Fuocofuochino2 digitale

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FUOCOfuochino La pi첫 povera casa editrice del mondo

illustrazioni di Guido Scarabottolo


Il diluvio è già cominciato da un pezzo, e probabilmente è solo all’inizio. Per questo Afro Somenzari sta imbarcando sull’arca di FUOCOfuochino alcuni campioni di specie da portare a salvamento. Sono tutte rigorosamente lontane e anzi opposte ai modelli imperanti, quelli che hanno propiziato il disastro e lo assecondano con una protervia pari soltanto alla loro insipienza, voracità, mafiosità e cecità. A bordo non possono salire gli omologati d’ogni categoria, i praticoni dei romanzi di genere, i venditori di patacche filosofiche, i pensatori da talk-show, gli insaccatori di wurstel culturali, gli arpisti dei buoni sentimenti, i retori istituzionali, i manieristi travestiti da sperimentali, i faccendieri dell’organico e del monumentale, gli appiattiti del ribasso, i frequentatori di social network, i preziosi ridicoli di un’accademia ingessata e incipriata. Ammessi invece oulipiani ruspanti, patafisici casual, metafisici portatili, amletici leggeri, surrealisti non griffati, giocolieri e frombolieri verbali, artigiani del nonsense, del limerick e del wit, aforisti ben temperati, clown autodidatti, collezionisti di frammenti apocrifi, equilibristi del paradosso, scienziati di soluzioni immaginarie e rigorosamente improduttive oltreché manifestamente e gustosamente impossibili, acrobati del volo rovesciato, teorici dell’eccezione e della marginalità, irregolari & irriducibili, teneri misantropi che si ostinano a difendere le ultime ragioni dell’umano come nessun altro. Tutta gente che “vive alla nottata”, cioè nella zona franca di una creatività combinatoria che esplora i liberi territori delle associazioni mentali. Che rifiuta la logica del branco e non desidera assomigliare ad alcuno, e al massimo si riconosce vaghe parentele liberamente scelte. Chi rende visita all’arca di Afro sappia di essere esposto ai rischi del contagio. Volevo scrivere “risate con retrogusto amaro” e mi è capitato di digitare “rosate”, che provo a definire come “colpi sferzanti inferti con una rosa (meglio se antica o almeno inglese, opportunamente deprivata delle spine onde poterla meglio maneggiare)”. Cento, mille di queste “rosate”, Afro, e voi tutti amici di FUOCOfuochino. Ernesto Ferrero

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Caviale allo spiedo in realtà è nato come “85 vette d’inutilità”. Dopo alcuni dibattiti e simposi e tavole rotonde, si è giunti a un vademecum comunicativo sulle imprese impossibili come varianti di utilità. Paragonabile agli oggetti introvabili di Carelman, questi lampi sono i prodotti di una mente diversa da quelle superiori o inferiori. Tutto si allaccia al concetto di imprevisto che potrebbe accadere, di possibilità illusoria, si tratta di rappresentazioni alle quali si assiste con stupore e dalle quali si esce con la sensazione di poter provare, seppur per un momento, l’utile avventura della montagna che scala un nano.

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Camillo Cuneo

Caviale allo spiedo Utile come

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Fare una nave all’uncinetto

Andare a caccia con fucili caricati a salve

Fare un faro con i fiammiferi

Giocare con carte trasparenti

Carteggiare le Dolomiti

Ballare il tip-tap sulla sabbia

Fare il salto con l’asta usando uno stuzzicadenti

Giocare a tennis con palle da bowling

Fare lavorare un camorrista

Apparecchiare un pic-nic sulle sabbie mobili

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Giocare a pallacanestro in ascensore

Fare piastrelle di cotone

Pattinare sulla ghiaia

Costruire un carcere di seta

Dare il navigatore satellitare a un salmone

Riempire una bomba di rose

Portare le zecche al veterinario

Cercare l’albero delle angurie

Ricostruire un maiale partendo dal salame

Rimettere le perle nelle ostriche in pescheria

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Spalmare l’abbronzante sull’elefante

Costruire una cassaforte di legno

Fare il caviale allo spiedo

Mettere le ruote a un sottomarino

Realizzare una Ferrari in polistirolo

Spiegare l’algebra a un polpo

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Paolo Colagrande

C’era un mio amico

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C’era un mio amico ricco ma così ricco che girava in limousine e andava al casinò. Gli chiedevano: ma come fai a essere così ricco? Lui non rispondeva, rideva, rideva, poi saliva sulla limousine e andava al casinò. Invece c’era un mio amico povero, ma così povero che quando gli chiedevano: ma come fai a esser così povero? Rispondeva che aveva perso tutti i soldi nei casinò. Ma quando? Gli dicevano. Prima che li chiudessero, rispondeva. C’era un mio amico che una mattina si è svegliato prestissimo per scrivere un romanzo autobiografico su quello che gli sarebbe capitato quel giorno stesso, ma siccome appena alzato gli ha telefonato Paterlini, è tornato a letto. C’era un mio amico ricco ma così ricco che quando è morto il suo funerale sembrava una festa di gala: cardinali ministri la musica il banchetto lo champagne. Invece c’era un mio amico povero ma così povero che non è neanche morto. C’era un mio amico piccolo ma così piccolo, e magro ma così magro, e pallido ma così pallido, e timido ma così timido, e povero ma così povero, che quando è morto in fondo non è cambiato niente. C’era un mio amico povero che aveva l’ape 50. Per vantarsi diceva di aver degli amici ricchissimi americani che ne avevano tre o quattro ciascuno, di api 50. C’era un mio amico poeta che un giorno voleva scrivere una poesia che parlava d’amore ma poi invece gli è venuta una poesia su Paterlini. C’era un mio amico ricco che era così ricco ma così ricco che un giorno è andato dal tabaccaio e ha speso venticinque milioni. Pensare che aveva smesso di fumare. Gli ho detto: e quando fumavi, cosa spendevi? Lui rideva, rideva, poi è salito sulla sua limousine e è andato al casinò: era sempre quel mio amico di prima.

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C’era un mio amico che aveva scritto seicento pagine sulla Monadologia di Leibnitz e la sua influenza sul pensiero illuministico tedesco ma poi le ha perse tutte il giorno del suo compleanno, che Paterlini gli ha mandato gli auguri via mail insieme al virus. C’era un mio amico povero che in casa sua per andare in bagno dovevi uscire in cortile. Per vantarsi diceva di aver degli amici ricchissimi americani che ce ne avevano tre o quattro ciascuno, di gabinetti in cortile. C’era un mio amico che raccontava che sua nonna tutte le sere diceva una preghiera per i suoi figli, una per i generi, una per le nuore, poi una per i nipoti, una per i pronipoti, una per i cari estinti; poi anche una per Paterlini. Quel mio amico povero che dicevo prima, quello talmente povero che non è neanche morto, l’altro giorno è stato investito dalla limousine di quel mio amico ricco che gira in limousine e va nei casinò. Com’è piccolo il mondo, vien da pensare. Gli è passata sopra con le ruote, la limousine. Be’, si fa fatica a crederci, ma questo mio amico povero è così povero che non è morto neanche stavolta. È all’ospedale che si vanta di aver degli amici ricchissimi americani che son già morti tre o quattro volte ciascuno. C’era un mio amico che era così stupido ma così stupido che quando passava per strada la gente lo guardava e diceva: guarda te che stupido. E poi c’era un altro mio amico che era così intelligente ma così intelligente che quando passava per strada la gente lo guardava e diceva: guarda te che stupido. Delle volte lo stupido e l’intelligente giravano per strada insieme e la gente li guardava e diceva: ve’ che due deficienti.

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C’è saliscendi, dai e vai, mangia e bevi in ognuno di noi. Questi Incidenti quasi mortali hanno un sapore lucido e acido che, strofinato sugli occhi, stimola la già complessa cattura di immagini sfuggenti. Situazioni limite, con sottofondo di una musica silente, rivelano l’elenco probante e probabile di presa di coscienza; sono imminenti minuscole catastrofi posizionate su un collage invisibile dalla potente delicatezza. La versione inclusiva del pensiero cela una inutile salvezza, ma libera la consapevolezza dell’ineluttabile a fine esclusivamente olfattivo.

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Vittorio Orsenigo

Incidenti quasi mortali

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L’amor-polenta è un dolce, l’amor danaro non si sa bene che sia. Elegante com’è non fa che sorridere. Nell’isola tropicale con lusso di lenzuola e accappatoi, più che alle Terme Vicentine la notizia: “Vince la Roma per due a zero”. Se non fosse per l’improvvisa smemoratezza di ciò che il pesce grande fa al pesce piccolo il pesce piccolo si sarebbe salvato. Tutta una storia di fatiche e salassi. Se ci si vuol salvare, che l’estetica tenga la bocca chiusa o scenda al bar per brioche e cappuccino. Finalmente ho capito: il lieto fine arriva dopo la torta al cianuro. L’ammazzarsi di mamme, padri, figli, però, non sia bandito. E non si vada subito alla fine del libro. Cosa leggere al killer che vorrebbe andare al fronte di tutte le battaglie piuttosto che leggere o sentire leggere qualcosa? Troppe domande a branco che abbaiano alla luna. In ordine logico la pagina umida d’acqua e vino scampa al macero. Ma non si sa bene perché. Maree e luna - noto e stranoto, - corrono sugli stessi binari. Non ci può essere convergenza né divergenza, sennò cadrebbe il mondo. Le correnti oceaniche, invece, da qualche tempo girano in tondo, passeggiano con sabbie e spume. I turisti confidano o diffidano di loro: dipende dai giorni, dall’umore, chissà. Se si sapesse con qualche approssimazione quel che è successo all’angolo della via dopo freno e lamiere contorte all’auto con cambio automatico tornerebbe ai superstiti il respiro. Non sarebbe, dicono in giro, solo un problema di morti, di feriti, di premi assicurativi. Questa la notizia esatta. E fa male al cuore.

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Da tanto non sono più il padrone di un cane, da tempo al cane che non ho manca il padrone. Tutto è cominciato con il matrimonio d’amore ancora oggi in buona salute considerando che, in certe cose, il tempo non è di manica larga. A volte i cani spiano con occhi e lingua gocciolanti. A me, dopo infanzia e giovinezza, invece, offrono una gran brutta faccia. Air-fresh: c’è il gusto al limone o alla menta dell’extralusso. Ci parlano le foglie caduche del giardino condominiale esagerato. Richieste: mi chiedevo perché certe poesie durano un giorno, altre un mese d’anno bisestile. Altre ancora una vita e tutte le vite di qui all’eternità. Che bello copiare lettera dopo lettera il titolo di un film americano! Pare oscena al primo lettore della svelta università transilvana quella pagina. Non è - gli fanno notare - medicabile o parzialmente estirpabile: il bubbone fa un tutt’uno con il resto del corpo, è un delirio drogato da chissà quale droga. Notte e giorno ne passano mille di pastiglie bianche e rosa: associate a gin e tequila s’inventano quel che non c’è. Pesci e natanti dall’amo si tengono distanti: sanno entrambi cosa succede dopo cattura e squartamento. L’antica pirateria sosta interdetta alla soglia dell’ipermercato, volti truci e teschi escono di scena, esce di scena l’avventura, quando, incessante, piove l’usura. Le rime cercate, strozzate, dilapidate, si comportano male. Alla fine, nel solito letto d’ospedale più avaro di morfina del solito scozzese, l’autoironia non ha più colpi da sparare. Nel giardino abbastanza distinto che ignora Eden, bambinaie e giovani amanti da colpo di revolver, fa uno strano effetto la vecchiaia che implora.

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A dare dietro lauto compenso ogni genere di garanzie non sono i Lloyds di Londra né i leoni delle Generali: i primi corrono dietro a Imperi decaduti, gli altri alla morale del chierichetto. Chiamare le cose con il loro nome serve a poco: non di nomi appropriati c’è bisogno: se il cielo è terso, quella sua chiarezza sarà presto voce in fattura. L’inferno non si tira indietro, non l’ha mai fatto né lo farà. C’è ben poco di greco nella dentiera di mio padre: nella mia fa parlare di sé la tecnologia. Formiche: mi spiace per Zeiss: l’ottica giusta per tenerle strette all’obiettivo non l’ha ancora inventata, i negozi di articoli fotografici più accreditati, addirittura gallonati, offrono il meglio, una meraviglia di lustrini e istruzioni per l’uso. Le formiche e in generale ogni insetto sanno che il fotografante è un parvenu; nessuno ha insegnato loro il francese, ma fa lo stesso. Incidenti: l’album dei ritratti è caduto in disuso, l’anziano suocero del mio migliore amico si è rotto il femore uscendo dalla vasca da bagno. Era - dice il figlio appena tornato da Berlino - un uomo allegro: del su e giù della Borsa non faceva parola. Meglio non guardare dalla finestra quel che succede giù nella strada. Ci fossero solo incidenti mortali sarebbe niente.

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La tutela dei grandi temi induce il sapere all’inatteso, all’uscita spesso timida di brevi articoli, tratti da grandi fogli di quotidiano. Dal dentista occupa lo spazio dell’attesa sottolineato da piccole sequenze di scavata sensibilità. L’autore s’impegna in profili ingovernabili che torchiano la mente. Pause a denti stretti, pensiero leggero ma coerente, scorrono col flusso del suo vicino fiume. Beatrice Delbosco

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Marzio Sergio Bini

Dal dentista

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Allenamento Nella mente esprimiamo senza sosta qualsiasi tipo di giudizio e ugualmente siamo sereni poiché nessuno potrà mai sapere. Ma pensare una cosa e dirne un’altra, è il migliore allenamento per l’inferno. Amore Al contrario di quel che si dice, l’amore ci vede benissimo. Bambino Si pensa erroneamente che sia fragile, invece possiede un’anima talmente forte e tenace che la sua presenza si riverbera anche quando il corpo è diventato grande. La prova di ciò la dà il suicida in cui è quasi sempre il bambino interiore a decidere di morire. Casanova Tutti gli uomini che vanno a letto con le donne degli altri senza lasciare un recapito o un numero di telefono. Cultura Dicesi cultura quell’insieme di nozioni e di esperienze che portano un individuo sano a volerti rifilare il peggio che possiede al maggior prezzo possibile. Delusione Decidere di non avere più bisogno di nulla, non solo dell’amore, ma nemmeno della pensione.

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Don Giovanni Bello, elegante, tenero, a volte inadeguato. Tutto questo lo rese irresistibile alle donne. Ma persino Kierkegaard, che era un uomo, ne rimase affascinato. Eutanasia Attendiamo la morte con l’identico stato d’animo che proviamo nella sala d’attesa del dentista. Eppure, grazie a una piccola iniezione di anestetico, dopo l’estrazione esclamiamo: tutto qui? Famiglia Istituto giuridico con lo scopo di procreare e di accollarsi tutte le lagnanze per l’infelicità dei figli. Gengis Kahn Condottiero mongolo un po’ megalomane che aveva applicato in anticipo sui tempi le regole moderne della globalizzazione. Lussuria Fantasticare di essere capaci di fare agli altri ciò che vorremmo venisse fatto a noi. Ottimismo Bisogna impegnare quarantacinque muscoli per fare la faccia seria, solo diciassette per sorridere. E noi continuiamo a essere imbronciati, scontenti, offesi. Per un uso economico dell’energia umana, essere ottimisti è comunque conveniente.

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Proverbi Saggezza popolare. Esempio: “Tra il dire e il mare, c’è di mezzo il fare”. Secolo Quantità di tempo in cui può accadere di tutto. Per esempio, nel ventesimo abbiamo avuto la bomba atomica che può annullare ogni forma di vita e la clonazione che la può rigenerare. Sopravvivere Vivere con una intensità e un’energia talmente bassa da essere appena al di sopra dell’estinzione. Storia La storia è maestra di vita. Ma la vita spesso viene trovata impreparata ed è costretta a ripetere l’anno. Vino Il vino è come la sessualità. Chi non l’apprezza, la denigra. Chi l’assapora, ne rimane deliziato. Chi ne abusa, perde la testa e, qualche volta, la vita. Zelo Fervore, ardore. Nel momento in cui tutti si dedicano con fervore e ardore all’uso della memoria artificiale (computer), dilaga quella strana malattia della mente che annulla la memoria umana... della quale mi sfugge il nome...forse...Alzheimer?

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Fatti che non possono essere raccontati, storie che non devono volgarizzarsi, trame inconsuete nemmeno, grafiche e tavole facilmente estraibili dalla tecnica meccanica. Su tutto giungono i sogni di bolle oscure che hanno la caratteristica di frantumazione sillogistica. Mezzi per ascendere all’empireo della conoscenza e paletti che insorgono a deviare un cammino già decisamente periglioso. Poi arriva questa lettera trasmessa a pochi eletti, per la conservazione del lato magico e misterioso di fatti che non possono essere raccontati.

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Ugo Nespolo

CRU e CRUDO

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Mi sono scottato al Fuoco

e scaldato al Fuochino! ma dal momento che la ÂŤPataphysique est bien la

Science du ParticulierÂť 43


ho risparmiato sulla bolletta

BIMESTRALE

sono UN FARAONISMO

opacamente illuminato 44


est un menteur jamais

CRU e CRUDO Pataphysique active !

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Territorio delicato e violento questo di Montalto. Troppo giovane per apprendere tecniche di adulazione linguistica e già vecchio per aver intrapreso la strada della Società della Libera Letteratura (SLL). L’autore si addentra in connotazioni personali forse autobiografiche dove chi soccombe è il poeta, il debole, ma alla fine è colui che esce vittorioso opponendo una non violenta resistenza. Un po’ di vetriolo passa su queste pagine, tuttavia indugiamo sulla risata con amaro retrogusto. Falsariga sulla quale si muove il testo è anche la virtualità dei gesti e la pesantezza dei pensieri, nonché la primavera che attacca all’adagio della riscoperta delle piccole cose. Chi non vi riesce è un apostrofo.

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Sandro Montalto

Un grosso apostrofo

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Al parco c’era un uomo che scriveva su un taccuino. Un signore di corporatura robusta si trovò a passare di lì e gli chiese: “Cosa scrivi su quel taccuino?”. “Mi deve scusare, signore, ma sono cose molto riservate” rispose l’uomo seduto, che indossava un cappello blu. “Secondo me sei un bel maleducato a non dirmelo, aspetta che adesso ti spacco la faccia!”, e detto ciò si mise ad arrotolare le maniche della camicia. “Non vedo il motivo di tanta irritazione” tentò di calmarlo l’uomo con il cappello blu, “Se vuole le faccio leggere quello che stavo scrivendo, ma non degeneriamo”. “Adesso non me ne frega più niente, bastardo!” urlò l’uomo di corporatura robusta. In un attimo il diverbio diventò una rissa, nella quale uno soprattutto le dava e l’altro soprattutto le prendeva, ed aveva il suo bel cappello blu. La gente che passava di lì si appassionò alla questione ed iniziò a fare il tifo, e ad urlare “facinoroso!”, oppure “maledetto, ci vendicheremo!”. All’improvviso il signore con il cappello blu riuscì ad assestare un gancio sotto il mento all’altro e a fuggire. Ma fuggendo finì sotto un tram che gli staccò di netto la testa, la quale perse il suo cappello blu e finì presso un cespuglio di lillà. Vedendo questo, il signore dalla corporatura robusta se ne andò asciugandosi il sudore e tirandosi giù le maniche, mentre la folla si disperdeva dando la colpa del tutto alla crisi. Un giorno un signore uscì di casa e incontrò un vecchio amico. Si scambiarono con grande cordialità alcune parole gentili, poi si salutarono con il proposito di rivedersi con più calma. E questo è tutto. Se la storia non vi piace è perché non sapete apprezzare le cose semplici, e vi compatisco. Tempo fa conoscevo una persona buona. Era così buona che in suo onore ho inventato una tecnica per abbracciare e al tempo stesso schiaffeggiare.

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Era un pensatore molto capace, molto profondo, molto intelligente, molto simpatico. Stimato per il suo equilibrio e la sua saggezza, era stato capace di tracciare con un gesso il confine esatto tra fisica e metafisica, e di scoprire quale espressione occorre usare quando si fa giocoleria con i poliedri. Purtroppo, però, non è mai riuscito a raccontarci queste belle cose, perché aveva sempre la sensazione di dover rincorrere il proprio naso. Un poeta stava sempre a scrivere qualcosa, tutti i giorni. Scriveva senza posa ed era felice, anche se nessuno lo leggeva. Era orgoglioso della sua fantasia, diceva, e della sua immaginazione, aggiungeva, sottintendendo con lo sguardo che tra le due cose esisteva una sottile ma fondamentale differenza e solo se la capivi eri suo amico. Un giorno mentre stava scrivendo arrivò un tipaccio tutto muscoli e gran barba nera. “Ma cosa diavolo stai facendo?” chiese al poeta. “Sto frisonando la vigliotta, ma ovviamente mi sto anche prusinando vicino al curnele. Ma senza groglire con i troiddi, eh!” rispose con un gran sorriso. “Chi credi di prendere in giro, scemo?” si infuriò l’omaccione, e sferrò al poeta un cazzotto tremendo. Al sorriso del poeta mancarono da quel momento tutti i denti, però l’uomo si fece male alla mano che, a causa dell’infezione, esplose. A certa gente non manca solo il senso dell’umorismo, ma anche un apostrofo grosso come una casa!

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Ogni giorno assistiamo a dibattiti sul problema dell’inquinamento del pianeta. Ogni giorno gettiamo tonnellate di rifiuti in mare e in discariche abusive. Ogni giorno scopriamo scuole ed edifici rivestiti di amianto. Ogni giorno polveri industriali si infilano in tutti gli orifizi del nostro corpo. Ogni giorno Castronuovo si occupa di questo e altro. In questo testo la malinconia ha il sopravvento, la certezza dell’impossibile cancella ogni speranza, tuttavia la sua canzonatura sull’argomento ci fa sorridere. Ma i dibattiti son fatti così, e allora dai! Dibattiamoci, nel liquame, ogni giorno.

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Antonio Castronuovo

versi tossici

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Cemento, cemento armato, tu che conservi il corpo del picciotto che ha parlato; – cemento armato, tu che lo preservi dopo che fu strangolato, sii principio di silenzio; – e ognuno sia ammaestrato.

Amianto eternit fibra del mesotelioma, che è un cancheraccio e non un simpatico lipoma: – amianto prosit! Poggi sui tetti e scoli nei rivoli; sei nei bronchìoli dei frugoletti che ruzzano allegri sui prati e a breve saranno tutti fregati. Incapsulato, oppure smaltito, resti sempre un azzardo infinito. E per cessare col ritornello dirò che ti sdebiti soltanto con una cassa di massello.

Zinco rosso, metallo del tramonto, tu che sguazzi a ioni nella vasca che ribolle; – zinco rosso ascolta una preghiera: quando dalla sacca dell’alveolo andrai nel circolo del sangue,

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deh! non donarmi solo vomito ma una densa sonnolenza, che mi getti in subcoscienza e in letargo d’impotenza; – sii tu simile alla morte, così lieve e benvenuta, come un tempo succedeva a ch’ingoiava la cicuta.

Cromo esavalente, cancerogeno e odoroso, cromo che uccidi paziente, io che saldo l’acciaio t’annuso. E dell’aroma colmo le narici del mio sozzo naso camuso. Mi piace quest’odore e... fesso! Non capisco che più annuso e sempre più m’accosto alla meta del decesso.

Stupenda diossina, che eruttasti dal reattore, tra pioggia e nebbia, una mattina. Eiaculasti in un giorno di grigiore tra Seveso, Meda e Cesano Madore (sarebbe Maderno – ma la rima reclama lo scherno).

Favolosa diossina, ubiqua al pari del Signore: t’innalzi dai motori, dalle caldaiette a metano, dal legno bruciato da piromani scemi, dal pattume combusto – con un certo crepitore (sarebbe crepitìo, ma è per far rima con Dio).

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La formula tua molecolare, ci 4 acca 4 o 2, non suggerisce che sei liquido incolore, e la tua massa atomica, 84 virgola 07, non dice che gorgogli a 75 gradi con amore (mica a 107 – e son comunque per tutti pugnette).

Se provo a pronunciare il tuo nome: p-diossin 1,4 diossan-diene, mi s’ingarbuglia la lingua – e anche col cognome: cicloperossi 2,4 butadiene (questa volta c’è la rima, ma anche puzza d’Hiroshima).

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Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto rimbalza. Afro Somenzari

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Anonimo

BrusĂŹo di banane

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Stava facendo la barba a un pigro, si è asciugato la barba davanti alla televisione. Il barbiere di scorta è andato a sostituire il barbiere, c’è un pelo che si è asciugato e mi fa male… Una goccia di latte va bene per me, la mucca di scorta per favore. La mucca piange perché ha il latte e lo perde… Senti? È un altro litro di latte che se ne va… Venite, domani non si piglia. È tutto gratis! Dai! È un altro bacio che se ne va, sta aprendosi un occhio, quello lì dietro… Se hai fretta prendi l’olio preparato in una scatola per ognuno… Ci siamo giudicati e non va giù. Allora a chi lo diamo? C’era pieno di gente, dove sono andati a finire? Aspettavo la parola di qualcuno… C’è rimasto un buco nell’aria… Canta fin che vuoi tu…Fessura! Mi è venuta della crusca in faccia, è stato un brusìo di banane… Se nasce un fiore bisogna vedere cosa nasce dopo… E se nasce un leone?... Il pelo lascialo al tronco. 67


Sopra la Torre di Galata, oltre il Corno d’Oro, in una fresca mattina soleggiata di aprile, in compagnia di un amico, ero disteso sulla sconfinata vista panoramica del Bosforo. Alle nostre spalle passeggiava un anziano signore con occhiali e baffetti, scortato da una signora dai capelli di corvo e da un manipolo di figure professionali femminili. Sulle prime li guardammo sbadatamente, come qualsiasi altra comitiva eterogenea di questo pianeta. Poi una spia mi si illuminò dentro. Io quello l’ho già visto. Ma chi è? Ma chi è? Ma chi cazzo è? Finché sopraggiunse il fulgido responso mnemonico. Minchia! Quello è Günter Grass! Mi avvicinai con una faccia da culo mai vista e sommessamente chiesi: “Entschuldigung…are you Günter Grass?” Lui, che ammirava serafico le gioie visive di Costantinopoli in una giornata limpida come un ruscello bavarese, mi guardò e rispose: “Ja” (e che cazzo doveva dire, sennò?). “Can I make a picture with you?”, feci io. Le donne con lui mi osservarono con sorpresa e lui ha replicato nuovamente con il suo secondo “Ja”. Logorroico Günter. Così passammo allo scatto. Non contento, girando attorno alla torre, poco dopo lo ripescammo con il suo entourage. Parlai con una sua accompagnatrice, che sbiascicava teneramente un italiano teutonizzato, mi spiegò che: “Grass ezzere stato in Umbria l’anno scorzo”. Poi, dopo brevi trattative, mi concesse una breve intervista esclusiva. Lui, a me, che non avevo nemmeno una bic rosicchiata con cui scrivere. A me, che non avevo nemmeno occhi per piangere. Max Blue Berni

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Max Blue Berni

Intervista a G端nter Grass

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Max Blue Berni – Guten tag, Herr Grass Günter Grass – Guten tag, Herr...Come si chiamen lei? MBB – Blue Berni GG – Bllblllbbbbbhhh...Ich verstehen nicht, io non capiren... MBB – Non importa, veniamo “a noi”, come diceva Mussolini. Che ci fa a Istanbul? Un nuovo libro? GG – Mah! Io interessaten al rapporten tra Turchia e Germania. Lei sa che Germania essere terren di emigrazionen per molti turchi, vero? MBB – Certo, sono stato a Monaco di Baviera anni fa e me ne sono reso conto. So che Amburgo è una città da molti decenni strapiena di comunità anatomiche. GG – Anatolichen! MBB – Perché, che ho detto io? GG – Non pronuncia bene le parolen! MBB – E lei parla come Sturmtruppen, se ne rende conten? GG – Io non capiren quello che… MBB – …Lasci perdere. Piuttosto mi dica. Nel famoso libro “Il tamburo di latta”, Oskar, il protagonista piccolo e deforme, suona sempre sto tamburen, nella Germania di inizio secolo, come metafora del rifiuto della società contemporanea. Secondo lei oggi bisognerebbe tornare a suonarlo? GG – Più che il tamburellen sarebbe ora di tiraren fuori piatti, grancassen e un intero complessen di percussionen. Viviamo grandi sconvolgimenti e le istituzioni dell’Unione Europea non sono all’altezzen. MBB – Si riferisce alla crisi? Lei è sempre stato un intellettuale vicino alla SPD, ai social democratici. Come vede le cose ora, nell’industriale Germania, motore economico europeo che romba come un tuono sopra la debolezza del dollaro?

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GG – È una situazionen di merden. MBB – Lei una volta disse anche che sarebbe stato meglio non dividere le due Germanie. Lo pensa ancora? GG – Ero ubriachen. Oggi non saperen che rispondere. Spero tanto che Angela Merkel potere teneren i conti pubblici a posto e, soprattutto, reggeren i problemen sociali dei lavoratoren. MBB – In Germania la rivelazione della sua iscrizione alle SS fece molto scalpore. Diverse voci chiesero, dopo la sua celebre intervista al Frankfurter Allgemeine Zeitung, la restituzione del premio Nobel. In realtà lei chiarì che sperava di fare carriera militare, di diventare un pilota. Oggi se ne parla ancora o è tutto finito? GG – In Italia ne aveten parlaten? Sono sorpresen! MBB – Ma scherza? In Italia abbiamo altro a cui pensare! Se un paparazzo becca un leader di reality con il moccolo al naso si ferma il Paese per due settimane e non si parla d’altro. Ma cosa vuole che gliene importi agli italiani del Nazionalsocialismo? GG – Io capire. Siete un popolo stranen. Lei da che parte vienen? MBB – Beh, ha presente la bassa reggiana. Don Camillo e Peppone? Cesare Zavattini? I cappelletti? Vengo da lì, problemi connessi con il Po, la navigazione, l’assetto idrogeologico, una forte immigrazione dall’India e dal Pakistan e…(vedo che si sta abbioccando)…Herr Grass! Herr Grass! GG – Chiedo scusen, ma sono stanchen… MBB – Mi dica l’ultima cosa, la chiedo a tutti i miei interlocutori, ora internazionali: Günter Grass… anche lei va al gabinetten? GG – Io scriveren sul gabinetten, è un ottimen momenten d’ispirazione.

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MBB – È stato molto gentile. È un signore e anche un grande scrittore. Buon lavoro e magari mi citi nei crediti! (Finale urlato e in dissolvenza, dato che le accompagnatrici, come apprensive kapò, lo prelevano e lo allontanano con risolutezza da me): “Ehm, a noi dispiazeren, ma Herr Grass defe andaren fisitaren gabinetten turchen”. “Prego, signora, ma si dice bagni turchi! Auf wiedersehen, meine frau”.

Max Blue Berni è quello a destra

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Mario Aldovini

una voce cosĂŹ

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“Una voce così non si sente spesso...e io non saprei definirla... è diversa, ecco. O forse è per via dell’effetto che mi fa, non mi era mai capitato...”. Il giovanotto nella cuccetta sotto la mia aveva in realtà esordito alcuni minuti prima interrompendo il mio ascolto di un concerto in cuffia: “Scusi signore...le dà fastidio se fumo?”. “Certo che mi dà fastidio, qui dentro...se lei va a fumare in corridoio non ho problemi”. “Ho capito subito che lei è gentile...anche se non mi lascia fumare... ma di fumare non m’importa poi molto, in realtà sono inquieto”. Il treno correva non so bene dove fra Bologna e Firenze, era quasi mezzanotte, ’sto matto mi attacca bottone e mi interrompe il concerto: invece di spegnere il lettore lo passo in modalità registrazione mentre il mio nuovo amico è già passato senza tanti preamboli (e ahimè senza il mio permesso) a sfogare su di me la sua inquietudine amorosa. Ma confesso che a volte la mia curiosità rasenta il voyeurismo. “La frequento da varie settimane...no, non la voce! la ragazza...be’ sì, anche la voce, soprattutto la voce. Ma è così che mi appare e mi affascina, soprattutto la voce. Non che non sia una bella ragazza, lo è eccome, debbo riconoscere che l’ho cercata per quello. Ma poi lentamente tutto è cambiato...soprattutto la voce è stato ciò che di lei ho...come dire...avuto il bene di godere. Non che il resto non mi interessi, capisce? se posso chiamare le cose con il loro nome, di figa ne ho avuta fin troppa, ogni lasciata è persa si dice parlando di quella roba lì, e io non sono uno che si tira indietro. Ma quella non me la dà! Niente da fare, non me la fa neanche vedere, figuriamoci toccare...peggio di una suora. E parla parla, e ride e mi abbraccia e mi bacia... dice che è innamorata e mi desidera, che vorrebbe stare sempre con me, ma che è vergine

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e vuole che siamo sicuri dei nostri sentimenti per sposarmi, per unirsi a me per amore e per la speranza di fare figli. E io vado a casa con un male ai testicoli che mi tocca fare dei semicupi di acqua fredda! Però non vado con le altre ragazze che conosco, non mi interessano e non le ricordo neanche più. Le confesso che a ben guardare non mi interessavano molto nemmeno prima, nel senso che mi interessava soprattutto quella cosa...le dà fastidio se dico figa? Se pensavo alle donne pensavo soprattutto a quella, la figa, e tutto il contorno, tutto il corpo intendo, era incentrato su quella...un po’ come in quel famoso disegno famoso di Leonardo in cui l’uomo è inscritto in una circonferenza e ha praticamente per centro il cazzo. Delle donne che ho conosciuto avevo un’immagine di quel tipo: ricordavo come ce l’avevano fatta, il bosco d’amore, i colori gli umori gli odori i sapori...con il piacevole contorno di un bel corpo, naturalmente, ma tutto ruotava lì intorno. In fondo che cosa si intende quando si dice coscia lunga piatto fino? Per il resto avevo idee confuse, arrivavo a confondere i gusti gli interessi le idee le storie dell’una e dell’altra. Un po’ come mangiare la mostarda, ciliegie mandarini fichi cedro, ma il brodo primordiale è quell’uniforme sciroppo dolce senapato. E adesso, quasi senza che me ne accorgessi mentre avveniva, tutto è cambiato: quella voce, quegli occhi, quel sorriso e quel modo di camminare non si confondono con null’altro, mi trovo a leggere libri per parlarne con lei, a chiederle che legga libri per parlarne con me. E un film o una musica non hanno senso se lei non c’è o non se ne parla, se non si condivide l’emozione. E non me la dà, niente da fare! Fino a pochi mesi fa una che non me la dava presto non era nemmeno immaginabile, nel senso che dopo qualche giorno ne trovavo un’altra, che me la dava eccome! Mi sono ribellato, non creda, i primi tempi ho provato a uscire con qualche amica ma che vuole, non veniva mai il momento giusto... 82


giusto per me, intendo dire, non mi andava e basta. E adesso sono qui su questo treno, vado fino a Crotone dove è in vacanza coi suoi, vuole che li conosca, sarò ospite da loro qualche giorno. Si rende conto? Sembra di essere in un film di quarant’anni fa, e invece sono io, venticinque anni a ottobre, che vado là sperando di piacere ai suoi, fantasticando di fidanzarmi e sposarla e far dei figli... con un senso di sfinimento allo stomaco se penso alla telefonata che ci siamo fatti due ore fa, a quella sua voce che continuo a sentire dentro per ore anche quando non c’è... Ah, sì certo...Grazie, e buona notte anche a lei”.

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Il romanzo – in Italia, se ne pubblicano oltre 40 al giorno…brrr! – è certamente vivo, ma, a mio avviso, vive la vita dello zombi; non nego che accanto a tanti (ma proprio tanti!) romanzi brutti, ce ne sia perfino qualcuno ben fatto, ma più che belli o brutti, oggi, sono inutili. Scommettiamo un Campari che ho trovato contraccettivi letterari per limitare le nascite di romanzi?... Non ci credete?... Fate male. Ve lo dimostro subito. Armando Adolgiso

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Armando Adolgiso

Contraccettivi letterari

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L’efficacia dei vari metodi si valuta con una formula, la stessa che serve per gli altri contraccettivi, si chiama l’Indice di Pearl…sì, si chiama proprio così, consultate un dizionario ginecologico e vedrete che questa non me la sono inventata io. L’Indice di Pearl, torna buono anche in quest’occasione, solo che qui è basato sul numero di romanzi partoriti in 100 autori che hanno usato una determinata tecnica anticoncezionale per un anno. Ecco alcune tecniche di contraccezione. Scriptura interrupta Si tratta di staccare la penna dal foglio o il dito dalla tastiera dopo le prime righe emettendo il resto del manoscritto fuori della pagina. Ma c’è il rischio – particolarmente forte nei giovani autori – che non si riesca a esercitare su se stessi un sufficiente autocontrollo in momenti d’entusiasmo o dopo lunghi periodi d’astinenza scrittoria. Inoltre, c’è sempre il pericolo che l’emissione del fluido romanzesco, pur avvenuto fuori della pagina, penetri in parte nel suo interno. In tal caso si potrà avere la nascita sia pure di una short story, ma pur sempre indesiderata da tanti lettori. È un metodo insicuro. Romanzicidi I romanzicidi sono composti letterari in forma di gelatine, creme, schiume (venduti in cartoleria senza prescrizione), che versati sulla pagina, prima di una stesura, ne rendono scivolosa la superficie e impediscono, sia su fogli per scritture manuali sia su carta per le stampanti, l’imprimersi dello scritto. Da soli, però, non bastano. Il loro grado d’affidabilità, infatti, non supera il 60/70%. Sono attivi solo per un certo numero di ore, trascorse le quali occorre ripetere l’operazione. Anche perché è da prevedere che un autore – specie se fortemente determinato ad accoppiarsi con una narrazione – possa applicarsi ad una seconda prova seguìta a breve tempo dalla prima.

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Metodo Twain-Kraus Questo metodo è fondato sul fatto di poter prevedere con certezza il periodo, di solito assai breve (specialmente tra i più frettolosi narratori), dell’incubazione di un romanzo. È l’unico metodo contraccettivo considerato lecito anche dalla morale cattolica. Consiste nell’ascoltare due frasi (la prima di Twain, la seconda di Kraus) ininterrottamente durante il periodo cosiddetto creativo. Prima frase: “È da idioti scrivere un romanzo quando in ogni libreria, se ne può comprare uno”. Seconda frase: “Quando non si sa scrivere, allora un romanzo riesce più facile di un aforisma”. Occorre fare, però, una netta distinzione tra il valore teorico dell’efficacia del metodo e il suo valore pratico. Molti fattori possono, infatti, non rendere identificabile con certezza il periodo in cui un autore medita di scrivere un romanzo, allungandone così i tempi e rendendo purtroppo inefficace il metodo stesso. Metodo termico Si fonda su una legge letteraria costante: quando avviene l’ispirazione per un romanzo – e solo allora – la temperatura corporea dell’autore o dell’autrice subisce prima una lieve discesa, e poi sale sopra i valori normali. Secondo questo metodo, si giudicano a rischio il giorno in cui avviene l’ispirazione (quando c’è il rialzo termico) più i tre giorni precedenti e i quattro seguenti. In questi sette giorni è necessario tenere l’autore o l’autrice lontano da strumenti per scrivere. È vero, però, che si possono verificare alterazioni febbrili in séguito a fattori estranei (notizia di rifiuti editoriali a pregressi romanzi scritti, irrisione di parenti o amici cui sono state date loro in lettura precedenti opere), da qui diminuiscono le probabilità di conoscere con certezza il periodo narrativo fecondo. Ciò rende il metodo termico non più sicuro del Twain-Kraus già descritto. 90


Profilattico Tecnica antichissima. Una guaina di pelle d’animali per ricoprire lo stilo era usata dagli antichi egizi per impedire allo scriba di cimentarsi in romanzi. Oggi i profilattici sono guaine generalmente in gomma che si mettono sulla punta di stilografiche o lapis di aspiranti romanzieri, in tal modo s’impedisce che l’inchiostro o la grafite entrino in contatto col foglio generando trame. L’applicazione può essere fatta anche dalla compagna/o dell’autore o autrice fingendo un giocoso momento d’intimità che, invece, è volto alla necessità d’impedire che nasca un romanzo in casa. Il metodo offre una sicurezza molto alta, ma da tempo tale sicurezza è assai ridotta, da quando cioè gli autori dispongono di macchine per scrivere e computer, strumenti che poco si prestano a essere incapsulati in una guaina. Psicodiaframma Metodo fondato sulla dissuasione. Non può essere applicato a sé stesso da un autore, ma è necessario l’intervento di uno specialista (di solito, un oulipianologo) dal quale è necessario recarsi appena insorgono i primi sintomi di un’imminente ispirazione. Il metodo è imperniato sul convincimento che l’autore gravido di un’idea di romanzo è tensiolabile. Il suo sistema nervoso è in uno stato di grande instabilità, facilmente incline a modificazioni simili a quelle che si hanno nei ciclotimici; la psiche e l’attività emotiva sono concentrate sullo stato di prossima figliolanza di personaggi e trame. Esistono due tipi di applicazione dello Psicodiaframma: a) lo specialista, percuote fortemente i timpani del paziente risuonando fino alla tromba di Eustachio (è un condotto che collega l’orecchio medio del romanziere alla Copertina), facendogli ascoltare – amplificato in cuffia a molti decibel, affinché bene intenda – 91


l’aforisma di Giorgio Manganelli: “Basta che un libro sia un romanzo per assumere un connotato losco”; b) oppure inserisce nella Tromba di Falloppio (nella mente degli autori è un condotto che si estende dal primo Capitolo alla parte superiore dell’Indice) una strisciolina di cellulosa su cui è riportato il detto di Pessoa: “Il romanzo è la favola delle fate per chi non ha immaginazione”. Il metodo non è privo, purtroppo, di limiti. L’autore, infatti, se non è stato dai suoi congiunti tempestivamente portato dallo specialista, è spesso sordo a ogni richiamo psichico, specie se è in fase di “plateau” mentale costituito dal perdurare dell’eccitazione scrittoria che precede il raggiungimento della fase cosiddetta orgasmico-redazionale. Spirale Consigliata soprattutto a chi ha già partorito romanzi. È un piccolo dispositivo che viene inserito nella cervice dell’autore (quando è possibile, perché spesso i narratori hanno cervice dalle dimensioni tanto piccole da impedire l’intervento). Va ricordato che la maggior parte della loro cervice è di tessuto fibroso che le conferisce la forma di uno sfintere, cioè muscolo circolare, simile a quello anale, permettendo grande adattabilità di dimensioni e forme nel parto letterario: dal romanzo breve alla saga plurigemellare in più tomi; tale rassomiglianza, nei romanzieri e nei poeti, fra cervice e sfintere è all’origine anche di osservazioni sul risultato del loro parto assomigliato spessissimo all’evacuazione. Le spirali contengono sostanze bioattive dette paratesto. Queste agiscono sulle produzioni verbali (soprattutto sul testosterone presente sia nei testicoli sia nella testa, organi questi che negli autori di romanzi sono tanto simili da confondere anche un luminare) che contornano un testo e fanno di esso un libro: titolo, dediche, prefazioni, postfazioni, scelte tipografiche, etc.

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Pillola Blocca l’ispirazione. Questo risultato è raggiunto con l’azione sull’ipotalamo e sull’ipofisi, le due ghiandole cerebrali che stimolano alcuni a comporre romanzi. Ecco una scheda-tipo di una pillola. Si è qui scelto il farmaco chiamato: Adolgivelden. ·Composizione qualitativa e quantitativa: Ogni compressa contiene 0,075 mg di Queneau-dene e 0,03 mg di Perec-estradiolo. ·Forma farmaceutica: Compresse rivestite di film senza-film. ·Indicazioni terapeutiche: Prevenzione del concepimento di forme narrative. ·Modalità di assunzione: Le compresse devono essere prese seguendo l’ordine indicato sulla confezione, ogni giorno alla stessa ora, deglutendole con un po’ di inchiostro al cromo; la posologia è di una compressa al giorno per 21 giorni consecutivi. Ciascuna confezione successiva deve essere iniziata dopo un intervallo di 7 giorni libero da pillola, durante il quale si verifica di solito una emorragia – di inchiostro simpatico – da sospensione. Questa inizia in genere 2-3 giorni dopo l’ultima compressa e può anche non essere terminata prima dell’inizio della confezione successiva. ·Modalità di inizio del trattamento: Nessun tentativo d’inizio di romanzo nel mese precedente.

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Chi si occupa di arte in onesta libertà e, avendo assorbito una educazione classica, in genere apprezza maggiormente il valore delle espressioni contemporanee. Per questo motivo Varga adotta un sistema di delicata denuncia, non senza una punta di sublime ferocia che spinge il lettore alla naturale riflessione. Le pause d’analisi che succedono all’immediatezza, creano attorno a questi aforismi un alone di critica sociale. Ma sono aforismi, in più a fondo perduto, dunque presentano il rischio, seppur minimo, di piombare nell’oblio, tuttavia questo accade per molte azioni umane, per frequenti nostri verbi.

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Miklos N. Varga

Aforismi a fondo perduto

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La cognizione dell’essere prescinde dall’avere. La sobrietà gestisce la metafisica dell’azione. L’idiozia è sempre all’ordine del giorno. La proprietà di linguaggio non è affatto privata. La bellezza è l’espressione del sentire nel vedere. Il mito della libertà è l’archetipo della democrazia. Ora il principio di responsabilità è il fine ultimo. La nudità del corpo sociale offende il pudore civile. Ormai contano più i mali dei beni culturali. L’etica interpreta ciò che l’estetica rappresenta. Solo l’arte può rispecchiare un’identità di ritorno. Pensare alla felicità come rivelazione postuma. Amare è il verbo più irregolare del lessico umano. Bisogna dormire e sognare per vivere alla nottata. La ragione illumina ciò che la religione nasconde.

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La caratteristica principale del racconto di Barbolini è la messa in scena di un mondo soporifero in terra emiliana, fertile di favole. Spesso sono storie tramandate nel tempo che a furia di raccontarle diventano vere e vive. Che La vigna di Salomone sia inventata non importa, potrebbe essere un racconto sentito mentre si cammina nel bosco o all’osteria davanti a un quartino, oppure l’autore ha davvero avuto il coraggio di immaginarla e scriverla. Qui il personaggio assume mitica sembianza dai profili naturali. Il testo funziona soprattutto se chiudiamo gli occhi e troviamo qualcuno che lo legge per noi. Il Venturelli-Italy cola come un lubrificante, si allarga con profumo di benzina e scorre fino al primo distributore, in attesa di una scintilla.

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Roberto Barbolini

La vigna di Salomone

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«Scusami, sai, ma il lambrusco proprio non lo sopporto, ormai dovresti saperlo. Ti dispiacerebbe darmi un vino serio, invece di questa specie di coca-cola rosé?». È il solito finto gourmet. Vagli a spiegare che questo nettare spumeggiante, vinificato col metodo champenois da un certo Venturelli, è buonissimo e ha ricevuto un premio prestigioso. Nonostante tiri dei moccoli che fumano, Venturelli è uno che non si perde una messa alla domenica. Una volta insegnava matematica, finché è arrivato il momento che non ne poteva più e di punto in bianco ha mollato la scuola. «I teoremi non spiegano Dio» è stata la sua unica giustificazione a quella rinuncia al posto fisso che noi tutti ritenevamo pura follia. Da un giorno all’altro, dunque, il Professore – lo chiamiamo così solo da quando ha troncato con l’insegnamento – s’è messo in testa di fare il vino. Aveva ereditato un poderetto dalle parti di Saliceto, proprio sotto l’argine del fiume Panaro. Dal cortile si scorgeva il campanile della chiesa svettare nell’orizzonte piatto della pianura come in un disegno infantile. Venturelli saltellava tra mosti e solfiti; i suoi due bracchi, Zeus e Cristal, vagavano liberi per la campagna a caccia di topi e di frutta inseguiti dalla musica celestiale di Mozart, che i grossi altoparlanti d’un grammofono vintage spruzzavano a girandola nell’aria umida e pesante come un potentissimo, benefico letame. Nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato sull’avventura enologica del Prof. «Sei proprio senza testa» gli dicevamo. Lui, con la testa di cui era privo, faceva segno di sì e tirava dritto per la sua strada. È andata a finire che l’ha spuntata, lavorando sodo e senza mai saltare una messa. Adesso Venturelli-Italy, col suo bel logo disegnato da un artista che si chiama Giuliano Della Casa, è un’ etichetta conosciuta anche 105


in certi ristoranti stellati, dove il finto gourmet che ho davanti neppure lo farebbero entrare. Com’è nato il marchio Venturelli-Italy è una storia che merita d’essere raccontata. A dire tutta la verità, bisogna ammettere che il Professore s’intendeva di campagna anche prima di fare il vignaiolo. Soprattutto di vacche da latte. Una volta che era andato in America per studiare le razze, sfidato da un allevatore texano a indovinare il pedegree d’una Holstein Frisia, aveva sparato senza esitare un attimo i nomi del padre e della madre, risalendo poi lungo entrambi i rami dell’albero genealogico fino ai bisnonni della frisona. Che sarebbe poi una di quelle mucche pezzate bianche e nere, di origine olandese, che fanno tantissimo latte anche se sembra acqua e per questo hanno quasi mandato in pensione la rossa reggiana e la nostra bianca modenese. Alla sortita del Prof, i texani erano rimasti sbalorditi. «Terrific! Who’s that guy?». «Venturelli, Italy» aveva risposto, serafico, il veterinario che accompagnava la delegazione italiana. Ancora adesso il Prof, ricordando l’episodio, gioca a fare il modesto: «In fondo non è poi così difficile. Calcola che un toro, con l’inseminazione artificiale, può coprire migliaia e migliaia di vacche. Se uno ha un po’ di pratica di quelle vere e proprie macchine da latte che sono le frisone, risalire al padre non è impossibile». «Sì, ma la madre?». «Anche lì è stato facile: conoscevo certe caratteristiche del nonno materno, le ho ritrovate nella nipote». Non riesce del tutto a celare la sua soddisfazione retrospettiva, anche se passare dalle vacche alle viti ha poi significato per lui salire dalle stalle alle stelle. Quando qualcuno gli chiede com’è fatto il suo vino, il Professore l’obbliga a chiudere gli occhi e lo interroga: «Dimmi prima di che colore è». 106


«Rosso». «Rosso come?». Subito il malcapitato s’impappina. Magenta, granata, ciliegia, rubino: qualunque cosa risponda, al Prof non va mai bene. A meno che uno non risponda «sangue». Allora s’illumina tutto: «Senti qua». Piega il braccio e quello, a tentoni, glielo tasta attentamente. «Ecco, adesso capisci come faccio il vino. Coi miei muscoli e il sangue che mi scorre nelle vene. E anche con quel po’ di cervello matematico che mi è rimasto». A questo punto si mette a dissertare di lieviti, solfiti, muffe, tappi di sughero o a corona, bouquet fruttati e sentori di violacciocca, fino a quando lo schiocco di un’altra bottiglia che viene stappata non pone fine alla sua tirata e il vino spumeggia di nuovo nei bicchieri come manna dal cielo. «Il Signore ha visitato questa vigna» gli ha detto il parroco di Saliceto, la prima volta che è venuto in missione pastorale tra le botti. E io, silenzioso compagno di bevute, mi sono tacitamente trovato d’accordo. Il Prof esultava versando il suo nettare. Poi il prete ha tirato in ballo la faccenda della vigna di Salomone: il re l’aveva più o meno affittata a certi custodi e ciascuno gli doveva portare come suo frutto l’equivalente di mille sicli d’argento, che a quanto ho capito sarebbero tipo delle monete israeliane già in uso ai tempi della Bibbia. Il Prof ha capito l’antifona e così il parroco se n’è andato via con due cartoni di lambrusco in omaggio, cavandosela con una specie di benedizione urbi et orbi. Soprattutto orbi, direi. Calava la sera. Dalla campagna arrivavano i latrati dei bracchi che tornavano verso casa. Le loro sagome apparivano e sparivano veloci tra i filari delle viti. Nella luce falsa del crepuscolo, un fagotto nero penzolava dalla mascella serrata di Zeus. Quando l’ha deposto ai piedi del Prof, ci siamo accorti che era un gatto morto.

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Ora, sia detto per inciso, che anche gli scrittori, per quanto bravi e gratificati dal successo, alla fine muoiano, è un fatto incontrovertibile, su cui non ci piove. E non basta certo una targa, come ci ricorda amaramente Giovanni Maccari, anche se collocata in una strada importante di una città importante qual è Firenze, a rendere evanescente questa verità ineluttabile. In ogni caso, si farà notare, resteranno le loro opere o almeno, chissà, una parvenza d’ombra delle loro opere, ma è pur vero che Isaak Babel’ e il romanziere Pigafetta, diversi e lontani in tutto, sono destinati, vincolati, legati alla stessa fine; sì, d’accordo, possono cambiare le modalità del distacco, un plotone di esecuzione invece di un’imprudenza automobilistica o qualcos’altro ancora, ma la sostanza non muta. Se non rischiasse di essere fraintesa e scambiata per la parodia di una battuta alla Campanile, mi verrebbe quasi da glossare: Questo è il bello della vita! Paolo Albani

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Giovanni Maccari

Lo sputo che cade

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Ipotesi per una installazione A Firenze non c’è nessuna targa che ricorda Isaak Emanuilovic Babel’, lo scrittore sovietico, l’autore dello straordinario capolavoro letterario, come lo definisce lo storico Eric Hobsbawm, dell’Armata a cavallo. Babel’ è stato a Firenze nell’ottobre del trentadue, di ritorno da Sorrento dove era andato a trovare Maxim Gorki, il presidente dell’Unione degli scrittori sovietici. In quello stesso periodo a Firenze si è svolta la visita di Benito Mussolini. Babel’ è andato allo stadio a vedere la parata ed è rimasto molto impressionato, in modo particolare dalle esibizioni ginniche. Babel’ è rimasto a Firenze per alcuni giorni, poi è tornato in Russia abbastanza di corsa, per certi suoi motivi. Non è noto dove abbia alloggiato durante quel periodo. Del resto se si mettesse una targa per tutti gli scrittori che sono passati da Firenze la città scomparirebbe e rimarrebbero solo le targhe; niente facciate dei palazzi con l’intonaco o il bugnato, ma soltanto targhe, come in quei monumenti ai caduti dove ci sono liste e liste di nomi scritti piccoli per farceli entrare tutti. In questo caso Firenze diventerebbe un’altra cosa, non più una città d’arte ma un posto che si visita come un’installazione: e che significato avrebbe questa installazione? Non tanto che un enorme numero di scrittori, nei secoli, è passato di qui attratto dalle bellezze artistiche della città, ora coperte dalle targhe, ma piuttosto che tutti questi scrittori, nel corso dei secoli, sono morti. E che quindi nel mondo c’è soltanto una forza che divora tutto e rende privo di senso tanto il fatto di essere uno scrittore quanto il desiderio di vedere delle bellezze artistiche, come qualunque altra cosa, dal momento che alla fine occorre comunque morire. I turisti arriverebbero a Firenze e troverebbero questa vertiginosa fuga di uomini famosi, di scrittori, di artisti, di persone che hanno fatto dei calcoli e schivato gli ostacoli dell’esistenza e nonostante questo a 113


un certo punto sono morti. Per esempio Isaak Babel’, lo scrittore sovietico, che è stato fucilato; oppure invece Italo Svevo che nel momento in cui la fama finalmente gli arrideva è morto in modo sciocco, in un incidente d’auto. La tartaruga e la freccia Ieri ho aperto il giornale e ho trovato un grosso articolo del romanziere Pigafetta intorno al tema della vergogna. Discettava di Kafka, di Camus, sembrava proprio un romanziere vero e che parlasse sul serio di questi suoi colleghi che non ha conosciuto di persona, ma che gli sono familiari, come per dire a Cristo erano familiari Zeus, Mitra, Enlil, gente della sua stessa pasta che c’era stata prima di lui. Poi ho guardato la notizia biografica e ho visto che Pigafetta ha sei anni meno di me. Un ragazzino, mi è venuto da pensare, allora cosa fa il saputello questo qua. Ma un istante più tardi mi sono detto altro che ragazzino, sei te che sei vecchio e non combini niente. Praticamente ancora non hai fatto niente, a quarant’anni e passa; guarda invece il romanziere Pigafetta. Sono rimasto un po’ a riflettere affacciato alla finestra. Sebbene il mio palazzo sia fra i più brutti di Firenze, da qui si gode una discreta vista, perché si vede d’infilata una lunga via dritta che apre a metà il quartiere e arriva fino a lungarno. Oltre i tetti s’intravedono le colline sopra la torre di san Niccolò, e sulla destra spunta san Miniato, il campanile, spesso a colloquio con la luna nelle sue varie forme (cerchio, semicerchio, falce eccetera). Mentre guardavo queste cose argomentavo con me stesso che in fondo non è detto che chi parte prima arriva più lontano, e neanche che arriva prima. Io per esempio sono qui, scuoto la cenere, e i frammenti scendono giù con calma verso il suolo, esposti ai colpi di vento. Ora invece se mi preparo in bocca un piccolo sputo, e lo 114


deposito, ecco, nel vuoto, quello va giù spedito verso il basso, con una traiettoria perfettamente ortogonale al terreno, sul quale si spiattella con un breve rumore ben prima che la cenere abbia finito la sua corsa. Quindi se mi girasse bene io potrei essere lo sputo, che ne so. In questo caso credo che ci sarebbero due possibilità: o all’improvviso faccio un balzo in avanti, e questo periodo precedente è stata una necessaria ancorché prolungata preparazione; o invece non me ne accorgo e sto già procedendo a una velocità pazzesca verso un qualche successo cognitivo. Il romanziere Pigafetta se ne sta lì a volteggiare, esposto ai colpi di vento (lui sarebbe la cenere), mentre in realtà sono io che vado dritto allo scopo, con l’inflessibile necessità di uno sputo che cade.

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Cristiana Minelli

pacco di natale

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Il flash della macchina fotografica fece un botto che sembrò seguito da una vampata di zolfo. La macchina digitale ce l’aveva solo il maresciallo della scientifica. Capirai. Quella del distretto era disponibile, ma era un arnese da far paura. Un catorcio bitorzoluto e sbilenco, un impiccio di nastro isolante e pezzi di ricambio, nella scatola di cartone fatta venire col primo sbirro di ronda. Il poliziotto che aveva preso la chiamata e la signora che aveva fatto denuncia si guardarono in faccia: nessuna alternativa. Scrollarono la polvere dall’obiettivo e lo puntarono sul sofà della libreria, dritto in faccia alla piccola. La bambina non sembrò nemmeno accorgersi che le stavano scattando una foto segnaletica. Stropicciò appena gli occhi, e si rimise a giocare con i suoi cioccolatini. Era già passata un’ora da quando l’avevano trovata. Seduta sul sofà, di fianco alla cassa della libreria, era passata inosservata per buona parte del pomeriggio. Il sabato prima di Natale c’è una gran confusione dappertutto. Una bolgia tutta uguale, un via-vai che cammina da solo. Un vuoto pneumatico nel pigia-pigia, un casino moderno. Una voragine dov’è facile che si perda un bambino, ma dove è praticamente impossibile che se ne accorga qualcuno. La bimba sul sofà della libreria sembrava un naufrago sulla zattera. E nessuno che dicesse “Uomo a mare!”. Una carogna con le lentiggini alta circa un metro e quaranta le tirò forte i capelli – lei aveva un sacco di cioccolatini – e la fece piangere. La mamma della carogna non riuscì a trovare nessuno con cui potersi scusare. In un attimo fu chiaro a tutti che la piccola era sola. Dopo le prime ricerche la proprietaria della libreria s’era convinta a chiamare la polizia. La bimba era muta come un pesce. Oppure non comprendeva quello che le veniva chiesto. In mano una manciata di cioccolatini artigianali, senza carta, senza confezione, senza scontrino. Nessun documento, nessuna traccia. 121


Il primo poliziotto fece il numero della sezione minori. Era tardi, era sabato, voleva andare a casa. La volante arrivò a sirene spiegate. Atterrò come un’astronave a fianco del portico, strisciando i pneumatici sul cordolo del marciapiede. Lo spinterogeno staccò un colpo che sembrò uno sparo. Qualcuno fra i passanti saltò giù dal marciapiede, chinando la testa come per scansare una granata. Il poliziotto dentro la libreria alzò gli occhi al cielo: erano arrivati i nostri. Il clima natalizio fece quel che poteva ma non riuscì a legare la lingua del vinaio di fronte. Alle imprecazioni di rito seguì qualche canchero tirato a caso, un oremus che svaporò senza fare vittime nel freddo umido della sera. I due detective della sezione minori saltarono giù dall’auto di servizio senza preoccuparsi di spegnere il lampeggiante. Due con l’aria di chi non ha tempo da perdere. Fumo caldo e nicotina per il primo cow-boy che a labbra strette canticchiava un vecchio successo dei Duran Duran, la sigaretta tra indice e pollice, la brace rivolta verso il palmo. Il collega pareva un incrocio fra una testuggine marina e il fantasma dell’opera, la testa cacciata nel bavero della giacca, le mani in tasca, il passo rigido di chi sente il freddo fin dentro le ossa. La luce del lampeggiante si fece strada in libreria. Poesia e narrativa in ombra, mentre s’accendeva e si spegneva lo scaffale dei gialli tascabili. Di Georges Simenon brillava in copertina soltanto la pipa del commissario Maigret – ora sì, ora no – ora rossa, ora blu. Gli occhi stanchi e sporgenti dell’assistente sociale s’illuminarono solo per un momento, confusi nelle piccole luminarie dell’albero di Natale del reparto ragazzi. Il foulard di seta pendeva come un cappio fin davanti all’ombelico. La giacca stretta e chiusa sul petto, il blocco degli appunti stretto in mano, le vene del collo ben evidenti. 122


Un certo modo di schiarirsi la gola. Una tosta, una che non molla, pensò la proprietaria della libreria. Una stronza pensarono i poliziotti. Una mamma pensò la bambina sperduta, che vide un ciuccio penzolare al collo della poverina che doveva essersi vestita troppo in fretta. Muta davanti al piccolo gruppo di adulti, la bambina muoveva le gambe a piedi uniti come sulla dondola di un parco giochi. Sembrava non poter rispondere a troppe domande tutte insieme. Chi sei? Come ti chiami? Dov’è la tua mamma? Parli la mia lingua? Posso aiutarti? E relativa versione inglese, francese, tedesca e spagnola. E giù un cremino a forma di pesce, pronto ad affogare nel mare di punti interrogativi che le stavano davanti. Il pesce sguazzò solo per un momento. Mentre finiva in niente, fra lingua e palato, un retrogusto di cedro e sandalo salì fin dentro le narici della piccola, facendole il solletico al naso. Starnuto. Altro starnuto. Mise tutta la sua buona volontà, ma si sporcò di nuovo, costringendo il commesso ad aprire un’altra confezione di kleenex. L’assistente sociale s’aggiustò i capelli raccolti sulla nuca e si sedette. Sapeva che sarebbe stata dura. I poliziotti si mescolarono alla clientela facendo domande e annusando in giro, come segugi sulla pista da battere. Scovarono un borseggiatore di cellulari con un po’ di refurtiva in tasca, interrogarono quattro signore di mezza età con la passione per la botanica, flirtarono con una bionda in minigonna. Carina, ma parlava troppo di Ezra Pound, la salutarono in fretta. Al reparto musica e dvd si fecero prendere da Norah Jones più del dovuto. Notarono due sciacquette che ridacchiavano nascoste dietro una colonna. Il distintivo sembrava una patacca di carnevale sulle divise che muovevano passi lenti, a ritmo di soul music. Riappesero le cuffie nel tentativo di darsi un tono. Salirono e scesero la scala una trentina di volte. Su e giù per il 123


negozio, mentre si faceva tardi. Erano passate due ore da quando in libreria era stata trovata la bambina. Il capo li intercettò cercando di capire se c’erano novità: “Siete il solito pacco di Natale o siete due detective? Che diavolo state facendo? Avete la voce moscia di due che non hanno concluso un accidente! Ho una cena col questore, fra meno di una settimana è Natale, e voi non avete in mano NIENTE!!!”. Quel NIENTE uscì dal ricevitore e scese le scale, così violento che si spense sul pavimento facendolo vibrare come un leggero terremoto. Pensarono tutti che fosse passato in anticipo il treno. Gli ultimi clienti uscirono fissando la bambina senza nome. Avevano risposto a tutte le domande. Non c’entravano nulla. Non avevano visto nulla. Potevano andare a casa. Eppure si muovevano con riluttanza verso l’uscita della libreria. Un corteo di pacchetti natalizi sfilò sotto il naso della piccola. Un pacchetto dietro l’altro, in fila, alla cassa. Il barrito di un vero elefante sembrò uscire da una proboscide di peluche rosa. Il ruggito di un vero leone saltò fuori da un’enciclopedia illustrata degli animali. Harry Potter in persona la venne a salutare, mentre cinque adulti stanchi e sudati continuavano a parlare con lei. ¿Porquè no quieres hablar conmigo? ¿Dònde està tu madre? Adulti che vedeva appena, ombre che trasferiva lontano, molto lontano da dove stava per entrare ora, lontano dalla palla gialla della signora in pelliccia di visone, lontano dallo specchio di Alice dove precipitò dopo avere dato un morso ad un altro cremino alla nocciola.

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Alla proprietaria della libreria sembrò che il suo negozio di libri si fosse trasformato nella sede distaccata dell’FBI. Mancavano quelli della scientifica per le impronte e il coroner: grazie al cielo non c’era scappato il morto. Ma per la miseria, qualcuno era pur scappato. Qualcuno doveva essersela filata, nella confusione del sabato pomeriggio, mentre gli occhi di tutti fissavano tutto, tranne una bambina seduta sul sofà, vicino alla cassa. Occhi sperduti fra gli scaffali, bocche impegnate in convenevoli, facce distratte. Auguri sparati a caso, quando esser buoni non è affatto cheap: fa chic e non impegna. Doveva essere andata così. Quando la calca era salita come una febbre qualcuno aveva tagliato la corda. Nella confusione la gente era diventata una malgama senza capo né coda, un corpo unico, un gregge di capre impazzite. Nell’aria solo il fruscio delle banconote e delle carte di credito. Il ringgg! della cassa. Il tonfo della porta, all’uscita. Alla bambina doveva esser sembrato un ritmo sincopato. Un tema musicale. Un refrain. S’era seduta per ascoltare la musica di Natale che non faceva Jingle Bells. Una bambina senza nome sul sofà è un problema bello grosso. Sola, muta, sorda? La proprietaria della libreria se lo stava chiedendo quando si ricordò del sistema antitaccheggio e delle telecamere a circuito chiuso. Tre al piano di sotto. Una al piano di sopra. Un sistema cui aveva rinunciato da tempo. In cinque anni la rete antitaccheggio aveva fatto cilecca un sacco di volte beccando solo due disgraziati con un paio di tascabili a testa, una mendicante con un segnalibro alla fragola, uno studente che s’era scordato di pagare il vocabolario di latino. Pesci piccoli. La gente si fregava di tutto ma nei nastri nemmeno un indizio. Le sirene sempre mute. Tanto che la ditta che le aveva montate s’era 125


già beccata una querela, e l’ultima rata non era stata regolata. Ciononostante si mangiò le mani per aver buttato tutto quanto. Le 21 e ancora nessuno che reclamasse la bambina. Nessuna telefonata. Nessuna denuncia. Anche la ragazza addetta ai pacchetti fu congedata. Aveva risposto alle domande della polizia almeno una quindicina di volte. Aveva fatto solo il suo lavoro. Aveva fatto pacchetti, riordinato scaffali. Aveva tirato tanti nastri a ricciolo quanti colli di gallina un contadino la vigilia di Natale. Era stanca morta, ma andar via senza sapere come sarebbe andata lasciava l’amaro in bocca. La bambina la guardò mentre si infilava il cappotto, cacciando le mani in tasca per cercare i guanti. Fuori dovevano esserci due gradi appena. L’orologio a cucù di Whinnie The Pooh fece venire un colpo a tutti. Pimpi strillava Buon Natale!, e tanti piccoli vasetti di miele giravano in tondo come ballerine, mentre una musichetta metallica faceva il verso a un traditional. “Mura, santo cielo, statti fermo!” Tuonò il cow-boy, mentre il collega tentava di rimettere in sesto l’orologio, con l’impaccio di chi non gioca da un pezzo. A Santo Cirilli andava in fretta il sangue alla testa. Era un duro, gli piaceva concludere, risolvere il caso senza girarci troppo intorno. Dopo le prime ore le cose s’ingarbugliano sempre, lo sapeva bene. Uscì a fumarsi una sigaretta. Gli seccava non essere venuto a capo di nulla. Gli seccava dover essere costretto a portare una bambina senza nome, sola e sperduta, in una casa d’accoglienza. Il sabato di Natale, poi. Anche a lui era toccato l’orfanotrofio. Conosceva il Natale in Istituto. Quei pacchetti tutti uguali. Il pranzo consumato in mensa. Le suore e le assistenti in divisa. Nessuna carezza. Aveva mal di stomaco. Non voleva che andasse così. Fece il giro dell’isolato. Si prese una pausa. 126


Il trillo del telefono diede di nuovo la scossa a tutti. Scattarono in due: la proprietaria della libreria e il primo poliziotto. Dopo due squilli la signora ebbe la meglio e si trovò in mano il ricevitore. Falso allarme. Era suo marito che si chiedeva che fine avesse fatto. Nella confusione non aveva pensato di avvisare a casa. Un soffio d’aria gelata, il tonfo della porta, e una scalmanata con gli occhiali da sole fece irruzione fra lo stupore generale. Brandiva un foglio di carta come un barbaro la spada, agitando quel documento con l’aria di chi ha scritto il nuovo testo della costituzione. “Anita, cara, vieni, sei stata bravissima, divina, eccezionale!” e si gettò sulla piccola che le corse incontro con entusiasmo. Nessuno riuscì a sentirsi davvero sollevato per quell’apparizione. “Abbiamo girato tutto, sapete? Siete stati magnifici! Mi occorre solo una firma, ecco, è qui, è per la liberatoria. In tv, sapete, è la regola. Questo è il miglior reality show mai registrato! Un evento!”. Mentre continuava ad agitarsi uno dei poliziotti si rivolse alla bambina. “Anita, perché non ce l’hai detto?”. “Primo – fece lei – non parlo con gli sconosciuti. Secondo, non sai cosa mi ha promesso la mamma per tenere la bocca chiusa…”. I clienti sfilarono davanti alla vetrina come comparse a un provino. Erano tutti figuranti. I mezzi televisivi si mossero tutti insieme, come un branco di elefanti all’ora del bagno. Sbucarono dal nulla, nel buio fitto del sabato di Natale. La macchina del Commendator Ferorelli, il gran visir dell’industria del cioccolato, sgasò nella nebbia, facendosi largo nel traffico. Lo sponsor levava le tende. Lo spettacolo era finito.

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Non ricordo bene dove l’ho sentito, forse alla radio (che spesso e volentieri ascolto in macchina), ma ho sentito una volta che uno studioso americano, o forse francese o di altra nazionalità, non ricordo bene, ha detto che quasi l’80% di quello che diciamo durante una conversazione lo diciamo di solito per sentito dire. Non per conoscenza diretta, non per esperienza vissuta o ricerca personale. Ma per sentito dire. Che non è poco, accipicchia, l’80% di una conversazione. Se i risultati di questa indagine fossero veri, allora ne potremmo dedurre che siamo un po’ tutti contagiati dal morbo del «sentitodireismo». C’è stato un tale, un magistrato giansenista e conservatore di biblioteca, di cui non ricordo bene il nome, mi sembra si chiamasse Jean-Baptiste Pérès, che nel 1827 ha scritto un libro (da noi l’ha pubblicato Sellerio) per dimostrare seriamente che Napoleone Bonaparte non era mai esistito, che l’imperatore francese era un «essere immaginario», e che alla fine della storia tutto quello che si sapeva di lui era solo per sentito dire, ma che non c’era uno straccio di prova della sua esistenza (anche i documenti firmati da lui, da Napoleone Bonaparte, offrivano il fianco all’ipotesi - forte, d’accordo, ma plausibile - di essere falsi). Ecco, tutto ciò per dire quanto sia importante nella dinamica dei rapporti interpersonali il sentito dire. Paolo Albani

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Lorenza Amadasi

per sentito dire

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Per sentito dire che è un posto che sembra il Trentino e invece è a Po, da Bortolino.

Per sentito dire che l’Egidio dei gelati è famoso perché ha la cantina sottoterra e l’aria fa lievitare meglio i gelati, invece sono tutti sciolti e troppo dolci.

Per sentito dire, che Poli è un direttore intelligente, invece è un deficiente.

Per sentito dire che non si può fare il bagno nel Po, infatti la spiaggia è piena di bagnanti.

Per sentito dire di chi è l’Es? di Groddeck o di Freud?

Per sentito dire che è più importante lasciar vivere, si è suicidato.

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Per sentito dire che sull’argine non ci sono i papaveri, infatti non se ne vedono più nemmeno nei campi di grano.

Per sentito dire che al Bar della Torre si beve un buon caffè, la mia amica Giuliana ha preso un caffè freddo e dentro c’era uno scarafaggio.

Per sentito dire che quando c’è l’eclisse succedono cose strane, il giorno dopo sono morti due amici e il terzo è sopravvissuto.

Per sentito dire che i vermi sono analfabeti un mio amico li ha messi nei libri, ma sono tutti morti.

Per sentito dire che noi siamo quello che mangiamo, ci sono giorni che mi sento un po’ ogm, un po’ ormone, un po’ fifona o depressa.

Per sentito dire che la mappa non è il territorio, qualcuno ha rifatto la mappa e non ci saltava fuori, allora ha costruito un labirinto.

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Per sentito dire c’è un uomo ex-ferroviere in pensione che cura gratis e guarisce, ma devi essere accompagnato da uno che è già stato là.

Per sentito dire che gli extraterrestri sono anche sulla terra, ne ho conosciuto uno che faceva colazione al bar. Era contento e conosco anche il suo nome.

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Fragile è la collana di scritti che detestano il sole, svigorita la letteratura avversa all’astro luminoso. E dispiace, perché il sole è malvagio, che credete: è fusione nucleare, è bomba atomica in perenne esplosione. «Amico sole» leggo sempre, «nemico sole» quasi mai. Ora, può essere amico un implacabile? chi non dà tregua, non offre alcun riparo e, dopo aver creato, lietamente incendia? No, no: costui è un avversario, sempre ostile e, mancando d’ombra, anche nocivo. C’è bisogno d’ombra (ben venga quella del frassino), c’è bisogno di ripararci dalla vampa solare, come insegnano le trascorse stagioni. Altro che slip: qui ci vuole il nero tabarro dei beduini, loro sì hanno fiutato cos’è il sole, nemico sempre. Noi no: svigoriti noi che mai lo ribadiamo, e grazie a Maggiani per averlo fatto. Merita un premio concreto, che invito l’editore a soddisfare: poiché, come ci racconta, Maggiani non ha a tiro l’arte della falegnameria, che questa istanza settembrina esca non presso una tipografia, ma una falegnameria, e che sia la più ombreggiata! Ricordo che un giorno visitai, e trovai fresca e oscura, quella degli Apostrofi Briganti a Dulcérre. Editore: stampa lì! e forse l’agosto chinerà il suo capo nucleare, e spegnerà per noi la sua perenne bomba. Antonio Castronuovo

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Maurizio Maggiani

Implorazione di Settembre che viene ad Agosto che vA

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Ora stammi a sentire. Io sono il settembre, sono il mite, l’ispirato. Sono il moralista, sono il tenue, sono corpo senza lascivia. E tu? Tu sei grano, tu sei spigolatrice, tu sei falce, tu sei l’implacabile purezza. Io ora sono la corrente d’aria che lenisce, tu sei il sole che non dà tregua. Tu sei ferrea, io riparo. Tu sei viva e ferina, io cerco solo di aggiustare. Sono l’accomodante. È per questo che ancora ti parlo. Ti voglio irretire, ti voglio corrompere. Voglio farti settembre. Voglio farti da grano, farina, da Leone Vergine, e forse Bilancia. Avrei voluto addomesticarti a un amore. Avrei voluto addolcire il furore della tua stagione. Avrei voluto insegnarti a posare le tue labbra su di me senza divorarmi. Non c’è stato verso. E ora che sei altrove, ascoltami. Io sono qui. Sotto casa all’ombra del frassino. Ricordi il frassino? Naturalmente sì. Il frassino è mio, piantato da me come ferla di un fiore. Il frassino è del tutto inutile, abbiamo già discusso di questo. Oltre a non essere un fiore, e a non fiorire in alcun modo significativo – non come le acacie di là dalla strada, non come il biancospino qui dietro, nemmeno come il platano in cima alla salita – il mio frassino non ha nessunissima possibilità di redimersi in un bel tavolo o in un armadietto. Nemmeno in una sedia qualunque. Dato che non ho l’arte della falegnameria a portata delle mie mani, dato che il mercato del legname si svolge lungi da qui, il mio frassino non sarà mai niente. Ma è ombra. È l’ombra su questi gradini di vecchio cemento ben fatto, ombra sulla sassifraga, sulla calla inselvatichita, ombra sul rosmarino, ombra sulla ringhiera di ferro a cui prima o poi col 141


passare degli anni – che passeranno – mi dovrò sostenere salendo e scendendo. È ombra sul mio capo, sulle mie mani, ombra sul sermone che declamo da qui per te, da questo ameno sito della periferia collinare dove ho casa e riparo per sostare e immaginare e parlare. Tu non mi dai riparo, tu non ripari nulla. Puoi solo creare e disfare: sei sole. E ora che lo zodiaco ti impone di declinare, rimpiangerai quest’ombra, di non aver voluto neanche per un attimo arrenderti e sostare.

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Quando ho chiesto a Ermanno Cavazzoni di scrivere una breve prefazione a questo testo mi ha risposto: “Lo scritto di Pupi Avati è bellissimo, però meglio che stia solo, è già abbastanza, le belle cose si presentano da sole”.

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Pupi Avati

Diario di un bimbo

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Quando ero bimbo a Bologna e andavo a scuola alle medie di piazza San Domenico, in classe con me, ma anche nelle altre classi, c’erano molti bambini pederasti. Naturalmente non lo facevano vedere perché negli anni cinquanta essere pederasti era un problema e così facevano finta di essere molto maschi anche se io ripensandoli adesso uno ad uno mi sono reso conto della loro vera identità sessuale. Erano bimbi che per non far vedere che erano busoni si davano molto da fare con le bimbe, le guardavano mandando bacini o giocando al dottore, ma si capiva benissimo che a loro piacevano molto di più i bimbi maschi. Questo studio sui bimbi pederasti di allora l’ho finito di fare adesso, da un paio di ore, e mi è costato un bel po’ di tempo per ricostruire la storia di ogni bimbo della mia classe. Adesso che la ricerca è finita sono sicuro che su trentuno bimbi maschi (diciamo così) diciannove erano di sicuro dall’altra parte. E più precisamente: Due con il cognome con la lettera A. Cinque con il cognome con la lettera B. Tre con il cognome con la lettera C Uno con il cognome con la lettera F. Otto (la maggioranza!) con il cognome con la lettera V. Senza contare i maestri e i bidelli che negli anni cinquanta erano in gran parte dell’altra sponda. Quasi tutti questi diciannove (per mantenere il loro segreto) si sono sposati e hanno persino fatto dei figli e molti oggi sono addirittura nonni. Per far capire a quali livelli di ipocrisia eravamo nei confronti dei tantissimi busoni che oggi, con la liberazione sessuale, finita la paura di essere discriminati, possono prendere la patente e anche molte altre cose. I busoni allora per riconoscersi fra loro e non sbagliarsi, visto che era proibito esserlo, quando avevano qualche dubbio ti domandavano: “di che sponda sei?” “dell’altra…” rispondevano i pederasti. 149


“di questa…” rispondevano gli avversari. Con i travestiti, che adesso si chiamano trans, era la stessa cosa. Anche di quelli ce ne erano tantissimi. Ma non te lo facevano capire. Le zie di un mio compagno di scuola erano trans tre su tre. Tutte le mamme dei miei amici facevano gli aborti clandestini. Erano sempre incinte e siccome l’aborto era proibito andavano dalle mammane che spesso le facevano morire di infezioni tremende. Nostra madre ha abortito almeno cinque volte che l’abbia visto io e chissà quante altre volte che non l’ abbia vista. Con il fatto che non c’era il divorzio nostro padre picchiava nostra madre da quando tornava a casa alla mattina dopo quando se ne andava al lavoro e lei non si poteva lamentare neanche un poco con nessuno perché se chiamava qualcuno, fa conto la polizia per dirglielo, la polizia diceva scusi signora ma cosa vuole, il matrimonio è indissolubile e lei si deve cuccare tutto quello che le passa il convento. Mia madre mostrava alla polizia i lividi ma la polizia si girava dall’altra parte, che non gliene fregava niente fin che non ci fosse stato il divorzio. Che finalmente ci fu.

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Non molti sanno o ricordano che Walter Benjamin ha lavorato per anni al disegno di una macchina fantastica capace d’individuare qualsiasi libro noioso e faticoso che non entri, neppure miniaturizzato, in una valigetta; una macchina, di natura portatile, provvista di vari congegni: lenti speciali, cerchietti di rame, cilindri ovoidali, borchie e fili metallici, specchi focali, aghi magnetici, viti e giugulari. E che Tristan Tzara ha scritto una Histoire portative de la littérature abregé non credendo alla verosimiglianza della Storia né al carattere metaforicamente storico di qualsiasi romanzatura, come dice Enrique Vila-Matas nella sua Historia abreviada de la literatura portátil, giocando sul titolo del libro dello stesso Tzara. E ancora che un manoscritto scomparso a Praga di Louis-Ferdinand Céline s’intitolava - sono in molti a testimoniarlo - Le vrai nom du complot portatif dov’era raccontata la cospirazione messa in atto all’interno di una società segreta chiamata Shandy costituitasi verso la fine dell’inverno 1924 (il termine shandy significa «allegro, volubile, svitato» nel dialetto di alcune zone della contea dello Yorkshire dove visse Laurence Sterne, l’autore del Tristram Shandy). Ci appelliamo a questi inconfutabili retroscena perché qui, nello scritto di Massimo Gatta, si fa riferimento in modo esplicito a una «metafisica portatile» e non vorremmo che qualcuno ingenuamente pensasse che si tratta solo di un vezzo filosofico-letterario. Paolo Albani

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Massimo Gatta

Per una metafisica portatile del lavare i piatti a mani nude

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Di certo alcuni istanti della nostra esistenza quotidiana sono pervasi da una sorta di metafisica portatile; semplici atti coi quali intessiamo la nostra realtà che si caricano, a volte, o così sembra a noi, di luminescenze filosofiche presocratiche, di pagliuzze di saggezza, quasi un satori. In tali istanti ci sembra di comprendere meglio le cose che ci stanno intorno, il significato e le sfumature di gesti, per altri aspetti transeunti, un accento prima scivolato via e che ora s’impiglia nel rizoma della nostra mente. E noi torniamo sempre all’acqua. Il presocratico di Efeso e il veggente di Buenos Aires condividono un pensiero simile, declinato a distanza di molti secoli secondo le rispettive sensibilità ed esigenze etiche: nessun uomo può immergersi due volte nello stesso fiume; ma anche nessun uomo è lo stesso dopo che si è immerso nel fiume mutato. Così come cambia l’acqua cambia l’uomo, gli fa eco da Calle Maipù il veggente bibliotecario. Il fiume cambia incessantemente, sembra suggerirci dalla lontananza inconoscibile del tempo il presocratico di Efeso per il quale, ancora, una sola è la via che porta verso l’alto e verso il basso. Appunto verso l’alto e verso il basso, dove sembrano coniugarsi quegli accadimenti minimali dai quali si ritorna mutati, come l’uomo nel fiume mutato. Ed io? Cosa ho a che fare io con gli schiavi? avrebbe detto Gobetti. Con gli schiavi certamente nulla, ma con l’acqua certamente qualcosa. E noi torniamo sempre all’acqua. Quando il cibo finisce di rappresentare l’alimento col quale l’organismo procede, arricchendosi di sali minerali, proteine, vitamine, carboidrati e zuccheri, restano residui, particelle, brandelli ed orme del quotidiano passaggio dalla superficie riflettente della ceramica alla pancia circolare. I succhi gastrici non hanno ancora iniziato la loro opera liquescente e selettiva che già qualcosa si accumula nei luoghi deputati. E noi torniamo sempre all’acqua. Rilassandoci ci sembra che il tempo sospenda per un attimo la sua 157


fuga in avanti. E ricordiamo frasi, accenti, rivediamo un volto sorridente o era malinconico? La sedia che ci sostiene è ora un punto fermo nella nostra vita. Guardiamo il riflesso dell’acqua nel lavabo, le iridescenze che giocano sulla parete e ci sembra di osservare un pezzo di mare, una laguna, uno spicchio di fiume: mutato, sempre mutato, come ad Efeso il filosofo andava insegnando nelle strade. Oppure è la battigia sulla quale volteggiava la splendida coppia elegantemente vestita e immemore del clangore dell’esistenza, col maggiordomo ombrello munito che, ansioso, cercava in tutti i modi, danzando anch’egli e gentilmente, di ripararli dalla pioggia. Ma loro appaiono immemori di tutto. È un magnifico Vettriano, per chi l’abbia obliato. I succhi gastrici agendo ci ricordano che anche noi stiamo mutando; digeriamo gli alimenti introdotti e, nel tempo, provvederemo ad eliminarli dal nostro corpo. Evacuandoli in un altrove. Ma noi torniamo sempre all’acqua. Osserviamo il cumulo bianco circolare, ondeggiante e affastellato, sembra una torre di Babele in miniatura dove al posto delle lingue si rincorrono resti di colore, sbavature di sapori, oleosità diverse, grumi, porosità, scivolamenti, rigagnoli, odori, colature e tutti gli errata del pasto, i refusi, ciò che andrà nettato una volta lasciato il luogo deputato al trasferimento di sostanze. Il corpo ha terminato una fase e ora ne intraprende un’altra, diversa, benché alla prima di molto collegata. Alcuni amano lasciare il torrione ondeggiante al suo destino, intoccabile se non fra qualche tempo. Ore che passano lente e che non scalfiscono quella sequenza di cerchi bianchi non più immacolati. Altri s’apprestano al gesto d’introdurre nella meccanica scintillante, insonorizzata, inodore, insapore, asettica, sterilizzata, uno ad uno i diversi pezzi del puzzle; negli scomparti con precisione chirurgica la mano deposita, sceglie, sposta, accumula, calca, introduce, toglie, modifica. Lo sguardo poi lungamente s’attarda sul lavoro 158


appena compiuto, con un lieve soddisfatto sorriso. Segue l’alimento per la macchina, ancora ferma in attesa di ruggire assecondando i suoi giri, gli spruzzi, l’alito caldo finale che restituirà alla mano i pezzi finalmente nettati. Cose da dilettanti. Io non sono tra costoro. Preferisco agire, spostare il mio corpo e protenderlo verso la fonte di quelle poetiche iridescenze, verso quel gioco di luci che si rincorrono sulle pareti. È un tardo pomeriggio autunnale, il pallido sole è tiepido oramai ma ancora gioca coi riflessi di un’acqua stagnante e musicale. Torniamo sempre all’acqua, noi. Lo scorrere dell’acqua fredda che tende al tiepido e quindi al caldo si infila tra le dita; le mani restano indissolubilmente legate alla loro essenza, aperte, nude. Il rifiuto dei guanti è pratica antica che riguarda il bisogno ancestrale di essere più prossimi possibile alle cose, senza interlocutori, per quanto plastici e impermeabili possano essere o sentirsi. Le mani devono essere, e restare, nude. Tanto nessuna mano sarà la stessa dopo che si è immersa nell’acqua mutata, così direbbe il veggente argentino. Sempre torniamo all’acqua, per quanto mutata, per quanto diversa. Le mani nude hanno la capacità, rapace, di afferrare implacabili gli oggetti; trattenendoli stretti non lasciano la presa. Sotto al getto d’acqua, ora riscaldatasi al fuoco benefico della caldaia, vengono preliminarmente rimossi i primi detriti, quelli macroscopici e che fluiranno perdendosi all’istante, risucchiati nel buio vortice cavo del tubo. Una specie di interanalisi del fluìto prossimo, ricordavo questo smagliante titolo di un libro letto tanti anni fa, della praghese Vera Linhartova. Allora era Ripellino il mio fuoco. Ecco cos’era quella visione: una interanalisi del fluìto presente. Acqua che scorre a mondare preliminarmente il troppo evidente, il vistoso, l’eccessivo, lo scarto. Seguirà una stasi. Un nero tappo impedirà all’acqua nuova di defluire; il livello nel lavello sale, s’increspa, s’agita, un vagolare di 159


sensazioni termiche che lambiscono le mani, ancora e sempre nude; ivi s’immergono dopo aver lasciato scorrere un liquido verdastro, defluito dalla plastica commerciale dentro al liquido amniotico nel quale, lentamente, si procederà a cancellare gli errata. Una schiuma placida ricopre adesso la superficie dell’acqua. Uno alla volta i dischi di ceramica, un tempo bianchi ed ora implacabilmente lordati, vengono immersi in un’acqua davvero mutata; scivolosa, essa però li accoglie benigna e noi, con lei, ad accarezzare, la superficie del piatto sul quale un tempo, che ora ci appare fin troppo remoto, era adagiato un miscuglio di sapori e odori e untuosità familiari e benefiche. Una pietanza come scrivono cuochi televisivi. Mai potremmo, tra noi ed il piatto, porre una intercapedine di plastica, un preservativo di colore rosso o giallo o verde a seconda delle scelte, della doxa. Mai lasceremmo che il contatto tra pelle e ceramica diventasse semplice passatempo; al contrario esso dev’essere come quello tra gli amanti, appassionato, inesorabile, implacabile, inesausto. Mani molli non albergano in questo nostro luogo. Esse al contrario devono virilmente afferrare e stringere, e strofinare e nettare ed assecondare le scanalature del piatto e saggiarne la progressiva perdita del superfluo, del rifiuto, dell’errata. Le dita, mutate anche’esse nell’acqua mutata, passano circolarmente come sentinelle sulla superficie materica, liscia, che sembra ora finalmente tornare ad un antico splendore, ad una verginità lentamente riconquistata; una verginità profumata, finalmente placata, con piccole bolle iridescenti che l’adornano come gioielli per una principessa che s’appresti al ballo. Poi un pensiero ci penetra come l’uccello tra i rami. E se lasciassimo un varco di errore, uno sbaglio, al modo delle donne Navajo così ricordate da Emilio Cecchi in Messico: “Quando una donna Navajo sta per finire uno di questi tessuti, essa lascia nella trama e nel disegno una piccola frattura, una menda; «affinché l’anima non 160


le resti prigioniera dentro al lavoro». […] vietarsi, deliberatamente, una perfezione troppo aritmetica e bloccata. Perché le linee dell’opera, saldandosi invisibilmente sopra se stesse, costituirebbero un labirinto senza via d’uscita; una cifra, un enigma di cui s’è persa la chiave. E non è anche la spiegazione perché certi grandi artisti misero sempre nella propria opera un segno d’incompiuto; quasi un invito al mistero, alla collaborazione naturale?”. Un piccolo neo, un errore, una traccia di sporco affinché, appunto, non si perisca nella perfezione e insieme ad essa? Ipotesi su ipotesi s’affacciano alla mente prima del gesto finale che è quello di saggiare, appunto, una presunta perfezione formale, bloccata. Noi torniamo sempre all’acqua, anche se mutata e noi con lei. Ora il getto caldo riprende l’azione, scroscia, si sparge sul bianco e lascia defluire in basso ciò che resta d’una azione, d’una prassi. Tutto s’avvolge in un vortice in senso orario, quasi come fosse la giduglia patafisica. Nel vortice multicolore, defluisce ora uno stato passato, trascorso, transeunte. Un vortice immondo che cola via, disperdendosi in un più vasto mare, dove tutte le imperfezioni si sommano. Il getto caldo ricopre la superficie bianca che le mani afferrano risolute; un passaggio e poi un altro e poi un altro, e così che scorre via la vita di ognuno ed è vero una sola è la via che porta verso l’alto e verso il basso. La via dello scarico che porta in basso ciò che prima stava in alto. E s’adagiano adesso in un sonno breve a scolare, su superfici di cotone o di plastica, le nostre amate stoviglie, le pentole, i coperchi, le forchette e i coltelli, i calici cristallini, un tempo macchiati dal rosso del Primitivo di Manduria. Ed è così che amo lavare i miei piatti: a mani nude, mutate.

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biografie

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Camillo Cuneo è nato a Genova nel 1962. Dopo aver organizzato, tranne che nella città di Antofagasta, esposizioni in tutto il mondo, ha preferito dedicarsi alla contemplazione visiva e sonora dell’universo che appartiene alla virtù della parola scritta e poco verbale, anche se non rifiuta colloqui con animali, piante, zebre e pulcini, (accidentalmente con esseri umani). Una sua mostra a New York ha ottenuto folate di vento e qualche nota a saracinesca sulle ventitré del mattino successivo la nomina in carica. Vive sufficientemente appartato in una casa del bosco di Favale di Malvaro in Liguria. Paolo Colagrande è lo scrittore che nel 2007, a Viareggio, a cena prima di una lettura, si è tirato addosso un piatto di triglie alla livornese e non aveva da cambiarsi. Una delle triglie è rimbalzata sul vestito della moglie di un noto scrittore contemporaneo. Vittorio Orsenigo è di famiglia antica, piena zeppa di radici da incubo. Per uscirne, fin da ragazzo, si è occupato di ‘suffumigi ‘patafisici’. Sommozzatore e uomo di teatro ama la compagnia dei pesci corallini giallo cromo e dei libri. Come se non bastasse è scrittore, pittore e fotografo. Di sé afferma che il suo corpo intellettuale è cosparso di ematomi, dovuti a ritorni di colpi da egli stesso assestati a scrittori ed editori (legge del contrappasso). Lo si può incontrare al Redecesio dove Tullia gli spadella di brutto buonissimi involtini di piselli. Tra i suoi libri è abbastanza utile citare L’uccellino della radio, una buona porzione di farfalla cavolaia e di caste sociali. Vive a Milano. Marzio Sergio Bini, è nato a Casalmaggiore. Si è dedicato alla recitazione con il vano scopo di vincere la propria timidezza. Da quando si è allontanato dal grande fiume ha sempre avuto la sensazione di vivere come un pesce fuor d’acqua. Come un ectoplasma a fasi alternate ha

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coniugato la scrittura con l’esercizio del passeggio lungo gli argini, sperando di evitare i guai dell’esistenza. Nebbia e profumi acidi delle piene minacciano seriamente la sua figura, tuttavia, nessuno è in grado di stabilire un equilibrio organico tra le sue pratiche motoletterarie. Ugo Nespolo è nato a Mosso, Vercelli, nel 1941. Una infinità di cataloghi, libri e libricini sono il suo corredo. Ha esposto in tutto il pianeta, sul lato chiaro della Luna e sul secondo anello di Saturno. Ha viaggiato su satelliti naturali e artificiali; il suo spirito arte-vita lo ha portato a divulgare l’Ordre de la Grande Gidouille presso tutti gli abitanti del suo condominio. Chissà perché, invitato a Pomponesco e a Casalmaggiore, non è mai pervenuto. È Faraone e Ministro dell’Etoile d’Or. Sandro Montalto (Biella, 1978) pubblica un po’ di tutto: poesia, prosa, critica letteraria, aforismi, teatro. Situazione grave! Peggiora la sua posizione proclamando di essere collaboratore di riviste e giornali, e di dirigere due riviste letterarie. Al limite del sopportabile, poi, pubblica qua e là scritti sulla musica, sull’arte e sul cinema, nonché contributi ludolinguistici, patafisici ed enigmistici. Dimostrando vero disprezzo del prossimo, svolge la professione di bibliotecario ed è attivo come compositore e direttore. Un po’ si vergogna, ma sopporta. Adora la realtà perché la trova surreale. Antonio Castronuovo (Acerenza, 1954). Saggista: Suicidi d’autore (2003), Libri da ridere: la vita i libri e il suicidio di A.F. Formiggini (2005), Macchine fantastiche: manuale di stramberie e astuzie elettro-meccaniche (2007), Ladro di biciclette: cent’anni di Alfred Jarry (2008), La vedova allegra: storia della ghigliottina (2009) tutti per Stampa Alternativa. Traduttore di opere di Jarry, Apollinaire, Gide, Eluard, Monet, Picasso, Matisse, Irène Némirovsky. Curatore di Miguel de Unamuno, Nebbia (Rizzoli bur, 2008), Stendhal, Il rosso e il nero (Barbèra, 2009), Isabelle Rimbaud, L’ultimo viaggio di mio fratello Arthur (Via del Vento, 2009), Albert Camus, La commedia dei filosofi (Via del Vento, 2010). Collaboratore di riviste: “Belfagor”, “Cortocircuito”, “Il Caffè illustrato”, “Il Lettore di provincia”, “Il Ponte”, “Platypus”, “Technè”. Da qualche anno lavora con un occhio alla ’Patafisica, scienza che lo convince sempre più.

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Anonimo, per motivi suoi privati non ha voluto fornire la sua biobibliografia (altrimenti che anonimo sarebbe!). Max Blue Berni (Guastalla - Reggio Emilia, 1974). Infaticabile osservatore si è laureato in filosofia, ma ne pratica poca. Di giorno lavora come dipendente comunale, gestendo una biblioteca e diverse attività culturali. La notte subisce una trasfigurazione cromatica che gli fa assumere il colore blu, l’unica tonalità emotiva capace di essere allo stesso tempo scuro come un abisso e luminoso come un giorno di giugno inoltrato. Con il blu tinge tutta la sua imbarazzante e imbarazzata visione del mondo, i suoi articoli, le sue interviste, le sue riflessioni. Günter Grass (Danzica, 1927). Tra le sue pubblicazioni più conosciute: Il tamburo di latta (1959), Il rombo (1979), La ratta (1986), Mostrare la lingua (1992). Nel 1999 ha ottenuto il Premio Nobel per la Letteratura. Vive a Lubecca. Mario Aldovini è nato a Modena nel 1939. Ha insegnato filosofia, storia e psicologia fino al 1983, da allora esercita la libera professione come psicoanalista. Ha pubblicato alcuni articoli di carattere psicoanalitico, ma soprattutto ha pubblicato tre libri col Pulcinoelefante. Nel 1998 a Pomponesco ha ottenuto il Diploma di ‘Patafisico e successivamente è stato inserito nel World Institute of Hystoric Lunch (WIHL) per il suo piatto invernale “Lingua fredda in gelatina”. Armando Adolgiso è nato a Napoli. Conduce dal 2000 il webmagazine www.nybramedia.it. Ha pubblicato Epistolario (Exit Edizioni), Il resto è silenzio (Le Parole Gelate), Film senza Film (Stampa Alternativa). Per la Rai, in trent’anni d’attività, ha diretto sceneggiati, racconti, programmi culturali. Per il teatro ha messo in scena autori prevalentemente appartenenti alle avanguardie come Kafka, Beckett, Ionesco. Tra le sue performances multimediali vanno ricordate quelle di Roma, Reims, Torino, Monaco di Baviera, Firenze, Lisbona.

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Miklos N. Varga è nato a Milano nel 1932. Ex Docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ha pubblicato tra l’altro: Ideologia dell’amicizia (presentazione di Salvatore Quasimodo), Napoli, 1968; Come sette paesaggi (presentazione di Roberto Sanesi, incisioni di Guido Biasi), Milano 1977; Frammenti lirici (presentazione di Vincenzo Accame, acquarelli di Vincenzo Frattini); De-cantare Urbino (presentazione di Paolo Volponi, incisioni di Arnaldo Pomodoro), Pesaro, 1985. Per la casa editrice SE ha curato i libri: William Hogarth, L’analisi della bellezza, 1989; Montesquieu, Saggio sul gusto, 1990; Denis Diderot, Trattato sul bello, 1995. Roberto Barbolini (Formigine, 1951). Dopo avere ottenuto un buon punteggio in un concorso si è trasferito a Vienna. Al ritorno in Italia ha vissuto in un piccolo centro un po’ degenerato dove la attrattiva principale era una strada illusoria in cui si vedevano più bestie e un gruppo musicale che per il 27% era orecchiabile, il resto non si sa. Forse è in questo periodo che ha scritto saggi dedicati al fantastico letterario tra i quali uno in cui parla di un celebre scrittore che si batte contro un drappello di squinternati. All’Albergo Europa di Viadana per tutta la notte gli ha tenuto compagnia un ratto. Giovanni Maccari (Siena 1966). Ha scritto una monografia su Giuseppe Pontiggia (Cadmo, 2003) e curato un volume sulla critica letteraria di Guido Piovene (Il lettore controverso, Aragno, 2009). Suoi racconti sono apparsi sulla rivista “l’accalappiacani”, ora estinta; un suo romanzo incentrato sulla figura di Isaak Babel’ è uscito nel 2011 (Gli occhiali sul naso, Sellerio). Cristiana Minelli è nata a Modena nel 1965. Scrive storie surreali che qualcuno definisce, con generosità, vertigini di fantasia. Ha lavorato a Comix e cenato con Dracula, alias Christopher Lee, nel ristorante del miglior cuoco del mondo. Ufficio stampa di un Civico Museo d’Arte Contemporanea, soddisfa, al bisogno, bizzarre richieste. Scova carpe giapponesi vive in pieno inverno, assapora improbabili confetti di carta, si occupa di fenachistoscopi (che è sempre meglio che lavorare e basta). Canta in un coro Gospel, adora le corone ed è una

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fan de I Nuovi Bogoncelli di Paolo Nori. Fa tutto di corsa, ripetendo ossessivamente il ritornello del coniglio bianco di Lewis Carroll: “È tardi! È tardi!”. Lorenza Amadasi è nata nel 1961 e da allora fino a oggi con estenuante fatica continua ad adattarsi al mondo, rivendicando il diritto di respirare pulito e immaginando un pianeta dove si possa ancora bere l’acqua dei fiumi. Ha realizzato alcune pubblicazioni tra le quali una in collaborazione con Oliver Sacks per la casa editrice Pulcinoelefante. Il suo desiderio a fasi alterne la porta a trascorrere molto tempo in Grecia e in Francia. Maurizio Maggiani è nato a Castelnuovo Magra nel 1951. Elencare in questa sede premi e riconoscimenti è fuori discussione, così come lo è parlare della sua vita, lineare e contorta, profumata di mare e palude. Scrittore senza lasciare ombre continua a illuminare chiunque lo incontri al quale racconta di cibo e scrittura, di acqua che scorre fino al momento in cui la ferrovia s’interrompe per lasciare posto al vasto e misterioso mondo della meccanica, della pioggia e della notte. Pupi Avati (Bologna, 1938), anche se avrebbe voluto fare di mestiere il musicista, è uno dei personaggi più inquietanti del cinema italiano e internazionale. Tra il suo primo film Balsamus, l’uomo di Satana (1970) e l’ultimo Il cuore grande delle ragazze (2011) ha diretto quaranta film, tra i quali Noi tre, poco conosciuto dal grande pubblico ma considerato un capolavoro dagli appassionati. Massimo Gatta (Napoli, 1959) è dal 1987 in servizio presso università italiane: Napoli, Università Federico II e Seconda Università. Attualmente è bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise. Ha pubblicato un quintale di libri, organizzato chilometri di mostre bibliografiche e corsi. Collabora a ettolitri di periodici tra i quali “Charta”, “UTZ”, “Percorsi”, “Colophon”. Collabora con il supplemento culturale de “Il Sole 24 Ore”.

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indice

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Ove non citato, le prefazioni sono a cura dell’editore


ERNESTO FERRERO

Prefazione

5

CAMILLO CUNEO

Caviale allo spiedo

10

PAOLO COLAGRANDE

C’era un mio amico

18

VITTORIO ORSENIGO

Incidenti quasi mortali

26

MARZIO SERGIO BINI

Dal dentista

34

UGO NESPOLO

Cru e crudo

42

SANDRO MONTALTO

Un grosso apostrofo

50

ANTONIO CASTRONUOVO Versi tossici

58

ANONIMO

Brusìo di banane

66

MAX BLUE BERNI

Intervista a Günter Grass

72

MARIO ALDOVINI

Una voce così

80

ARMANDO ADOLGISO

Contraccettivi letterari

88

MIKLOS N. VARGA

Aforismi a fondo perduto

98

ROBERTO BARBOLINI

La vigna di Salomone

104

GIOVANNI MACCARI

Lo sputo che cade

112

CRISTIANA MINELLI

Pacco di natale

120

LORENZA AMADASI

Per sentito dire

132

MAURIZIO MAGGIANI

Implorazione di settembre che viene ad agosto che va

140

PUPI AVATI

Diario di un bimbo

148

MASSIMO GATTA

Per una metafisica portatile del lavare i piatti a mani nude

156

Biografie 173

163



Finito di stampare nell’Agosto 2012 presso Arti Grafiche Castello



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