coi refusi
Ove non citato, le prefazioni sono a cura dell’editore
ELENA PONTIGGIA
Prefazione
5
FRANCO NASI
Aspettando il verde
10
LINO DI LALLO
Aforismi artefatti
18
ADAMO CALABRESE
Le maree al tempo di Carlo Magno 26
SERGIO SOZI
Italia-Slovacchia 2 a 0
34
ELENA FANTASIA
Game over
44
GIORGIO BELLODI
Discorso alla Polacchia
52
JACOPO FELIX NARROS
Lo scontrino di Ponge
60
SARA RICCI Vetrofanie
68
LIDIA BEDUSCHI Gelo
76
GUIDO OLDANI
I perdenti
84
ISABEL FUREY
Il numero di Lancillotto
92
GIANCARLO BARONI
Uccelli improbabili
100
GABRIELE OSELINI
La via delle noci
108
GUIDO DAVICO BONINO
Lettera a Giulio Einaudi
116
DINO BALDI
Il giardino
124
PAOLO PERGOLA Festeggiamenti
132
PAOLO MACCARI
Ultimi atti
140
TONY FICANTE
La 99
148
UMBERTO BELLINTANI
Nella notte di poca luna
156
VALENTINA FORTICHIARI La carretta del mare
164
ALFONSO LENTINI
174
L’alpino Samantha
Biografie 179 191
Finito di stampare nell’Ottobre 2016 presso Arti Grafiche Castello - Viadana (MN)
Le prime 17 edizioni sono raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Gino Ruozzi e tavole di Gianluigi Toccafondo (Arti Grafiche Castello, Viadana, maggio 2010) Gli autori Silvano Freddi, Ihll Bihto, Lorenza Amadasi, Virginia Merisi, Roberto Barbolini, Tania Lorandi, Guido Conti, Afro Somenzari, Antoine Naville, Gianni Celati, Giuseppe Pederiali, Ugo Nespolo, Paolo Albani, Brunella Eruli, Alberto Casjraghy
Altre 19 edizioni sono state raccolte nel volume FUOCOfuochino con prefazione di Ernesto Ferrero e tavole di Guido Scarabottolo (Arti Grafiche Castello, Viadana, settembre 2012) La distribuzione dei due volumi è affidata a Maurizio Corraini in Mantova Gli autori Camillo Cuneo, Paolo Colagrande, Vittorio Orsenigo, Marzio Sergio Bini, Ugo Nespolo, Sandro Montalto, Antonio Castronuovo, Anonimo, Max Blue Berni, Mario Aldovini, Armando Adolgiso, Miklos N. Varga, Roberto Barbolini, Giovanni Maccari, Cristiana Minelli, Lorenza Amadasi, Maurizio Maggiani, Pupi Avati, Massimo Gatta Con 21 edizioni è stato pubblicato FUOCOfuochino con prefazione di Andrea Cortellessa e tavole di Ugo Nespolo (Arti Grafiche Castello, Viadana, agosto 2014) La distribuzione dei tre volumi è affidata a Maurizio Corraini in Mantova Gli autori Paolo Colagrande, Camillo Cuneo, Miklos N. Varga, Francesca Bonafini, Mario Aldovini, Diego Rosa, Roberto Barbolini, Paolo Albani, Carlo Battisti, Renzo Butazzi, Hans Tuzzi, Gianfranco Mammi, Daniela Marcheschi, Virginia Boldrini, Aldo Gianolio, Simonetta Gilioli, Antonio Castronuovo, Don Backy, Alfredo Gianolio, Valerio Magrelli, Andrea Soncini
FUOCOfuochino
La piĂš povera casa editrice del mondo