Fuocofuochino5 digitale

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Ringraziamenti Famiglia Bini e tutti i collaboratori della Arti Grafiche Castello. Copyright Š FUOCOfuochino 2017


FUOCOfuochino La piĂš povera casa editrice del mondo

tavole di Lucia Pescador


La storia della famiglia Fuocofuochino.

C’era una volta la casa editrice più povera del mondo che era così povera ma così povera che non poteva avere le macchine per stampare ma solo fotocopiatrici. Non poteva pagare gli autori e allora pubblicava solo per gli amici, non poteva avere fotografie e allora chiedeva di volta in volta a Ugo, a Luigi, a Lucia e a Giuliano di disegnare delle tavole, non poteva affittare un magazzino e così lavorava a casa, non poteva distribuire i libri e ci pensava Corraini edizioni, non poteva avere tirature illimitate e aveva deciso che undici copie erano abbastanza. Non aveva neanche riscaldamento e quando c’era freddo ma tanto freddo, freddo vero da battere i denti – ai bordi del Po l’aria è umida e inesorabile – accendeva il caminetto. E cosa strana ma vera, nella casa editrice più povera del mondo c’era un caminetto ricco ricco. Ricco di fiamme allegre, ricco di rosso e di scintille, ricco di caldo e di ricovero al punto tale che una famiglia di ricchi Fuochi, dopo tanto peregrinare, decise di stabilirsi proprio lì. Si trattava di una famiglia di Fuoco discendente dai Romanov, imparentata con mezza Europa coronata, principi tedeschi, austro-ungarici e prussiani e ramificata in Francia sin dai tempi di Carlo Magno. Si dice che i propri antenati avessero bruciato più di una strega e addirittura si parla di Giovanna D’Arco in persona. Ma ora erano tempi duri anche per i fuochi di lignaggio antico e dai patrimoni attivi, si doveva migrare. Tra la grande crisi dei caminetti di campagna, i divieti di città di accendere fuochi per lo smog, lo spopolamento dei castelli e la banale e borghese attitudine alla comodità della luce elettrica ormai le famiglie dei fuochi erano decimate. Una specie in via d’estinzione. Eppure, lo sappiamo, il percorso della civiltà inizia solo quando Sant’Antonio scese sotto terra a strappare un po’ di fuoco al Diavolo. Quante tradizioni e leggende legate al mitico elemento! Quanti patti di sangue realizzati saltando a due a due sul fuoco il giorno del solstizio d’estate. Compari per la vita, si diventava!

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Tutto sta andando inesorabilmente in fumo. Alcune povere famiglie di Fuochi contadini resistono stagionali, da ottobre a maggio, per bruciare le sterpaglie. Attività gradita assai al mio giardiniere detto Giovanni di signor Ninì per distinguerlo dall’altro Giovanni che lavora in studio. Giovanni di Signor Ninì è fissato a tal punto che penso abbia un po’ di predisposizione alla piromania. Mi viene in mente Paul Newman nel film “La lunga estate calda” ma vi assicuro con un fascino molto meno magnetico, purtroppo. Alcuni fuochi resistono, un po’ patetici e obsoleti, in stanchi falò in spiaggia al suono di chitarre stonate e mielose, che pena! Altri, ancora arzilli, si atteggiano intorno al totem in riti sciamanici nella mitica Valle della Luna. Durante le notti estive di luna piena, eserciti di hippies convinti di essere ancora negli anni Settanta si agitano come in un sabba delle streghe di Macbeth chiedendo al fuoco protezione, nostalgici ma innocui. Purtroppo altre famiglie capitanate dal pericoloso Ponifogu (come si dice da noi per definire una persona che mette zizzania) si sono unite in un esercito per rivendicare territori e dignità, dicono. Famiglie esasperate dallo stato di maltrattamento e di incuria nei loro confronti. Famiglie povere, senza lavoro, sostituite da forni elettrici senza calore e da fuochi finti che animano falsi caminetti si decisero a fare la loro guerra per fare sentire la propria voce e vendicarsi. Per prima cosa si scagliarono contro i miseri fuochi che arrivavano da lontano in cerca di qualche soffio che alimentasse la loro sopravvivenza. Una classica guerra fra fuochi poveri dettata dalla miseria, ignoranza e disperazione. E poi come in un disegno malvagio e inutile si rivoltarono, approfittando del caldo estremo e del maestrale incontrollabile, partendo in anarchiche battaglie distruttive. Ettari e ettari di terreno inceneriti da famiglie di fuochi determinati, tenaci e incattiviti. E Ponifogu sempre in testa. Povere pernici, poveri picchi, poiane, falchi e gufi. E poveri rettili, lepri, ricci e cinghiali. E povero Bambi, se tendi l’orecchio, lo puoi sentire che chiama invano: mamma, mamma! Una volta c’ero anch’io. Eravamo nella casa di campagna, ad agosto in un pomeriggio afoso, ventoso e anche grigino. Io e tutta la banda di bambine, una dozzina tra cugine e amichette, stavamo scalando

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il Monte delle Capre Umane, divise in squadre faticosamente decise e/o imposte. Chi voleva stare con me, chi con Giusi, chi voleva comandare, chi era stanca e chi aveva fame. Ad un tratto le urla imperiose di nonna Jachedda che ci chiamava a raccolta ci avevano messo tutte a tacere. Grazie al cielo una famiglia di fuoco amico aveva avvisato in tempo con segnali di fumo mia nonna e lei fulminea e pragmatica, come solo una abituata ad ospitare durante la guerra i soldati alleati a casa e aspettarsi, da un momento all’altro, le bombe arrivare dall’alto, ci radunò e raccattando in un sacco le cose più preziose (una pelliccia spelacchiata, un po’ di corredo e qualche fotografia più acqua e pane raffermo) abbiamo iniziato a correre come pazze verso il mare. Ci siamo fermate solo quando avevamo l’acqua alle ginocchia e con le spalle rivolte al largo e lo sguardo verso la spiaggia, fissavamo il fuoco indiavolato. Non dimenticherò mai quello spettacolo. Famiglie di fuoco che inviperite e fiammeggianti cercavano di non lasciare intentato nessun sentiero, nessuna macchia mediterranea, nessuna pietra e piano piano si insinuavano verso la spiaggia. Ma noi eravamo salve. Che disastro! E solo per la cecità umana che non riesce a riconoscere il valore del fuoco e la cecità di orde di fuoco che rivoltandosi distruggono solo sé stesse. Insomma tutte le famiglie di fuochi che sin dal giorno che era stato portato in superficie e regalato agli uomini andavano di pari passo con il progresso, in questi ultimi anni subivano un duro colpo. La vita era sempre più difficile, nessuno riconosceva più al fuoco la sua valenza magica. Il fuoco accomuna, il fuoco incanta, il fuoco riscalda, il fuoco ipnotizza, il fuoco ispira. Ispira racconti, storie e non solo. Ma chi se lo ricorda più? Fortunosamente la nostra famiglia di signori Fuochi trova, grazie alla sapienza della casa editrice più povera del mondo, ricco asilo nel camino sempre acceso. La famiglia di Fuoco nobile si trovò cosi bene che decise di divenire stanziale, non andare in transumanza durante il periodo estivo e di dare vita a tanti e tanti fuochini. Fuochino n° 1, fuochino n° 2 e fuochino n° 3, n° 4 e n° 5 fra i centina-

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ia di fuochini, erano i più attivi, i più curiosi e i più dinamici. Avevano l’argento vivo addosso. Stimolati da tutte le storie che sentivano nella casa editrice più povera del mondo decisero che era ora di esplorarlo questo mondo finalmente, di viaggiare e conoscere persone e luoghi. Il n° 1 voleva conoscere Rodchenko e la mamma di Rodchenko, il n° 2 voleva andare da ovest a est e poi da nord a sud e viceversa, il n° 3 era fissato con i cruciverba, il n° 4 voleva divorare tutti i racconti e non gli bastavano più quelli in italiano e li voleva in russo. Il n° 5, quello che fra tutti era il più avventuroso, decise di prendere il suo fagotto e partire alla ricerca delle proprie origini. E testardo com’era – sicuramente scorreva anche sangue sardo nelle sue vene – contro il volere della sua famiglia, partì verso nuovi orizzonti. Ma la sua storia alla prossima puntata … Patrizia Sardo Marras

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Antonio Serventi detto Tacete è un esempio di libertà narrativa assoluta. Non ha regole nei giochi spazio temporali, nelle metafore, negli incastri drammaturgici dove non è nemmeno importante seguire un filo logico del racconto, anche perché non c’è. L’invenzione nasce frase dopo frase. La scrittura segue il frizzante citrato del cervello sulfureo dell’autore. Tutto è portato oltre ogni limite con un umorismo tragico, un divertimento amaro. Se si dovesse illustrare un suo dipinto saremmo di fronte ad un quadro di Bosch. Un elogio della follia letterario. Tacete, (più che uno pseudonimo, un imperativo verso tutti gli altri scrittori del mondo!) ci porta in un inferno più che padano, scavando nella psiche di un uomo che non ha barriere razionali. Tacete non è uno scrittore di questo tempo, viene dal cinquecento, per questo non sarà mai pubblicato dai grandi editori. Resterà per sempre un figlio del Folengo e di Bosch, reincarnazione presente del poeta Robert Desnos. E il suo nome imperativo, pesa tremendamente di fronte a tutti quei libri che escono oggi, scritti bene, ma senza sapore, senza sangue. Il mondo in rivolta di Tacete, con il suo protagonista Villa il nano, spegne ogni velleità letteraria altrui. La scrittura è monito, avvertimento, strada da seguire e fuggire, modello e fuga. Un autore di nicchia per appassionati da leggere con passione e ardimento. Guido Conti

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Antonio Serventi Tacete

VILLA IL NANO

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Dopo un nubifragio Villa il nano passeggiava negli smisurati e devastati giardini di ortensie. Sulle palle dei fiori, rimaste attaccate alle piantine, erano posate goccioline del diluvio e sul sentiero s’incontravano pozzanghere piene di pesci microbi tra i quali delle balenine microscopiche, sobbalzate dal mare vicino durante la tempesta. Villa il nano camminava mano nella mano con la Vivianacca che, da Viviano, aveva cambiato sesso per mezzo di una operazione chirurgica ed era la figlia dell’industriale di tutte le seterie dell’Inghilterra. Quel giorno vestiva un abitino grazioso a scacchetti bianchi e neri e la carina Vivianacca era la fidanzata di Villa il nano. In Inghilterra si era ai tempi della rivoluzione industriale. Il cielo era colore azzurro anice e dal vicino sentiero faceva ritorno qualche operaio bambino, tra cui il nano Nanard con sotto il braccio un libro intitolato il Capitale, scritto da Carl Marx dopo ore di lavoro nelle industrie della seta i cui telai producevano rumori come se i lavoratori battessero i tasti di macchine da scrivere gigantesche. Un terrone, chiamato Meridioanalisti, dal cappello di gomma piuma a forma di torre del Big Ben minuscolo, passava su un carro pieno zeppo di bachi da seta da portare nelle fabbriche vicine e la Vivianacca chiedeva a Villa il nano se gli piaceva il musicista Bach. Come ospite del cardinale chiamato Tombolino nella sua villa sulla via Appia, Villa il nano dormendo nella casa nella notte sognò Roma in rovina dai palazzi e monumenti sparsi come ruine e il colosseo 13


come un dente gigantesco e cariato e di essere nel settecento in un ristorante sotterraneo chiamato il Carciufo in compagnia di un barbiere detto il Carciuffo e del pittore ruinista Panini a mangiare l’abbacchio alla saffo con erbe femministe ed oppiacee che se mangiate da donne le stimolavano a far l’amore con il proprio sesso. Nel locale c’era un fontanone zampillante frascati dove i clienti potevano andarsi a riempire il bicchiere di tale vino e il cuoco panzone discorreva con i clienti seduti ai tavoli dentro a grossi loculi di ciascun catacomba ed a loro nominava le erbe lesbicina e saffìncula profumate al rosmarino misto alla camomilla con cui cucinava l’irco. Ad un tavolo erano sedute una ballerina lesbica dal nasone lunghissimo da pinocchia con larghe narici e somigliante ad un pene, calva, dai bicipiti nodosi e collane-cavigliere e chiamata Suspiriarnaldesia Ponteficata e una ragazzina dai capelli arrotolati a forma di fettuccine la quale con scarpe a forma di libri faceva il piedino alla danzatrice d’etoile, vestita di un velo trasparente in cui trasparivano piccoli seni flaccidi e con alle dita delle mani anelli a forma di volti minuscoli di poetesse e scrittrici omosessuali quali Saffo, Aleramo, Woolfe e De Beauvoir. Nella notte a Roma, città illuminata da carciofi incandescenti come torce in un percorso cittadino c’era una gara di corsa di cani bastardini, vestiti da cardinali di vesti rosso porpora – organizzata dalla città del vaticano – e Villa il nano si sognava con il pittore Panini ad un lato di una strada dentro una folla di curiosi a seguire i cani bastardi correre e qui vide mano nella mano la donna e la ragazzina allontanarsi e perdersi per sempre entrando in una casa

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a forma di caprone gigantesco in vicolo Sisto Sesso e sentÏ i risolini della ragazza-angelo sui discorsi della donna calva che raccontava in un balletto di aver sollevato piÚ volte il ballerino. Alla corsa dei cani vinse quello detto Mammola Bastardillo, il cui allevatore era uno del Pincio chiamato Canilio dei Michelangeli, poi Villa il nano si svegliò.

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La pancia gravida di tutte le arie azzurrine, Alipio Santos erutta parole, lemmi indigesti, aggrumati: tuffo mesto di testa nel pozzo senza fondo della mancanza umana? O piuttosto pars destruens di un procedimento in due tempi che aspira a nuvole di golosa bellezza? Questi manifesti terrestri, questi sorbetti infetti vanno gustati senza satollarsi: il palato immaginario ha i cieli sulla lingua. Jacopo Felix Narros

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Alipio Santos

LECCHIAMO I MANIFESTI

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I

il cibo sano e in voga dei dietisti la coscia soda e il culo dei ciclisti la natural burella dei dantisti la grama vita dei telefonisti: cibo grama coscia ahi poveri cristi la polvere umidiccia dei catasti l’invito alla frugalità dei pasti pretucoli castrati più che casti la sera in cui non mi telefonasti: la polvere di quei castrati impasti l’aumento incontrollabile dei costi la vita ormai è la virtù dei tosti il nuovo ammazzatutto per gli incrosti

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noi si combatte qui per pochi posti: l’aumento a poca vita di avamposti dritti e belli sorrisi e fuori i busti beviamo verità per tutti i gusti gustiamo oracolari mezzibusti bruciati in massa da pensieri frusti: dritti draghi noi sempre quelli giusti i cari e belli e dolci e giusti gesti i belli e dolci e giusti e cari incesti uffici di impiegati ottusi e mesti corri giusto finchÊ non ti arresti: cari e belli lecchiamo i manifesti

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II

dove andare a sbattere la testa in un mondo sfascio a cartapesta dove andare qui a far la festa nel buio bruciacchiato di tempesta ecco mondo mondo benzina mesta la benzina del mondo è morte mesta e noi si va ombrelli di tempesta ridenti nella pioggia della festa e noi si va omini cartapesta per strada ghigliottina senza testa

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Se non si trattasse di una casa editrice così povera (cioè se fossi pagato per scrivere questo pezzo) partirei subito con discorsi scientificamente impostati e direi di scissione proiezione identificativa regressione meccanismi arcaici di difesa o che so io... che se poi la cosa non andasse bene mi direbbero non va bene non ti paghiamo e io brontolerei e magari riscriverei il pezzo per avidità di guadagno. Ma non mi pagano, e proprio per questo non posso freddamente nascondermi dietro il mestiere della psicoanalisi: perché Uber è un mio amico e il Mario della vicenda non sono io ma potrei esserlo. Ecco, chiariamo subito che quel Mario non è Mario Aldovini ma è Uber Tosi, come capiscono anche i meno accorti a cogliere gli aspetti autobiografici di uno scritto (Madame Bovary c’est moi, confessò e si vantò Flaubert). Afferriamo quindi il coraggio a quattro manici e, magari usando la psicoanalisi per capire e non per nasconderci, cerchiamo di vedere chi sia Ebe, questa inquietante interlocutrice di Mario/Uber. Come nei sogni, in cui ogni personaggio rappresenta qualcosa che appartiene al sognatore molto più che agli eventuali riferimenti reali, così in ogni opera immagine o racconto l’autore parla sempre anche di sé, dà voce a parti e aspetti del suo mondo interiore, della sua storia, della sua personalità. Il Mario della narrazione è tratteggiato in maniera sbrigativa e scontata, esiste solo nella relazione con Ebe: come a dire che Mario rappresenta in fondo un’immagine socialmente collaudata, ufficiale, si potrebbe dire un ruolo, un ritratto ripreso e visto solo dalla parte della luce. Mancano le ombre, la profondità dell’immagine e lo spessore del personaggio. Ebe è invece a tutto tondo nella sua follia, “assolutamente elegante” e “assolutamente irresistibile” ma anche innocentemente feroce: secondo il mio sentire Uber è tanto affascinato da Ebe perché vede in lei qualcosa che sente in sé, accudendola accudisce e tiene a bada la follia che in lui, come in ognuno di noi, ha bisogno di un recinto con-

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fortevole in cui sentirsi accolta senza spinte irresistibili a scatenarsi fuori. Perché i matti non sono, come credono gli stupidi, persone diverse dalle altre, sono solo persone che ad un certo punto non riescono, non riescono più a tenere a bada la loro personale follia; per questo Mario accudendo Ebe compie sicuramente una importante opera di igiene mentale, la SUA igiene mentale. Credo che le ultime parole del racconto siano una chiave importante di comprensione: “lui non le sarebbe mancato” evidenzia che lei gli sarebbe mancata, penso proprio per la funzione che il loro bizzarro e asimmetrico dialogo aveva svolto. P.S. Siccome nulla accade realmente senza senso, vorrei osservare che nel testo che mi è stato inviato per questo commento c’era un errore di battitura di cui nemmeno l’autore si era accorto: “lui non le sarebbe mancata.” A buon intenditor... A seguito di queste considerazioni, ho chiesto a Uber Tosi di fare istanza presso il Tribunale per ottenere che il suo nome sia cambiato da Uber a Eber. Mi ha detto che non lo farà mai perché Eber Tosi non suona bene e non è evocativo come Uber Tosi: secondo me gli effetti della mancanza di Ebe si fanno sentire. Mario Aldovini

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Uber Tosi

EBE

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Ebefrenia s.f. varietà di schizofrenia, propria dell’età giovanile, che degenera rapidamente in demenza. (Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana). Ebe, affetta da schizofrenia ebefrenica aveva ottantacinque anni e viveva in un ospizio. Mario andava spesso a farle visita, gli piaceva stare a guardarla per ore, lo aiutava a pensare a niente. Quasi sempre, quando entrava in salone, lei lo accoglieva con: Va via dad chè! Cat vegna an càncar!(1). Ebe visse coi genitori fino al momento in cui la ricoverarono in una struttura per persone mentalmente disturbate dove imparò ad aiutare le operatrici addette all’approvvigionamento del magazzino, dava una mano nelle dispense dei pasti agli altri ospiti. Mite, seppur con qualche episodio di intolleranza nei confronti sia del personale che dei degenti, col passare degli anni Ebe cominciò a dare sempre più spesso segni di insofferenza, irritabilità e iniziarono episodi di violenza gratuita. Finì in carrozzina e venne poi trasferita in questo ospizio. Qualche volta apostrofava Mario con variazioni del tipo: Omaccio maledetto! At fè schiva! Va in cimiteri c’lè al tò sit! Va in cimiteri, mort! Ignorante scemo!(2). Se Mario fingeva di ignorarla lei emetteva delle urla brevi e strozzate che lo spingevano a pensare che Ebe cercasse la sua attenzione. Ma era solo una semplice supposizione, infatti lo apostrofava: Va via cat vegna an càncar brot plè! Impastè mers!(3). Ebe era curva sulla carrozzina, il collo ripiegato, le braccia rattrappite così come le gambe e la pancia gonfia, stava tutto il tempo a spulciare piccoli pilucchi o briciole che toglieva dal suo abito con puntiglio usando le dita in modo assolutamente elegante, come un compito da eseguire con tragico impegno. Durante queste operazioni quotidiane Mario la disturbava allora lei allungava le braccia come se volesse ghermirlo ed emetteva una specie di ruggito: Va in camera mortuaria! At cóp! At tai al còl! A tóghi an córtel et tai la gola! Càncher mort!(4). Ogni 29


tanto alzava la testa coi suoi capelli bianchi a spazzola. Appariva un ghigno spaventoso, il labbro inferiore sporgente, l’espressione del volto vuota ma con occhi pungenti mostrava la completa mancanza di desiderio di rapporti con chiunque. Gettava lo sguardo strabico ora qui ora là, con l’indice puntato su interlocutori inesistenti. Spesso si spogliava completamente mostrando il suo candido corpo di vecchia piegata dal tempo. Capitava che a volte cambiasse registro e con voce meno tesa sussurrasse: Va via, belva feroce che me su mai gnida a let tec!(5) poi gracchiava insinuando parole con la persuasione di una ferrea volontà: At dag an chels in dla ghegna! Va via dad che cun chil bragàsi!(6). Talvolta le frasi erano più articolate in un misto di italiano e dialetto: Va a parler cun i leon. Va via dad chè che con le donne non vinci mai!(7). Quando l’assedio di Mario la infastidiva oltremodo chiamava ad alta voce: Infermiera aiuto! Ohi! Ohi! Un giorno si era avvicinato come sempre per salutarla quando con un tono gentile che lo stupì lei esclamò: Met a sedar che, cat dag an chels in boca!(8). Una mattina, col giornale in mano Mario si era messo a sederle accanto. Ebe si girò e, rivolta a qualcuno che non c’era, disse tranquillamente: Mettete del veleno nel mangiare di questo qua!, poi improvvisamente riuscì a ghermirgli un braccio e a piantarci profondamente le unghie. Per scuoterla dal torpore, qualche volta Mario le toccava delicatamente una spalla o un ginocchio allora lei urlava: Ahi! Che mel cal ma fat cl’om che!(9). Ogni tanto Ebe indicava qui a là, sbuffava, allargava la bocca emettendo piccole grida, poi rideva per conto proprio, con niente. In quei momenti Ebe era irresistibile. Una mattina di ottobre due uomini della croce rossa la caricarono su una lettiga e la portarono via come un fuscello, una foglia secca, trasferita in un centro per dementi. Mario non la vide più ed era certo di una cosa, lui non le sarebbe mancato!

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Vai via di qua! Ti venga un cancro! (2) Fai schifo! Vai in cimitero che è il tuo posto! Vai in cimitero morto! (3) Vattene ti venga un cancro brutto pelato! Impastato marcio! (4) Vai in camera ardente! Ti ammazzo! Ti taglio il collo! Prendo un coltello e ti taglio la gola! Canchero morto! (1)

Vai via belva feroce che non sono mai venuta a letto con te! (6) Ti do un calcio in faccia! Vai via di qua con quelle bragacce! (7) Vai a parlare con i leoni! Vai via di qua che con le donne non vinci mai! (8) Siediti qui che ti do un calcio in bocca! (9) Ahi! Che male che mi ha fatto quest’uomo! (5)

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Bisognerebbe processare Pignotti per atti pubblici in luoghi osceni perché i suoi interventi verbovisivi, i componimenti letterari, le performances, i lavori radiofonici, smascherano una società opulenta e feroce. Bisognerebbe processare Pignotti per diffusione di notizie vere in luoghi falsi e tendenziosi profanando col favore della luce le tenebre dei loculi dei media. Bisognerebbe processare Pignotti perché pone in circolazione autentiche opere d’arte giocosa in ambienti che producono, riproducono, detengono, o pongono in vendita arte noiosa e funerea. Poi c’è ancora un ragionato motivo per processare Pignotti: perché sì! Armando Adolgiso

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Lamberto Pignotti

SE QUESTE SONO STORIE

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QUASI UNA BAMBINA “Non rovini una bella storia, signorina!”. Non ci capii niente, ma forse non lo capirà neppure chi seguirà attentamente il racconto. Povera ragazza! Era quasi una bambina. Sono sicuro che credeva fosse solo una bella storia. Presi appunti della sua descrizione. Dunque: il loro rapporto era molto bello, ma ogni tanto insorgevano dei disagi che li facevano soffrire, disagi dovuti sempre al solito problema: la pressante richiesta di libertà da parte del ragazzo. “Non riesco a capire tutto questo”, lei mi dice, “perché ha tutta la libertà che vuole: i suoi passatempi, i suoi sport, i suoi amici che vede spessissimo e ogni volta che lo desidera”. “Ho dimenticato il telefonino in palestra… Lasciami andare a riprenderlo, ti prego!”, lui supplica. Si vedono spesso, ma questo non gli impedisce di fare tutto ciò che vuole. “Ho dimenticato il telefonino al bar… Lasciami andare a riprenderlo, ti prego!”, lui scongiura. “Ho dimenticato il telefonino al club… Lasciami andare a riprenderlo, ti prego!”, lui implora. Arriva a dirle che gli toglie la vita sociale perché non conosce più persone nuove, scaricando tutto su di lei. “Credo sia un suo problema psicologico, si sente legato a me, sente la mia presenza anche quando non ci sono. Le dirò di più”, aggiunge, “Quando sono altrove è lui che viene a cercarmi, sospettando chissà cosa”. Una scena in proposito esemplare: c’è la luna che emerge dalle nuvole e illumina i capelli di lei, rossi, i lineamenti squisiti, la bocca carnosa, gli occhi profondi e carezzevoli. La ragazza passa davanti a un albero e lui la sorprende: “Cosa fai da queste parti di notte?”. Voltandosi di scatto lei vede il volto del suo ragazzo, mentre esce 37


dall’ombra. Per un attimo pare sgomenta, poi atteggia la faccia a quel sorriso angelico che lui conosce tanto bene, e sussurra: “Mio dio!... Sei proprio tu… È meraviglioso rivederti!…”. Restano a fissarsi così, senza parlare. Lui rompe il silenzio per primo. “Allora sei contenta, indicibilmente contenta di rivedermi? È stata una bella sorpresa, di’ la verità!...”. Quando lei, dopo una lunga pausa, risponde ha la voce come incrinata: “Sono felice e commossa di averti inaspettatamente vicino a me. Come puoi domandarmelo, dopo quello che c’è stato fra noi, sapendo quello che c’è ancora fra noi? Come puoi domandarmelo, ripeto?”. Bacia una delle mani di lui che scende dalla sua fronte al suo collo… Ricade tra le sue braccia, nello stato di vittima vezzeggiata, che si lamenta sommessamente di ciò che non vuole né può impedire… Ma, a un tratto, si alza di scatto, lotta qualche secondo con lui, senza dir nulla, riesce a fuggirgli, gridando, è di nuovo afferrata. L’indomani – e questa è la scena finale – il corpo della ragazza giaceva dove lui l’aveva lasciato: grottescamente abbandonato per terra, la schiena e le spalle appoggiate all’albero. Alzai il lenzuolo che la copriva e mi sentii mozzare il respiro. Pareva impossibile che una ragazza così bella in vita, apparisse così brutta da morta, l’incantevole viso divenuto nero e gonfio, il corpo sfregiato e martoriato. “È terribile!”, sussurrai. “Era quasi una bambina…”.

UNA VISITA “Se puoi vieni a farci una visita domani; ci troverai in casa a qualunque ora”. Come compagno di vecchia – anzi, di vecchissima – data, mi sentii 38


in dovere di non declinare l’invito. Sapevo del resto che la moglie lo aveva isolato, in un primo tempo, da tutti i suoi parenti, poi da tutti i suoi amici. Da sempre, nelle pochissime ore che si trovava insieme a qualcuno di loro, lei ammutoliva, non vedeva l’ora di allontanarsi e si oscurava in volto se soltanto lui accennava alla necessità di doverli vedere. “Entri pure, ma le dico subito che è una gran brutta giornata per fare una visita”, lei annunciò leccandosi le labbra, al mio ingresso. “Oggi è giorno di punizioni!”. Una volta sceso nello scantinato, cercai di distogliere lo sguardo dall’orribile spettacolo che mi si presentò, benché me ne sentissi subito inspiegabilmente attratto. Fissai affascinato gli orrori appena commessi e che il mio cervello si rifiutava di accettare, finché la voce di lei, monotona e indifferente, che gridava “…trentasei, trentasette, trentotto…”, mi richiamò alla realtà. Ondate di nausea mi sommersero e un rigurgito acido mi salì in gola, osservando lei gonfiare i muscoli e alzare una lunga frusta a strisce di cuoio, appesantite alle estremità da palline di piombo. La donna fece sibilare senza fatica la sferza nell’aria, flettendo il polso per dirigere il colpo sulla schiena già lacerata e sanguinante di lui. “Nonostante tutto sono ancora innamorato di lei. Ma resta ugualmente la sofferenza, la disperazione”, mi disse voltandosi ansimante verso di me. “Ti risparmio una serie di episodi che non possono lasciare dubbi sulla natura belluina, incontrollabile, di sicuro inconscia, di una certa gelosia, o di qualcos’altro che bisognerebbe forse chiamare ‘smania forsennata di imperio e di possesso’”. Lui avrebbe voluto continuare, ma io lo guardai per pietà senza aprire bocca. La fantasia lo aveva portato a situazioni come quella che stava vivendo ora, ed era stato un viaggio impervio e contrastato. Tante volte aveva pensato di morire, “Sul serio ho tentato…”, mi disse facendomi lì per lì un rapido racconto. Frammenti di un uomo vivo finivano in quel tritacarne che a lei piaceva tanto. Ora davanti a un amico come me, sapeva di non potersi soffermare sui partico39


lari; l’aria maleodorante dello scantinato gli faceva girare la testa. A un certo punto ne ebbi compassione e mi avvicinai per chiedere qualcosa che supponevo a lui dovesse stare molto a cuore. “Sì”, mi rispose, “è un amore ineccepibile. C’è un amore più perfetto di questo tra un uomo e una donna?”. RIPROVARE LO SPETTACOLO “Vorrei tante sere come questa”, recita durante la prova lui, “per essere un uomo felice”. “La tua dolcezza non mi consola più”, gli ribatte allora lei col suo birignao, “perché io annaspo per non affogare e tu, anziché porgermi una mano, per tirarmi fuori dall’acqua, mi sistemi i capelli con una carezza. E arriva il momento in cui quella carezza la scanso”. Non si parlava più di niente di interessante, non era più bello il loro rapporto, in quel melodramma. “Le cose che dico io a te non interessano e ti distrai. Le cose che dici tu, poche, a me non interessano e mi disorientano”. A poco a poco ognuno di loro si arrendeva di fronte al cambiamento dell’altro. “Di’ un po’, ragazza mia, ti vedo più distratta da un pezzo: lavori?”. “Sì, provo…”. “Si vede, sei stanca”. Le prende il mento con gesto affettuoso, per arrovesciare e attirare il suo viso. Turbata lei chiude gli occhi. “Sì, sei stanca… Sei invecchiata”, aggiunge con un tono di voce più profonda. “Invecchiata!... Oh!...”. Tutto il suo segreto – avvertono le didascalie del testo – dovrà sfuggire in quel grido di dolore, con un fiotto di lacrime. “Su, su, piccola, su… Adesso ti passa. Tieni, ecco dell’acqua borica 40


per lavarti gli occhi. Non col fazzoletto! Prendi del cotone idrofilo… Così!... Povera piccola, hai dunque tanto bisogno della tua bellezza, in questo momento?”. “Sì, sì…Oh!...”. “Oh!... Si direbbe che ti ho turbata! Guardami! Ce l’hai molto con me, povera piccina?”. “No!”. Però si sente raggelare. La stanza le gira davanti agli occhi; cambia aspetto. Le pare di trovarsi in una cella umida e ammuffita, distesa su un pagliericcio. In alto c’è una finestrella a sbarre, quasi chiusa dalle ragnatele e dal sudiciume, e la debole luce che lascia filtrare pare accentuare la desolazione della cella, piuttosto che alleviarla. Riesce appena a scorgere il pavimento cosparso di paglia bagnata. “Non toccare niente in questa stanza fino al mio ritorno”, lui le grida. La padella sul fornello stava avvampando. C’era odore di bruciato in tutta la stanza e una specie di foschia bluastra. Andò di corsa a toglierla. Il tempo di pulire la padella e lui era già di ritorno. “Senti”, disse furiosamente, non puoi dirmi cosa sta succedendo? O non te ne importa?”. “Ti ho detto tutto ciò che so…”. “Non sai dov’è la regista?”. “No”. “Non ha detto che sarebbe tornata subito per riprovare lo spettacolo?”.

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La guerra è la fine della coscienza. Giuseppe Simonazzi

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Frediano Sessi

NELLA

UNA RAGAZZA ITALIANA NEL CAMPO DI RAVENSBRÃœCK

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Il campo di concentramento di Ravensbrück si trova nella parte orientale della Germania, vicino a Fürstenberg, una piccola città ottanta chilometri a nord di Berlino. Il luogo è desolato. Attorno a un lago si estende una zona paludosa e di sabbie maleodoranti, spesso sommerse nell’acqua stagnante. Ampie distese di vegetazione povera e scarsa si alternano a immense foreste di betulle e conifere. Un vento glaciale si abbatte su tutta l’area, senza tregua. D’inverno, il clima è talmente freddo che questa regione viene chiamata “la piccola Siberia del Meclemburgo”. Nella arrivò al campo con la madre e due sorelle, il 6 agosto 1944, dopo un viaggio durato quattro giorni. A quell’epoca aveva diciotto anni, ma sembrava assai più giovane di quanto non fosse. Non era ebrea. Figlia di un convinto antifascista, all’età di diciassette anni era entrata a fare parte della Resistenza. “Noi facevamo lavoro di stampa e propaganda clandestina, ma nel contempo eravamo anche staffette perché portavamo a destinazione i volantini e i giornali contro il regime. Una volta, io e mia sorella Lina, che aveva due anni più di me, nascondemmo in cantina delle armi… ma non erano per noi”. “Oltre al necessario per la stampa dei volantini, nella nostra tipografia clandestina c’erano carte d’identità false e altri documenti che servivano ai partigiani. Durante la perquisizione i tedeschi hanno trovato solo le tre macchine da scrivere e alcuni pacchi di carta stampata”. Nella, adesso, tace. Sul suo volto una ruga denota una tensione interiore che cresce. Gli attimi convulsi dell’arresto e i giorni che seguirono, prima della deportazione, passano davanti ai suoi occhi come sullo schermo bianco di un cinematografo. Ecco come si svolsero i fatti. Lina, Nella e la sorella maggiore Iole sono in casa con la mamma. È la mattina del 24 febbraio 1944 e l’orologio della cucina segna le otto e tre quarti. Nella sta bevendo una tazza di caffelatte, ma è già pronta per uscire di casa e andare in ufficio. Si avvicina alla porta con il cappotto già indosso, e sente bussare con violenza un uomo che urla: “Polizia… perquisizione!” Presa dal panico, quasi balbetta. “È impossibile…” Tuttavia riesce a vin47


cersi e prima di aprire corre dalla madre e l’avverte del pericolo. Lina è in camicia da notte quando entrano i soldati e la vedono nascondere un pacco di volantini. Iole si sta pettinando e lancia un grido quando si accorge che tra due SS, pesto e livido per le botte, c’è loro padre. Le tre ragazze cercano di avvicinarsi a lui e di soccorrerlo, ma vengono allontanate con decisione: “Dove sono le armi?” chiede l’ufficiale SS. “Dov’è la stamperia?”. “Fummo arrestate e condotte assieme a mio padre nel carcere di Bologna. Lì cominciarono gli interrogatori, giorno e notte, e le torture. Uno strazio”. “Il 6 maggio ci portarono tutti a Fossoli, il più grande campo di concentramento dell’Italia del Nord. Senza processo né sentenza né niente, senza dirci dove eravamo diretti… un bel giorno ci fecero partire; con noi, salirono sul camion anche molti ebrei, intere famiglie con vecchi e bambini. A Verona tutti vennero caricati su un treno merci diretto alla frontiera. Del viaggio ricordo la prima notte: distesa sull’assito del treno ad aspettare l’alba nella speranza che qualcuno ci venisse a liberare. Nessuno fermava i treni della deportazione, nemmeno in Italia!”. A quell’epoca nel campo di Ravensbrück sono rinchiuse 43.733 donne, ma i numeri di matricola delle diverse serie, sommati insieme danno un totale ben più elevato, intorno a quota 100.000. Le baracche sono sovraffollate. Trovare un posto dove coricarsi e dormire ogni sera è quasi impossibile. Tra le detenute è lotta aperta per il minimo vitale. Si dorme dove c’è spazio; in sette su ogni ripiano delle cuccette di legno a castello, in origine pensate per una o due prigioniere; per terra nella zona delle latrine. La sporcizia e i parassiti sono ovunque. Le prigioniere sono vestite con abiti civili, per lo più vecchi e consunti, segnati con una grossa croce di colore rosso sulla schiena, perché non pensino di darsi alla fuga. Non c’è quasi più cibo. Ciascuna riceve 200 grammi di pane al giorno, niente patate e brodaglie immonde e disgustose. Eppure nel campo ci sono posti dove si vive in condizioni peggiori: nell’estate del 1944 il comandante ha fatto montare una grossa tenda di tipo militare. Lì sotto a contatto con la terra nuda in mezzo alla 48


sporcizia e agli escrementi e qualche isola di paglia sporca, si ammassano più di 3000 donne e bambini. Niente coperte, acqua, luce o installazioni sanitarie, nessun riscaldamento. Sotto la grande tenda sono rinchiuse le donne ebree che provengono da Auschwitz. “Arrivammo a Ravensbrück di mattina e subito ci sembrò di immergerci in un incubo, dove ci si dibatte inutilmente in cerca di una speranza d’uscita. Mi ricordo che ci spinsero dentro una sala da bagno con delle docce. Subito le donne ebree che erano con noi si misero a urlare: –State attente, non aprite i rubinetti che viene fuori il gas!”. “Ero una ragazza ottimista e disposta alla lotta e non diedi molto credito a quelle parole. Dentro di me pensavo che quelle donne ebree avessero perso la testa a causa della paura… Chi urlava, chi piangeva, chi si lasciava cadere a terra e si rannicchiava sul pavimento come per proteggersi da un’aggressione improvvisa. Eravamo nude e nonostante la stagione non si poteva dire che facesse caldo. Poi qualcuno tentò il tutto per tutto e aprì un rubinetto: l’acqua che scese spazzò via anche quel brutto attimo di terrore. In seguito, dalle finestre del locale delle docce, guardammo fuori e vedemmo una parte del campo. C’erano donne magre, scheletriche che in fila, con gamelle sporche e malridotte, andavano a prendere la zuppa… Ma soprattutto mi ricordo i mucchi di cadaveri… e poi vidi quelle povere internate che, seppi poi, venivano chiamate le Muselweiber, letteralmente musulmane: morte viventi, che camminavano a malapena, con gli occhi fuori dalla testa, o che strisciavano per terra cercando il cibo in mezzo ai rifiuti. Fu una visione che mi spaventò subito. Io ero ancora in forze e avevo qualcosa da mangiare. Mi vergogno a dirlo, ma subito mi sembrarono donne senza dignità, degenerate… Come si fa ad arrivare fino a quel punto? mi chiedevo. Poi alcune detenute ci videro e si avvicinarono alle finestre della doccia, chiedendoci cibo. Insistevano con il dire che i tedeschi ci avrebbero sequestrato tutto e che per questo era meglio se davamo a loro quel che ci restava. Capii in quei pochi attimi convulsi che uno dei problemi più assillanti del campo era la fame. Ma una cosa è vedere e capire, altro è provare che cosa significhi per il corpo e la mente… Era possibile che anche noi, a un dato momento, ci saremmo ridotte a quel modo?

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Rimanemmo nude, nella sala docce, tutta la notte e dormimmo per terra, accovacciate le une contro le altre per scaldarci. La mattina dopo ci fu la visita”. Campo di Ravensbrück, 7 agosto 1944. Ufficio per la registrazione delle prigioniere. Una lunga fila di donne nude passa davanti a una commissione di uomini, forse ufficiali medici, per il controllo generale e l’immatricolazione. Nella stanza ci sono anche le Aufseherinenn, sorveglianti donne SS del campo. Nella viene registrata con il numero di matricola 49553. “Ero giovane e un po’ spavalda, e poi il viaggio e l’arrivo al campo ci avevano stordite. Non provai vergogna per la mia nudità, ma la mamma, poveretta, cercava di tenere addosso almeno le mutande. Aveva una certa età ed era abituata a vivere in campagna. Credo che prima di allora non si fosse mai spogliata in mezzo a tanta gente… Mi accorsi subito che per chi teneva indosso mutande o sottoveste piovevano botte. La convinsi con le lacrime agli occhi a spogliarsi completamente. Alla fine ci diedero vestiti borghesi. Io fui in grado di recuperare una sottana e una camicia un po’ consumata, un asciugamani a quadretti grigi e blu e un paio di mutande. Nient’altro. Quanto alle scarpe ce n’era un mucchio enorme, tutte gettate alla rinfusa. Così presi una scarpa rossa e una blu, non c’era tempo per fare una scelta più accurata e si rischiavano bastonate in ogni momento, se le operazioni previste venivano ritardate da qualche indugio. Eravamo in quarantacinque italiane e fummo portate nella baracca numero otto. Seppi quasi subito che ci trovavamo in un settore del lager chiamato Quarantena”. Campo di Ravensbrück, 8 agosto 1944. Baracche della Quarantena. Il caldo di giorno è soffocante. I locali dove vivono le nuove arrivate sono assolutamente insufficienti per contenerle tutte. Persino le braccia lungo i fianchi sono un ingombro. Comincia la tortura della sete e quella dei bisogni fisiologici. Ma è inutile chiedere. Le italiane sono poche rispetto alle detenute di altre nazionalità e le due lingue ufficiali sono il tedesco e il polacco. Ma ci sono anche donne greche, francesi, russe. Nessuno capisce l’italiano, ma soprattutto nessuno vuole rispondere alle detenute 50


italiane che non si sa per quale ragione siano finite in quel lager (i fascisti infatti erano alleati dei nazisti). Le russe, le greche e le jugoslave le considerano nemiche fasciste. Quando finalmente Nella, Iole, Lina e la loro madre riescono a mettersi in coda per andare ai servizi igienici, scoprono un locale molto più affollato della baracca destinata a dormitorio, dove insieme alle latrine ci sono due fontanelle circolari con pochi rubinetti presi d’assalto da un’orda umana assetata che cerca di conquistarsi il diritto a un po’ d’acqua e a rinfrescarsi il viso. Un cartello, all’inizio incomprensibile per Nella e le deportate italiane del suo gruppo, perché è scritto in tedesco, avverte che l’acqua non è potabile e le sorveglianti picchiano e prendono a schiaffi tutte quelle che tentano di bere. Finalmente, dopo un tempo interminabile, le italiane entrano nella zona latrine in senso stretto: tutto si fa in pubblico e sotto gli occhi di sorveglianti e detenute. La Kapo addetta al servizio urla per ricordare che ogni funzione deve avvenire mettendo i piedi sulla tazza del water e senza che niente fuoriesca – come da regolamento. Poco dopo, segue la distribuzione della zuppa in una gamella sporca, e più tardi, ancora in coda per la distribuzione del pane, la cui quantità è a discrezione della Kapo greca. Infine, dopo una giornata interminabile, l’assegnazione dei posti letto. Alle italiane nessuno dice niente e rivolge la parola. Nemmeno quando, in piena notte, Nella, guardando fuori dalla finestra, oltre il muro del campo, vede una luce, con riflessi verdi. Il crematorio. “La quarantena durò un tempo senza fine, e produsse in noi tutte un vuoto. Eravamo in completa balia di una prepotenza fisica. Le certezze basilari che reggono la vita quotidiana ne risultavano cancellate, comprese l’idea che ogni giovane ha in sé della invulnerabilità del proprio corpo e la speranza di trovare aiuto nel momento del bisogno. Attese snervanti, cariche di incertezza, insulti, percosse e una serie di trattamenti, più o meno logoranti adottati dalle sorveglianti ci toglievano parti sempre più cospicue di speranza di vita. Chi tra noi reagiva ai maltrattamenti o cercava di accorrere in aiuto alle sue compagne, veniva picchiata selvaggiamente. La nostra baracca nel campo di lavoro era la numero 14. Ma in realtà di posto non ce n’era.

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I castelli di legno a tre piani erano stracolmi, negli altri locali c’era la ressa e si doveva dormire per terra, senza un po’ di paglia. Inoltre ogni volta che si faceva qualcosa di sbagliato erano botte. Il primo giorno che siamo andate a lavorare è stato il 26 di agosto e me lo ricordo bene perché ho detto: “È il giorno del mio compleanno!”. Ci hanno dato dei badili e ci hanno messo a caricare di sabbia dei carretti sulle rotaie. Ma il lavoro più duro per me fu quello nella foresta. Cose da uomini forti, da boscaioli”. Campo di Ravensbrück, agosto - dicembre 1944. La vita quotidiana. Alle tre e mezzo del mattino suona la sirena della sveglia. Fa buio e fa freddo (d’inverno si gela, d’estate non si resiste finché il sole non scalda l’aria. Ma il clima è umido e il caldo non asciuga mai le ossa: si soffoca). Code lente e interminabili per accedere ai servizi e alle latrine. Quando si riesce a raggiungere un rubinetto, senza sapone, senza dentifricio, le detenute sono obbligate a una toilette rapida e sommaria. Alle latrine, dove ci sono dieci water per 1000 internate, la situazione è ancora più tragica. La sporcizia che regna in quel luogo è ripugnante, l’odore irrespirabile. Un ulteriore affollamento per ricevere la magra colazione, finché a suon di botte le detenute sono spinte fuori dalla baracca per recarsi di corsa nella piazza dell’appello. È un momento di paura per chi sta bene e si sente in forma; di orrore per le prigioniere indebolite ormai dalla vita del campo e dalla malattia (febbre, dissenteria, tosse, infezioni). L’appello è il momento in cui si mobilita il maggior numero di SS e di sorveglianti. Ci sono persino dei cani addestrati ad azzannare le prigioniere che escono dalle file. L’appello che si ripete mattina e sera dura ore. In genere si comincia alle quattro del mattino e fino alle sette le squadre di lavoro non possono lasciare il campo. D’inverno al freddo, sotto la neve o con la nebbia che penetra nelle ossa non cambia niente. I tedeschi si sbagliano sempre a contare e ricominciano ogni volta dall’inizio. Durante l’appello (di sera non dura mai meno di due o tre ore) le prigioniere devono stare ferme, immobili, lo sguardo diritto, e in silenzio totale. Quando una detenuta cade a terra, nessuna può aiutarla, rimane in quello stato fino alla fine, salvo che non sia

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costretta ad alzarsi a colpi di bastone. Al termine, a cinque alla volta, le detenute passano davanti agli ufficiali che le controllano mentre vanno al lavoro. Il freddo e le intemperie costituiscono un calvario costante. Con la testa rasata, gli abiti insufficienti, le prigioniere stanno tutto il giorno all’aperto. L’inverno sembra non finire mai. Quando la neve e il gelo sembrano dare tregua, spira un vento violento e ghiacciato che taglia la pelle e sferza il corpo. Teoricamente il regolamento del campo prevede tre pasti al giorno. Il caffè o il tè al mattino, una zuppa di verdure a mezzogiorno, e un pasto freddo la sera con la razione di 350 grammi di pane che deve durare fino alla cena successiva. La domenica e i festivi i pasti dovrebbero essere migliori: una razione maggiorata di pane, un po’ di salsiccia e più verdure. L’insufficienza del cibo è aggravata dalla irregolarità della sua distribuzione e dall’arbitrio delle Kapo che spesso si tengono da parte delle razioni per loro stesse. Ovunque parassiti, pidocchi, sporcizia e odori nauseanti. “Alla foresta quando cominciò a nevicare ci diedero un cappotto, con le croci sulla schiena e gli scarponi fatti di tela e legno. Io ebbi il 42 e i piedi ci ballavano dentro. Poi un giorno fui ricoverata in infermeria per sospetto di tifo. Anche quando avevamo un po’ di febbre cercavamo di evitare il ricovero perché sapevamo che significava pericolo di morte. Ma a diciotto anni venti gradi sotto zero non si poteva reggere se la febbre era a trentanove o quaranta. Ci ammalavamo tutte, ma la mamma e Iole non riuscirono a cavarsela. Mamma ha lavorato in baracca fino alla metà di gennaio, finché non ce l’ha più fatta. Aveva una gran dissenteria. Mi ricordo che negli ultimi tempi all’appello della mattina non si reggeva in piedi; fuori, con il freddo non riusciva nemmeno a respirare. Aveva un respiro rauco, come un rantolo. Di Iole ho saputo soltanto che era stata ricoverata nel blocco 10 delle tubercolitiche. In Italia rientrai molti mesi dopo che il campo era stato liberato, il 13 ottobre del 1945. Dopo il mio arrivo ho trascorso tre anni in ospedale, tre anni… In me non era distrutta soltanto la forza fisica, ma anche l’anima e la speranza di vita”.

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Ho incontrato per caso i versi, la scrittura, l’immaginazione e il mondo di Lisa Biggi. La voglio pubblicare sul giornale che dirigo. Lei è disponibile. Noi siamo accoglienti. Dare e avere. La perfezione. Conosce il verbo ansioso, pauroso e talvolta irriverente della narrativa, lo conosce perché sa descrivere intensamente quegli attimi che definiscono il paesaggio pulsante di una vita intera. Leggi i suoi versi e ricordi i tuoi addii, le tante mani che hai stretto, i sorrisi che ti hanno abbracciato. Hai ragione Lisa, siamo solo briciole. Briciole di gioia, di amarezza, di tristezza. I nostri dispiaceri insoluti li conosciamo bene, ma ci conviviamo, e certe volte li prendiamo a calci ridendoci sopra. Tu ogni tanto li porti persino in pasticceria: “Abbassando lo sguardo solo qua e là, su un bignè o un babà”. Alla fine l’incontro è diventato un nuovo incontro. Per entrare in contatto con lei sappiate che il suo umore cambia, in meglio, se le offrite una buona tazza di caffè, un po’ di zenzero candito, un bicchiere di vino rosso e un mazzo di fiori gialli. Il mio è solo un consiglio, per tutto il resto c’è la poesia. Paolo Marcesini

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Lisa Biggi

HO IL PETTO RIPIENO

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L’ADDIO Ecco le ultime chiacchiere grattate via dal tavolo. Una briciola per te. Una briciola per me. Non resta niente di noi.

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UMOR VITREO Questa mattina sono andata dall’oculista che ha guardato il fondo dei miei occhi come in una tazzina di caffè. Dopo aver indagato a lungo sui miei recidivi errori ha scrutato qualche tristezza e alcuni dispiaceri insoluti. Le ho spiegato dello spazio e dei moscerini fluttuanti a ogni batter di ciglia. Dei vermetti, dei protozoi e delle stelle. Le ho spiegato anche di Luca e qui ho inventato un verbo che non c’era perché l’emozione era dilatata e dappertutto, anche nella lingua. Mi ha sorriso e predetto un futuro cristallino (era solenne e le ho creduto) ricordandomi, sopra un foglietto, di fare buon uso della congiuntiva e del congiuntivo. Così, molto superba, ho portato i miei occhi viziati in pasticceria, abbassando lo sguardo solo qua e là, su un bignè o un babà.

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QUANDO LE MANI FINISCONO Mio figlio si addormenta ancora tenendomi la mano (altrimenti il sonno non arriva). Inizia dal palmo, le dita, i polpastrelli, poi le mani finiscono e lui chiude gli occhi. Io allora apro i miei, perchĂŠ fino a quel momento avevo dato il buon esempio, e lo guardo dormire. Resto. Osservo le orecchie le guance gli occhi il profilo tutto e il mio cuore si gonfia come la caruncola di un tacchino. Ho il petto ripieno.

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Caro Roberto, approfitto della tua momentanea assenza per dirti che il testo che mi consegnasti nel 2001 per ‘Patafluens lo pubblico qui, adesso… Il motivo lo conosci già e non c’è bisogno che lo sappiano in tanti. Dato che sei Ministro Fluttuante del nostro Istituto Patafisico, non lo avrai scordato, spero, certo che no, altrimenti… Dicevo dato che, infatti… Negli ultimi tempi ti ho pensato molto e sono andato a rileggermi alcuni tuoi libri… Ah! Poi tutti dicono qui e là… Le cose non sono a posto, semmai una volta lo furono, a posto… Ho rivisto le nostre foto, un video dove ci parliamo al cellulare e tu che… E questo non è tutto ma non c’è nient’altro… Del resto anch’io avrei voluto avere, ma purtroppo… Grazie Roberto, tieni sempre presente l’affetto del tuo editore preferito. Un forte abbraccio e a presto.

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Roberto Freak Antoni

DEMENZIALE

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Tutto quello che avreste voluto sapere sul “Demenziale” e che non avete mai chiesto, anche perché nessuno ve l’avrebbe spiegato e poi, in fondo... davvero ve ne fregava qualcosa? Da più parti, più persone mi hanno chiesto più volte il significato dell’aggettivo “demenziale”. “Maestro – mi importunano – come dobbiamo interpretare esattamente il concetto di ‘demenzialità’? Qual è il senso che dobbiamo attribuirgli?”. Difficile rispondere, miei cari testoni! Demenziale può somigliare a “surreale” ma anche a “banale” e a non-intellettuale... Che sia una specie di post-dadaismo artigianale, imbastito da volonterosi Indiani Metropolitani? Che sia una specie di punk-rock ironico, sarcastico, un po’ caustico e un po’ barzellettaro? Una scopiazzatura simil-patafisica? Forse l’ultimo rantolo degli eroici creativi (ex facinorosi del Movement?). Che sia la nuova bravata dei goliardi del DAMS di Bologna (Quanta gente in Facoltà: gli studenti, gli intellettuali, gli artisti, i critici, i fuoricorso, gli assassini...?). Che sia una cagata?? A questo punto, una definizione – capite bene – è indispensabile per dar prova di chiarezza di idee e lucidità d’intenti (occorre una patente di legittimità), per mostrare le coordinate del progetto (ma mi faccia il piacere: quali coordinate??), anche perché, alla peggio, come dice il proverbio del giornalista: “Una buona didascalia salva la faccia a qualsiasi fotografia!”... Ma veniamo a noi: ciò che è assurdo, bizzarro, evidentemente non plausibile, non-eroico, non-colto, non istituzionale, anche cialtrone e ridicolo, può definirsi “demenziale”. Questa – che segue – è una definizione in stile falso manifesto di avanguardia artistica primi 900: il demenziale (inteso anche nel senso di rock demenziale) è un cocktail di pseudofuturismo, dada, goliardia, improvvisazione, performance a-logica, ironia da avanspettacolo, poesia surreale – soprat67


tutto cretina – incidenti a caso, sciocchezze e gazzarra, paradossi a colpi di genio. Anzitutto ricordiamoci di usare le parole prima che si congelino!! Il demenziale non deve convincere nessuno, del resto, non è un partito politico, non una corrente artistica da passare al vaglio di valutazioni estetico – poetico – ideologiche, da soppesare attentamente per riconoscergli un merito. Il demenziale non è neanche una specie di nuova moda da salotto e, per scelta, si tiene estraneo all’intellettualismo della raffinata arte kitsch. Non c’è arte, non c’è artista e quello che fa un demenziale – anche demente – potrebbero farlo tutti! (Venghino siori!!). Basta volerlo con determinazione e convinzione: è una scelta!! È un delirio d’élite; le masse non ne sanno ancora nulla. Sono costretto a ricordarvi che a Zurigo, dal 1916 al ’18, al Cabaret Voltaire: “Sulla scena si faceva musica battendo chiavi e scatole finché il pubblico protestava fuori di sé”. Qualche volta il pubblico ti guarda male, ti “sorprende” a farfugliare, a biascicare frasi strane in rima baciata da scuola elementare, oppure ti sente urlare frasi in gergo, come se parlassi (solo) ai tuoi amici (alla tua tribù, qualcuno diceva nel 1977) e si chiede se sei furbo o cretino, se la tua è consapevolezza o un tentativo miserabile, se hai una cultura, uno stile, una dignità artistica o invece sei un bluff. Il demenziale decide di essere banale, “stupido”, allusivo, esagerato, trasversale e aggressivo in contrapposizione alla retorica dei buoni sentimenti, alla prosopopea del linguaggio da cantautore, para filosofo e finto poetico... Contamina con violenza tutta concettuale l’insopportabile mondo del Buon Senso Comune. Ad una presunta poetica alta da grande artista fenomeno, contrappone una poetica bassa da artista “sconnesso”, minoritario e diverso. Autunno 1921. Dalle memorie del cantante paroliere e compositore futurista Rodolfo de Angelis:

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“Che cos’era il ‘Teatro della Sorpresa’? Un teatro rivoluzionario, sintetico, a-logico, dove tutti i canoni fondamentali su cui poggia il Teatro da secoli, erano sovvertiti. Non più commedie in tre o più atti, ma trenta commedie da rappresentarvi in una sera. Nelle quali il primo attore, a volte, profferiva una sola battuta. In altre, la prima donna veniva alla ribalta, dopo la fine del lavoro, soltanto per mostrarsi. Al posto del suggeritore, il “dimenticatore”, cioè un personaggio che aveva il compito di far dimenticare agli attori la loro parte, distraendoli durante la recita con interventi verbali che nulla avevano a che spartire con la commedia. Il tutto commentato da musiche futuriste (caro Casavola, ricordi quella motocicletta a tassametro che faceva da strumento, per una delle tue partiture, in orchestra?) e intercalate da danza di eliche e di macchine. Marinetti si affannava a gridare al pubblico: “Ascoltate prima e poi giudicate!”. Il pubblico preferiva giudicare prima. E in questo si mostrava rivoluzionario quanto gli ideatori dello spettacolo, che non si era mai visto in Teatro giudicare un lavoro prima che lo si recitasse. (...) La confusione in palcoscenico era indescrivibile. L’unico calmo tra cotanto tramestio è Luciano Folgore che dice freddure a Marinetti, il quale distratto gli continua a dire: “Benissimo, benissimo!”. D’un tratto l’attore che nella buca scoperta del suggeritore fa la parte del “dimenticatore” ne esce, torna di corsa in camerino, prende il revolver che porta sempre con sé, vuole sparare sulla folla (N.B. Molto prima di Sid Vicious, nell’ormai storica interpretazione di “My way”). Gli hanno gettato soldi di rame e ventini in tale quantità che i padiglioni delle orecchie sono paonazzi e gonfi. Lo devo rinchiudere in un camerino che si tramuta così in gabbia da bestia feroce”.

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Il demenziale consente il ribaltamento, l’inversione dei ruoli: il matto diventa medico, il medico diventa (il) matto, persona di scrupolosa onestà. Il pubblico si aspetta che tutto avvenga secondo il solito copione già visto e rivisto, ma... se prendiamo gli Skiantos come esempio, scopriamo che: “Gli Skiantos sono una miniera di idee: allestiscono salotti e spaghettate sul palco, si fanno il caffè o tirano i cracker in platea, insultano gli spettatori, chiedono gli applausi, leggono le canzoni su foglietti volanti. Quello che fanno, molto semplicemente e quasi ingenuamente, è smascherare il gioco delle simulazioni. Stanno sul palco, e fanno notare che sono gente che sta sul palco. Invece di recitare la loro parte come se fosse realtà, la recitano per quella che è: una parte. Lo spettacolo Skiantos nasce così totalmente destrutturato, fuori del crisma della serietà. È uno spettacolo che non solo non funziona, ma che si serve del proprio stesso non funzionare. (Paolo Bertrando, Bologna Rock, Edizioni Re Nudo)”. Groucho Marx chiuso improvvisamente in bagno nel cuore della notte, con vestaglia e cuffietta in testa: “Aiuto aprite!”...(pausa)... “Aprite!”... “Aprite o datemi qualcosa da leggere”. Il demenziale vive e prospera nel ristagno di una melma creativa che infine ha scelto il “negativo” (per esorcizzarlo), la nichilistica non-creazione come forma estrema di creatività. Infatti la provocazione spesso diventa insensata, parossisticamente assurda, diretta e senza sfumature, ma a perdere, come a buttarsi via. “Vogliamo fare cose inaccettabili! Spiegare nella pratica che lo spettacolo possiamo davvero farlo insieme, noi sul palco e loro – il pubblico – in platea. Ma occorre star fuori dagli schemi usuali, evitare 70


strade troppo battute. ‘Demenza’ significa per noi esasperare la cretineria delle canzonette romantico popolari tradizionali. Preferiamo i Salamini e ammiriamo la Patafisica (Scienza esatta delle soluzioni immaginarie)”.

Ho comprato i salamini e me ne vanto ho comprato i salamini e son contento è inutile negar, è inutile ridir, sono un bel giovanottin sono un augellin. Ettore Petrolini

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Otello Sarzi non è stato solo un grande burattinaio e marionettista. La sua storia è quella di un intellettuale rivoluzionario che ha coniugato l’arte col mestiere, la sofferenza con la libertà, l’altruismo con la gioia di vivere. Questo testo, scritto appositamente per Eventi e Venti, kermesse patafisica in quel di Pomponesco (Mantova) nel 1998, è stato gentilmente concesso dal Reggente dell’Istituto Patafisico Vitellianense, che nominò Sarzi Ministro Inossidabile dell’Etolile d’Or. Il ricordo più acceso è quello di una sera d’estate, durante una cena nel giardino di casa sua. Gli chiedemmo un assaggio dei due burattini più famosi, Sandron e Fazolin. Non si fece pregare e, infilatosi i due soggetti nelle mani, li alzò al cielo. La sua ombra proiettata sul muro era gigantesca, i burattini si muovevano nella notte e si fondevano con disinvoltura e autorità. Un mago vero, un lucido santone volava leggero tra le sfere misteriose di arcaici racconti e storie di oggi.

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Otello Sarzi

EVENTI ESEMPLARI

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Fazolin = normale Sandron = corsivo Brighella = grassetto

Mena, mena,… bela boca; mena girla mena pirla Volta e pirla lè là polenta Mena e rimena la t’ombrosa La Pulonia, ancor più la polenta sbrodolosa Da salarla con parsimonia E magnerla dop la sfoglia. Sfoglia d’addzà… svoltla d’addlà là polenta… e là m’imbrosa lè da taier parchè lè prelibata Doa e parchè? À ghè ancora da tajar le pagine Fisicamente? Se non mente! Fisica, fissa e mia metà fissa sensa sbrodaia suta suta e mia pasta trida… ma stagna, soda… soda… sodalizia. Sandron? Scolta Brighela, no dir bagianade, và a ciapar aria;… parti… Ma che parti!… Parti… te digo Ma che parti ha la voi tuta Parti!!!…

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Al vol far le parti Mi te volea dir… che te parti ah piar fiaà… con el’prinzio… Ma che principiante El principio… mi digo!… go dito E me al final… Al termine. In Patafisica se parla senza metafora E mè a’n parli mia me… fisico io mè fisico ma che metà… fora… io mè ilio… milio… Eventi! Esemplari! E me… ø ø prrr… prrr… e venti quranta e prrr ø prrr ø e venti sessanta Se vede che non te see cosa zè la Patafisica? Roba cass’magna, pat…? Patate e fasoi. I fasoi i regola la continuità ø eventi e venti ø e la compression La comprension la capisso… vago via te mando fazolin… Seè veè; va pur là sbragarella at’ze sempar metà e metà; ma come ruffian at’ze inter. Ma con Fazol bzognar cambier museca… e pàvera, la pàvera d’attorcigliar par rimpaiar al fond alle scragne. Dova as; spoggia al concetto par gustaras al, canovaccio add Alfred Jarry. Musica mia patafumica Patafisica Patafusica: -le- fusa manca l’oli Ma polifonica ad banchieri e non Satie al dissacratore Non la zee musica de note composte La sarà ben petalogia casuale -e- fagiolesca

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Non-te-ghe-capio… no te pol-capir; te manca comprension Tat’nacorzarè che compression pete-chesta scoresera Mi son de naltro rango Me an parli mia invece mi fisico la Patafisica le origine e qualità patatifera. Qul vee che gnocade dopo i gnoch; i fasoi I sà sprigiona, e alee le scariche i suoni, alti e bassi E i profumi più soavi raggiungevano le nari. E Jarry con al so Ubu col so panson… la -so- spirale girandolesca. Al gà un po dal nostar plaà… masceluto Quell che asgonfiàa quand al parlàa alla fnestra e che aldizea Non vengo da Piazenza Per piacervi Ma-men-da-Lodi-paar Lodarmi Ma-vneni da predarvi Se propri par predaras! La sua lera… Patafisica patagonica melagonica classica Jarry l’ave-vist.. Vist ciar a tir lung lontan! Sempar lu… lu… Ganasson… ganassa dalla mandibola voluttuosa!! Dalla fronte alta L’anghera mia la front al d’avanti l’era da drè… e al dedrè l’era d’avanti

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Al sera fissa con l’era F e se avanzo ø Addzea sempar che l’ideal suo era entrato nel concetto degli italiani Da quel gioran a burattiner, padar At so’fil a soo!!! Volta fiol a so padar. Burattiner e nono da mee! Fiol at’zo fiol burattiner compre -al- fiol da quel cal stà chi sota Da quel di al fond’schena al la ciama concetto Doa ghera la boleta ind’là camisa avvsina alla sorgente dei soavi suoni. Hai tempi adamitici non urtavano i calzoni I burattiner i là ciamà concetto Jarry là scritto i trè cristi i trè crocifiss ad-legn da stagn (argent) e d’oro Su la strada della seta con Marco Polo a “Samarcanda” pelegrin… E rompi scatulorum… papà Ubü… Ubü -e- la buoat Ubu ruae… madre Ubü e Stanislanchi Come fet savir tote ste cose…? Ma me io fat al calzoler dotor, farmacista, pret, maestar col al maresciall cc-rr insun add… loriandaa sensa scarpe. Con me i discoria e mimprestava di libar e po discorria. I sfoggiaà la so saputezza Ma insun i parlaà da Patafisica!!!. Patafisica-storica. Cooperativistica, privada partitica par al dottor lè un metodo par saver svodar al corp… evaquare

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Al farmacista na formula da mortaio e pistello. Tritada intiepidida da dei biascin‌ Al pret al la cred un de 7 peccati capitali mester han gavia mia temp impegna a savir la storia patria Si dedito al fraticidio tra Remo e Romolo. E a Muscio Scevola e il terrorismo Par al maresciallo son cellule sovversive divulgatei da Asterix. Obelix Con la poxione intiepidida a biascin! Acxi al la pensa Lisandar Sandrone di Paveroni e di Checca-Gava in Paveroni‌ dit‌ bellaboca.

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Il viaggio. Metafora antica, onnipresente in poesia. Può essere in “cammin di nostra vita per una selva oscura” alla ricerca della “diritta via”, o l’itinerario buio e irreversibile della morte, l’iter tenebricosum illuc, unde negant redire quemquam (Catullo); può essere anche un viaggio interiore, come quello su cui ragiona, nel suo recente libretto di aforismi «Pensieri dai capelli», Mario Benatti, medico e poeta, che sul tema del viaggio ha sempre riflettuto con lucidità e intelligenza: «Viaggiare intorno al proprio cuore è meglio che viaggiare intorno alla terra? Può essere, ma è certo che entrambi i viaggi si qualificano dalle soste». Sì, perché il viaggio, di cui ragiona il Benatti anche in una delle tre liriche qui raccolte, lascia al viaggiatore solo la possibilità (e la responsabilità!) di decidere le soste: orari e luoghi di partenza e di arrivo non dipendono da lui, ma dall’autista dell’abituale pulmino. Quanto più il soffio della vita si fa lento, tanto più l’anima si distende/fiduciosa nel viaggio sconosciuto. Fiduciosa, perché «senza una fede si procede zoppicando» («Pensieri dai capelli»), e l’intelletto finisce per far baldoria, battendo verghe sul vento, sul niente: inutile pensare un giorno/ senza vergate al nulla. Amarezza e disincanto, condito di ironia, si affacciano dinanzi a tanti quidam Tony, compagni di viaggio, partecipi di una Storia fatta di rovine, di pazzia, di lutto. Così il viaggio intorno al cuore diventa viaggio nel tempo, viaggio nella Storia. Tre liriche, ripescate dal passato, fanno riemergere un discorso poetico, peraltro mai interrotto, che affonda le sue radici nella Storia e nella cultura dell’Autore: lo testimonia anche la veste formale, che, non per vezzo letterario né per passatismo mentale, ma per intima necessità di concretezza e di solidità, accede sempre alla sestina caudata e perfino (Il viaggio) all’endecasillabo, il verso più nobile della grande tradizione letteraria italiana, senza disdegnare (Baldoria, Brecce), a puro scopo espressivo, la rima. Roberto Chittolina 85


Mario Benatti

INUTILE PENSARE UN GIORNO

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IL VIAGGIO

Il soffio lento si va a spegnere le passioni sfrigolano su fuoco col tepore l’anima si distende fiduciosa nel viaggio sconosciuto. Se tu conosci qualche chiara tappa od i pericoli da evitare

lungo il percorso da te compiuto qualche segnale verso sera accendi, se tu incontro potessi venirmi metti un CD al piano od al violino per un’Ave Maria di speranza mentre gli angeli in coro canteranno.

Nessuno qui conosce la durata di quel viaggio che sembrava lontano anche quando l’abituale pulmino s’era fermato proprio sotto casa. Conviene forse che i vitali arnesi collocati siano nel bagagliaio

e con un lieve sorriso aspettare che l’autista abbia fatto colazione. 87


Non badiamo però a chi ci dice che sono solo fisime infinite.

30. I. 2005

BRECCE

Lutto e pazzia non sono dolore ma una umana via, delle tante, per sgretolare affetti e cuore. Quidam Tony ha partecipato al rito divenendo mito, uno dei tanti, per sbrecciare i monti del danaro.

A sera era giĂ accaduto il lutto di proporzioni, delle tante grandi, la pazzia escludeva il distrutto. Al risveglio dei felici merli cantico di mattina, tra i tanti, restavano gli elenchi degli sberli.

Continuava ciononostante la pazzia isolata, delle tante, 88


d’essere a rispondere l’unica via. Poco che dicesse verità e vita come fanno a torto, in tanti, emarginando l’Altrove da ogni gita.

Stando nel vento di pazzia e lutto in compagnia dei gruppi, tanti, sotto l’orizzonte s’eclissò il tutto.

24. IV. 2005

BALDORIA

Verghe battevi sul vento maligno del tuo tormento lui in giro l’eco portava su te poi riatterrava. Sull’onde riprendeva il mare le inutili percosse

e sulla spiaggia amare in piccole frenavano scosse. E tu insensato rivolgevi 89


la verga sul tuo respiro giĂ lento e senza tiro fumo bruciavi e bevevi.

Inutile pensare un giorno senza vergate al nulla il mondo intero intorno si beava di farne culla. A volte ricordavi mamma e un’iridata gamma

di sue carezze delicate confuse con ali di fate. Altre volte quel profumo olezzava dai rivali mescolandosi al consumo di droghe dei vari mali. Poi divenisti imprenditore delle ceneri sepolte di Virgilio l’autore di bucoliche e rime colte. Come faccio a non mescolarti a mille colorate arti

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per barare su onde e vento nel celare il tuo tormento? Meglio tra di noi Folengo miscellante furbo di suoni composti di soffi e tuoni parole da un marengo.

L’inutile confusa storia sta per quasi terminare tra greve terra e il mare così è e sarà baldoria.

4. XII. 2004

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Leggendo “Su” di Roberto Bussola, detto Bob Quellolà, scrittore d’ingegno, viene naturale pensare a Maurizio Zanfanti, artista di vita, meglio noto come playboy Zanza, che negli anni 80 dominava la scena culturale riminese. Per esempio, prendiamo il secondo raccontino, intitolato “Su dei buoni propositi” Quellolà scrive: “Toh, ‘va che bella giornatina soleggiata; spetta che torno a letto”. Come si fa a non andare subito indietro con la memoria al 1986, a quell’estate passata alla storia come la più calda del secolo, piena di giornatine soleggiate, figuriamoci poi a Rimini, e fu proprio alla fine di quell’anno solare che Maurizio Zanfanti detto Zanza rilasciò una dichiarazione a La Voce di Rimini, dove diceva che proprio grazie a tutte quelle giornate di sole, aveva potuto battere il suo record. 465, esattamente cento in più dei giorni del calendario, con punte di 4-5 al giorno proprio nelle giornatine soleggiate di cui parla Quellolà, quando usciva dalla camera giusto il tempo per scendere in spiaggia, al bagno Gianni, e rimorchiare la turista di turno. Scandinave, soprattutto, meglio loro delle tedesche, sopraffatte dal gran caldo. Oggi Zanza dice che con lo sviluppo del turismo dai paesi dell’est la situazione è cambiata, in peggio dice lui, perché le turiste dell’est tengono molto all’abbronzatura e passano tutto il tempo al sole, mentre con le scandinave si poteva giocare sulla loro paura di scottarsi. Che la situazione sia cambiata in peggio ce lo conferma Quellolà nel racconto “Su cose poco chiare”, dove si parla di due pirla che grazie al fatto di aver ucciso due pescatori indiani hanno trovato impiego presso l’ambasciata italiana a New Delhi. Ma come?, penserebbe Zanza in questo caso, allora vado in Svezia, ammazzo due pescatori svedesi e mi faccio assumere a Stoccolma. Se proprio volessimo trovare una differenza tra i due, ma si rischia la pignoleria, potremmo prendere in considerazione il quinto racconto, che parla di donne e libri. Qui Quellolà, se continuiamo a fare paragoni, rischia di fare la figura dell’ingenuo, perché Zanfanti in arte Zanza se ne inculava dei libri, nonostante le sue prede venissero dai paesi del premio Nobel. Anche se ci piace pensare alla camera di Zanza con un solo libro sullo scaffale, “Su” di Roberto Bussola detto Bob Quellolà, scrittore d’ingegno. Marco Raffaini 95


Roberto Bob Bussola

SU

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Su i film, quelli di una volta A volte a veder dei film vecchi, quelli di una volta, come quello del ‘54 che ho visto ieri sera, mi vien da pensare che gli effetti speciali l’hanno un po’ rovinato il cinema di adesso. Ad esempio, nei film di adesso negli inseguimenti colle macchine esplodono sempre le macchine. Ieri sera, in quel film western dove c’è Burt Lancaster sempre coi denti di fuori che fa il figo con un Gary Cooper che c’ha sempre la faccia seria, c’ho fatto caso, e in tutti gli inseguimenti coi cavalli di tutto il film, non è esploso mai neanche un cavallo.

Su dei buoni propositi Toh, ‘va che bella giornatina soleggiata; spetta che torno a letto.

Su cose poco chiare E ieri sera ascoltavo un tg, e a un certo punto han detto una cosa tipo “...ed è di nuovo polemica sui due marò ancora detenuti in India con la scusa di aver ucciso due pescatori...”; niente, poi dopo un po’ di ore sono andato a letto e una fatica a prender sonno. Continuavo a pensare: “con la scusa?” come “con la scusa?” ma che cazzo dicono? “li tengono là con la scusa che hanno ucciso due persone?”... avrò preso sonno alle 4.43 e avrò dormito sì e no dueore e dieci, dueore e dodici, svegliandomi poi in un aneddotico bagno di sudore... ma con le idee più chiare: mannooooo, ma cosa vado a pensare? non han detto “con la scusa di aver ucciso due pescatori”; han detto “con l’accusa di aver ucciso due pescatori”. Vedi che testa di cazzo che c’ho ed è pure ora di andare al lavoro.

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Su una notizia al telegiornale “Le foto di ieri saranno pubblicate domani sul settimanale oggi” ma andate a cacare.

Su quella cosa dei libri Era stata da me una sera e mi diceva “bello qui! Che strano posto: in pratica è come una libreria senza libri questa stanza qui!”. “Eh”, le dicevo, “mi capita di prestarne molti e poi non so, ma mi succede che mi dimentico e non ritornano più indietro, i libri”. E lei “eh lo so, succede anche a me, anch’io li presto volentieri e poi non me li rendono… che gente di merda…”. Circa venti giorni dopo, entro per la prima volta da lei ed è pieno di libri. La stavo aspettando nella seconda stanza che doveva “un attimo” cambiarsi d’abito, e non so, nel guardarmi attorno scopro che pure Siddharta (e, ancora prima di entrarci, c’avrei giurato che c’era) era lì su uno scaffale. Allora le ho detto “Toh, Siddharta: non l’ho mai letto, ma ho letto ‘Il lupo della steppa’, credo sempre di Hermann Hesse, ma non son sicuro”. E lei “Sì, Siddharta è da un sacco di tempo che ce l’ho lì: me l’ha prestato una volta un amico, che insisteva lo leggessi per via che gli piacevo: me l’ha prestato e poi, non so, è rimasto lì”. Io, Siddharta, in realtà (purtroppo) l’avevo già letto, ma in pratica con quelle frasi lì, l’aveva già deciso lei che non ci saremmo più frequentati.

Su inizio a pensare non sia un caso E io che mi vergogno anche della mia ombra, e che alle cene, ci vado raramente e che vorrei stare lì in disparte, poi mi capita sempre che

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finisco capotavola. Anche ieri, pur con un tavolo rotondo, alla fine son finito capotavola. Boh, inizio a pensare non sia un caso.

Su a volte la sfortuna Certo che a volte la sfortuna mi si manifesta davvero nei modi più singolari. Ieri sera ho pestato una merda e sono stato talmente sfortunato che in realtà era del gelato al cioccolato.

Su se proprio mi tocca parlare de ‘ste cose Vabbé, se proprio mi tocca parlare de ‘ste cose, la prima “perquisa”, con tanto di pistole alla mano, me l’han fatta che saran state le 5 e 40 del mattino. È per quello che insisto a dire che se si volesse fare una specie di rivoluzione, converrebbe possibilmente trovarci sul presto. Per anticiparli. Ma quando butto lì una frase tipo “facciam verso le 5 e un quarto?”, dovreste vedere che faccia fanno i compagni per capire com’è che poi ci si trova sempre ad avere quelli lì, o quelli come quelli lì, lì a governare.

Su dei momenti difficili Che poi, ieri, poi dopo sono andato di là per tagliarmi le vene, ma la cosa più affilata che ho trovato è stata il tubetto del dentifricio. Sulla donna della mia vita Ehh, ma se non si fosse capito io sto ancora cercando la donna della mia morte, non quella della mia vita. E pensare che l’avevo quasi trovata qualche tempo fa, e invece poi ho deciso di rimanere vivo, così solo per non darle la soddisfazione.

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La mano del bambino che bussa alla vetrina dell’acquario porta il pesce alla follia. È il mondo stesso in cui è immerso che, vibrando, lo scuote nella sua intimità. Nel fremito che l’attraversa la sconosciuta mano non è altro dai suoi visceri che rimbombano, non più lontano delle scaglie che lo ricoprono e della loro frizione con l’acqua. “La mia pelle... la mia carne... la mia mente...”, interno ed esterno cessano di essere in quanto tali, ricostituendosi in un unico viluppo. Apoptosi, l’annientarsi della superfluità del presente perché una nuova forma trovi spazio. Fumagalli evoca lo squadernarsi del soggetto esposto, rivoltato, pelle tesa di un tamburo battuto che vibra sotto l’assalto del mondo, colto nel diaframma fra prossimità e lontananza, appartenenza e alienazione, evoluzione e annientamento. “Sono ancora io, sono ancora... sono... sono... ancora... ancora...” ma già l’altro, dell’altro, ne occupa lo spazio e lo spirito, gli scorre nelle vene e stordisce la sua volontà, esaltandola oltre i limiti del suo potere. E la combinazione esplosiva che si miscela fra le mani di un alchimista poco giudizioso evoca la vampata di fiamma della necessità, della combustione finale e mai conclusa. In Tradimento guerra e stupore si accostano in un costante sbilanciamento reciproco che solo a tratti trova configurazioni compromissorie di pace, anche di amore, in ogni caso di vita, perché se è vero che “non c’è salvezza”, lo è solo “per chi è già morto”. Federico Bellini

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Fabio Fumagalli

TRADIMENTO

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... Boom! ker-crollante-pericolante-vibrante...

Boom!...

p-e-r-q-u-a-n-t-o-t-t-t-t-t-tempo-o-o-o-o-o-o-o-r-e-g-g-e-r-à?... Boom!... luce fioca vacillante pendolante-e-e-e-s-i-t-a-n-t-e si sparge sulla mia oper... Boom!... r-r-r-rumore di c-a Boom!... n-n-o-n-i sempre più vicini, garrotosi-rivoltosi... stato d’assedio...

Boom!...

f-f-f-inale, forse, fatale, punto morto su ciò che è già morto...

Boom! Boom!...

da sempre... non c’è salvezza per chi è già morto, spettro costruito... e questo Boom!... ker (tr-tr-tremore, terrore, orrore… TREGUAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!) ri-cordo... falso... Boom!... simile al colpo di pistola con cui lui... Boom!... si è tolto... Boom!... ci ha tolto... 105


Boom!... mi ha b-o-m-b-a-r-d-a-t-o... Boom!... m-m-m-a-l-e-d-e-t-t-o-s-s-s-i-a-i-l-t-t-t-u-o-n-n-n-o... -me, ora posso dirlo, giù il sipario, impastato nel tr-tr-tr-tr... artiglieria leggera, vicini alla piazza, ah ah ah... tr-tr-tr-tr… troppo tardi, è sempre troppo tar-r-r-r-r-r-di... Boom!... lui non c’è più, flambait!, e noi lo seguiremo, il Boom!... ker non è bastato, le par-r-r-r-r-reti... Boom!... quanto spesse?... da me create... la mia pelle... la mia carne... la mia mente... vedo... forse... la prima c-r-r-r-r-r-r-r-r-r-r-e-p-a-a-a-a-a-a-a-a-a-a!!!... linea gotica-caotica, tarlo impazzito, scava, scava, scaaaaavaiutoooooooooooooooooooooo... Boom!... nella mia testa dolorante, nell’idea che ero Boom!... ina... scorre senza sosta, scivolosa-cancerosa, all’interno delle vene di quell’ignobile Gargantua che per primo ci ha tr-tr-tr-a-d-i-t-i, mi ha tr-tr-tr-a-d-i-t-o, ha tr-tr-tr-a-d-i-t-o l’idea pura...

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Boom!... c-r-e-p-a-t-a, v-i-o-l-a-t-a, s-t-u-p-r-a-t-a... la ferita si apre, s-tr-tr-tr-ano, simile a un ghigno, eppure... Boom!... non ancora... non ancora... non ce la faranno a contemplarla, a conservarla, a custodirla, SPARIRÀ/SPIRERÒ, n-e-c-e-s-s-a-r-i-a... Boom!... m-e-n-t-e, non serve tutto questo r-r-r-r-r-r-umore, tr-tr-tr-tr-emore, or-or-or-or-rore... Boom!... vili traditori, meschini approfittatori, necessari forse, ma sempre vili e meschini... rimarrà... l’onta non verrà lava... hanno smesso? Una tregua? Così vicini? Forse, un ultimo cambio di... oppure a... BOOOOOOOOOM!... A-I-U-T-O! Buio, buio completo, timpano perforato, eppure... non ancora... non ancora... cecità e silenzio, n-e-c-e-s-s-a-r-i-a-m-e-n-t-e... sono ancora io, sono ancora... sono... sono... ancora... ancora... per quanto? Forse hanno deciso di... di accerchiarmi lentamente, poco a poco... non ce la faranno ad estirparla, ritornerà (e io con lei, inscindibili) nell’oscurità... mai l’ha abbandonata... travaglio n-e-c-e-s-s-a-r-i-o... non si dà luce senza oscurità... e oscurità senza luce?... oscurità senza luce... oscurità senza luce... quella crepa ride... di chi? Forse degli avvoltoi che hanno cercato, tentato di squartare l’idea... miseri... viscidi... quanto n-e-c-e-s-s-a-r-i?... io sono ancora... silenzio e buio... sono silenzio e buio... so... NO! Ride di me... spalanca la porta alla corruzione... non pronuncerò

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quel nome... quei nomi... λέγεται πολλακῶς... ha infettato le nostre parole, il nostro... scorre bastardo in loro... in noi... bastardi... provoca... come e-r-o-i-n-a... eppure... non ancora... non ancora... SONO ANCORA... muto e sordo, ma MORTO/VIVO, VIVA MORTE... revenant chiasmatique... la differenza non si dà... non si è mai data... alea iacta est... da quando? da sempre!... “ho visto la necessità a cavallo”... fine di un non-inizio... eppure... nessuno... possibile? Un’ultima prova prima di... cosa? NÉ PRIMA NÉ DOPO... N-E-C-E-S-S-I-T-À!!! NOOOOOOOOOOO! Devo resistere a questi... trump-trump-trump-trump... passi! Il cretto li attira... danza cadenzata... danse macabre... si avvicinano... penetrano... ma non l’avranno... non mi avranno... tornerà/ò semplicemente, lentamente, nell’oscurità aspettando una nuova alba... la necessità non può essere distrutta... tramonta e... trump-trump-trump-trump... ri-sorge, sole eternamente ritornante... ‫ יהוה‬... fui ciò che fui... sarò ciò che sarò... SONO CIÒ CHE SONO... trump-trump-trump-trump... arrivano... stop... fermi... ora... fuori... silenzio... Boom!...

si allarga...

Boom!... si squarcia... Boom!... si lacera... Boom!... fretta, fr-fr-fr-fr-ettaaaaaaaaaaaaaaa...

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Boom!...

un piccolo gesto e poi...

Boom!... oscurità... Boom!... poi... Boom!... nuovamente... Boom!... luce, da quanto non vedevo la l-u-c-e... ricorda il fuoco che avvampava attorno alle sue carni, sulle sue carni, nelle sue carni... nella carne... chair... carbone, ormai... spettacolo pirotecnico... ricorda... ricorda... non c’è più tempo per il ricordo... il ricordo non ha tempo... non l’ha mai avuto... il tempo non è... sono qui, mi circondano... crepa-voragine li illumina, ci illumina... nella mia testa sento urlare p-a-r-o-l-e: TEMPO! TEMPO! TEMPOOOOOOOOOOOO!... LIBERTÀ! LIBERTÀ! LIBERTÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀ!... sono nella mia testa... sono la mia testa... quelle parole... queste parole... perché?... sforzo... necessario... eppure... noch nicht, not, yet?... sono dentro!... sono in me... sono me... furono me... saranno me... quale me?... straniero... barbaro... Autre... crollante-pericolante-vibrante... devo affrettarmi... fretta/tempo... fretta/tempo... fretta/ tempo... de-cidere... re-cidere... pronto per l’oscurità... per la luce... la luce... Walther PPK... solo un colpo... figurato... e poi... e poi?

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Calvario rosso: due parole e la loro carica ossimorica. Una tinta prepotente e sanguigna che, riversata sul più classico dei percorsi di morte, scorre dolorosa ma allo stesso tempo lentamente fluisce intorno mitigando. Perché è possibile imbrattare un pavimento di Morte o del suo esatto opposto. E la propria personale condanna si fa di colpo meno drammatica, le dolci pendici invogliano all’ascesa. Quasi una sbilenca Allegria di naufragi, senza che sia una Grande Guerra a farle da Musa. Antonio Dorigo

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Guido Virginio Villa

CALVARIO ROSSO

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Cade e si svilisce il tempo in cui tutto ricomincia da capo Il vecchio circo di sempre dove non sei piĂš tu la bestia da domare

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C’è un gioco al quale non mi va piĂš di giocare e ho persino paura farebbe fatica a strapparmi un sorriso

dopo tutto

lo ho visto succedere per anni nelle vite degli altri

e ora

sembra che al piano di sotto stiano cercando di me

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Soffrire la Morte è per taluni un gesto di avvedutezza portato all’estremo

un vademecum per non prendere il di qua sottogamba

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Fin troppo facile andare con la mente a un Céline, a un Bianciardi. Troppo facile e riduttivo. In “Finale”, Luca Ferrari rende sì omaggio a quel genere di “scrittura senza redenzione”, a quella narrativa della stanchezza che il Novecento sempre soffia in certe anime, eppure... eppure Luca Ferrari sa comprimere, condensare, strizzare quasi fosse un vecchio strofinaccio intriso dell’acqua sporca dei piatti, quell’attitudine, cinica e amorevole nel medesimo istante, alla descrizione delle miserie quotidiane. Ferrari si concede – o forse sopporta? – soltanto fugaci incursioni in quella letteratura del grigio(re), rendendo nel soffio di pochissime righe intere vite andate come dovevano andare e come i protagonisti di quelle stesse vite mai avrebbero voluto che andassero. Le vite grigie, raccontate con grazia e ferocia al tempo stesso. Federico Centenari

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Luca Ferrari

FINALE

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Sento dei rumori che vengono da là. Chi c’è di là? Tutti i giorni la stessa storia. Sente dei rumori, lui. Mi assilla con questa storia del rumore. Devo far finta di andare nell’altra stanza, la camera da letto di Gianni, e confermare che di là non c’è nessuno, quei rumori sono solo nella sua testa, è la malattia. Se mai diventassi come lui, gli dico quasi tutti i giorni, mi auguro che mi facciano un bel funerale di povertà e morta lì. Li ho sentiti… adesso!, ripete. Ti dico che c’è qualcuno di là, insiste. Vai a vedere ancora. Smettila, testa di cazzo, gli rispondo. Mi hai rotto le palle. Taci, guarda quello schifo di telenovela e piantala. Vado sul balconcino e guardo fuori. Davanti, un muro di cemento grigio, il retro del condominio che hanno costruito negli anni Cinquanta, quando siamo venuti ad abitare qui. Il grigio non è più quel grigio che era, è chiazzato di muffa nera sui lati ed è attraversato da una profonda crepa longitudinale. Qualche mattina lo troviamo giù. Sicuro. Acqua!, grida. Gli porto il bicchiere pieno, che l’acqua quasi trabocca. Lo afferra con la mano destra, l’unica che gli funziona ancora e trangugia quasi soffocandosi. Si sbava sulle labbra, sembra un vitello con il muso bagnato dal latte delle mammelle della vacca. Lo asciugo con un gesto secco, insofferente. Tento di fargli del male, almeno di dargli fastidio. Non mi riesce. Alza gli occhi, l’espressione è quella di chi sa che la vittima sono io, non lui. Inchiodata anch’io a questa sua carrozzina che ha una ruota coi raggi rotti, deformata e si fa fatica a spingere

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avanti. Torno sul balcone. Giocherello con la terra nel vaso dei gerani rossi. Sono gerani vecchi, avranno sì e no due anni. Il fusto è un mozzicone rugoso, come un tubero. Il miracolo è che butta fiori meravigliosi, rosso antico. Basta ricordarsi di annaffiarli. Ciao, mi grida dal balcone giù in fondo un bambino. Avrà occhio e croce sei anni, ha la faccia furba, i capelli in piedi. È nato qui, ma non ho mai saputo come si chiama. Di tanto in tanto lancia giù dei pezzi color arancione, sembrano sigari di carota. Li porta alla bocca, li sbocconcella e li butta da basso, a caso, senza mirare. Ciao, gli rispondo. Vuole solo farsi vedere. Fa del teatro. Cosa fai?, gli urlo. Niente, risponde. La conversazione è già bell’è finita lì. Da dentro, le vite della telenovela si ingarbugliano in matasse. Un lui ha appena lasciato una lei. Lei minaccia di uccidersi, lui non le crede e la prende sul ridere. Lei se ne va via sbattendo la porta. Pubblicità. Acqua!, grida. Torno in cucina, gli riempio il bicchiere dalla bottiglia del frigo, glielo porto. Toh, prendi. Però ne bevi di acqua… E Gianni, dov’è Gianni? È di là, Gianni? Non gli rispondo. Tanto è inutile. Gianni non c’è più, andato per sempre. È l’unico a cercarlo ancora. Ci sono volte che mi tocca spingerlo di là, fargli vedere la stanza. Non è ancora tornato, Gianni? No, no non è ancora tornato, mi tocca di rispondergli. Con l’unica mano che gli funziona vuole toccare il cuscino e il bicchiere sul comodino. Lo lavo tutti i giorni, lo rimetto lì a prendere polvere. Lo sposto, per fargli credere che venga usato. Gli lascio dell’acqua dentro, come se fos-

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se stata avanzata. A volte un libro aperto, appoggiato sulla libreria. A volte dei vestiti piegati. Mi sono detta che è un di piÚ. Mi sono complicata la vita con questi sotterfugi. Ma intanto il tempo passa, lento. Ha un andamento irreversibile. Una canzone triste che mentre la ascolti capisci che avrà un brutto finale.

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C’è poco da dire, Centenari ha la stoffa dei veri scrittori, poche balle... non sono caramelle, quelle che scrive, e c’è ritmo, passione, intreccio che ti tengono aggrappato con gli occhi alle parole che scorrono sul foglio... la sua è una scrittura che ti prende per il collo e ti costringe a seguirla lungo descrizioni minuziose, dietro cui si celano improvvise boutade, immagini che ti sconvolgono i piani. C’è del Carver, qua dentro, del Lansdale, forse, sicuramente schizzi di Fante... ma non è solo un facile debito pagato agli americani che hanno saputo squarciare con poche immagini la deriva del contemporaneo, il suo; qui si respira anche quella calda, densa d’umido, polverosa aria degli armadi francesi di fine Otto, le trame di un Maupassant, i fazzoletti di canfora di un Balzac bloccato a letto dalla febbre; e forse Centenari ha frugato nei cassetti stracolmi di Dostoevskij o tra la biancheria sporca di un Gogol... o sotto lo scrittoio di Kafka... chi lo può sapere, d’altronde... o forse, più verosimilmente, Centenari è solo se stesso, un talento isolato della bassa padana che deve ancora essere scoperto e scrive per i fortunati come me, che lo conosco e lo leggo da anni. Luca Ferrari

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Federico Centenari

IL SALDO

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I. L’ufficio era ordinato, pulito; l’arredamento sobrio. Dalla porta socchiusa riusciva a sbirciare dentro alla sala, quella grande che usavano per esporci il loro campionario. Addossate alla parete lunga se ne stavano dieci bare lucide a mandar riflessi acquosi. Gli parevano tutta una tavolozza di marroni, quelle casse, un cromatismo malato, stanco. Splendevano di là, impilate cinque a cinque sui loro supporti di metallo come fossero cassette per la frutta – smisurate e vuote, però. Una, poggiata a terra al centro della sala, era aperta. Gli avevano messo un rialzo dalla parte della testa, così uno poteva guardarci dentro, vedere la foderatura di seta bianca e il cuscinetto, bianco anche quello, e messa a quel modo la cassa, uno ci si sarebbe potuto perfino figurare sdraiato al suo interno, allungato per bene, comodo per sempre e tanti saluti a voi che portate i fiori. Guardò a destra. Dieci urne, lisce e lucide anche quelle, tutte col loro rettangolo di metallo per inciderci su il nome dell’inquilino, erano in fila su uno scaffale di cristallo a metà della parete corta. Diede come un grugnito, un raschio di gola per il disgusto, si voltò, tornò a guardare il piccolo ufficio dove era seduto. C’era niente che ti facesse sentire comodo, là dentro. Un luogo provvisorio, era quello. Come la vita, era, che mica per niente là dentro si veniva a discutere del dopo. Non c’erano libri o riviste dei mesi passati, come dai dottori, che ce le trovi con le pagine patinate ormai secche, che le dita ci scorrono a fatica – no, al loro posto solo grossi faldoni messi in fila su uno scaffaletto. “Di qua i faldoni, di là le urne”, pensò. “Carta e cenere, e prima siam carta e scartoffie, per tutta una vita, poi siam cenere, noi e le nostre scartoffie che ci hanno scandito la vita. Bell’affare l’è questo”. «Bello per davvero» disse, e aggrottò. Scosse la testa, buttò un’occhiata al computer, al telefono, al fax. Guardò la stampa appesa alla parete di fronte, appena dietro la poltrona vuota del titolare. La vista fiaccata non lo aiutava, si capisce, ma gli sembrò di riconoscere in quell’opera un borgo famoso.

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«Castelforte, in Liguria». L’uomo veniva dentro di fretta, gli allungava la mano. Il vecchio si alzò, tese la mano a prender l’altra. «Stia, stia» fece quello. «Ah, ecco ecco… Castelforte…» disse impacciato. «Mi sembrava di conoscerlo, ci sono stato tanti anni fa con la mia signora…». Si fermò – gli occhi subito velati, la testa abbassata. «Quanti anni aveva?», chiese l’altro andando a sedersi. «Ne avrebbe fatti ottantatre domani», disse. «Ottantatre…», ripeté cedendo un poco alle lacrime. «Non avete figli, nipoti? Altri parenti?» chiese quell’altro con garbo. «No. Nessuno. Figli non c’è riuscito d’averne. Aveva un fratello, ma è morto che era bambino. Non ha avuto che me… E io son figlio unico… Non avevo che lei». «Non si preoccupi, pensiamo a tutto noi». Le intenzioni di quello di là dal tavolo, i suoi sforzi per mettere un poco a suo agio quel vecchio spaventato eppure così composto nella sua pena, si sarebbe detto, parevano sinceri. Ma c’era mica verso, si capisce. Là dentro, in un momento così, poi… «Vede…» disse il vecchio e subito tossì. «Vede… è che… Ecco, non so cosa si fa in questi casi». L’altro si avvicinò al tavolo con la sedia. «Per questo ci sono le agenzie. Non deve preoccuparsi, pensi solo a scegliere. Le darò una mano, siamo a sua disposizione». Spostò due carte, prese un volumetto. «Ecco, ecco qua il catalogo. Poi le dirò quali sono gli espletamenti di legge e quali i nostri servizi aggiuntivi, se riterrà, in base alla cerimonia…». «Semplice, la voglio. Dignitosa ma semplice. Quel che c’è da fare,

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nient’altro». Sicuro, l’era sicuro il vecchio. Ah, c’era mica da dubitare, e asciutto e duro, era. Tirò su col naso, si lisciò la giacca con le mani. Attese. «Come vuole. Sono qui per consigliarla», disse l’altro, e aprì un faldone preso da quelli là dietro, belli in fila come i registri all’anagrafe. Lo fece ruotare sul tavolo, così che il vecchio potesse imparare alla svelta pregi e fattura e prezzi degli articoli e insomma dei servizi garantiti dalla premiata impresa Fantini e Figli – onoranze funebri in Roncofreno dal 1958. Ne venne un lungo silenzio. Il viso calato sulle pagine del catalogo, il vecchio rimuginava. Scorreva le immagini, leggeva, ora approvava, ora no. Qua una cassa, là un’urna… Uh, ce n’era di tutti i tipi, di tutti i colori, da averci l’imbarazzo della scelta, ce n’era. Il Fantini, a occhio e croce il più giovane dei figli della premiata, poggiò le spalle alla poltrona, giunse le mani sotto il mento fissando il vecchio in silenzio. Assecondava, a quel modo, la zitta preghiera di riservatezza del cliente. «Questa», disse alla fine il vecchio poggiando delicatamente l’indice destro a metà della pagina. E subito gli era venuto in mente quando si va al ristorante in un paese straniero, e si fa i salti mortali per capir qualcosa del menù e al cameriere si ordina col dito indice sulla carta, senza dir niente, sperando di non aver confuso lo stinco del maiale con la spigola al forno, che quando lo scopri è solo quando ti arriva il piatto, e allora è tardi e ti tocca di mangiare il pesce anche se volevi la carne, che rimandare indietro tutto e farsi capire è fatica doppia e a quel punto, ormai, vale neanche più la pena. Ma qui c’erano le figure, ci si poteva mica sbagliare. Così lui aveva scelto una bella cassa in larice rossastro, semplice, senza ornamenti di sorta. L’altro abbassò le mani, si sporse avanti. «Sì», disse soltanto. Poi, tirato a sé il faldone, prese un foglio e una penna. Scrisse qualcosa, alzò la testa. «Le farò un elenco…», disse.

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«No. Mi dica solo quanto costa il servizio». Il Fantini trasecolò. «Ma… Lei capirà, non è così immediato…» disse. «Vede, ci sono pratiche obbligatorie e pratiche… Ecco, le spiego…». «C’è niente da spiegare. Sono un uomo semplice, io, ma sono un uomo preciso». L’era tutto serio in volto. Il Fantini capì subito che c’era poco da discutere con quella faccia. Il vecchio si fece avanti, allungò il collo: «Voglio solo una cerimonia dignitosa» disse. «Metta quello che è necessario, quel che bisogna mettere. E le pratiche di legge, si capisce». Il Fantini, che quando voleva l’era un ragazzo intelligente, la finì lì, si mise al computer. «Mi dia qualche minuto», disse. Quell’altro rimase in attesa – pareva soddisfatto, si guardava la fede al dito, intanto. Là di fronte, ticchettio svelto sui tasti, silenzio, fruscio di fogli, altro ticchettio. Un cinque minuti dopo, com’era finito il ticchettio, la stampante diede uno scatto secco, fece come un ronzio basso e alla fin della suonata sputò fuori un foglio scritto per metà. «Ecco», disse il Fantini allungando il pezzo di carta. «Ho incluso le pratiche per la richiesta del certificato necroscopico, quelle per il nulla osta del medico d’igiene pubblica, i diritti sanitari, cimiteriali e comunali…». Il vecchio si agitò sulla sedia, pareva in ansia: «Pensate voi a tutto?». «Rientra nel servizio, signore. Dicevo… spese per composizione e stampa di epigrafi e foto…». «È questo qui il totale?». «Qui in fondo, ecco». «Le firmo un assegno».

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«La prego, non ora. C’è tempo per questo». Ci restò come di fronte a un’offesa, il vecchio. “Ma guarda! Li fa tutti signori, la morte. Tutti li fa signori. Anche questi qua che ci campano, con la morte”, pensò un momento prima di riaprir bocca. «Sono un uomo preciso. Preferirei saldare ora», disse. «Non è possibile, dobbiamo prima preparare le carte». Scoteva la testa, il Fantini. Stavolta non gliela dava vinta – eh no, per la miseria, poteva mica. «Mi lasci piuttosto il suo indirizzo» disse. «Per domani… A che ora mando il personale per preparare…». «Presto. Domani mattina presto. Alle sette?». Gli pareva, al titolare della premiata, che a quella sopraggiunta condizione di solitudine il vecchio non trovasse altra maniera di reagire se non con l’impeto dell’urgenza. «Alle sette, sta bene», disse il Fantini allungando la mano. E, rinnovandogli le condoglianze, congedò il signore là davanti, uomo preciso come quasi mai gli era capitato di incontrare in tanti anni di tetro lavoro alla premiata. II. Come lasciò l’agenzia, al vecchio gli piombò in capo la solitudine, una solitudine dai contorni slabbrati – tanto grande da sembrargli finir dentro l’eternità, e di là perdersi. Sul marciapiede lui esitava. Il passo gli era venuto incerto. Ma era mica il timore di tornare in quella casa a spaventarlo, no no, quello non si poteva dire – era la paura della stanza, la paura di trovarsi ancora, là in casa, a guardar fuori da quella stanza con la porta chiusa. Tutto voleva fuorché riveder quella porta là. Indugiava, allora. Perdeva tempo per la via. E intanto esitava,

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tornava sui suoi passi, voltava di qua e passava per un vicolo, traversava una piazza e tornava indietro. Ci passò il mattino intero a quel modo: esitando e pigliando tempo. Prima camminava senza una meta, poi sedeva in un caffè, si provava a cacciar via i ricordi un po’ come poteva, voltando le pagine di un giornale trovato là sul tavolino. Grumi di pensieri intorcigliati, intorbidati, addensati e grigi e aspri da raschiar la gola gli venivan su dal petto insieme col respiro. Di tanto in tanto, col grumo di pensieri, veniva su una cosa nuova. Un grano di rassegnazione, gli pareva, veniva su a far compagnia all’ansia quietandola un poco. E venne su una volta, e due, tre, e un poco cominciava a distinguere la rassegnazione dalla palla dei pensieri grigi, che in capo a qualche ora finì per sentirsi solo e fiacco e annoiato, e il grumo intorcigliato giù da qualche parte, stanco anche lui di venir su insieme col fiato a dargli il tormento. A mezzogiorno passato buttò il giornale sul tavolo vicino. Non aveva fame, e di andare a casa se ne parlava nemmeno. Perciò camminò ancora, andò fino all’ultima via della città e di tanto in tanto sedeva su una panchina, riposava, masticava e biascicava come fanno i vecchi quando son fermi e c’è niente da fare. Le ore gli gocciolavano via pigre, pareva non volessero staccarsi mai. Finiva più quel tempo, proprio più. A metà del pomeriggio gli venne su di colpo, più denso di prima, e stavolta era più nero che grigio. Gli si fermò alla gola, il grumo, gli mandò la rassegnazione a farsi benedire. Fu così veloce a venir su, il grumo grosso, che si decise a tornar verso casa, a far fronte alle sue paure, come si dice. E in fin dei conti, pensò, prima o dopo in quella casa doveva pur andare, e tanto valeva metter l’animo in pace, finirla là con tutto quel girare ch’era solo inganno, e pace non gliene dava. Alla sua via arrivò passeggiando lento, con la luce della sera che già si allungava sulla facciata del vecchio condominio. Entrò, si tirò dietro la porta senza chiuderla a chiave, si tolse la giacca, si buttò sfinito sul divano. Restò là, seduto nella penombra a far niente, e il respiro gli veniva su a fatica. A destra, alla sua destra, non voleva guardare. Neanche per sogno

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ci voleva buttare lo sguardo. C’era la stanza da letto, alla sua destra, proprio in fondo al corridoio, di là della porta chiusa. Ma anche a voler star là immobile, il collo duro come un ceppo, non c’era verso di ignorare la lucetta. Gli arrivava alla nuca, ecco, un piccolo bagliore, giusto a dir che c’era. Era la luce della sera che veniva dentro dalla finestrella a metà dell’andito – diceva: “Son qua”, e l’era tutto. E lui poteva farci niente per quella luce che gli ricordava il corridoio e, in fondo a quello, la stanza chiusa. Così, in difetto di coraggio, pigliava tempo, cercava di non pensare, fingeva di non sentir la vocetta della luce, e intanto cacciava via l’impulso di voltarsi – quasi temesse di vederla là distesa, come l’ultima volta, anche a scapito dell’andito e della porta chiusa. Sapeva, lui, che tanto sarebbe venuto momento e l’avrebbe traversato quel corridoio, che prima o dopo in quella stanza ci entrava. Toccava farlo, rivedere quella stanza là e tutto il resto – era una cosa che non ci poteva girare attorno per sempre. Però poteva ancora aspettare, ancora un poco, rimandare, dirigere lui l’orchestra e i tempi. Così pensando stava abbandonato al divano – gli occhi chiusi, il respiro pesante, finché dalla finestrella non venne più luce e il salotto e il corridoio e tutto quanto finì nel buio, il buio che mette paura ai bambini e ai vecchi quando son soli. Sospeso a quella rappresentazione di un corridoio che non poteva ancora guardare, trascorse là seduto ancora un’ora; forse qualcosa più, ma non avrebbe saputo dire. Infine si tirò avanti, si alzò a fatica, accese una luce. Andò allo scrittoio, restò là un pugno di minuti a trafficare con carte e cassetti piccoli piccoli, che ci stava mai dentro niente in quei tiretti. Come la fu finita con le carte, se ne andò in bagno a rovistare nel mobiletto dove sua moglie ci teneva i medicinali, e li teneva in fila che neanche dal farmacista li vedevi così precisi. Gli faceva una testa così, la donna, gliel’aveva cantata per anni a quel modo, che le scatole grosse andavan con le grosse e i flaconi coi flaconi, le piccole con le piccole e le listarelle sfuse qua, ecco, nella scatoletta dei figli di nessuno, e un giorno si vedrà.

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Dall’armadietto cavò tre scatolette basse, se le cacciò in tasca, spense la luce e andò in cucina, da dove uscì con un bicchiere d’acqua del rubinetto, che lui diceva che era buona e costava quasi niente, per giunta. Col bicchiere in mano e i pensieri a fargli l’orgia in testa, imboccò il corridoio, arrivò alla porta e là si fermò. Esitava. Poggiò la mano sulla maniglia, la tolse, la rimise, esitò ancora, finalmente diede un colpo secco in giù. L’odore umido, di aria fiaccata, pareva non aspettasse altro per venir fuori di corsa, andargli incontro, abbracciarlo e stordirlo. Allora vacillò sulla soglia col nodo alla gola, e intanto tastava il muro, cercava l’interruttore sulla destra. Come arrivò, la luce lo strappò in un amen al suo torpore, gli restituì l’immagine di una stanza vuota, ordinata ma polverosa. Non ci metteva piede da un anno e mezzo, là dentro. Da quando sua moglie, l’Elvira, Dio la tenesse in gloria, era morta. III. Restò là in piedi a fissare quel luogo dove due vite sembravano essere esplose in migliaia d’istantanee poi mischiate e sparse e disperse sul pavimento, sui mobili, e appese alle pareti e persino al soffitto. Riusciva a pensare a niente, là dentro. Gli venivano a mente solo tutti quei momenti sparsi, scompigliati, lasciati alla rinfusa come carte da gioco su un tavolo quando il gioco l’è finito. Andò al bordo del letto, si lasciò cadere di traverso e gli pareva di pesare come due uomini mentre un anno e mezzo di solitudine gli piombava addosso con la grevità che solo il vuoto può avere. Si guardava attorno e vedeva niente. Gonfiava i polmoni, ma quelli erano spugne secche, facevano neanche una piega. Con la mano frugò nella tasca, cavò fuori le tre scatole – eran pastigliette, quelle, che gli toccava di prendere tutti i giorni, da un anno e mezzo, due volte al dì per arginare come poteva quel vuoto che gravava ora, aggrumato e insostenibile, sul suo tempo residuo. Mentre capsule e compresse filavano giù per la gola a raggiungergli il grumo nero in fondo allo stomaco, vide la foto sul comò 138


in fondo, davanti al letto. Un uomo e una donna, due sessantenni si sarebbe detto, sorridevano all’obiettivo da una piazza vuota del borgo di Castelforte, in Liguria. Increspò le labbra, solo un poco. Si alzò pigliando di tasca il fazzoletto, spolverò la piccola cornice e il vetro. Riponendo la cornice si scorse riflesso nella specchiera: era spettinato, in disordine, i vestiti stazzonati. Allora se ne tornò in sala, prese una camicia pulita dall’armadio. Si cambiò, si rimise la giacca, si ravviò i capelli tornando a passi lenti nella stanza da letto. Buttò giù altre pillole, poi un sorso d’acqua, di quell’acqua buona che costava poco. Posò delicatamente il bicchiere sul comodino, diede un’ultima occhiata al lato vuoto del letto, spense la luce, si coricò. E là, grottesco nella precisione del suo inappuntabile vestire in attesa del sonno, non si chiese perché, né come sarebbe stato. Mise soltanto a fuoco il pensiero della porta di casa lasciata aperta, le chiavi sul divano e l’assegno per l’agenzia, compilato per bene, sullo scrittoio all’ingresso, in evidenza per chi sarebbe venuto l’indomani. «Sono un uomo preciso», ripeté due volte all’oscurità, quasi a domandare licenza d’addormentarsi. E il sonno venne presto, e venne prima che la campana, di lontano, potesse battere la mezzanotte sul suo ottantatreesimo compleanno.

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Possiamo dirlo senza tema di smentite: quello che segue è un decalogo. Conta dieci punti, non uno in più non uno in meno, ed è pervaso dallo spirito legale tipico del genere. Tuttavia, si distingue da decaloghi più noti e antichi per una differenza non da poco: Il decalogo della libertà non ha l’ambizione di imporre un ordine; nella migliore delle ipotesi, si propone piuttosto di tracciare i contorni di un ordine che esiste già – e che somiglia parecchio a un disordine. È capzioso, contraddittorio, buffoamaro… ma come chiedere qualcosa di diverso al giorno d’oggi? Quello della libertà è un problemino da spappolarcisi il cranio; per risolverlo a colpi di norme bisognerebbe sapere almeno in cosa consista, questa famosa libertà… E varrà poi la pena di perseguirla? Intraprenderne la ricerca non sarà un modo per diventarne schiavi? Si può davvero essere schiavi di se stessi? Ma basta, basta, fermiamoci pure alla punta dell’iceberg. Tutto questo discorso vuol solo far raddrizzare il naso a chi preventivamente lo avesse storto, e precisare che Il decalogo della libertà non legifera, compila. Lo ripetiamo: è un vademecum, un memorandum, e incrociando le dita è anche divertentum. L’autore

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Daniele Zinni

IL DECALOGO DELLA LIBERTÀ

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I.

Il valore della libertà è il valore primo.

II.

Il valore della libertà in effetti è secondo al valore dell’essere primi, sennò cosa è primo a fare.

III. Il valore della libertà è secondo anche al valore dell’essere valori, è vero, però poi basta. IV. La libertà dell’uno finisce dove comincia la libertà dell’altro: garantisce uno spazio personale inviolabile, sul modello delle ordinanze restrittive. V.

La libertà ci è stata donata dai nostri avi – per essere precisi, da quelli tra i nostri avi che meno libertà ebbero in vita. È strano: non potevano donarcela quelli che ne avevano di più? Non era più comodo? Ma forse gli è parsa una roba da cafoni, regalare la libertà già usata.

VI. Con la libertà non bisogna fare gli schizzinosi: è un dono dei nostri padri e non lo possiamo rifiutare. Casomai più tardi mandiamo le mamme a cambiarlo, tanto i padri non ci fanno caso. VII. Non fatevi vedere in giro con le libertà dell’anno scorso, che non le vuole più nessuno. Mettetele piuttosto nei cassoni, che le diamo ai poveri. VIII. E non fate i bambini, che volete le libertà grandi per crescerci dentro: cosa volete più crescere? Adesso poi le libertà ampie non esistono, le libertà vanno attillate, fascianti, anche un po’ costrittive. IX. La libertà è come correre, correre a perdifiato su un prato grandissimo, e correre velocissimo, e gridare le proprie opinioni più estreme gridarle fortissimo, e correre lontanissimo, e superare un confine, poi un altro confine e un altro ancora e ancora, e arrivare in un paese così lontano e straniero che non c’è estradizione e la muta di cani si è stancata di correrti dietro e per stavolta ti è andata bene. X.

Chi verrà sorpreso a non essere libero sarà punito con la prigione.

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La poesia di Alberto Bertoni si fonda sulla commistione di due livelli: uno da subito manifesto, risolto in un fare rappresentativo solido e circostanziato; l’altro posto di taglio, quasi diretto a corrodere l’evidenza appena tracciata, a compiere delle piccole, strategiche azioni di sabotaggio sul senso degli enunciati. È una struttura in virtù della quale – non di rado – il quadro realistico si converte in rebus, il ricalco in positivo dell’occasione in un suo doppio, stralunato e ambiguo – con, in ultima sede, il sospetto che solo passando attraverso questo equivoco rovescio il discorso possa davvero certificarsi. Il quid che irrompe nelle intenzioni, la contro-istanza ironica, paiono generarsi in seno al reale, provocando un’instabilità, un’indeterminatezza o nonsense, che penetra nella situazione lirica e ne smorza presupposti e ambizioni, entro il contesto – cui in questi inediti soccorrono anche i passaggi prosastici – di un universo quotidiano di per se stesso enigmatico e sfuggente. Nei versi di Bertoni, in sostanza, il controcanto ironico si precisa come un retaggio di stampo illuministico anziché romantico. L’equilibrio è ottenuto per mezzo di un efficace compromesso: la sua lirica, infatti, pur sganciandosi dallo statuto ieratico indotto dai consueti attributi metafisici o trascendenti, non si consegna mai del tutto al vissuto quotidiano, indirizzata com’è – in ogni sua parte – a una sorta di compimento eufonico, che consente all’autore di mantenerne salda e vagamente “alta” la struttura in ogni parte. Così, siamo al cospetto di una poesia decentrata verso un paradigma narrativo, sempre aperto tuttavia a inferenze ordinarie, nella sua ininterrotta ricerca di contaminazione con altri linguaggi, di travestimento e mimetizzazione, possibili grazie ai solidi argini metrici e retorici in cui questa entropia di fondo viene di continuo imbrigliata. Roberta Bertozzi

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Alberto Bertoni

UNA CONVERSAZIONE SUL DUOMO DI MODENA

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Dopo una visita Ci aggiriamo nel mondo con fragilità, pieni di insicurezze, in cerca d’approvazione più che d’amore. Lottiamo costantemente con il nostro doppio, la coscienza che ci abita. La verità è che la nostra vita è un battito d’ali e che ci sono dei momenti di rara bellezza, che se si esce fuori da se stessi, li si può vedere nella loro perfezione e allora sì, si potrebbe pensare di essere dentro a un’opera d’arte, invece è vita che scorre. … Vieni, ti prego, da questa parte ramo di pino fluttuante nella bava di vento costante a cavallo del muro di mattoni antichi di fornace e rossi come il cuore ansimante a dir poco di un secolo Vieni a sperimentare i varchi che in questa luce di settembre lungo anse e calanchi qualcosa diranno del nostro mondo di vivi o quasi Misurare le distanze nella calma di un tempo uguale e al diavolo la fretta, il dover essere puntuale solo per incontrare il mio cenno breve di saluto tra le case. 151


Quadretto parigino Frugare dentro al bacio come aprire uno scrigno la pelle di rugiada gli occhi rubino Amore nudo frutto d’uragano del platano che trema fra le dita Significa la vita Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili, ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo. Quello che conta del vissuto sono i ricordi, vivere per ricordare, il sapore di un bacio, le tue mani sulla mia faccia, uno sguardo, un vino bevuto, l’amore. L’immateriale che ci lega, gli odori, i colori. Il ricordo che riaffiora sempre e che crea il nostro vissuto, le persone che siamo adesso, da sole e insieme. Tu nel profondo sei un oceano in burrasca e raramente ti plachi. E non devi essere calmato, ma assecondato in questo perenne movimento, perché è la tua forza.

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Una conversazione sul Duomo di Modena Capovolgo la domanda che il poeta tedesco Michael Krüger pone all’attento uditorio di Vignola come sarebbe la sua vita se non avesse visto il Duomo di Modena e mi chiedo che vita è la mia a vederlo tutti i giorni il Duomo di Modena La domanda non è retorica perché basta fissarne delle parti che il discorso sussulta, avanza a salti, a un certo punto fa violenza alla sintassi e vorrei che non Krüger ma tu una nuova sequenza di frasi cominciassi invece d’incepparti incespicare sui lati pian piano scivolando negli anfratti di questi nostri passi più esitanti tessuti di una luce senza braci liscia, pallidissima, carica di baci come mi piaci.

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La poesia di Elia Malagò si nutre di silenzi e lunghi scavi: attraversa cavità carsiche, poi erompe e trova voce per un’interna necessità. Quando vince la resistenza del riserbo e dell’indicibile, diventa un urto di immagini e parole, potente nella sua verità. Qui, nei cinque ‘respiri’ del componimento, la poesia restituisce l’ecografia del disamore, costruendo un ponte fra la superficie (l’evidenza di una vita e di un tempo ormai a pezzi) e il lavorio occulto di talpe, larve e formiche, che ne ha logorato le radici e ne ha costruito le ombre e la fragilità. Se il disamore, infatti, si rivela all’improvviso e incrina la quieta “lastra” del non vedere, del non ascoltare, del non dire, prima del suo affacciarsi/spalancarsi ha, però, già camminato dentro la vita, ha inquinato le ragioni dello stare insieme, ha seminato spine e intermittenze stonate. Per questo nel prefisso dis- Elia non riassume soltanto il difetto, l’anomalia, la negazione, la diserzione d’amore, ma condensa la suggestione di un processo di lenta, insinuante, impercettibile macerazione: un inagrirsi del sentire. Non dà, dunque, definizioni che fisserebbero quanto è mobile e progressivo, per ripercorrerne, invece, la vena sotterranea: sonda l’invisibile, la “ragione equivoca e livorosa”, scioglie (in verbi di cova e di sfaldamento) la sostanza imprendibile del sentimento, sospesa fra il vapore, il pulviscolo e le scaglie senza forma del pietrisco. Ci lascia con la sensazione di una muta, inarrestabile colonizzazione: il disamore, nel suo farsi, non conserva niente d’intatto, neppure la memoria dei giorni buoni. Annebbia e svela, consuma pure le orme e i ricordi: “le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta”. Zena Roncada

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Elia Malagò

DEL DISAMORE

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del disamore I lo scopri per ultimo e per caso il disamore sotto una lastra sottile di foglie un poco macere d’acqua di riporto o una grandinata di mezza estate su uno sgrondo non curato s’impasticca di larve e frutti che cadono acerbi – forse metteranno manti di tigre o magari faranno nido in un brusìo – al riparo svolterà il solito autunno Lì covano fiele e arsura il pianto raggelato e nel fondo deposita silenzioso il formicaio del rancore II il disamore è talpa insonne che inebria nelle caverne di tufo smotta e cumula insonora la cova dissigilla segreti e sfarina pulviscolo senza impronte Poi un giorno di luce né forte né piana un giorno di questi

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bassi su meridiano polso e mediastino un giorno ordinario che scorre sul binario e dietro risucchia l’orma di conserva un giorno che fa somma e non si dispiace quel giorno lì spalanca le fauci rapido mostra III Cova come tutto il resto cova figlia e s’invola foss’anche in cabina guardaroba a sventolo sulle stagioni e il disordine che tanto cchessarrammai doppiare consonanti abbassare le vocali spingere l’acceleratore spegnere i fari andare a manetta a manetta la manetta della scarpa che morbida calza – vedi se conta la marca – sfrega il tappeto e tornisce duro il valgo nell’impronta IV e il tempo frantuma in scaglie e pietrisco un deserto di rose spinate crescono senza mostrarsi ci sono e lo sai perché gli occhi anche spinano la vita va in pezzi piano piano come una cataratta che si riprende le fughe del pavimento lentamente le hai perse

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fino a non cercarle più intermittenze senza sussulto V tra l’una e l’altra vago il fruscìo quello che sfonda l’uscio forse più liberato le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta nessun rendiconto ché nessuno l’ha tenuto il disamore è ragione equivoca e livorosa trova un incaglio e depone come il vapore sui fossi all’alba d’agosto il deposito dell’ invisibile come quando hai il nome nella mente ma la linea che scorre sotto le palpebre circumnaviga il viso ombra le labbra e lì sul luminare lascia leggera la striatura della lumachella notturna che insegue l’aura di una goccia di sete.

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Zena Roncada è donna – figlia, amica – della terra e dell’acqua di Po. Dunque lei sapeva già che “un fiume è acqua e terra” prima che l’autunno svelasse l’intreccio radicale alla sua riva. Io non lo sapevo. Ma leggere Zena è camminare con lei vedendo le cose come per la prima volta e, insieme, con la sensazione di avere sempre avuto – dentro, in fondo – quell’immagine di un resto di bottiglia restituito dalle acque nelle sembianze di corallo verde. Leggere Zena è partecipare a piccoli atti di rivelazione di cui è capace solo una scrittura terra e acqua – terra e aria – che mette a nudo e poi con grazia sa rivestire. La fonte delle sue parole è la comprensione – voce delicata forte generosa del verbo che è ‘prendere insieme’ quanto ‘contenere in sé’ –, parole che vivono la dimensione del “noi” che ora è sapere di generazioni, ora condivisione di gesti quotidiani… Nel cerchio della vita, in scambi e permute di passaggi, in fila come pioppi sull’argine – “ciglia di una sola palpebra” – a danzare lo stesso respiro. Teréz Marosi

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Zena Roncada

A VEDERLO COSÌ

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A vederlo così A vederlo così, senso di privazione, come di vita che si spolpa. È senza fiato, il Po, con le zanzare alle caviglie. Acqua bassa: scesa sotto, stanca di superficie, succhiata al fondo. Rive svelate. Radici svitate di salici e di pioppi. Il Po ha tre anime: ora mostra la sua anima di terra. L’anima liquida, quella di schiuma, di piccole onde veloci e di gorghi, s’è ritirata ai bordi: al mezzo questa spiaggia che la buca, ferma e spiegata. Lo sapevamo già, noi, che un fiume è acqua e terra. Soprattutto a novembre. (Acqua che percola nella riva, a becchi e a bocconi. E la gonfia, lenta lenta, e la prende. Terra che s’infradicia, s’ammolla scura come il letto d’una anguilla. Di suo, l’argilla, ci prova a trattenere e a stare. Barriere di tronchi ai fianchi e rami bandiere di stracci naufraghi. Poi cede e si scioglie: sporca l’acqua, si abbandona al viaggio e va. L’acqua di Po non è leggera. Ha la forza della creta che si porta via, come un pegno d’amore o prepotenza). Ma ora… Anime separate. (Sarà dunque la corsa, il folle volo delle cose a tener stretto il patto?). L’acqua si ritira, in rigurgiti di fango, in bolle di pescegatti. Cala, cala. La terra è isola e collina limacciosa in mezzo al corso. Convessa. 167


Corallo verde di qualche resto di bottiglia. Sacche di sabbia grigia, placche di mota liscia, certe pieghe di capelli, asciugati stringendoli fra le dita. E bastoni levigati come ossi. Qualche cespuglio: pareva già pronto, nel mondo alla rovescia, sotto la pelle del fiume. Chissà. La battellina nera, di tutti e di nessuno, che taglia la corrente o l’asseconda, è rovesciata su un orlo di sabbia, finita all’isola spinta da quale mano. È la terza anima, quella di barca paziente. Riposa. Memoria di sacrileghi percorsi, da riva a riva, da campanile a campanile, sa che è il tempo dell’attesa. Che l’armonia ritorni. Scambi e permute, grazia inquieta di passaggi e movimento. Ora c’è troppo caldo.

Pensieri concentrici Mai pensato abbastanza all’istinto tribale dei pioppi. I pioppi non sono alberi individui. Sono una comunità mistica. Un pioppo da solo, sul ciglio della strada, è un errore di natura. Lui lo sa e patisce. Si lascia andare, perde slancio e si smaglia in fattezze morbide. S’inturgida. Talvolta, per consolarsi, accetta un’edicola piccolina di madonna campagnola (pomelli rossi e bocca di ciliegia), fa da fianco a un rosaio che rinuncia al sole o diventa rifugio notturno, per trattenere uno sfrigolio d’ali. (Facile dirlo al femminile, allora, come un ventre che s’arrotonda). 168


Ma i pioppi, i pioppi in fila… Si spartiscono l’alto, senza contenderlo, con l’abitudine lieve che li catena. Colonne che fingono cattedrali di golena, in strette navate fra muri d’argine e fiume. Uguali nella voce, uguali nella risposta al vento. I pioppi in fila. Dicono il lontano, sul bordo del canale, a inventare un orizzonte di confine. Fusi di carta sagomata, in bilico sul vuoto. E fermi, là in fondo, nell’ora della fiacca. I pioppi in fila. Tribù. Ché, a stare conficcati nella vita, ciglia di una sola palpebra, si respira la stessa musica, si danza lo stesso respiro.

Racconto zoppo (divagazioni di memoria dolce1). Dalle giornate strane nascono racconti zoppi. I racconti zoppi non vanno da nessuna parte, restano incollati all’anima. Adesivi. Sono lunghi un centimetro. Si dicono nell’attimo che accadono, poi stanno lì. Come quei ricordi rannicchiati nella pelle, che arrivano al risveglio. E non han parole. Le rubano strada facendo, nel mattino. Oggi c’era tutto quello che serviva: lo stupore nell’aria, il freddo 169


lucidato, gli alberi a ventaglio. I nidi delle cornacchie esposti e penduli, fra i rami (pioppi marsupiali). Avevi ben da contrastare il cielo con il lato prosaico della vita: sportina in mano, meta cassonetto. La ragazza, avanti pochi passi, sobbalzava a ogni macchina in sorpasso. Poi una frenata, una portiera aperta. Un bacio. Via. E io lì con la sportina in mano, a sapere esattamente il come. E a tornare indietro, a certe mattine fredde e lontane: uscivo di casa e vedevo la macchina ferma un po’ più in là. Qualcuno si era alzato presto per portarmi alla stazione. Salire e stringere una mano, nel tepore della macchina in attesa. La pelle fresca sotto un bacio. Vetiver leggero. Speranza che la stazione sprofondasse sette leghe più in là. E la memoria è una colonia di pesci guizzantini nello stomaco.

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Non meravigliatevi se mentre leggete il racconto di Adrian Bravi vi sembrerà che le righe comincino a pendere da una parte. Ma soprattutto non cercate di raddrizzare le pagine! Ci sono cose che non si possono rimettere in pari. E anche se il protagonista senza nome del racconto alla fine prova con convinzione a trovare un colpevole e anche a eliminarlo, la stortura non si lascia intaccare. Si nasce zoppi dentro e la dritta via è già perduta. Come ideale corollario della lettura, il lettore può cercare tutte le cose storte presenti nella storia. Simonetta Bitasi

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Adriรกn N. Bravi

GLI ZOPPICANTI

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Nacqui storpio di una gamba all’età di dodici anni sul sedile dietro di una vecchia Peugeot 403. La macchina sfrecciava sull’asfalto e quando faceva le curve le gomme strillavano come un vitello. La guidava un uomo magro e mezzo anziano, che sarebbe di lì a poco diventato padre per la prima volta. Era stato chiamato d’urgenza da mia madre e lui, che faceva il fabbro ma non sapeva raddrizzare neanche un chiodo, tanto per dire quanto fosse incapace di fare qualsiasi lavoro, era corso verso casa con le sue gambe un po’ storte. “Sempre all’ultimo momento mi deve far sapere le cose, ‘sta femmina,” sbraitava. Aveva mollato gli attrezzi ed era andato a prenderla con la macchina, l’aveva fatta salire alla svelta e aveva cominciato a guidare con la testa incollata al parabrezza, perché era un po’ corto di vista e ci vedeva male. La macchina andava veloce, come ho già detto, alzava tutta la polvere della strada e faceva su e giù per le buche che non riusciva a evitare. “Spostatevi,” diceva l’anziano alla gente o agli animali che erano sul ciglio della strada. A un certo punto, però, due grosse vacche, una a macchie bianche e nere e l’altra marrone senza macchie, attraversarono un incrocio e lui andò a sbattere contro quella marrone senza macchie (l’altra scappò via spaventata, povera bestia, forse zoppicava un po’, perché il paraurti l’aveva presa un po’ di sbieco). Dopo l’incidente mia madre, che mi teneva in grembo, era rimasta sdraiata sul sedile dietro a lamentarsi e a massaggiarsi il ventre, senza spostarsi dalla posizione in cui era rimasta (c’è da aggiungere che in genere camminava poco e si muoveva il meno possibile); poi iniziò a bestemmiare come una turca e a dire che tutti ce l’avevano con lei, persino le vacche, che lei alle vacche non aveva fatto mai niente. “E pure tu, che non vedi un tubo con quegli occhi da cecato…” urlava contro mio padre. Si chiamava Aurora come la dea, mia madre, e anche lei era già vecchia quando nacqui su quella Peugeot 403. Aveva più l’età per essere nonna che madre. La Peugeot era rimasta accartocciata e siccome lei stava quasi per fetare, cominciò a dire a quell’anziano che stava per diventare mio padre: “Sbrigati, chiama qualcuno, perdio, cosa stai lì a trastullarti, dai”. “Adesso, adesso ci vado, aspetta che mi sistemi, mi sono fatto male, che ti credi…”. Lui andò di corsa in ospedale, per quanto gli riuscisse a correre, a chiamare una levatrice, o chi per lei, e così fecero partorire in macchina quella povera donna di mia madre che era ferita dappertutto. La levatrice era un donnone grasso e peloso come la vacca che era rimasta lì, in mezzo alla strada, a dibattersi, tutta rotta, tra la vita e la morte. Quando mia madre, dopo due o tre spintoni, mi buttò fuori, la levatrice disse che ero venuto fuori già

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pettinato, con la peluria sul labbro e qualche brufolo qua e là, come ce l’hanno quei dodicenni che di solito fanno un po’ schifo a vedersi. Pure io facevo schifo – diceva sempre mia madre forse dopo che glielo aveva detto quel donnone grasso, aveva finito per convincersi che, in effetti, facevo schifo. “Non ho mai fatto venire al mondo un ragazzo così brutto,” aveva aggiunto la levatrice guardandomi più da vicino, “sembra che abbia già dodici anni”. Cominciò così la storia che a casa, mia madre, quando qualcuno le chiedeva la mia età, supponiamo che in quel momento avessi un anno o un anno e mezzo, faceva i suoi conti in testa (era semianalfabeta, povera donna, ma i conti le sapeva fare, altroché), poi rispondeva: “tredici” o “tredici e mezzo”. Ci aggiungeva sempre quegli stramaledetti dodici anni che il donnone mi aveva attribuito alla nascita. A parte questo, tutto sommato, ho avuto un’infanzia tranquilla, anche perché mi sentivo di avere sempre dodici anni in più rispetto ai miei coetanei. Fino a una certa età questa condizione di nonnismo mi ha procurato dei vantaggi, altroché. Mi facevo rispettare, questo intendo dire. E poi, escluso qualche episodio che ora preferirei tacere, la mia infanzia è andata abbastanza bene, tranne due o tre calci o qualche sberla di troppo da parte di mio padre, che aveva la mano sciolta quando si trattava di passarmi qualche ceffone (una volta mi ha ammaccato un occhio con un ferro, l’asino, perché gli avevo detto che si stava rinsecchendo come una prugna appassita). Un giorno, quando avevo sedici anni veri, sono andato a trovare la levatrice, quella che aveva detto che ero nato con la peluria e i brufoli. Desideravo conoscerla da tempo (non mi era più capitato di incontrarla di nuovo, dopo la nascita), volevo vedere le mani che mi avevano tirato fuori da mia madre e mi avevano messo al mondo. Mi ero fissato con quelle sue manacce, collegavo i loro movimenti bruschi al fatto che ora zoppicavo come un deficiente. Era grassa, aveva una gamba più corta dell’altra e i capelli tinti con la ricrescita. Sembrava uscita da un porcile per quanto era sporca. “Tu hai fatto fetare mia madre dentro una macchina,” le dissi. “E allora?” “Ti ricordi o no?” “No, non mi ricordo… Quanti anni hai?” “Ventotto,” le ho risposto, anche se, come ho detto, ne avevo sedici in realtà. “Impossibile, io faccio questo lavoro da venti”. Al che non ci vidi più, la spinsi all’indietro e le dissi: “Brutta grassona

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puzzolente che non sei altro!” e me ne andai alla svelta. Lei mi inseguì zoppicando (non so se era nata così, con una gamba più corta dell’altra, o ci era diventata col tempo). “Vieni qua che ti faccio vedere io, animale,” mi disse. A ogni passo ripeteva quella frase, la disgraziata. Io correvo più forte di lei, perché ero zoppo ma non avevo la gamba tesa come la sua, che sembrava una stecca, mi muovevo meglio anche se la mia, di gamba, a ogni passo faceva una specie giravolta, e poi ci ero abituato correre zoppicando. Dopo un paio d’isolati non so perché mi feci raggiungere. “Brutta grassona a chi?” disse mente mi riempiva di schiaffi così, tutti scoordinati, senza mirare dove colpiva. Alla fine tirai fuori un coltello mezzo storto che aveva fatto mio padre e l’accoltellai sulla pancia. Ero stato costretto, altroché. La donna era rimasta a guardarmi con gli occhi sbarrati. “Bastardo,” ripeteva mentre si tamponava la ferita con le mani. Volevo darle un’altra, di coltellata, ma mi trattenni, una era più che sufficiente, pensai. Il giudice mi diede dodici anni di galera. “Ancora altri dodici?” gli chiesi, ma lui non capì e ripeté: “Sì, dodici”. La prima volta che mia madre venne a trovarmi in galera le prese un infarto e la dovettero portare via di corsa in ospedale. Dopo una settimana è tornata ed è svenuta. Dovettero portarla ancora in ospedale. La terza volta la fecero entrare in compagnia di un infermiere, ma non le prese niente. Mi guardava e scuoteva la testa. “Perché l’hai accoltellata, quella donna?” mi chiese. “Se lo meritava,” le risposi, indicandomi la gamba storpia. “Ma lei che c’entra, disgraziato?”. “C’entra, c’entra, a voglia se c’entra”. Quando se ne andò rimasi a guardarla. Zoppicava anche lei, e anche mio padre, che era rimasto in disparte senza guardarmi, zoppicava da una gamba, ancora più di qualche anno fa. Prima che un carabiniere chiudesse la porta blindata, lui, mio padre, si avvicinò e mi disse: “Ti rendi conto che uscirai da qui a ventotto anni?”. “No, babbo, ti sbagli, uscirò quando avrò quaranta”. “Ma no, che dici?”. Non gli ho risposto più, povero vecchio, non mi avrebbe capito e io non avevo voglia di spiegargli che non avevo più sedici anni, ma ventotto. 179



Mentre l’Ireneo Funes di Borges è schiantato dal lavorìo indiscriminato della sua memoria, G. patisce le conseguenze della naturale selettività dei ricordi suoi. Arriva un’età in cui l’immotivato, repentino affiorare di alcuni lacerti di vita e l’interrarsi definitivo di certi altri provoca un sentimento misto tra il dolore, l’irritazione e il rimpianto. La mappa dell’esistenza perde dettagli ogni giorno che passa e difficilmente altri significativi se ne aggiungono, uno sperpero per il quale non c’è rimedio. Uno ci sarebbe, per la verità, quello più appagante e sicuro, stando almeno a quel che ci hanno insegnato: la scrittura, la letteratura. Ma è il primo che Zaccuri sembra escludere, da subito: “Sempre più spesso G. non ricordava il finale dei libri che aveva letto”. È proprio così, l’abbiamo sperimentato tutti. Le altrui vite dei grandi romanzi, quelle che diventano vita nostra non fanno eccezione: scolorano. Si salva la bara sulla quale Ismaele va alla deriva e, volendo, ognuno potrebbe aggiungere qualche altra conclusione eclatante, ma il senso generale non cambierebbe. Le ricordanze di Zaccuri, scrittore da sempre di sotterranea, non rigida, ortodossia leopardiana, danno vita a una piccola gemma sfaccettata. Ogni faccia, un paragrafo. Il colore non è fissato una volta per sempre, la scrittura lo insegue, ma nella mente quella sfumatura ideale c’è, e prima o poi sarà raggiunta, forse. Antonio Franchini

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Alessandro Zaccuri

LE RICORDANZE

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1 Sempre più spesso G. non ricordava il finale dei libri che aveva letto. A volte anche dei film che aveva visto, ma questo di rado, probabilmente perché le immagini fissavano nella sua mente un’impronta più duratura. Per i libri, invece, ogni appiglio veniva meno. G. poteva disegnare il profilo dei personaggi, sapeva ricostruire i rapporti di parentela e d’affetto (l’amore e l’odio, il desiderio e il rimpianto), si spingeva facilmente fino al punto centrale della vicenda, a ridosso della scena madre da cui sarebbe derivata la conclusione. Ignorava come andasse a finire. C’erano romanzi che, per questo motivo, G. aveva letto due, tre volte, sempre con il medesimo risultato. Aveva fugacemente concepito l’idea di annotare il finale su un foglietto di carta e nasconderlo in fondo al libro, dietro al risvolto di copertina. Un’ipotesi che subito gli era parsa disonesta, se non addirittura spregevole. Così si teneva le sue storie mutilate, cercando di convincersi che quell’oblio fosse in realtà un dono, grazie al quale poteva leggere, come se fossero nuovi, Delitto e castigo e Don Chisciotte, Grandi speranze e Illusioni perdute. Solo di Moby-Dick ricordava quasi a memoria il finale: la sinfonia dell’oceano, l’attesa, Achab strangolato dalla sagola e la Rachel, madre di buona memoria, che va per mare alla ricerca del figlio perduto. 2 G. era sicuro del ricordo, ma la madre continuava a contraddirlo. Ti sarai sognato, gli diceva. La scena era questa: ancora bambino, dell’età di quattro o forse cinque anni, G. faceva il suo ingresso al cinema, per assistere verosimilmente alla proiezione di un cartone animato. Ma in platea nessuno guardava verso lo schermo. Ovunque era un trionfo di cibi avanzati, dolciumi leccati a metà, torte sbranate a morsi irregolari, panettoni o colombe sfondati quasi a calci: come se qualcuno avesse provato a strappare il cuore dall’impasto e, una volta strappatolo, quello avesse divorato, abbandonando sul sedile il resto della preda. Nessuno accanto a G. si stupiva di quel caos, neppure la madre che al contrario (ma sul dettaglio la memo185


ria vacillava) azzannava a sua volta una scaglia di torrone e invitava il bambino a fare altrettanto. Ti sarai sognato, gli ripeteva la donna, che era troppo anziana per essere paziente. Ma G. non sapeva che cosa fosse peggio: che la madre lo ingannasse, nascondendogli la ferocia di quel sabba, o che invece avesse ragione. Da quale inferno, si domandava, può venire un sogno così terribile, in quale fucina si forgiano per un bambino incubi così crudeli? 3 G. non ricordava quando avesse cominciato a ricordare. 4 Della notte passata con N. a G. era rimasto un solo ricordo, quello della ragazza che, alla fine, si copriva il viso con il lenzuolo, poi lo abbassava di scatto e ridendo gli diceva: Non pensavo che fossi così bravo. Il corpo di lei, che per mesi G. aveva spiato e desiderato, non gli aveva lasciato alcuna memoria, forse perché già prima di quella notte lo aveva contemplato nelle fotografie che N. si divertiva a mostrargli. Lei seminuda in spiaggia, lei con le belle gambe esposte a una festa, lei con il seno teso sotto la maglietta. Non appena N. aveva pronunciato la frase, lui si era sentito misurato e umiliato, ricondotto a una classifica nella quale il suo nome, per quanto valutato in modo non indegno, poteva scendere o salire di qualche posizione, ma difficilmente svettare verso il primato. Era stata una sola notte, trascorsa la quale avevano cominciato a ignorarsi, senza rancore. Il ricordo era però tornato a visitare G. anni dopo, quando A. era stata per la prima volta tra le sue braccia. Anche lei si era coperta il viso, alla fine, e per un momento G. aveva temuto che da quel sipario uscisse lo sguardo esperto di N., intenta a consultare il goniometro delle sue voglie. 5 Quando G. era bambino, nella sua classe c’erano almeno venti alunni. Ricordava i nomi di pochi e quasi di nessuno ricordava il viso. 186


Facevano eccezione L., la bambina di cui era stato a lungo innamorato, e M., affetto da uno strabismo talmente catastrofico da non poter essere in alcun modo mascherato. Anche gli occhi di L., a dire la verità, tendevano a convergere verso il centro, ma quel minimo difetto pareva meraviglioso a G., che dunque aveva fatto esperienza dello strabismo di Venere molto prima di conoscerne l’esistenza. Le pupille del povero M., al contrario, roteavano senza controllo, come i congegni di un giocattolo montato malamente. E il naso grosso, sempre arrossato. E la bocca troppo grande, con le labbra pallide, lucide di saliva. Erano state le labbra a fargli riconoscere M. nell’uomo in divisa che, un giorno, aveva suonato alla porta con l’incarico di consegnargli una lettera dal municipio. Il naso era ancora grosso, ma un po’ meno arrossato. Gli occhi, in compenso, erano perfettamente allineati. All’altezza delle tempie il segno scuro di una cicatrice lasciava intendere il passaggio del bisturi. M. guardava davanti a sé, fisso, come se volesse provare al mondo di non essere in difetto, di poter guardare gli uomini e le cose nel modo in cui gli uomini guardano, e le cose sono guardate. M. sapeva di essere stato riconosciuto, ma non voleva risvegliare il fantasma del bambino strabico e brutto che era stato. Si accontentava di essere brutto, pur di non essere più strabico. Fu G. a tentare. Mentre firmava la ricevuta, disse che forse si conoscevano, dovevano essere stati in classe insieme. L’altro si chiamava M., giusto? Sì, ma è stato molto tempo fa, rispose l’uomo. Non si capiva se si riferisse all’infanzia o al suo stesso nome. 6 G. ricordava bene il giorno in cui aveva visto per la prima volta la casa in cui ora abitava. Sembrava che la luce si fosse distesa nelle stanze per aspettarli, questo aveva detto A. appena erano entrati. Era come se tutto fosse già loro, se tutto appartenesse loro da sempre. Anche il muro storto della cucina, sul quale il venditore preferiva non soffermarsi, temendo chissà quali contestazioni. A loro due, invece, pareva di ricordarlo già, di aver già saputo quale stratagemma adottare per fare in modo che le mensole aderissero a quella mura187


tura sinuosa, insidiosa. La luce nelle stanze, la parete storta, le grandi finestre della camera da letto. Conoscevano quel posto, avevano pensato insieme. Insieme lo avrebbero abitato per sempre. G., per una volta, non si era neppure dato la pena di ricordare. Tanto, aveva pensato, quella sensazione l’avrebbe abbandonato mai, l’avrebbe accompagnato fino a quando A. fosse stata al suo fianco. Adesso A. era morta e a lui rimaneva, intatto, il ricordo. 7 Per molti anni G. aveva desiderato T., la vicina di casa che era venuta ad abitare sul loro pianerottolo quando lui aveva appena smesso di essere un bambino. Lei era una giovane donna, di una decina d’anni maggiore di lui. Il corpo snello sotto i vestiti corti, gli occhiali da sole usati per tenere fermi i capelli di rame, il profumo dolciastro che in ogni stagione dimorava un po’ nell’ascensore quando lei saliva o scendeva. Ancora adulto, aveva continuato a provare qualcosa di simile allo stordimento ogni volta che uno di questi dettagli gli tornava alla mente. Tutto era come nei primi giorni del trasloco: lui alto più o meno come T., gli scatoloni impilati fuori dalla porta, lei con un paio di pantaloni attillati a meraviglia. La incontrava ancora spesso, quando andava a trovare la madre. T. era rimasta in quella casa, era rimasta sola e, per G., era rimasta bellissima. Fino a quando non l’aveva trovata in casa della madre, dove T. si era spinta per una visita di cortesia. Seduta in punta al divano, stava mostrando le fotografie di un viaggio recente, che l’aveva portata su spiagge di rinomanza spettacolare. Assurdamente turbato da quella vicinanza, G. si era chinato a sua volta sulle istantanee che scorrevano lente. L’aveva colpito l’immagine di una donna che doveva essere stata bella e che adesso, addobbata in un pareo troppo giallo, si sforzava di estrarre un sorriso dal reticolo delle rughe e intanto mostrava il seno, che si era fatto ampio e pesante per l’età, come un impasto che non conoscerà più il calore del forno. Fu allora che il ricordo di T. si separò da T., e G. lo guardò allontanarsi da lui, restare fermo nell’aria e subito svanire. 188


8 G. avrebbe voluto che la sua memoria fosse simile a una sala del trono, al centro del quale sta un enorme tappeto su cui è disegnata la mappa del regno. Immaginava spesso la scena: Portatemi la mappa, avrebbe detto, e subito dignitari zelanti avrebbero disteso ai suoi piedi quel magnifico portolano. Anche nella fantasticheria si accorgeva, purtroppo, di quanto la mappa fosse di volta in volta differente. Intere regioni scomparivano nel mare e altre ne affioravano, città venivano aggiunte o distrutte, catene montuose spianate all’improvviso dal lavorio di fiumi fino ad allora silenziosi. Paludi al posto di laghi, laghi al posto di pianure. Il re annuiva, fingendo compiacimento per non sfigurare davanti alla corte, ma ogni volta la mappa gli sembrava peggiore del giorno precedente e c’erano giorni in cui bastava che distogliesse lo sguardo per un momento, in cui bastava un battito di ciglia o il tempo di uno sbadiglio, perché i confini del regno mutassero di forma e, mutando, cedessero terreno. 9 G. non riusciva a separarsi da ricordi insignificanti, che gli tornavano in mente all’improvviso, con un’evidenza brutale e assillante. A casa, in poltrona, rivedeva d’un tratto se stesso sullo sgabello di un bar miserabile, nella stazione di una città straniera. Aveva di nuovo in bocca il sapore cattivo del caffè che gli era stato servito, di nuovo considerava con sospetto l’involucro unticcio del dolciume al quale si era rassegnato. Sapeva di non avere scelta: scartava il cibo, lo mangiava, beveva il caffè, infine pagava il dovuto a un barista dal ghigno prevedibile e stanco. Oppure era ancora all’estero, nell’androne smisurato di un museo nel quale era entrato di corsa, mentre fuori infuriava il temporale. Sentiva di su di sé lo sguardo diffidente dei custodi, convinti di essere alla prese con uno di quelli che entrano solo quando c’è da scampare a un acquazzone. Il museo era invece la meta del suo viaggio, ma G. non aveva le parole per dirlo e, se anche le avesse avute, gli altri non gli avrebbero creduto. Una coda in farmacia, la scala mobile in un aeroporto, il foglio che scivola di mano 189


e costringe un passante a fermarsi per recuperarlo dal marciapiede. Di momenti come questi G. ricordava tutto, con una precisione che gli appariva sempre più dolorosa. Quanti altri istanti della sua vita erano andati perduti, si domandava. Quanti frammenti di se stesso aveva lasciato per il mondo senza che nessuno se ne accorgesse, senza che nessuno si desse il disturbo di diffidare di lui o di chinarsi per terra e dire: Ecco, questo ti appartiene, non dimenticarlo. 10 Della serata in cui aveva conosciuto A. un solo particolare sfuggiva alla memoria di G.: il colore del vestito di lei. Le era stato prestato da un’amica, avrebbe scoperto più tardi G., e per questo non c’era più stata occasione che lei lo indossasse. Era un vestito semplice, che lasciava scoperte le braccia e segnava con discrezione la curva dei fianchi. Neppure A. ricordava più la sfumatura esatta. Pervinca, forse, o forse un celeste inquieto, più cupo del solito, quasi crepuscolare. Era già buio, quando si erano incontrati. Era il buio, adesso, a renderli un po’ daltonici. Con A. avevano riso spesso di questa mancanza, di questa circostanza che introduceva un alone di incertezza nel mezzogiorno glorioso del loro amore. Morta A., per G. quella del colore perduto era diventata un’ossessione. Aveva recuperato da un cassetto una scatola di pastelli, di quelli che a passarci sopra un pennello inumidito si sciolgono nella morbidezza dell’acquerello. Spesso, la sera, sedeva alla scrivania, sgombrata da ogni altro oggetto, e vi disponeva i pastelli, il pennello, la bacinella d’acqua e dieci cartoncini bianchi. Aveva conosciuto A. il decimo giorno di ottobre, non voleva concedersi un tentativo di più, né uno di meno, di quelli che il destino gli aveva donato allora. L’esperimento si ripeteva sempre uguale: sceglieva il colore che al momento gli pareva più adatto, ne spandeva la traccia al centro del cartoncino e provava ad alleggerirlo o caricarlo, come gli pareva opportuno. L’acqua, il pennello e il tentativo di far combaciare il risultato con il ricordo che temeva di avere smarrito. Mentre invece (questo lo aveva compreso presto) era proprio il più tenace dei suoi ricordi, conservato in modo tanto 190


geloso da rimanere sigillato nella memoria. Motivo per cui l’esperimento falliva sempre, anche se, adoperato anche l’ultimo cartoncino, G. riprovava da capo, variando la luce della lampada, illudendosi che dalla penombra gli venisse incontro la macchia di colore alla quale A. si era consegnata quella sera per lui, per sempre.

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Bell’aroma di cripta. Nessuno ha coscienza di nascere prima di nascere, ma una volta nato e certissimo di morire. Nonostante tale certezza, spesso si muore mentre non ci si pensa. Addirittura si muore prima di quanto ci si attende. Se questa dipartita non e volontaria (suicidio), allora e involontaria (morte naturale, accidentale, omicidio da parte di terzi). E di esempi di involontarietà della dipartita ce ne sono a bizzeffe, tanti quanti sono i nonsuicidi. A cominciare dall’eccellente esempio di Hrabal che inaugura questa tenebrosa ma sardonica collezione di fleurs du mal. Tra loro s’infiltra un caso “fuori luogo”: una morte letteraria volontaria. Non sara difficile individuarla anche se, lo confesso, ho dubbi sul fatto che anche altre non lo siano. Nessun dubbio invece sul bell’odore di cripta che si solleva da queste noterelle. Già lo annuso: il medesimo di quando incontro un amico che lavora come necroforo. Inequivocabile e sublime. Antonio Castronuovo

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Patrizia Barchi

NOVE MORTI LETTERARIE INVOLONTARIE E UNA VOLONTARIA

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Lo scrittore degli emarginati praghesi Bohumil Hrabal è morto a 82 anni cadendo da una finestra del quinto piano dell’ospedale di Praga il 3 febbraio 1997, mentre dava da mangiare ai piccioni. All’inizio degli anni Quaranta il poeta russo Daniil Charms esce di casa dicendo: “Vado a comprare le sigarette”, e nessuno lo vede più. Il giorno di Natale del 1956, nei dintorni di Herisau, lo scrittore svizzero Robert Walser, per propria volontà stabilmente in manicomio da trent’anni, è trovato morto nella neve. Era uscito per una passeggiata solitaria. Il 4 gennaio 1960 il filosofo Albert Camus resta coinvolto in un incidente d’auto a bordo di una Facel Vega, guidata dal suo editore Michel Gallimard che ne perde il controllo a circa 140 km/h in pieno rettilineo, prima di schiantarsi contro un platano. Gallimard muore sul colpo, Camus viene dichiarato morto poco dopo. Il tragediografo antico Eschilo è morto sul colpo dopo essere stato urtato in testa da una tartaruga, lasciata cadere da un’aquila che, scambiata forse la testa calva di Eschilo per una pietra, sperava di rompere il guscio della tartaruga per poterla mangiare. Alle quattro del pomeriggio dell’8 febbraio 1837 il poeta russo Aleksandr Sergeevič Puškin viene ferito mortalmente in un duello d’amore dal barone D’Anthes. Puškin sparò al cuore del barone, ma colpì un bottone della sua divisa. D’Anthes, invece, colpi Puškin all’addome, causando una setticemia che lo portò alla morte dopo due giorni. Lo scrittore noir Edgar Allan Poe muore senza dare spiegazione il 7 ottobre 1849 per le strade di Baltimora, dopo aver girovagato per quattro giorni in gravi condizioni e con vestiti non suoi. Il padre del pirata Sandokan, Emilio Salgari, si uccide la mattina del 25 aprile 1911 nel bosco torinese di Val San Martino, squarciandosi la gola e il ventre con un rasoio. Il commediografo francese Jean-Baptiste Poquelin detto Molière, muore improvvisamente in scena il 17 febbraio 1673, mentre sta recitando la sua celebre commedia Il malato immaginario. Lo scrittore praghese Jaroslav Hašek, ritrovatosi contro molti editori cechi, si deprime e diventa obeso. Smette di scrivere e detta i suoi romanzi direttamente dalla sua camera da letto nel villaggio boemo di Lipnice, dove muore inaspettatamente il 3 gennaio 1923. 197


BIOGRAFIE

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Antonio Serventi Tacete (Parma, 1970) si è laureato in Conservazione dei Beni Culturali con tesi sul pittore settecentesco Giovanni Paolo Panini. Si considera l’incarnazione del poeta francese Robert Desnos e ha pubblicato i seguenti libri: La casa di Stendhal Il pozzo medievale La città dei formaggiai e il bambolone nano La bibbia dei topi Il formichiere elettronico L’invasione delle cavallette. Alipio Santos (Cairo Montenotte, 1960) è autore di parole, opere, ma soprattutto omissioni. Ha i cassetti pieni di romanzi, per cui pubblica, quando gli capita, calzini spaiati, a volte con una cimice dentro. Gli sono scappate fuori le introduzioni a Lo scontrino di Ponge (2013) e Dormo un’orata (2014) di Jacopo Felix Narros per le edizioni FUOCOfuochino, ma lui è contento perché ora, dice, ha posto per delle nuove bretelle, o per un paio di fazzoletti in più. Uber Tosi è nato a Porto Marghera nel 1967. Si è laureato presso la Facoltà di Scienze Sociali all’Università di Venezia con la tesi I vecchi siamo noi sulle condizioni socio-sanitarie delle case protette in Basilicata. Sei mesi trascorsi come volontario in un ospizio di Marmigliano gli hanno consentito di raccogliere testimonianze di vita degli anziani (Ebe ne è un estratto) che vorrebbe pubblicare ma nessuna casa editrice lo prende in considerazione. Attualmente lavora come cameriere in un ristorante di Partirolo e vive a Torvara. Lamberto Pignotti (Firenze, 1926) è stato fondatore con altri poeti, pittori, musicisti e studiosi del Gruppo ‘70 e ha partecipato anche alla nascita del Gruppo ‘63. Insieme a Eugenio Miccini, è considerato uno dei padri della Poesia visiva italiana. Ha collaborato a Paese Sera, La Nazione, L’Unità, Rinascita, a programmi culturali della RAI, oltre che

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a riviste italiane e straniere. Negli anni sessanta si occupa delle intersezioni tra poesia sperimentale, arte visiva e mass media. Nel 1968 si trasferisce a Roma e dal 1971 al 1996 ha portato avanti dei corsi sugli svariati rapporti fra avanguardie, massmedia e new-media, prima come professore alla Facoltà di Architettura di Firenze e poi al DAMS della Facoltà di Lettere di Bologna. Ha pubblicato libri di poesia, narrazione, saggistica, antologie, poesia visiva con Mondadori, Lerici, Einaudi, Marsilio, Guaraldi, Sampietro, Vallecchi, Carucci, Campanotto, Empiria, Morra, Manni. Vive a Roma. Frediano Sessi (Torviscosa, Udine 1949) vive e lavora a Mantova. Dal 2001 è docente a contratto di Sociologia presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Brescia; dal 2003 al 2013 è stato direttore generale della Fondazione Università di Mantova; è docente nel Master di II livello di Didattica della Shoah, dell’Università di Roma3. È consulente e autore della casa editrice Marsilio presso la quale, ha diretto dal 1994 al 2011 la collana “Gli specchi della memoria”. Collabora con la casa editrice Einaudi, per la parte di memorialistica e di studi sulla deportazione, il nazismo e il fascismo. È membro del Comitato scientifico della rivista della Fondation Auschwitz di Bruxelles “Témoigner entre histoire e memoire”. Tra i più recenti saggi tradotti all’estero: Primo Levi: entre témoignage et “fiction” à la télévision italienne” in Philippe Mesnard et Yannis Thanassekos, Primo Levi à l’oeuvre, (ed. Kimé, Paris 2008); Auschwitz 1940-1945, (Ed. Kimé, Paris 2014). Tra i suoi romanzi: L’ultimo giorno (Marsilio, 1995) - Premio Hemingway 1996; Alba di nebbia, (Marsilio 1998); Nome di battaglia diavolo (Marsilio 2000); Prigionieri della memoria (Marsilio 2006). Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi e saggi per ragazzi: Sotto il cielo d’Europa, ragazze e ragazzi prigionieri dei lager e dei ghetti (Einaudi ragazzi, dicembre 1998, sesta edizione 2007); L’isola di Rab, (Mondadori 2001, seconda ed. 2005); Prigioniera della storia, (Ed. E.Elle 2005); Il mio nome è Anne Frank, (Einaudi ragazzi 2010). Tra le opere saggistiche: Foibe Rosse. Vita di Norma Cossetto uccisa in Istria nel ‘43 (Marsilio 2007); Primo Levi, l’uomo, il testimone, lo scrittore (Einaudi ragazzi 2013); Mano Nera. Esperimenti medici e resistenza nei lager nazisti (Marsilio 2014). Ha curato inoltre, tra gli altri, Anne Frank, Diari, edizione critica, (Einaudi 2002). Con Carlo Saletti ha scritto Visitare Auschwitz (Marsilio 2011), la prima guida in Europa del sistema concentrazionario di Auschwitz. Con Enzo Collotti e Renato Sandri ha curato il Dizionario della Resistenza (Einaudi 2001).

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Lisa Biggi nasce a Reggio Emilia nel 1975. Vive a Milano dove lavora in una scuola superiore, ma prima si laurea in Stregoneria presso la Facoltà di Filosofia all’Università a Pavia. Non a caso pubblica il libro illustrato “Il Babau” (Nero Press, 2013), si dice anche che abbia un gatto e una scopa. Scrive racconti e poesie “I pompieri non escono per le donne in lacrime” (Bébert, 2014), “Liquida” (Lettere Animate, 2014) “Cyclette” (Tapirulan, 2007), “Res” (Tapirulan, 2008) e collabora con diverse riviste letterarie. Scrive inoltre storie per bambini, ma è meglio non fidarsi. Roberto Freak Antoni (Bologna, 16 aprile 1954 – Bentivoglio, 12 febbraio 2014) si è laureato nel 1978 all’Università di Bologna (DAMS), facoltà di Lettere e Filosofia, discutendo una tesi sui Beatles con lo scrittore e docente Gianni Celati. Leader degli Skiantos, ha creato anche le formazioni Astro Vitelli, Beppe Starnazza e i Vortici, i Ruvidi del Liscio, i Rotolones, gli Avanzi di Balera, i Pollok. Ha pubblicato quattro libri con Feltrinelli, Stagioni del Rock Demenziale. Archeologia fantastica di modelli rock, (1981), Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti (seguirà il dibattito), (1991), Vademecum per giovani artisti, (1993), Per sopravvivere alla tossicodipendenza: manuale di prevenzione, (1994). Tra gli altri libri pubblicati: Badilate di cultura, Sperling & Kupfer (1995), Mia figlia vuole sposare uno dei Lunapòp (non importa quale). Indagine su di un gruppo al di sotto di ogni sospetto, Arcana (2001), Non c’è gusto in Italia ad essere dementi (ma noi continuiamo a provarci lo stesso), Pendragon (2005). Nel 2001 è stato nominato Ministro Fluttuante dell’Istituto Patafisico Vitellianense. È stato attore in diversi film tra i quali Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1996) diretto da Enza Negroni, Cavedagne (2003) di Bernardo Bolognesi e Francesco Merini e Paz! (2002) diretto da Renato De Maria. La sua partecipazione a quest’ultimo è legata alla sua amicizia con Andrea Pazienza, che lo ha anche fatto comparire in alcune sue storie a fumetti. Nel 2004 ha pubblicato il CD, Ironikontemporaneo, realizzato insieme alla pianista Alessandra Mostacci. L’ultimo progetto musicale è la Freak Flag Band, nata a settembre del 2013. Otello Sarzi (1922-2001). Tre volte impiccato, porta il busto per sette anni, nel ’37 evaqua sotto la torre di San Martino in Rio, consiglia di leggere, almeno una volta nella vita Il rospo di Hugo, sono concordi con lui… Fazolin, Sandron, Brighella e la Polonia…

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Mario Benatti è nato tanti anni fa a Mantovanella, tre chilometri fuori Mantova, città dove attualmente vive. Ha scritto alcuni libri sui santi, in particolare su quelli cristianamente attivi nel settore della sanità e dell’assistenza sanitaria. Sue sono due singolari pubblicazioni di aforismi: Pensieri dal cuoio capelluto (2008) e Pensieri dai capelli (2013) con il seguito di Riccioli (2014). Ha dato alle stampe parecchie raccolte di poesie, da Poesia piccola del 1961 a Due parole del 2009. È presente in riviste e antologie poetiche. Una antologia delle sue poesie è stata pubblicata nel 2011 con il titolo Poesie nel tempo. È stato di recente tradotto in romeno (Poezii asfinţit). A sua volta ha tradotto in italiano due pubblicazioni del poeta tedesco Hanns Cibulka (Rondini lucenti, Le vite). Roberto Bussola, detto Bob quello là, è uno che è nato a Verona nel ‘70 e già di questo se ne vergogna un po’. È uno che a volte gli succedon delle cose. In un suo appunto del 10 ottobre del 2013, si legge “ahperfortuna che poi non ci sono mica andato stamane fino a Stoccolma a ritirare il Nobel per la letteratura: alla fine ho saputo che l’han dato ad una altra persona”, mentre tre giorni prima invece scriveva “con quel che ho pagato la settimana scorsa di TARES, quando ieri sera ho buttato la spazzatura, m’è venuto l’impulso di entrare nel cassonetto e trascorrerci la notte dentro”. Fabio Fumagalli è nato nel 1984 in quella che fu la verde e prospera Brianza. Convive con chi lo sopporta nella caotica Milano, dove lavora come redattore in uno studio editoriale. Ha collaborato con la rivista digitale PreTesti. Tradimento è il primo figlio, di quel magma informe che è la sua immaginazione, a vedere la luce. Guido Virginio Villa è nato nel 1984 nella Brianza lecchese. Ha pensato in passato di vivere di scrittura, tentando la carriera giornalistica. Ma l’ha trovata amara. E l’ha ingiuriata. Ora che, dopo anni, tutto il suo fardello è deposto, si dedica all’incubo potente e continuo della vita. Ben riconoscendo tra le sue assurdità un’aria di coerenza e di quasi naturalezza. Luca Ferrari (Cremona, 1963) ha scritto e tradotto libri su musicisti rock e folk come Third Ear Band, Robyn Hitchcock, Captain Beefheart, Tim Buckley, Nick Drake, Syd Barrett e Pink Floyd per le maggiori case editrici del Paese. Ha collaborato con le riviste Ciao 2001, Rockerilla, L’Ultimo Buscadero, Vinile, Mjuzik, Folk Bulletin. Negli anni Ottanta ha curato il management in Italia del gruppo-culto inglese Third Ear

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Band. Non twitta, non ha un profilo di Facebook, non ama i cosiddetti social network. Ha solo un sito Internet all’indirizzo http://la-dea-bicefala.webnode.it/ su cui scrive idee, vaniloqui, polemiche su musica, arte, letteratura, politica. Federico Centenari nasce nel 1973 a Cremona. Riesce a sbagliare sistematicamente tutti gli studi imbarcandosi in scuole e università per le quali non nutre il minimo interesse. Trascorre questi anni sfogandosi su una chitarra e buttando giù pensieri disordinati. Giornalista più per caso che per passione, lavora a Cremona riuscendo, anche qui, a sbagliare metodicamente e ripetutamente posti di lavoro. Un giorno scrive un romanzo, lo manda al Premio Calvino e non vince niente. Però viene segnalato. Cosa significhi, ancora deve capirlo. Nel frattempo si dedica ai racconti. Li scrive, li sistema, li riscrive, li sistema di nuovo poi li ripone in un cassetto. Sistematicamente. Vive tuttora a Cremona. E ancora non riesce a farsene una ragione. Daniele Zinni (1986) è redattore e traduttore per la rivista online Dude Mag. Suoi racconti e traduzioni sono usciti su riviste e siti come Nuova Tèchne, Lapisvedese, Crampi Sportivi, 404 File not Found e Nuovi Argomenti. Alberto Bertoni (Modena 1955) è autore – in poesia – dei libri Lettere stagionali (1996), Tatì (1999), Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000 (2000), Le cose dopo (2003), Ho visto perdere Varenne (2006), Ricordi di Alzheimer (2008), Il letto vuoto (2012) e Traversate (2014). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, russo e ceco, mentre in spagnolo ha pubblicato l’antologia El guardián del lugar (2012). Professore di Letteratura italiana contemporanea e di Prosa e generi narrativi del Novecento all’Università di Bologna, dirige per Book Editore le collane di poesia “Fuoricasa” e “Quaderni di Fuoricasa”. Dal 2008 al 2010 – insieme con Biancamaria Frabotta – ha curato il Diario critico dell’Almanacco dello Specchio Mondadori. È autore e curatore – in saggistica – di articoli e libri, tra cui i Taccuini 1915-1921 di F.T. Marinetti (1987), Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano (1995, Premio Russo e Premio Croce 1996), La poesia come si legge e come si scrive (2006), il “Meridiano” dei Romanzi di Alberto Bevilacqua (2010), La poesia contemporanea (2012) e Montale, in conclusione (2014). È autore – con Gian Mario Anselmi – del saggio dedicato alla letteratura dell’Emilia e della Romagna nella Letteratura italiana Einaudi curata da Alberto Asor Rosa (1989).

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Zena Roncada è un’insegnante. Vive a Sermide, uno degli ultimi paesi del mantovano, a ridosso del Po. È autrice di diversi testi per la scuola, pubblicati dalla casa Editrice SEI di Torino. Si occupa, con saggi e corsi d’aggiornamento, di semiotica, linguistica e didattica dell’italiano. Da più di dieci anni affida la sua scrittura ad un blog, con il nickname di Colfavoredellenebbie. Qui ‘ferma’ le storie che raccontano la sua terra e la sua gente, nel presente e nel passato. Alcuni di questi racconti sono confluiti nel volume Margini, per i tipi di Pentagora, nel 2013, altri ancora sono stati accolti nei siti www.feaciedizioni.it, www.orasesta.it e circolano su riviste cartacee e online. Prima di nascere Adrián N. Bravi avrebbe voluto essere Paolo Albani, il Console Magnifico dell’Istituto Patafisico Vitellianense, ma qualcuno gli ha detto che non c’era posto per essere Paolo Albani, perché c’era già un Paolo Albani e di Paolo Albani ce ne poteva essere solo uno; l’unico posto disponibile, gli hanno detto ad Adrián N. Bravi, stava laggiù in Argentina, a Buenos Aires, in una vecchia casa accanto al fiume Luján, che tra l’altro si inondava sempre, e lui, Adrián N. Bravi, ha detto che se non c’era di meglio lo prendeva lo stesso quel posto. Dunque, con un po’ di dispiacere è nato in quella casa e dopo vari spostamenti per la città di Buenos Aires (si dice che durante la guerra tra l’Argentina e l’Inghilterra, la Thatcher e tutta la corte londinese temesse che lui scendesse in trincea) si è trasferito in Italia, a Recanati. Adesso fa il bibliotecario e ogni tanto scrive qualche libro. In Argentina ne ha scritto uno, in lingua spagnola; gli altri sono usciti in Italia, quasi tutti con l’editore Nottetempo, a parte uno con Fernandel, un altro con l’editore EUM e un altro con Feltrinelli. L’ultimo, del 2015, si chiama L’inondazione (edito da Nottetempo). Alessandro Zaccuri è nato a La Spezia nel 1963. Vive a Milano. I suoi romanzi, tutti editi da Mondadori, sono Il signor figlio (2007, premio Selezione Campiello), Infinita notte (2009) e Dopo il miracolo (2012, premi Frignano e Basilicata). Anche per mestiere scrive e legge. Potendo, leggerebbe di più e scriverebbe di meno. Patrizia Barchi insegna italiano in una scuola di Prato. Si interessa di tutto ciò che e inesistente. È Stimata e Corrispondente Reale del Collage de ‘Pataphysique, socia dell’Accademia dei Nullisti e Direttrice della Scuola Elementare per diventare Malati di Mente (ScEMM). Ha pubblicato diverse righe su Tèchne, Cortocircuito, Il Caffè Illustrato, Il Quaderno di Patafisica, Psicologia Cacopedica e un disegno (un Munch

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visto a rovescio) sull’Accalappiacani. Su Tysm.org ha curato le sezioni Note Quasi Azzurre e Diagnosi Letterarie. Lucia Pescador è nata a Voghera il 9 febbraio 1943. Diplomata all’Accademia di Brera a Milano, dove poi ha insegnato al Liceo Artistico, ha privilegiato da sempre il disegno, lavorando su tematiche legate alla natura, alla cultura e all’arte. Inizia ad esporre nel 1965. Negli Anni ’70 e ’80 partecipa al gruppo Metamorfosi lavorando accanto alle colleghe Benedini, Bonelli e Sterlocchi. Espone le opere degli Anni ’80 nella mostra milanese Una nave per Kazimir al Refettorio delle Stelline nel 1992 (a cura di Lea Vergine). Negli Anni ’90 inizia la raccolta di immagini e catalogazioni per voci sull’arte e sulla cultura del XX secolo dal titolo Inventario del Novecento con la mano sinistra, che prosegue oltre il 2000. I lavori Nero Giappone e Giallo Cina sono allestiti da Corraini a Mantova nel 2003. La mostra Ambulanti tra Occidente e Oriente parte da Milano per arrivare a Mumbay nel 2006 e Shangai nel 2007. Del 2010 è invece il progetto Wundernachtkammer allestito in una stanza dell’ala napoleonica di Palazzo Te a Mantova (testi di Gabriella Belli). Del 2011 è la Wundernachtkammer Sogno Smarrito per il Museo del Carate di Ivrea (a cura di Lorena Giuranna). Ha realizzato le tavole di questo libro. Vive e lavora a Milano. Elena Pontiggia (Milano, 1955) insegna Storia dell’arte all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano. Dal 2011 scrive su La Stampa. Si occupa in particolare dell’arte italiana e internazionale tra le due guerre e del rapporto tra modernità e classicità. Si interessa agli scritti di poetica, pubblicando i principali testi teorici degli artisti da Cézanne e dalle avanguardie a Pollock. Ha fatto parte fino al 1993 del Comitato Scientifico del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e dal 2002 al 2006 del Consiglio d’amministrazione della Quadriennale di Roma. Tra le mostre, al P.A.C. di Milano, ha organizzato Sironi. Il mito dell’architettura (con A. Sironi e F. Benzi), nel 1990 e Persico e gli artisti nel 1997. Per la Fondazione Stelline di Milano ha organizzato le mostre Arturo Martini (con C. Gian Ferrari e L. Velani) nel 2006 e Stupore nello sguardo. La fortuna di Rousseau in Italia da Soffici e Carrà a Breviglieri nel 2011. Per Abscondita ha pubblicato Edward Hopper. Scritti, interviste, testimonianze, (2000), La Nuova Oggettività Tedesca (2002), Il Novecento Italiano (2003), Il ritorno all’ordine (2005), Il movimento di corrente (2012), Christian Schad (2015). Ha inoltre pubblicato La grande Quadriennale. 1935: la svolta dell’arte italiana (con C. F. Carli, Electa, Milano, 2006), Modernità e classicità. Il ritorno

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all’ordine in Europa dal dopoguerra agli anni trenta (Bruno Mondadori, Milano, 2008) e Mario Sironi. La grandezza dell’arte, le tragedie della storia (Johan & Levi, Milano, 2015). Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla quarta raccolta (2016). Gianluigi Toccafondo (San Marino, 1965) nel 1985 si è diplomato presso l’Istituto d’Arte di Urbino. Nel 1989 ha realizzato il suo primo cortometraggio premiato al Festival di Lucca (1990). Ha creato le sigle di programmi televisivi Tunnel, Carosello, Almanacco delle profezie e per la 56ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, sono suoi gli spot pubblicitari per Sambuca Molinari, Avanzi e Fandango. Ha diretto i cortometraggi La piccola Russia (2004) con cui ha vinto premi e candidature internazionali e Essere morti o essere vivi è la stessa cosa (2000). È stato aiuto regista per il film Gomorra di Matteo Garrone. Come illustratore ha lavorato per Einaudi, Feltrinelli, Mondadori, Fandango, Scott Free e altre case editrici. Ha collaborato con le riviste Linea d’ombra, Lo Straniero e Abitare. Ha esposto i suoi lavori in Italia a Parigi e Tokio. Nel 2010 ha realizzato le tavole per la prima raccolta di FUOCOfuochino. Gino Ruozzi (1958) insegna letteratura italiana all’Università di Bologna. I suoi studi sono in particolare rivolti alla tradizione italiana ed europea delle forme brevi: aforismi, pensieri, massime, epigrammi, favole, apologhi, bestiari, facezie, dal Medioevo al Novecento. Ha curato i volumi Pensieri diversi di Francesco Algarotti (Milano, Angeli, 1987); Facezie e dialogo de la partita soa di Ludovico Carbone (Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1989); Scrittori italiani di aforismi (2 volumi, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1994-1996); Epigrammi italiani (Torino, Einaudi, 2001); Favole, apologhi e bestiari (Milano, Rizzoli Bur, 2007). Ha pubblicato le monografie Ennio Flaiano, una verità personale (Roma, Carocci, 2012) e Quasi scherzando. Percorsi del settecento letterario da Algarotti a Casanova (Roma, Carocci, 2012). Ha scritto la premessa alla prima raccolta di FUOCOfuochino (2010). Guido Scarabottolo (Sesto San Giovanni, 1947), laureato in architettura presso il Politecnico di Milano, nel 1973 è entrato a far parte dello studio Arcoquattro che si occupa di architettura e comunicazione visiva in ambito editoriale e pubblicitario. Grafico e illustratore ha lavorato per tutti gli editori italiani, la RAI, le principali agenzie di pubblictà e le maggiori aziende nazionali; ha collaborazioni in Giappone e negli Stati Uniti. Negli ultimi dodici anni ha progettato tutte le copertine di

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Guanda illustrandone gran parte. Designer per diletto, di tanto in tanto realizza mobili e oggetti. Ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 2 (2012). Ernesto Ferrero, torinese, ha lavorato a lungo nell’editoria, dove è stato direttore editoriale di Einaudi e Garzanti e direttore letterario di Mandadori. Dal 1998 è direttore del Salone del libro di Torino. Tra i suoi romanzi N. (Premio Strega, 2000), L’anno dell’indiano, Disegnare il vento (Premio Selezione Campiello, 2011) e Storia di Quirina, di una talpa e di un orto di montagna, tutti presso Einaudi. All’età dell’Impero ha dedicato anche le Lezioni napoleoniche (Mondadori, 2002, 2014), il monologo teatrale Elisa (Sellerio, 2002), il saggio Napoleone e i libri (Edizioni Henry Beyle, Milano, 2015). È anche autore del libro di memorie einaudiane I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2005). Tra i suoi saggi si ricordano anche Primo Levi. La vita le opere (Einaudi, 2007) e La luna del Manzoni e altre storie di grano saraceno (Nodo Libri, Como, 2009). Traduttore di Flaubert, Céline e Perec, per i bambini ha scritto L’Ottavo Nano (Battello a vapore) e Il giovane Napoleone (Gallucci). Collabora a “La Stampa”, “Corriere della Sera” e “Il Sole 24 Ore”, ed è presidente del Centro Internazionale di studi Primo Levi di Torino. Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla seconda raccolta (2012). Ugo Nespolo è nato a Mosso di Vercelli nel 1941. Una infinità di cataloghi, libri e libricini sono il suo corredo. Ha esposto in tutto il pianeta, sul lato chiaro della Luna e sul secondo anello di Saturno. Ha viaggiato su satelliti naturali e artificiali; il suo spirito arte-vita lo ha portato a divulgare l’Ordre de la Grande Gidouille presso tutti gli abitanti del suo condominio. Chissà perché, invitato a Pomponesco e a Casalmaggiore, non è mai pervenuto. È Faraone e Ministro dell’Etoile d’Or. Per FUOCOfuochino ha pubblicato Faraone Totale e Cru & Crudo, entrambi nel 2010 e nel 2014 ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 3. Andrea Cortellessa è nato a Roma nel 1968. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre. Tra i suoi libri Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella prima guerra mondiale (Bruno Mondadori (1998) e La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi (Fazi, 2006). Il suo ultimo libro è Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi (Exòrma, 2016); insieme a Marco Belpoliti ha curato il numero di «Riga» dedicato a Gof-

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fredo Parise (Marcos y Marcos, 2016). Con Luca Archibugi, nel 2010 ha realizzato per RaiCinema il documentario Senza scrittori. Per Giancarlo Cauteruccio ha curato le drammaturgie di Canti Orfici. Visioni (da Dino Campana, Teatro Studio di Scandicci, 2014) e di Tre movimenti di luce (da Dante, Maggio musicale fiorentino, 2015), Per Bompiani, Adelphi, Garzanti, Le lettere e Feltrinelli ha curato testi di Giorgio De Chirico, Giorgio manganelli, Elio Pagliarani, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli e Luigi Di Ruscio. Per L’Orma editore dirige la collana di testi italiani contemporanei fuori formato. Collabora a «Doppiozero», a «Tuttolibri» e altre testate. È nella redazione della rivista «alfabeta2» e «il Verri» e collabora ai programmi culturali di RAI-Radio Tre. Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla terza raccolta (2014). Giuliano Della Casa è nato a Modena nel 1942. Cresce nell’Emilia di Spatola, Ghirri, Parmiggiani, e quella rete aperta e vivacissima di scrittori, musicisti, artisti visivi segna la sua formazione accanto alle Scuole d’Arte. Si afferma presto come pittore, dalla prima personale a Modena nel 1966 espone i suoi acquarelli in Italia e nel mondo, fino a considerare la California una seconda casa. Illustra monumenti letterari per i Millenni Einaudi come La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (2001) e Gargantua e Pantagruel di Rabelais (2004), realizza copertine, lavora con scrittori e poeti alla concezione di opere che intrecciano parole e immagini, disegna bozzetti di scena per il teatro. È Sultano Protocalligrafo per l’Istituto Patafisico Vitellianense. Nel 2016 ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 4. Patrizia Maddalena Giacomina Sardo Marras nonostante le apparenze non vanta nobili origini. Nasce ad Alghero, paese di mare e di maestrale, nel 1963. Sin da quando aveva 14 anni si accompagna ad Antonio Marras con cui condivide da sempre gioia e dolori. Sebbene appassionata di viaggi, vela, equitazione, cinema, arte contemporanea e letteratura, dedica tutta la sua vita alla Moda alla quale si sente debitrice. Dice sempre che i vestiti le hanno salvato la vita. Mai senza rossetto e senza Pier Ives, il suo jack russel. Ha scritto la premessa di questo libro.

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CATALOGO

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1. SILVANO FREDDI, I vampiri

25. LUCETTA BIASCIN, Via Trucis

2. IHLL BIHTO, Euforismi. Pensieri transitori

26. SANDRO MONTALTO, Un grosso apostrofo

3. LORENZA AMADASI, Omaggio a un bottone. Per tutti i bottoni

27. ANTONIO CASTRONUOVO, Versi tossici

4. TANIA LORANDI, L’ottaedro regolare? Omaggio a Ibicrate il Geometra, padre delle lunule

28. PAOLO COLAGRANDE, C’era un mio amico 29. ANONIMO, Brusio di banane

5. AFRO SOMENZARI, Brevissimi. Quattro racconti

30. MAX BLUE BERNI, Intervista a Günter Grass

6. ROBERTO BARBOLINI, Grand tour 7. VIRGINIA MERISI, Il signor Cirillo

31. PAOLO COLAGRANDE, Non basta camminare

8. GUIDO CONTI, Mia mamma fuma il sigaro

32. MARIO ALDOVINI, Una voce così 33. CAMILLO CUNEO, Star-falcioni

9. GIANNI CELATI, Ma come dicono di vivere così

34. ARMANDO ADOLGISO, Contraccettivi letterari (Parte prima)

10. GIUSEPPE PEDERIALI, Una fola della Bassa

35. MIKLOS N. VARGA, Momenti 36. ARMANDO ADOLGISO, Contraccettivi letterari (Parte seconda)

11. UGO NESPOLO, Faraone Totale 12. PAOLO ALBANI, Manualetto pratico ad uso di coloro che vogliono imparare a scrivere il meno possibile

37. ROBERTO BARBOLINI, La vigna di Salomone

13. VIRGINIA MERISI, L’incidente

38. CAMILLO CUNEO, Cercasi

14. AFRO SOMENZARI, Spogliatoio per nudisti

39. MIKLOS N. VARGA, Aforismi a fondo perduto

15. ANTOINE NAVILLE, P. Pensieri sulla poesia e sui poeti

40. GIOVANNI MACCARI, Lo sputo che cade

16. BRUNELLA ERULI, Aesopiana. Situazioni transitorie di animali tautogrammatici

41. CRISTIANA MINELLI, Pacco di Natale 42. LORENZA AMADASI, Per sentito dire

17. ALBERTO CASJRAGHY, Fuochy inqujeti

43. MAURIZIO MAGGIANI, Implorazione di Settembre che viene ad Agosto che va

18. CAMILLO CUNEO, Caviale allo spiedo

44. PUPI AVATI, Diario di un bimbo

19. VITTORIO ORSENIGO, Incidenti quasi mortali

45. FRANCESCA BONAFINI, La stanza 46. MARIO ALDOVINI, La saga degli istrici

20. ANTOINE NAVILLE, Piss Italia 21. MARZIO SERGIO BINI, Dal dentista

47. MASSIMO GATTA, Per una metafisica portatile del lavare i piatti a mani nude

22. ALEX MASSIGLI, Silenzio assenzio 23. FRANZ TANK, Siate gentili coi refusi

48. DIEGO ROSA, Ode

24. UGO NESPOLO, Cru e crudo

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49. ROBERTO BARBOLINI, Dieci comandamenti per l’uso personale della bellezza

74. MIRKO CALIFONDI, Ho un senso 75. PAOLO ALBANI, Spiritello cattivo

50. PAOLO ALBANI, Dal buco della letteratura

76. ELENA FANTASIA, Game over

51. CAMILLO CUNEO, Vendesi / Affittasi

78. GIORGIO BELLODI, Discorso alla Polacchia

77. VIRGINIA BOLDRINI, Specchi

52. CARLO BATTISTI, Vite segnate

79. JACOPO FELIX NARROS, Lo scontrino di Ponge

53. RENZO BUTAZZI, Bovi, pie donne e nonni

80. SARA RICCI, Vetrofanie

54. HANS TUZZI, Zizi Bambula

81. LIDIA BEDUSCHI, Gelo

55. RENZO BUTAZZI, Mario e il tempo

82. GUIDO OLDANI, I perdenti

56. GIANFRANCO MAMMI, Rimedi naturali

83. GIANFRANCO MAMMI, Il gatto Grappino e il suo padrone Stenelli

57. DANIELA MARCHESCHI, Fuoco

84. ISABEL FUREY, Il numero di Lancillotto

58. VIRGINIA BOLDRINI, La famiglia di Tiglio

85. JACOPO FELIX NARROS, Quindici vecchie

59. HANS TUZZI, Maribárbola e Nicola 60. ALDO GIANOLIO, Braciola 61. SIMONETTA GILIOLI, Burrocacao

86. GIACARLO BARONI, Uccelli improbabili

62. GIORDANO GALANTE, I bellerrimi

87. GABRIELE OSELINI, La via delle noci

63. VIRGINIA BOLDRINI, Storia di uno zerbino

88. MASSIMO GATTA, Il cappotto sdrucito di Marcel Proust e altri luoghi

64. ANTONIO CASTRONUOVO, Tredici epigrammi letteroidi

89. GUIDO DAVICO BONINO, Lettera a Giulio Einaudi

65. DON BACKY, I figli delle stelle

90. DINO BALDI, Il giardino

66. ALFREDO GIANOLIO, Elogio dell’ignoranza

91. PAOLO PERGOLA, Festeggiamenti

67. GIANFRANCO MAMMI, Transitalia, I pedaggi della penisola

92. CAMILLO CUNEO, Elogio del pompiere

68. VALERIO MAGRELLI, Quattro poesie scientifiche

93. PAOLO MACCARI, Ultimi atti 94. CRISTIANA MINELLI, Il maestro di linfa ed io

69. ANDREA SONCINI, Pausa pranzo al patibolo

95. JACOPO FELIX NARROS, Dormo un’orata

70. FRANCO NASI, Aspettando il verde, Diciassette semaforismi

96. TONY FICANTE, La 99

71. LINO DI LALLO, Aforismi artefatti

97. UMBERTO BELLINTANI, Nella notte di poca luna

72. ADAMO CALABRESE, Le maree al tempo di Carlo Magno

98. GIANFRANCO MAMMI, Questione di ore, secondi pensieri

73. SERGIO SOZI, Italia - Slovacchia 2 a 0

214


99. VALENTINA FORTICHIARI, La carretta del mare

123. DANIELE ZINNI, Il decalogo della libertà

100. ALFONSO LENTINI, L’alpino Samantha

124. ALBERTO BERTONI, Una conversazione sul Duomo di Modena

101. ANTONIO SERVENTI TACETE, Villa il nano

125. ELIA MALAGÒ, del disamore

102. ALIPIO SANTOS, Lecchiamo i manifesti

127. ADRIÁN N. BRAVI, Gli zoppicanti

103. UBER TOSI, Ebe 104. LAMBERTO PIGNOTTI, Se queste sono storie 105. FREDIANO SESSI, Nella. Una ragazza italiana nel campo di Ravensbrück

126. ZENA RONCADA, A vederlo così 128. ALESSANDRO ZACCURI, Le ricordanze 129. PATRIZIA BARCHI, Nove morti letterarie involontarie e una volontaria

106. LISA BIGGI, Ho il petto ripieno 107. ROBERTO FREAK ANTONI, Demenziale 108. GIANFRANCO MAMMI, Buoni propositi 109. OTELLO SARZI, Eventi esemplari 110. ROBERTO BARBOLINI, Alfabeto Morse 111. MARIO BENATTI, Inutile pensare un giorno 112. DON BACKY, Monologo 113. ROBERTO BOB BUSSOLA, Su 114. JACOPO FELIX NARROS, Tifosi teppisti 115. FABIO FUMAGALLI, Tradimento 116. DON BACKY, Risposta 117. MIKLOS N. VARGA, La minima Commedia. Omaggio a Dante Alighieri 118. GUIDO VIRGINIO VILLA, Calvario rosso 119. LUCA FERRARI, Finale 120. CAMILLO CUNEO, Il docente d’ignoranza 121. FEDERICO CENTENARI, Il saldo 122. ROBERTO BOB BUSSOLA, Ancora Su

215


Ove non citato, le prefazioni sono a cura dell’editore


INDICE

217


ANTONIO SERVENTI TACETE Villa il nano

12

ALIPIO SANTOS

Lecchiamo i manifesti

20

UBER TOSI

Ebe

28

LAMBERTO PIGNOTTI

Se queste sono storie

36

FREDIANO SESSI Nella

46

LISA BIGGI

58

Ho il petto ripieno

ROBERTO FREAK ANTONI Demenziale

66

OTELLO SARZI

Eventi esemplari

76

MARIO BENATTI

Inutile pensare un giorno

86

ROBERTO BOB BUSSOLA Su

96

FABIO FUMAGALLI Tradimento

104

GUIDO VIRGINIO VILLA

114

Calvario rosso

LUCA FERRARI Finale

122

FEDERICO CENTENARI

Il saldo

130

DANIELE ZINNI

Il decalogo della libertà

144

ALBERTO BERTONI

Una conversazione sul Duomo di Modena

150

ELIA MALAGÒ

Del disamore

158

ZENA RONCADA

A vederlo così

166

ADRIÁN N. BRAVI

Gli zoppicanti

176

ALESSANDRO ZACCURI

Le ricordanze

184

PATRIZIA BARCHI

Nove morti letterarie involontarie e una volontaria 196

Biografie 199 Catalogo 211 219


Siate gentili coi refusi

Finito di stampare nel novembre 2017 presso Arti Grafiche Castello - Viadana (MN)


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