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FUOCOfuochino La piĂš povera casa editrice del mondo

Ringraziamenti Famiglia Bini e tutti i collaboratori della Arti Grafiche Castello. Copyright Š FUOCOfuochino 2019

tavole di Alberto Casiraghy


C’era un tempo – abbastanza prossimo perché me ne possa ricordare ma abbastanza remoto perché tutto ciò che lo riguarda sappia di scomparso e di non presente – in cui la poesia era necessaria. Necessaria agli artisti, ai loro fiancheggiatori e amici, necessaria a chi volesse affacciarsi all’ariosa finestra spalancata sulle valli e i panorami illimitati del pensiero. I libri ci facevano compagnia, ovunque. Erano romanzi, racconti, saggi, narrazioni e poemi. Leopardi e Montale e Queneau e Calvino e Ariosto ci accompagnavano dall’alba al tramonto, dall’infanzia, per così dire, alla maturità piena. Non ce n’era mai abbastanza. Non ci sembrava nemmeno immaginabile l’immagine, o l’opera d’arte come si usava dire, lontana dalla parola, dal libro e dal verso. Complementi virtuosi, essi si intrecciavano flebili, continuamente, magari lontano dal clamore della cronaca, dal successo mediatico, dalle fanfare alla moda. Nessuno avrebbe pensato allora che un artista, un poeta, avrebbe dovuto far vibrare le casse di risonanza della società globale, stare in mezzo alle folle, alle cose, suonare continuamente pifferi all’incessante agonia del mondo e delle cose, alle rivoluzioni che non avvengono. L’arena, che ci sembrava premiante, consisteva piuttosto nell’esercizio, in quella costanza, in qualche misura riservata e protetta, che offriva il perfetto territorio di caccia, la partecipazione velata di distacco. Quando dico “ci” a cosa mi riferisco? alla generazione di mio padre e dei suoi amici “einaudiani”, per esempio, a Ludovico Terzi, Cesare Peverelli, Franco Lucentini ed Enrico Baj che quando io ero ragazzina o molto giovane proponevano affabili e seri modelli di vita e di pensiero. Exercitium. È a questo clima paziente e operoso che mi riconduce la ricerca di “FUOCOfuochino” in questo suo sesto volume. Parole, immagini, testi, poesie si avvicendano con una necessità reciproca e un ritmo divenuto desueto, oggi. I metamorfici e allegri personaggi di Alberto Casiraghy ci accompagnano in un mondo multicolore, di favole e di simboli, dove un certo spazio è riservato al piacere, alla leggerezza, a un ludus che, come conferma il testo di Baj pubblicato in queste pagine, è profondamente creativo e profondamente inattuale. Chi legge poesia oggi? chi si ferma ad ascoltare, chi prende un libro in mano? i miei allievi seguono le lezioni muniti solo di i-phone, sul quale prendono appunti, consultano siti, scaricano immagini, rispondono a messaggi whatsup, twittano dettagli e registrano la mia voce, il tutto in contemporanea; è difficile provare a ricondurli su un altro ritmo, com’è difficile proporre loro un incontro con immagini più delicate e meno invasive, più lente e discrete, non HD, non 3D e

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prive di colonna sonora che non sia il flusso soggettivo e bisbigliato dell’immaginazione veggente alimentata dal contatto con parole prospere, nate in un paese fertile. Il mondo è cambiato tantissimo ma FUOCOfuochino dà spazio e alimento a un adagio promettente, che ha ancora parecchio da dire alla dimensione contemporanea assediata da immagini obbligatorie, accelerate, eclatanti, tutto-pieno. Qui invece c’è spazio, silenzio, c’è poesia, verso, testo, patafisica, colore, storie e storielle, atmosfere, fiabe e saggistica; inviti, leggeri, alla riflessione. Potrei tentare una conclusione differente, invece torno a Baj con una minuscola nota autobiografica. Perché il mio rispetto per la poesia era tale che non avrei mai osato scriverne una finché proprio lui non mi costrinse a farlo per accompagnare il suo omaggio a una giovane anarchica argentina dal nome suggestivo, Soledad (Soledad Rosas, cui recentemente è stato dedicato un film di successo), suicida l’11 luglio 1998 a 24 anni mentre era ai domiciliari in attesa di giudizio. Enrico, forse, non ne sapeva moltissimo di quella ragazza, né avrebbe mai potuto immaginare il putiferio che negli ultimi anni è stato scatenato anche nel nome suo e del suo compagno “Baleno”, similmente suicida, in nome della resistenza allo sviluppo delle infrastrutture e delle istituzioni che si è incancrenita intorno al simbolo della TAV (per inciso sento il dovere di aggiungere quanto io sia contraria a questo “movimento” e quanto lo ritenga pretestuoso). Gli piaceva però l’immagine di Soledad, una fotografia che la ritraeva poco più che bambina, capelli cortissimi sulla fronte ostinata, gli occhi grandi, la bocca infantile. Una specie di piccola musa di un surrealismo ribellista e disperato, antagonista e immaturo. Se vivere, continuare a vivere, vuol dire anche ritornare sui propri passi e rivedere, mettere in discussione le certezze più altamente infiammabili, più riottose e, anche, irragionevoli, Soledad certo non ha vissuto abbastanza per farlo. Ci ha rinunciato, non ha voluto. Come, forse, altre giovani, artiste e no, che scelgono una marginalità immensamente sensibile alla causticità dell’esistenza concreta, che scelgono di spegnersi violentemente in mezzo alla giovinezza, forse, anche per l’insofferenza di gestire il cambiamento che la vita continuamente comporta; o forse, alle volte, vittime delle circostanze, dei casi delle cose. Questo, anche, questa specie di stupida, caparbia purezza e quasi insostenibilità del gioco compromissorio dell’esistere piaceva a Baj, che pure era così vitale e capace di exercitium e profondità; incarnava un ideale estetico e, certamente, un sottile struggimento, una

commozione per quella vita breve, non vissuta. Ne risultò il libro d’artista, realizzato in poche copie, di cui non si parla più – non è un caso: era un libro d’artista e un libro poetico, non un film o un’azione spettacolarizzata. Enrico fece solo qualche pagina nera, con nastri neri, come petali di fiori sgualciti, un nome in rosso sangue, rosso lacca, e a me chiese parole in versi. E così è stato. È stato, poi, ancora per me poeta clandestino e insufficiente, una seconda volta, per e con Giancarlo Sangregorio che invece voleva raccontare la sua utopia, il suo miraggio poetico e tenace delle pietre levitanti che abitano i boschi della Val d’Ossola, all’ombra delle montagne sintomatiche che avevano incorniciato la sua giovinezza e la sua vita di scultore. Penso più meditato del primo (per me), il libro che ne uscì è reso più bello dalle bellissime fotografie di Enrico Cattaneo, che hanno alleggerito i gravi tanto da farli volare, da renderli aerei e spumosi, come sogni, miraggi degli alberi e dell’aria. Perché sottrarre la scultura alla gravità, la materia al peso è ed è stato uno dei grandi sogni dell’arte plastica, talmente ricorrente che lo definirei necessario, da Bernini a Gaudi, da Melotti a Brancusi. Un sogno che anche Giancarlo aveva discretamente sognato, ben acquattato nel suo rifugio alto sulle rive del lago Maggiore. Un sogno lento, coltivato nella pienezza della vita, maturato poco per volta nella costanza di un exercitium paziente non meno che paradossale, pacificato con l’esistenza quotidiana nell’intimo contatto con l’impossibile. Poi basta, io ho reinstallato la poesia sull’altissimo piedistallo che le compete e non ho più voluto avvicinarmi a Lei. Lasciamolo fare, invece, discretamente e amabilmente, a FUOCOfuochino e i suoi autori. Persone che non twittano, non postano, non viaggiano (esagero), si concedono l’antico esercizio di scrivere e di disegnare, di pensare e di riflettere e, insomma, di indugiare, in modo ricorrente se non abituale, su alcune cosette inutili che stanno in piccole pagine; inutili e necessarie come l’arte.

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Martina Corgnati



Quando le parole non servono solo a comunicare informazioni, ma sono mezzo per dire se stessi, parole e io diventano tutt’uno: è il caso di Rosanna Flisi, da tanto tempo comunicatrice di professione ma che ora si scopre poeta. Con la scrittura delle parole, quelle sue adesso, affiora una vena di canto che forse lei stessa non immaginava. Ne nascono testi compatti e allusivi, volutamente parchi e rattenuti, bastanti però a rivelare una sottile inquietudine: nella scelta della misura breve Flisi riesce tuttavia a dirsi, attraverso, ma anche oltre, gli usi retorici che ben conosce: tornerà calmo il mare/tornerà bonaccia… torneremo ciechi a dargli fede… quasi non ci si accorge di anafora e poliptoto e invece si coglie il bisogno di un riposo dell’anima dall’ansia segreta che ci gualcisce, sia pure senza abbandono ma con la guardinga veglia di chi non può fidarsi del tutto: … ciechi… E così, quando il tema sembra quello abusato della scrittura d’osservazione (c’è molto mare nella poesia di Rosanna Flisi e vento e cielo e stagioni), t’accorgi che l’inavvertita antitesi mancanza-pienezza scopre altro, ben altro, cioè proprio quell’inquietudine, quel filo di insoddisfazione, e dunque un desiderio inappagato: … mani spalancate a soppesare vacui sogni. Ma arriva poi il momento topico in cui, sia pur col suo garbo delicato, il poeta si dice: un mondo interiore cerca la via per dirsi, anzi per esserci: possiedo un vasto repertorio di sorrisi/agende piene di stupori… fino al sintagma che meglio ne dice l’immagine… e sopracciglia alzate… e abbecedari di sospiri. E dunque la questione non è tanto misurare gli usi formali della scrittura poetica, quanto scoprire l’immagine di sé che l’autrice ci dà: percorsa da un fremito nervoso che scorre sotto il contenuto garbo, la poesia (lucertola/guizza) dà conto di un bisogno d’altro, una ricerca cui può soddisfare proprio la poesia stessa. Ce lo rivela la decisione di farsi leggere, dopo tanto tempo di scritture nascoste. Farsi leggere sì, perché è necessario dirsi davanti e con gli altri. C’è una voce nuova, un’altra voce ancora nel grande e cangiante universo della parola che canta, la voce di Rosanna Flisi, con la sua contemporaneità di donna che cerca e vuol trovare un senso: ricerco… impossibili armonie/lembi che coincidano/o esistenziali incastri. Se poi dichiara una consapevolezza d’inferiorità, o addirittura di nullità (sono minuscola…), di fronte al gran mistero che ci circonda, Rosanna Flisi è ben certa che dubbi, sospiri, stupori saranno le parole della sua poesia a dirli, anzi a dire lei stessa: A farla essere. Luigi Bedulli

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Rosanna Flisi

CERCASI ANIMA

Mareggiata Il mare grosso, tutto scarmigliato urla forte e litiga col vento, gonfie di rabbia, come agitate da un avverso fato, a riva si schiantano le onde come mandria che, trucidata, a un tratto crolli; si rifinisce poi in lame l’acqua che sulla sabbia ritrova la sua pace. Tornerà calmo il mare, tornerà bonaccia, torneremo ciechi a dargli fede, a sentire ancora a noi gli dei propizi.

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Estate

Catalogo

Estate, stagione di pienezza e sazietà o di mancanza e stasi che gli estremi talora collimano tra loro e come fotocopie si compongono. Stagione di tempi lunghi di ore dilatate di occhi assorti di mani spalancate a soppesare vacui sogni di fantasmi. Su ogni cosa assoluta grava l’arsura: come lucertola guizza nei cuori un lontano presagio di frescura.

Possiedo un vasto repertorio di sorrisi agende piene di stupori e sopracciglia alzate, abbecedari di sospiri e sbuffi, cataloghi di rimbrotti e paternali, registri di successi o fallimenti, florilegi d’ansia o d’incertezze, dubbi a mazzi, comuni come luoghi; (o un po’ nascosti). Ma, per fortuna, di tutto poi mi scordo: il “più” è passato e il “meno”, breve ormai passerà presto. Mentre la luna, elementare, fa la “o” col bicchiere ricerco, ormai depredata, impossibili armonie lembi che coincidano o esistenziali incastri.

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Caratteri Sono “minuscola” “carattere” quasi invisibile, parlo a pochi muniti di buoni occhiali, ciò che dico non è interessante e consuma poche parole. Non grida, non alza la voce, non usa effetti speciali, né colori spettacolari, non compaio su riviste o giornali, forse, davvero non sono… Ma forse sono lo specchio di quanti sono soltanto un’ombra tra i tanti.

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Non è poi strano che vi siano ancora editori, piccoli sì ma che non mollano, oltretutto pubblicando testi come questo di Lou Artìs. Nei suoi, chiamiamoli così, pensieri, non scorgo speculazioni di tipo endemico, né congenito o ereditario. Che sia un virus che si propaga mediante osmotica usucapione? Una branca della scienza specializzata in contratti a termine di baliatico o di strillonaggio? O una scuola del desiderio che induce ad atti virtualmente sessuali e deviazioni voyeuristiche? Con salti nel tempo, personaggi di fiabe, artisti scomparsi e immaginati ancora in vita, l’autore millanta, insinua, beffeggia e beccheggia lungo il litorale del – nulla è perduto –, balza sul vuoto che paventa sete di ingiustizia da trattamento democratico al limite della tolleranza. Dunque non è strano o forse sono io che possiedo l’arguzia di uno specchietto retrovisore. Wando Dipetto

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Lou ArtĂŹs

IO SE FOSSI

Io se fossi Pinocchio non vorrei mai diventare un bambino in carne e ossa.

Io se fossi il principe azzurro, Biancaneve morta non la bacerei neanche se mi torturassero.

Io se fossi la strega di Hansel e Gretel non aspetterei che i due ingrassassero. Li metterei subito nel forno.

Io se fossi Pisolo prenderei tanti di quegli eccitanti da non dormire neanche un minuto.

Io se fossi Biancaneve, invece di entrare nella casa dei nani a riordinare e preparare la cena, me ne andrei per i boschi in cerca di funghi.

Io se fossi uno che conoscesse il numero di Perrault gli telefonerei per congratularmi con lui perchĂŠ la sua versione originale di Cappuccetto rosso finisce col lupo che mangia la nonna e Cappuccetto.

Io se fossi Grimilde volterei lo specchio con la faccia verso il muro.

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Io se fossi il gatto con gli stivali chiederei di cambiarmi favola.

Io se fossi quello che ha inventato il navigatore satellitare avrei inventato anche quello per le cavedagne.

Io se fossi un altro vorrei essere Rimbaud.

Io se fossi Silvio D’Arzo direi a tutti che il mio capolavoro è “Penny Wirton e sua madre”.

Io se fossi un direttore d’orchestra per prima cosa farei eseguire il “Silenzio” di John Cage.

Io se fossi Duchamp invece di polvere alleverei delle galline.

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State per assaporare un ottimo “Risotto”. Ingredienti e metodo di preparazione ‘di una volta’, genuini e sinceri. Prendete un migliaio di parole, aggiungete ritmo, ricordi e finzione con retrogusto acido mescolati sapientemente. Mantecate con un pizzico di ironia per bilanciare l’acidità, e mettete “Risotto” sul Fuocofuochino. Poi, ovvio, il tocco di Steve Manfroi, ciò che uno chef non vi rivelerà nemmeno sotto tortura, resta il particolare misterioso che fa la differenza e del quale non riusciremo a venire a capo. Per amplificare la degustazione accompagnate con un calice di bianco fermo. Ai più viziosi, infine, quelli con la casa dotata di tutti i comfort, alla ricerca del piacere mentre il mondo sta andando a rotoli, si consiglia di accendere l’impianto stereo e mettere sul piatto/lettore CD: “Heroin” dei Velvet Undergrund, “Wild child” di Lou Reed, “Rebel rebel” di David Bowie. Uno a scelta o tutti e tre. La soddisfazione è garantita. Andrea Soncini

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Steve Manfroi

Eravamo sempre più scoppiati. Un giorno che buttava malissimo e avevamo in tasca la miseria di diecimila lire in due, Antonio propone di giocarceli a zecchinetta in un bar di via Montenero che conosceva, frequentato da pregiudicati napoletani e calabresi; secondo lui con un po’ di culo potevamo riuscire a raddoppiarli. Gli dissi che mettersi a giocare d’azzardo contro dei camorristi cinquantenni sperando di vincere era la peggiore delle idee che gli potesse venire in mente e che come minimo ci avrebbero sparato. Ma non c’era verso, ormai si era impuntato proprio da tossico: mi disse che era già stato lì a giocare altre volte, che lo conoscevano, che era una storia tranquilla, che i tipi erano ok e che se si vinceva pagavano senza problemi… Disse anche, che se proprio volevo accompagnarlo, una volta entrati nel bar non dovevo ASSOLUTAMENTE guardare nessuno in faccia, che i calabresi si potevano incazzare di brutto se qualcuno li guardava… ma che forse era meglio se lo aspettavo a scuola, tanto ci avrebbe pensato lui a tirare su i soldi della roba anche per me. La realtà è che gli piaceva un casino il gioco e che oltre all’eroina forse aveva pure quella di dipendenza; in pratica avrebbe usato una droga per procurarsene un’altra… buon per lui, così non avrei avuto troppi sensi di colpa se gli sparavano. E siccome non mi andava l’idea – mentre lui si faceva di adrenalina da zecchinetta – di stare a occhi bassi e in paranoia in mezzo a malavitosi schizzati e incazzosi, andai ad aspettarlo al conservatorio dove praticamente vivevamo. Li facevamo di tutto: assemblee, le pere nei cessi, ci imbucavamo sconvolti in sala Verdi a vedere i concerti, fumavamo canne e poi facevamo interminabili jam nelle aule libere e ogni tanto frequentavamo anche le lezioni dove insegnanti dell’epoca di Giuseppe Verdi provavano a farci passare la voglia di suonare. Ma la maggior parte del tempo stazionavamo, in attesa di eventi, all’ingresso della scuola nella così detta portineria, praticamente il nostro ufficio. Passeggiavo nervosamente avanti e indietro e iniziavo a sentire lungo la schiena dei brividi di freddo niente affatto piacevoli. Guardai l’orologio appeso al muro della portineria: faceva le due, erano passati sì e no dieci minuti da quando avevo lasciato Antonio e già mi risultava insopportabile l’idea di non sapere quanto tempo ancora avrei dovuto stare lì ad aspettarlo. Oltretutto le possibilità che tornasse con i quattrini per la roba erano pari a zero, anzi probabilmente lo avrebbero ripulito anche del nostro misero deca. Mi sedetti e mi accesi una sigaretta con lo sguardo fisso nel vuoto.

RISOTTO

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A quell’ora in giro non c’era nessuno e gli studenti che avevano lezione erano già tutti in aula. Trasalii nel sentire la porta d’ingresso che si apriva, ma erano solo gli orchestrali della Rai che a piccoli gruppi, come impiegati tetri e silenziosi, iniziavano ad affluire per le prove. Bisognava stare attenti a non studiare troppo altrimenti si diventava come loro. Mi passavano davanti senza vedermi ed entravano ordinati nel mausoleo della musica attraverso la porta del non ritorno. Ogni volta che si apriva, la portineria risuonava di una cacofonia di note proveniente dalle aule dove si tenevano le lezioni; il sinistro richiamo cessava quando provvidenzialmente la porta tornava a chiudersi. Mi sentivo febbricitante e quasi sul punto di abbandonarmi succube a quella macabra processione, quando come un’apparizione Antonio irrompe in portineria facendosi largo tra i morti viventi. – Dai, datti una mossa e andiamo a prendere un taxi! In un attimo mi ripiglio lo seguo in strada e ci dirigiamo a passo di carica verso corso 22 marzo. Di solito, non avendo né macchina né patente, se c’erano soldi a sufficienza la roba andavamo a prenderla in taxi che si faceva prima. – Cazzo! ma allora hai i soldi? gli dico. – Sì sì, muoviti! – Hai vinto?! ma come cazzo hai fatto? – Muoviti, muoviti! è successo un gran casino; quando sono arrivato stavano già giocando in cinque o sei, erano quasi tutti napoletani. Risotto, uno che conosco di vista, teneva il banco e stava vincendo di brutto, sul tavolo ci sarà stata quasi una milionata… ero lì in piedi e aspettavo che finissero la mano per poter puntare anche io quando un tizio dietro di me, sicuramente un calabrese, senza dire una parola tira fuori il cannone e spara nella pancia a Risotto… cazzo! quello, buttando sangue come una fontana, scalcia il tavolo e lo ribalta, gli altri bestemmiando si gettano sul calabrese e mi travolgono, così mi ritrovo sul pavimento con vicino alla faccia un centomila che mi guarda! nel casino con tutti che gridavano come pazzi e nessuno che mi lumava, l’ho preso e sono schizzato fuori insieme a altri ceffi che telavano prima che arrivasse la madama… – Ma sei fuori? e se ti hanno visto? – Ti dico che non mi ha visto nessuno! erano troppo in sbattimento. Poi sono loro che fanno ‘ste storie di merda! se mi lasciavano giocare in pace magari vincevo; avrei puntato su Risotto, mi sembrava che fosse la sua giornata fortunata… Arrivati alla stazione del taxi saltammo sul primo della fila. – Ci porti in piazzale Gabrio Rosa alla svelta grazie che abbiamo un

appuntamento importante – disse Antonio come un uomo d’affari con il fiatone. Beccammo il gruppo di tossici che vendeva in un angolo imboscato dei giardinetti delle case popolari. Stavano in piedi attorno ad un fuocherello che avevano acceso anche se non faceva per niente freddo. Erano strafatti. C’era Gufo, che conoscevamo e che aveva sempre roba buona. – Ciao Gufo ci dai una centa? – Aiutandosi con un coltellino mise una grammata di brown in un pezzo di stagnola e ce la diede. Anche per oggi eravamo a posto, domani si vedrà. Nessuno, che io conosca, vive così per il presente come i tossici. Prima di intascarle Gufo guardò le centomila lire in controluce. Erano piene di puntini rossi come se Manzoni avesse la varicella e il contagio si fosse diffuso a tutta la banconota. – Ehi, musicisti – ci disse con un ghigno sdentato - non avrete mica ammazzato qualcuno? cazzo è questo? sangue? – No no, è risotto – gli rispose Antonio mentre ci allontanavamo.

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La più bella scoperta dell’uomo è il bicarbonato di soda Francis Picabia Una scatola di Svedesi piena è più leggera di una scatola incominciata poiché non fa rumore Marcel Duchamp Nessuno ha visto così lucidamente come me, stasera, macinare il bianco Tristan Tzara

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Lorenza Amadasi Afro Somenzari

UN CENTESIMO DI DADA

Il martedì mattina della domenica s’erano dati appuntamento: Saint George o Rue Martnigny? La spiegazione dello stesso argomento, almeno per lui, come diversi anni si erano dati fissati e firmati. Lei invece vestiva un leggero panzer anatomico, amoroso di ruggine trovato allora, alla lancia. Ma non erano sotto il torrente né il campanile di spiaggia licantropi mastro, nemmeno laggiù nella darsena, lungo il marciapiede notte però, per aver paura e di cosa poi? Metro di Montparnasse una che non ricordava la volta usciti sembrava, sarebbe stata di essere consapevole di tramonti cioccolateschi, alla M. D. = locali notturni, catenacci e il dentista, perché era già ieri l’altro a chiedere, di doversi muovere, (saranno state le diciotto circa) fermati e fuori la limatura in Place des Vosges. Si potrà scrivere: barricata, banconota e butirrosa. “Buongiorno” disse la moglie a sorpresa, “credo che la prossima volta potremmo giocare a belote e rebelote, bianche ma senza carta ifigienica”. Il naso nel vano rimosso mistero. Del proprio aspergico improvviso, il sangue con acqua e salutare… Lui poteva riceverla, avrebbe voluto (lui) raccontare di quando, per non dire che le cose non sarebbero andate laggiù nello sterno pozzo ferroviario di umiliate (sanzioni) generose. Il naso tromba di (F. P.). Dopo un po’ di tempo, diciamo cent’anni, con l’approfondito non desiderio laboratorio, lei-salita in vetrina sull’oscuro angolo. “Cabaret”, sempre così nel tentativo di scoprire se lì, le finestre dal lavoro decentrato umidetto e leggero si affacciassero di rifiuto evidente. La vista l’avevano sentita cercare bocche, calcare spirali, penne e pasti digeriti. In senso Deux Magots? Ah! La poesia. E poi dietro scala fuggire righe a quadri balzi, sinfonie botte e notte. Architet-

ture di piani rialzati dell’appartamento.

Le avventure di T. Z. lampista da tipografia andante. Ciurma nel senso preceduto / attori su damètrio scolpito di lato oppure al cablogramma dal latino gracidare. Sembrava una ventitré, pieno di regine a regime, metteva sulla “o” di Saint Tegonnec… … Ombre sparlanti, dieci minuti, fianchi procaci voraci, rimettendo sì e no prendendo diverse settimane per finire fuliggine. Voltaire

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non era ancora tornato sul luogo dell’incerto, incauto. Vecchio nessuno *H. B.* accasciato allora sul catasto. Tempeste di giostre, vasi-cane e tapie rouge salutano nessuno (fino) a prova contraria per antonomastico Trebeurdin, biblico e poli sindacale. Il proclamo alle partite a pois senza riuscita dal fiume al bordo scala, rasentano il cucchiaio nel posacenere di gusti ammuffiti. Rose al tartufo a pani persi come orologi di babbuini nel tempio siamo vicini al ghiaccio che fa affondare eh! tutti penserete il Titanic, no! i pinguini meraviglia senza giduglia ancora per poco sto per partire e consegnargliela domani, le unghie fanno un ticchettio sul parquet e sale il vortice di arrosti non designati. Sentite l’onda magnetica del cosmo continua a infilarsi nel mio sottoscala tutte le notti con polvere di universo e mi sveglia bene. Slegatemi da questi stracci che si impregnano di contrari musicali e la lalattttuzgrz tu (A. J.). Isomorfismi incoscienti di soluzioni solo con percettivi salati garofani di chiodi nelle gengive sistemati al naso più buono e fondi di schienali ergonomici di legno rosso e di legno. Girocollo da lupo sugli scogli cacca di acqua salata per sottrazione del disagio. Vicinanze isteriche a penzoloni di antigentilezza. Virtual name sospira al taglio del cappotto. Oui! Visual name… … Camera di tutto, corpo solo di testa gigante uomini di palla che rotolano nel mondo. Raymond: aiuto hanno perso il corpo! si sono sempre specchiati il volto mai le gambe il dorso un polso una mano un’unghia. Rincorrendo saltavi come un leppo e ti aprivi come un aquila per scavare nella statua. Ed ecco una trombetta a scatti, scattt, scatttt... Fondamentale il tasto conferma per mettere in pratica la camminata silenziosa sul muro.

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Nell’Era Patafisica, il 27 Phalle dell’anno 125 (6 settembre 1998, Era Volgare) a Pomponesco, il Satrapo Trascendente e Imperatore Analogico Enrico Baj promulgava l’Enciclica Sic stantibus Rebus, così stanno le cose. Con questo testo Baj anticipò i gravami della nostra società con occhio traslucido e trasparente, con quella chiarezza e puntualità che solo i geni posseggono e sono in grado di comunicare. Se l’attualità è quella di piegare il capo, uniformarsi alle leggi di mercato, non indignarsi di fronte allo strapotere delle multinazionali e alle nefandezze perpetrate al genere umano da se stesso, allora l’inattualità è un ingrediente per la salvezza. In una società dove tutti vogliono aver ragione noi abbiamo preferenza di non aver ragione né torto. Così stavano le cose, e oggi?... L’editore

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Enrico Baj

SIC STANTIBUS REBUS

Si ringrazia Roberta Cerini Baj e l’Istituto Patafisico Vitellianense.

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La mancanza di tensione permanente nel dissenso, nella protesta e nell’opposizione deriva sia dalla stanchezza procurata dai pubblici intrattenimenti, sia dalla repressione mentale e culturale, sia ancora dalle pratiche di cretinizzazione messe in atto dalla propaganda del sistema. Il conformismo del pubblico facilita la nascita del consenso: questo consenso grazie a musiche e cantautori, si tramuta in politico asservimento. D’altra parte nei lager nazisti non si suonava forse in continuità la grande musica tedesca per far lavorare di più gli schiavi, come ha fatto notare Pascal Guignard? Tutti i grandi divi della protesta giovanile sono in realtà venditori di dischi e di consenso governativo. Come ha ben osservato Gianni Borgna ne Il mito della giovinezza la massa giovanile costituisce il più grande bacino di vendita a condizione che i giovani continuino a credere nel loro mito. Poiché oggi viviamo in un regime dove tutti i poteri confluiscono in un solo “polo”, l’attuale non può che negare un’arte di avanguardia. L’unica possibilità attuale del fare avanguardia risiede dunque nell’inattuale. L’inattuale è la vera avanguardia in una società dominata dalla cultura dello spettacolo e del falso, tutta asservita al potere, massificata. Queste affermazioni solleveranno non poche obiezioni, e io non voglio insistere per dimostrare che la verità è dalla mia parte. Anzi il non volere aver ragione a tutti i costi dà luogo ad una proiezione verso un futuro che si confronta col passato attraverso il presente, e che non vuole ottenere un successo di immediata approvazione. In secondo luogo io non desidero dare ragione o torto ai fatti (ivi compresi i loro simboli e i loro valori di comunicazione) che costituiscono il sistema dell’attualità. Questo sistema trae una sua grande forza dalle incessanti creazioni e dissoluzioni di gruppi di esperti o di sostenitori le cui argomentazioni sono le più disparate: “In questo modo vengono disperse le energie mentali, le quali potrebbero dedicarsi a reali situazioni spirituali, sociali, economiche, politiche, che, però, non sono interessanti in quanto non si presentano come novità a causa della loro tragica immobilità”. Ritorniamo all’attualità in quanto atto recitato sulla scena teatralmente: è interessante ciò che si impone nel momento presente, estraniandosi dalla durata e dalla fatica della riflessione. Voler aver ragione contro le amene vacuità che vengono quotidianamente a inquinare l’etere e il focolare delle nostre case, nonché le vetrine dei negozi, significa già conferire una dignità che non spetta loro: molto meglio sarebbe ignorarle e cercare di dare attenzione a ciò che

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appartiene direttamente al nostro mondo concreto, unico baluardo che si oppone alla virtualizzazione anche di ciò che virtuale non è (esiste infatti anche una virtualità virtuale). Dovremmo essere noi a scegliere i nostri oggetti senza accontentarci dei liofilizzati sottovuoto che gentilmente ci offrono le informazioni, le mode, il misero, ma comodo, benpensare e il cieco conformismo. Ma non volere avere ragione significa anche rifiutare il divismo delle polemiche interminabili che riempiono lo spazio dell’attuale soffocando i fatti da cui le stesse polemiche hanno avuto origine. “L’attualità vive di giudizi continuamente pronunciati con fare tanto più perentorio quanto più ci si trova nell’impossibilità di comprendere realmente” (E.M. Arnico). E la nostra morale? Qui dovremmo, tutti noi ed io per primo, non solo imparare a non avere ragione, ma anche imparare ad avere torto. L’etica dell’Occidente civilizzato e civilizzatore, nega se stessa avverandosi come un pulpito strabordante di benpensanti che, sentendosi all’avanguardia, vedono solo i fondamentalismi altrui, le crudeltà commesse dagli altri: amiamo indignarci sui singoli fatti grandi e piccoli perché possiamo additare i cattivi che si macchiano le mani di sangue, mentre noi siamo stati tanto bravi da allontanare la crudeltà perpetrata e mascherata attraverso il nostro processo di “civilizzazione dei costumi” là dove ci sono delle società anonime (vedi Marcel Duchamp, che con humor tentò di trasferirne il concetto nel campo dell’arte) non ci sono colpevoli perché essi sono, appunto, anonimi. So benissimo che le nostre, nell’arte come nell’antropologia, sono battaglie perse. Ma noi, come dice Platone nel Filebo “non siamo specialmente amanti della vittoria”. Sic stantibus Rebus

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Ci sono dei giorni in cui penso a mio padre come a un pioniere. Durante il suo ultimo inverno, siamo stati insieme qualche giorno a Napoli. Ridevamo di Emma, mia figlia grande, che allora era la piccola e l'unica, e mangiava con appetito commovente la pasta alla cipolla. Una sera, in una pizzeria, mentre Emma s'interessava ad un limone, abbiamo parlato degli scrittori che creano mondi, chiedendoci se fosse in qualche modo una nota di merito, se li rendesse più creativi di altri. Ogni artista crea qualcosa che non c'è, ma mio padre era partito tante volte per nuovi mondi, mondi lontani nello spazio o infilati nelle pieghe del tempo, grazie agli Urania che teneva nel comodino, e sapevo che gli piaceva spingersi là, dopo che ci aveva controllato al sicuro nei nostri letti. Ci sono dei giorni in cui penso a mio padre come a un pioniere, e un alieno. Oggi ho io nel comodino un'immagine fantascientifica. È una cartolina promozionale: “Mantova - the Marvelous Province. Arte, Natura, Enogastronomia, Eventi Culturali”; la provincia è disegnata al centro di un globo che fa da pancia a una lampadina e spunta come un'idea da una testa che resta in gran parte fuori dal perimetro di carta. Me l'ha spedita uno dei primi anni che stavo a Roma. Dice “Come ogni oggi, oggi mi sento alieno, altro. La mia astronave è il mondo. Ecco perché bisogna viaggiarvi bene. È insostituibile. Buon viaggio, allora! Ciao. Buon mondo, Alberto”. Ho la netta sensazione che non stessi andando da nessuna parte, e forse me la mandò proprio per quello. Quella sera, in pizzeria, Emma scopriva un mondo in un limone. Da poeta, mio padre ha costruito un suo universo. Fatto di parole e concetti, spesso di simboli: parole che rimandano ad altro. Come la casa, che è la poesia, e il suo custode il poeta. E poi l'arca, il nido, il nodo, e il segno, il suono, il lampo, il verso e sarebbe bello andare avanti ancora, il dono, la neve, la soglia, l’orma, perché basta pronunciare il suo vocabolario per sentire la sua voce. Trovarlo ripetitivo sarebbe come dire che è ripetitiva la striscia di terra che riemerge alla fine del mare, la valle che segue la montagna, il cemento di cui sono armate le costruzioni degli uomini per sostenersi. Ci sono dei giorni in cui penso a mio padre come a pioniere e un astronauta, partito su una navicella dell'Agenzia della Concordia per esplorare il luogo più certo eppure a tutti più ignoto. Penso a lui come a nient'altro che un padre, che entra per primo nella casa delle vacanze, ancora buia e mai vista, per controllare che sia tutto a posto e che il viaggio, per la sua famiglia, possa continuare nel migliore dei modi. Marianna Cappi

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Alberto Cappi

L’ASPETTAVAMO DA SEMPRE

Mio cuore. diceva Genya che “l’aspettavamo da sempre” eppure, quando giunge, “la guardiamo stupiti”. la neve cade come una lettera, come frammenti che per sorte hanno trovato l’accordo del viaggio. come l’amore, penso, la neve non è. perché sta da sempre nella sua attesa dal bianco. nell’agguato carezzevole della sorpresa. la neve non può essere inquieta, né serena, né rapida, né pigra. è senza tempo. senza. penso, perché prepara le cose, i segni, le cifre, i minimi fuochi, le mutazioni dell’ermellino, della lepre, del calicanto, dei bimbi, dell’umore, del caldo crepitante nella stanza che potrebbe scintillare di ciò che è fuori. non è, perché attima l’esserci; come un velo, un farmaco, una notizia straniante, un graffito riesumato, un’apparizione, un dono, un tempo che taglia lo spazio del tempo usuale. per questo non si usura, ma (si) dissolve. questi traccianti, proiettili e balocchi fragili, delicati, donati, ricamano una frontiera. la neve ha un profumo, Pat. si assapora nella diaspora, si beve nell’aporia, centellinandola perché non svanisca. la neve è sempre qui. negli anni che si rendono via e più difficili. chiedi di trattenerla e ti ritrovi in mano un filo che non sai se di Arianna o della Parca. la neve è un nido. Nido anagramma i doni. la neve è il nostro Bene. con questa M di aMo che fa del filo di Arianna la nostra Marianna. la neve sei tu. Così non voglio infuturarla. desidero questi dolci, teneri, preziosi, abbacinanti, scontrosi, allegri, tristi, pericolosi, luccichii di neve che si muovono tra i tuoi capelli di tenebra sapiente e irrisolta; ma viva.

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I testi di Paolo Morelli offrono sempre un punto di vista curioso, alternativo, sorprendente. In questo racconto maccheronico si cimenta con la “sua” Roma e un turista d’eccezione quale François Rabelais. Inventare riscrivendo Rabelais in “romanesco” è senz’altro sfida coraggiosa e impertinente, di quelle che esaltano e divertono. Soprattutto se si prende di punta il tema e ci si lancia senza timori e misure nel mondo del vituperio, dell’invettiva e delle lorde pasquinate, con cui Morelli – Rabelais assalta con piacere e liberata creatività schiere di letterati pedanti e presuntuosi, afflitti da quella boria dei dotti già stigmatizzata dall’infastidito Vico. I letterati piluccosi rovinano la vita, perché invece di pensare a sé stessi e alle proprie gigantesche occhiute travi si accaniscono con malignità e rancore contro gli altri. Incapaci di badare a sé stessi pretendono di governare l’universo e la letteratura. Rabelais non ne può più, il Rabelais di ieri che è diventato il ben più importante Rabelais di oggi, riverito in tutte le università del mondo, mentre di quei critici schizzinosi che gli facevano le pulci nessuno più ricorda nulla. Ma perché mai, direi io e direbbe forse qualcun altro, il fine filologo Morelli avrà voluto riesumare reperto così antico e anacronistico? E di così dubbia autenticità? e che c’entra poi Roma? Con Morelli è così: domande e sorprese. Gino Ruozzi

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Paolo Morelli

RABELAIS A ROMA

François Rabelais fu tre volte a Roma, l’ultima nel 1548, e pare proprio che in quella terza occasione, curioso come suo solito e ormai avvezzo alla parlata del volgo soprattutto grazie all’amicizia con un barbiere che dice “molto pronto ed intelligente”, pare si sia provato insomma per gioco e con l’aiuto di un prelato locale a riscrivere nel romanesco dell’epoca due pagine dei suoi già famosi libri, ed in particolare la conclusione del secondo: ‘Conclusione del presente libro e scuse dell’autore’. Il testo, del tutto inedito, è stato da noi ritrovato e ve ne diamo qui lettura in anteprima mondiale assoluta. Ora, segnori, abete qui ascoitato uno cominciamento de la orifica istoria de lo meo padrone e segnore Pantagruiele. Qui messo fine a quesso primo libro, la testa me face uno puoco male e me retrovo li reiistri de lo cerviello multo offuschati, pe via de quesso suco noviello setembrino. Abrete lo resto de la istoria a la Feria de Francofuorte prossema bentura, e in quess’occasione bederete chinto Panurgo presse moglie e foe cornuto ja ne lo primo mense de nozze; e chinto Pantagruiele trovone la petra filosofale, nonne che lo modo pe trovalla e pe usalla; e de poi chinto elli superone li muonti Caspi e navigone per lo mare Atlanteco e sconfissi li canibali e conquistone isole de Perlas; e anche chinto sponsone la figlia de lo re de le Indie ciamato Preite Janni; e chinto commattene contro li diabboli mannanno a foco bene cinque cammere de enferno, e missi a saccho la granne cammera nera, e iettone Proserpìna a la brage, e spaccone a Luciffero quattruo dente nunne che uno cuorno a lo culo; e chinto elli anchora visitone le reioni de la luna pe scoprine se mai fossi, a verità, che la luna non ène intiera, ma soco le femine a aberne tre quarti in ne la testa; e milliara de altre picciole amenitade tutte vere. Tutte belle istorie in summa, belle quanto lo Vanghielo francesco. Buonnasera segnori, perdonnateme, e in vece de pensane a li falli mea, pensate a li vuostra. Si voa me diti: “Maestro, nun è che sembriate granne che sabio a scrivece tutte queste fabule et iocose scimpiarie”, io ve risponno che nemmaco voa lo sete granne che, de che ve devertite a leleiere. E però, si pe iocoso passatiempo le leiete proprio chinto io pe passare lo tiempo le aio scritte, voa e io semo più digni de perdono de na maneca de sarrabovita, bigottone, ciumacone, ipocrìta, scarrafone, battilocchia, buzzone stibalato e cricche similiari de iente che se

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mascara pe fregane lo monno. Danno a credere a lo vuigo che in nienti soco occupati se no in devozione e contemplazione, diiuni e macerazione de la carne, sarvo a pena quesso che basta a sustentane e alimentane la pobera frailitade de la vita loro, invece ne faco de tutti li colore, e Deo solo lo sane. Et Curios simulant, sed Bacchanalia vivunt, possete leiere a lettiere cuboitali alluminiate su li loro grugne arossate e su le trippe a la baccina, quanno no odoreno directamente de solfo. Quanto a li studi loro, soco tutti consumati a la lettura de libri pantagruielichi, no tanto pe passane lo tiempo in alegria, quanto pe rovinane qualchuno, maliniamente, vale a dice articulianno, monoarticulianno, torticollianno, sculettanno, menchionettanno e diabbolculanno, de ène calunnianno. E ciò facenno pargono quessi petocchi billani che a tiempo de cilegie, e salvatiche e none, grufoleno e disparpalieno la merda de li zitielli, pe tirane fora li noccioli da vennere poi a quessi droghieri che ce faco luolio de Magaleppo. Ma voa costoro fujiteli, avorriteli e odiateli como facho io, e parola mea ve troberete bene. E si desiderate de esse boni pantagruielista (de ène a dice de vive in pace, ioia e salute e face sempere belle festa), no fedateve mai de quessi che uardeno da li buchi.

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Si può leggere senza capire ma non si può capire senza ascoltare. Forse la chiave di questo racconto sta nella posizione in cui siedono la bambina e la vecchia, tra la finestra e la stufa perché dall’infanzia alla senilità tutti i passaggi sono qui, mescolati come un mazzo di carte o di fiori, diluiti nel gorgo magico dell’essenza vitale, il significato misterioso di quanto ci circonda. Il resto è Festa. L’editore

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Giuseppe Festa

IL TESSUTO DEI SOGNI

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La bambina si accomodò sulla sedia tra la finestra e la stufa. “Mio fratello sta costruendo una zattera per scendere lungo il fiume con i suoi amici”. “Bella idea” disse Ettore, seduto accanto al telaio. “Ma la tua voce sembra imbronciata. Come mai?”. “Non mi vuole portare” sbuffò lei. “Dice che sono piccola. Ma io ci voglio andare! Il fiume attraversa un bosco selvaggio”. Gli occhi le brillarono. Il vecchio si alzò, vacillando un poco. Prese delle matasse da uno scaffale ricolmo di rotoli variopinti e dispose i fili sul telaio. “Chissà quante cose misteriose vivono laggiù” sospirò la bambina. Il vecchio spinse la spoletta, che cominciò a scorrere da una parte all’altra dell’ordito. Ettore tesseva ad occhi chiusi. Era cieco. Ma i suoi movimenti erano precisi e veloci. “Scommetto che accenderanno un fuoco e ci cuoceranno sopra dei pesci. Ce ne sono di grandi così” disse lei allargando le braccia. Mentre la bambina parlava, l’ordito e la trama diedero vita a un tessuto che sapeva di acqua, di bosco e di magia. Il verde respiro dei salici che pettinavano l’aria si intrecciò con l’azzurro spartito del fiume, gorgogliante di sospiri. L’argento dei pesci guizzanti si mischiò all’avorio di collane di rugiada, ricamate dall’alba sulle corolle dei fiori. “Ci vuole pazienza, piccola mia” la consolò il vecchio. “Un giorno avrai una zattera tutta tua”. “Ma io la voglio ora!”. Quando avevano bisogno di un tessuto, le donne del paese mandavano alla bottega di Ettore i figli più piccoli. Dicevano che le sue stoffe venivano più belle se mentre tesseva c’erano dei bambini a fargli compagnia. E i bambini ci andavano volentieri, perché Ettore aveva una qualità rara in un adulto: sapeva ascoltare. E loro avevano così tanto da raccontare. Il vecchio tessitore aveva un altro dono. Benché cieco, sapeva accostare i colori meglio di chiunque altro. A chi gli chiedeva come facesse, lui rispondeva: “Ogni colore ha un profumo. E io ho un buon naso”. Un giorno entrò nella bottega una donna, curva come un carpino nodoso. Una lunga veste la avvolgeva tutta, lasciandole in ombra il viso. Non disse nulla, ma Ettore percepì la sua presenza dal fruscio dell’abito. La donna si sedette sulla sedia tra la finestra e la stufa. Ettore riconobbe l’odore del suo colore.

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“Ah, sei tu” disse. Il vecchio scelse con cura le matasse e cominciò a tessere. Il sole salì e discese. La notte seminò il cielo di stelle e la luna cullò i sogni del paese. Ettore lavorò al buio, senza mai fermarsi. Quando le prime luci dell’alba disegnarono i profili delle cose, la donna si mosse sulla sedia, impaziente. Non poteva più aspettare. “Ho finito” disse in quel momento Ettore, con tono soddisfatto. Tra le sue mani, il tessuto sembrava cambiare colore ad ogni movimento. La donna lo scrutava da sotto il manto. La morbida luce del mattino si posò su quella stoffa, accendendo un verde pastello che sapeva di neonato e un bianco salato di schiuma di mare. D’un tratto, saltò fuori il rosso acceso di una promessa d’amore e l’arancio sfrenato di una corsa a piedi nudi, mentre il viola di un bosco incantato si nascondeva al sicuro tra le maglie più scure. Da una piega, ecco spuntare il rosa pallido di un cucciolo, il giallo di un salto nel fieno e il verde menta di una casa sull’albero. E ancora, l’azzurro fiordaliso di un volo in picchiata e l’oro e l’argento di lucciole e stelle. Ettore aveva tessuto i più bei sogni dei bambini. La donna si commosse. Non le era mai successo. Una lacrima scivolò sul suo mantello, nero come la pece, e dipinse una sottile scia arcobaleno. Sorpresa, allungò la lunga mano pallida cercando di afferrare quel rivolo di colore. Ma questo si spense subito, divorato dal buio. Levò sull’uomo uno sguardo mesto. Si rammaricò per quello che doveva fare. “Non essere triste” le sussurrò Ettore. “Come vedi, ho avuto una vita ricca di sogni e di colori. Li porterò tutti con me”. A quelle parole, il morbido tessuto dei sogni lo avvolse leggero. In quell’istante era di un blu profondo, come un abbraccio di mamma prima della buonanotte.

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1* Mi ricordo quando hai scritto della cellulite cerebrale. 2 Mi ricordo dei tuoi animali tautogrammatici. 3 Mi ricordo i nostri abbracci. 4 Mi ricordo di un settembre di sole a Casalmaggiore. 5 Mi ricordo casa tua che era tutta Firenze. 6 Mi ricordo i tuoi sguardi come le pagine veloci. 7 Mi ricordo la voce tua e la sorpresa di un viaggio al telefono. 8 Mi ricordo Montalbino dei sorrisi. 9 Mi ricordo Chartres dove hai suonato un organetto per bambini. 10 Mi ricordo Pomponesco con le autorità ‘Patafisiche. 11 Mi ricordo i tuoi occhi di Zarina e Ministro Sfavillante. 12 Mi ricordo i tuoi contenuti pieni di forme. 13 Mi ricordo che non è facile accettare tutto. L’editore

*JE ME SOUVIENS, Per Brunella Eruli, Biblioteca Oplepiana n. 35, Novembre 2012

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Brunella Eruli

PAESAGGI OBBLIGATI: CALVINO E LES FLEURS BLEUES DI QUENEAU

Con la traduzione, nel 1967, de Les Fleurs bleues di Queneau, pubblicate nel 1965, Calvino chiudeva una lunga e per lui deludente stagione di formazione e ricerca iniziata nel dopoguerra e apriva una nuova stagione del suo percorso biografico e letterario, scandita dal trasferimento a Parigi (dove rimarrà fino all’inizio degli anni 80), dall’incontro con Queneau (da Calvino considerato via via con maggiore chiarezza il suo modello ideale di letterato e scrittore) e con l’Oulipo. Prendeva cosi avvio una produzione posta da Calvino stesso sotto il segno dell’Oplepo (Castello dei destini incrociati, 1973 Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979 e vari saggi), che di fatto liberavano e davano voce alla vena di scrittura fantastica, vena a lui profondamente connaturata e sempre avversata per ragioni ideologiche e culturali per tutta la stagione del dopoguerra. “Gli anni Sessanta sono un’epoca di rinnovamento dell’orizzonte culturale, vista l’inadeguatezza del modo di conoscere umanistico a comprendere il mondo” scriverà Calvino nel 1980 (Una pietra sopra) motivando così il suo deciso aprirsi alla dimensione della scienza, coniugata alla scoperta dell’invenzione e del comico. Apertura di cui Queneau era stato il modello e il garante. Per gran parte del decennio del dopoguerra, la dimensione politica era stata per Calvino una gabbia rigida e stretta in cui la letteratura non aveva altro spazio se non quello dominato dall’ideologia. Eppure nel 1970 in una lettera a Franco Fortini scriverà “ho scoperto che l’unica mia biografia possibile è politica e dove la politica finisce non resta più niente da raccontare”. Per tutto questo periodo Calvino ha cercato di calarsi nel filone del grande romanzo realista sollecitato anche da forti incoraggiamenti della critica “impegnata” che attendevano da lui “il” romanzo della guerra. I romanzi di quel periodo il Visconte dimezzato (1953), Il Barone rampante (1957), scritto dopo la sua sofferta uscita dal partito comunista nel 1956, rientrano con difficoltà nella prospettiva in cui si era ingaggiato, tanto da considerarli un quadro a parte, come i “nostri antenati”, quasi deviazioni ammendabili dalla ricerca di un più vasto romanzo storico che gli sfugge e non sarà realizzato in quella forma. Non è un caso se, dopo la scomparsa di Elio Vittorini (1966), suo grande amico e complice, Calvino si accinga a tradurre lui stesso, Les Fleurs Bleues di Queneau, omaggio a un autore considerato come un alter ego, se non un fratello maggiore.

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La scelta di questo romanzo e di questo autore non era né casuale né facile perché all’epoca (ma le cose sono veramente cambiate?) Queneau godeva in Italia di una fama a dir poco dubbia: per la sua eccentricità (le ricerche sui fous littéraires o sul neofrancese) non poteva che urtare un certo conservatorismo della letteratura italiana sempre molto sospettoso nei confronti del surrealismo e del post surrealismo, senza contare che la fama tutta “parigina” di Queneau, faceva di lui un letterato anomalo difficilmente “esportabile”. La traduzione de Les fleurs bleues, esemplare per la comprensione profonda del testo, è un’operazione che rivela soprattutto il Calvino scrittore che, in questo modo indiretto, firma una sorta di manifesto implicito, sviluppato poi in opere da lui riconosciute come oulipiane (Il piccolo sillabario illustrato, lungo poche pagine, il Castello dei destini incrociati, 1973, Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979). Con questa traduzione Calvino rende omaggio a quello che considera un fratello maggiore, ma compie il tentativo di innestare nella cultura italiana del dopoguerra, ancora alle prese con la scrittura del periodo della guerra e della liberazione sempre in bilico fra autobiografismo, sentimentalismo, realismo e ideologia, un filone che per brevità definiremo patafisico, (da Jarry ai patacessori in poi, su e giù nel tempo), cioè quel filone di “irregolari” delle lettere, anomali e avventurosi esploratori, consapevoli del fatto che la regola vale se infranta, ma che, per arrivare in fondo a questa operazione, bisogna conoscere perfettamente le regole che si vogliono infrangere. La famosa formula di Queneau sulla maggiore libertà del tragico greco che conosce perfettamente le regole a cui deve e vuole obbedire rispetto a chi crede di essere libero solo perché ignora le regole a cui obbedisce senza saperlo, sintetizzano la polemica di Queneau nei confronti del surrealismo, da lui abbandonato nel 1929, e diventa la bussola per un nuovo o diverso modo di concepire la scrittura. Le opere che Calvino consegna negli anni settanta vanno lette sotto il segno oulipiano e non si puo’ sottovalutare l’effetto liberatorio che ebbe per lui l’incontro con quel modo di concepire la scrittura: il fatto che la letteratura trovasse la sua maggiore libertà proprio nella regola lo invitava a nozze e lo liberava dalla visione sempre un po’ aulica o sempre troppo funzionale della letteratura in Italia.

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Attraverso Queneau, Calvino scopre il piacere della contrainte che forse si potrebbe tradurre non solo come “costrizione”, ma con la formula impiegata da Pavese nel 1945 per indicare la funzione creativa delle collane editoriali: “passaggio obbligato”. La traduzione de Les fleurs bleues rappresenta appunto questo passaggio. Nel lontano 1947, nella prefazione del Sentiero dei nidi di ragno, Calvino già parlava di un testo che contenesse anche la possibilità di tutti i testi virtuali che possono sostituirlo. La traduzione non è forse “anche” o “soprattutto” l’operazione che consiste a far emergere in un’altra lingua gli aspetti nascosti spesso inconsapevolmente dall’autore stesso sotto i giochi di parole, le associazioni implicite, i riferimenti, le allusioni? La traduzione de Les fleurs bleues gli offriva pane per i suoi denti. Calvino era rimasto abbastanza scottato dalla più che tiepida accoglienza ricevuta in Francia dalla traduzione de La Giornata di uno scrutatore, i cui numerosi riferimenti politici e culturali alla situazione italiani erano risultati incomprensibili al traduttore e inattuali ai lettori transalpini. La scelta di tradurre quel romanzo di Queneau, proprio in quel giro di anni, si comprende anche in relazione alla tematica storica che sottende il romanzo e che, in modo diverso, rappresentava anche uno dei grandi temi del dibattito nella cultura italiana del periodo. Nella storia del Duca d’Auge e di Cidrolin, Queneau si prende gioco del concetto “progressivo” di storia negandone il divenire verso “magnifiche sorti e progressive” per ridurla alla sostanza del vissuto quotidiano. Il problema della storia era fortemente sentito da Calvino che, nella sua produzione degli anni 50 (e soprattutto con Il sentiero dei nidi di ragno), aveva cercato di dare forma al tanto atteso “romanzo della storia”, per lui impossibile se si abbandonava l’epopea della resistenza (da Calvino del resto raccontata da un punto di vista opposto a quello “eroico”). Calvino però era arrivato alla consapevolezza, sottolineata da Leonardo Sciascia nella recensione al Barone rampante (1957) che solo la fedeltà al proprio mondo poetico, sia esso di materia attuale o favolosa, poteva garantire la fedeltà alla storia.

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“Mi accorgo che è stata la pressione della storia a portarmi avanti e poi mi ha lasciato lì” scrive in una lettera a Elsa Morante nel 1950. Come se ogni cosa fosse andata liscia finché erano solo storie partigiane e che poi a contatto con la realtà sociale più complessa, la scrittura avesse cominciato a girare a vuoto. Finito l’incanto che aveva popolato il mondo del dopoguerra si era entrati in un mondo di grigiore e mutismo nel quale i personaggi di Calvino di quegli anni (La speculazione edilizia, La nuvola di smog, La giornata di uno scrutatore) si mostrano assediati dal grigiore e da un “possibile” perduto, fallito, mai nato (Giornata di uno scrutatore). Nell’articolo Cibernetica e fantasmi (1967), Calvino presenta Centomila miliardi di poemi di Queneau come un “rudimentale modello di macchina per costruire sonetti uno diverso dall’altro”,1 nel 1981, a distanza di quindici anni, nell’introduzione a Segni, cifre e lettere (traduzione italiana del saggio di Queneau Bâtons chiffres et lettres), Calvino sottolinea le infinite sfaccettature di questo autore che può sembrare facilmente comprensibile ma che dispone di “un retroterra che non si finisce mai di esplorare”. La sintesi del progetto di Queneau appare a Calvino “quello d'introdurre un po' d'ordine, un po' di logica, in un universo che è tutto il contrario. Come riuscirci se non con l'«uscita dalla storia»?”. Sarà il tema del penultimo romanzo pubblicato da Queneau: Les fleurs bleues (1965), che s'apre con l'accorata esclamazione d'un suo personaggio prigioniero della storia: “Tutta questa storia, – disse il Duca d'Auge al Duca d'Auge, – tutta questa storia per un po' di giochi di parole, per un po' d'anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d'uscita?”. I due modi di considerare il disegno della storia, nella prospettiva del futuro o in quella del passato, s'incrociano e si sovrappongono nei Les fleurs bleues: la storia è ciò che ha come punto d'arrivo Cidrolin, un ex carcerato che ozia su una chiatta ormeggiata sulla Senna? oppure è un sogno di Cidrolin, una proiezione del suo inconscio per riempire il vuoto d'un passato rimosso dalla memoria? Il terreno sul quale l’analogia tra Calvino e Queneau appare più evidente è quello del rapporto tra letteratura e politica.

Queneau, trotzkista militante negli anni ’30, approda a una visione pessimistica della storia, alleggerita dall’innesto della filosofia taoista e da una pratica religiosa, nascosta, ma assidua. Nel libretto Une histoire modèle, 1966, chiave di lettura de Les Fleurs bleues, Queneau sintetizza cosi il suo pensiero: la storia è la storia dell’infelicità degli uomini. Nell’età dell’oro la storia non esisteva. L’atteggiamento di delusione e di distacco dalla politica militante non esclude tuttavia da parte di Queneau la costante partecipazione intellettuale agli eventi della agitata vita politica francese, ma la speranza rivoluzionaria si è poi ritratta nella utopia della rivoluzione linguistica e ortografica del neo francese. Calvino, da parte sua, riconosce di aver mutato profondamente le sue convinzioni e di essere passato da una posizione militante ad una più cauta e delusa. “Ho creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società. E l’uno e l’altro sono saltati in aria”.2 In un articolo pubblicato su “Repubblica” nel 1979 “Sono stato stalinista anch’io?”, Calvino delinea una coraggiosa e lucida ricostruzione del proprio percorso: scrive di aver considerato lo stalinismo “come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto. Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto”.3 Dopo la repressione dell’insurrezione ungherese del ‘56, scrive ancora Calvino, “molti si riconobbero in quell’ora della verità e si ricollegarono poi alle matrici rivoluzionarie del comunismo… Altri presero la via più pratica del riconoscere l’esistente per cercare di riformarlo, chi con ottimismo razionalista, chi col senso del limite, del peggio da evitare, della relatività dei risultati. Non seguii né gli uni né gli altri; per essere un rivoluzionario mi mancava il temperamento e la convinzione, e la modestia dell’orizzonte riformatore (del mondo socialista o di quello capitalista) mi pareva non potesse farmi guarire dalle vertigini degli abissi che avevo sfiorato. Così pur restando amico degli uni e degli altri, sono andato via via rimpicciolendo il posto della politica nel mio spazio interiore… sono componenti caratteriali proprie di quell’epoca, che fanno parte di me 2

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M., Saggi I, p. 212.

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Situzione 1978, Saggi t. II, p. 2828. Sono stata stalinista anch’io?, saggi, t. II, p. 2840.

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stesso: non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di una autodisciplina, di un’autoricostruzione, d’uno sforzo”. Disciplina, fermezza, severità diventano per Calvino “le virtù più sostanzialmente liberatrici di qualsiasi velleità libertaria”: “La complementarità fra elementi di liberazione ed elementi di repressione è indissolubile, prima di tutto negli individui, perché solo chi sa in qualche misura autoreprimersi può essere in qualche misura libero, e cosi nella collettività. Una democrazia che perde il senso della severità della propria difesa collettiva e unitaria ha già perduto il senso della propria liberazione, la quale non è mai data una volta per tutte. Un richiamo ai valori morali che sono in fondo alle ideologie e che restano quando le ideologie avvizziscono, un richiamo alla disciplina, alla fermezza, alla severità, più sostanzialmente liberatrici di qualsiasi velleità libertaria, sono i soli suggerimenti che ci sembra di poter dare”.4 La riflessione sul senso della storia, il ripensamento sugli eventi della vita politica recente diventano il punto di partenza per delineare un nuovo percorso umano e artistico. L’incontro tra Calvino e Queneau avviene su questo progetto, lucido e esigente, teso alla costruzione di una nuova etica, politica, letteraria e personale. 28 dicembre 2009

4

I nostri prossimi 500 anni, Saggi, t. II, p. 2299.

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Mentre leggevo il racconto di Edgardo Franzosini sull’Orologio Enciclopedico, meraviglioso marchingegno rimasto incompiuto, opera di José Simón Alemán che permette, fra l’altro, di conoscere nello stesso istante e con la massima precisione l’ora in tutti i luoghi del mondo, mi è venuto subito in mente – per un cortocircuito delle idee o un’interconnessione obliqua della mente per dirla con il filosofo francese Joseph Lacomme – l’orologio della città gallese di Denbigh di cui ha parlato lo scrittore anglo-indiano Noil Bolaapa in un articolo apparso il 21 marzo 1999 sull’«Independent». Nella piazza principale della città di Denbigh nel nord del Galles, racconta Bolaapa, c'è un campanile con un grande orologio circolare incastonato su una sola facciata. Se uno guarda l'orologio del campanile standogli di fronte in linea retta, ha l'ora precisa di quel momento, cioè del momento in cui sta guardando l'orologio. Ciò significa che l'orologio, osservato da quella posizione, e soltanto da lì, segna l'ora ufficiale in vigore a Denbigh, e in tutto il Galles. Se però uno si sposta appena di dieci passi a destra, e si ferma davanti al portone della casa del sindaco della città, allora l'orologio, facendo leva sulle medesime due lancette terminanti con una punta metallica a forma di cuore e gli stessi numeri in stile romano, simili a quelli del più noto orologio della torre del Big Ben, mostra distintamente l'ora di Parigi. Se poi invece uno si posiziona sul lato opposto del campanile, cioè sulla sua sinistra, così da dare le spalle al pub più frequentato della città, l'orologio assume uno strano profilo indicando l'ora esatta di New York. Girando intorno alla piazza, che è rettangolare, ogni dieci passi circa si nota che l'ora del campanile di Denbigh cambia, si trasforma, non è mai la stessa, offrendo a seconda della visuale l'ora di una città straniera sempre diversa, anche dell'Asia e dell'Africa. Tuttavia la vera singolarità dell'orologio del campanile di Denbigh è un'altra: in qualunque punto della piazza voi siate, esso mostra, se lo guardate a occhi chiusi, un'ora speciale. Gli abitanti di Denbigh, che sono molto affezionati all'orologio del loro campanile tanto da pagare volentieri una tassa, sia pure modesta, per la sua manutenzione, dicono che quella è un'ora soggettiva, arbitraria, «l'ora che ognuno si sente dentro». Paolo Albani

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Edgardo Franzosini

L’OROLOGIO ENCICLOPEDICO

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È stato detto che un uomo solo al mondo – Ireneo Funes, credo; o non era piuttosto un tale Georges Bienenfeld? – un uomo solo al mondo comunque, avrebbe avuto il diritto di pronunciare le parole “mi ricordo...”. Allo stesso modo forse, solamente a un uomo sulla Terra si sarebbe dovuto concedere il permesso di proferire una frase quale: “Come passa il tempo...”. E cioè, a José Simón Alemán, colui che ideò e fabbricò l'Orologio Enciclopedico. Taluni hanno voluto accostare Alemán ad un altro inventore: Jesús Pica Planas. Forse perché entrambi spagnoli, forse perché entrambi isolani (uno delle Baleari, l'altro delle Canarie). Ma le analogie tra i due non vanno più in là. Se infatti Planas è stato l'autore di 79 invenzioni (dal “piatto con scanalature per mangiare gli asparagi” al “rimescolatore automatico di carte da gioco”, per citarne due a caso) Alemán, da parte sua, è stato il creatore di una sola grandiosa macchina, alla quale ha sacrificato tutta la propria esistenza. Uno strumento che per audacia e per imponenza potrebbe stare alla pari, secondo quello che è ormai il parere di molti, solamente con la “Macchina Universale del Mondo”, la famosa sfera armillare ideata da Antonio Santucci delle Pomarance. Nato, vissuto e morto ad Andratx, piccola cittadina sull'isola di Maiorca (se rispetto al concetto di tempo Alemán coltivava ambizioni, colossali per quel che riguarda il concetto di spazio le sue aspirazioni erano evidentemente molto modeste), esercitò fin da ragazzo, per vivere, il mestiere di vasaio ceramista. Non sono in pochi ad aver indicato proprio nel movimento circolare e ininterrotto del tornio, su cui gli occhi del giovane José Simón trascorrevano intere giornate, dall'alba al tramonto, il primo germe di quella fascinazione per lo scorrere circolare e ininterrotto delle lancette sul quadrante di un orologio, che lo spingeranno a ideare quel suo favoloso strumento per la misurazione del tempo (oltre ovviamente alla seduzione che esercitò su di lui il primo vero orologio che ebbe tra le mani, un Moretz a chiavetta che apparteneva al padre e che prima era appartenuto al nonno). Detto che per alcuni la vera “molla” (uso questo termine con la giusta dose di ironia) che convinse il vasaio maiorchino a porre in esecuzione il suo progetto sarebbe stato l'aver letto su un prontuario di fisica la seguente frase: “non esiste il tempo, esistono gli orologi” e di averla voluta quindi portare, con ostinazione, fino alle sue estreme conseguenze, passo ad illustrare nei particolari, per quanto mi è possibile, la creatura di Alemán, come ho avuto la fortuna di ammirarla un giorno a Andratx, in quel vecchio granaio pieno di topi e di insetti accanto alla casa (che era appartenuta un tempo al padre e prima di lui al

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nonno) in cui José Simón ha vissuto tutta la sua vita, e nel quale è ancora custodita. La gigantesca apparecchiatura ha la forma di un cilindro (forse per la suddetta predilezione di Alemán per ogni cosa che fosse circolare). Su di esso sono disposti, uno accanto all'altro, un numero inverosimile di quadranti d'orologio, di tutte le specie e di tutte le dimensioni. Le pareti del granaio sono insonorizzate con un quadruplo strato di contenitori per uova imbottiti di argilla, i residui del lavoro di vasaio di José Simón; questa è la ragione per cui dall'esterno non si riesce nemmeno a percepire il suono di quell'infinito tic-tac che invece all'interno avvolge completamente il visitatore. Nonostante la polvere che ormai lo ricopre quasi per intero, sono più di 35 anni che l'Orologio va senza fermarsi. Don Horacio Cabral, un ometto grasso dalla faccia malrasata, parroco della chiesa della Mare de Déu e cugino di Alemán, lo ricarica una volta alla settimana. Qualche cifra: la macchina misura 6 metri e dieci centimetri d'altezza e 14 metri esatti di circonferenza, il suo peso è di circa una tonnellata. I quadranti sono 482, le lancette sono 897. Sotto ogni singolo orologio è posto un cartellino scritto a penna (l'inchiostro su alcuni è ormai sbiadito) con il nome di una località: Praga, Albuquerque, Mogadiscio, Odessa, Kioto, eccetera, in modo tale da consentire di conoscere nello stesso istante e con la massima precisione – questa è la principale funzione dell'apparecchiatura ma, come vedremo non è l'unica – che ora è in tutti i luoghi del mondo (una bella smentita a quanto un polacco, mi pare si chiamasse Pawlowski o un nome del genere, teorizzava nel secolo scorso, e cioè che le concezioni di tempo e di spazio erano condannate a divenire incompatibili tra loro, e alla lunga addirittura a svanire, “a trasformarsi in pure ombre”). José Simón Alemán, così mi ha assicurato il cugino, ha costruito la sua macchina servendosi di semplici cacciaviti, pinze, lime martelli e seghetti, e recuperando oltre che, com'è ovvio, meccanismi di vecchi orologi, anche motorini di tergicristalli inutilizzati, pezzi del “meccano”, molle di carillon e di trappole per topi, rapporti di biciclette, ingranaggi di elettrodomestici. Solo le corone dentate che trasmettono o ripartiscono il movimento sono, Alemán da buon artigiano teneva una meticolosa contabilità di ogni pezzo che utilizzava, 1952. Se ci si avvicina di più al gigantesco cilindro e lo si osserva con più attenzione si può scoprire che in realtà non tutti gli strumenti che lo compongono sono semplici orologi; da qui deriva forse la definizione di Enciclopedico. La macchina di José Simón è infatti programmata

per misurare non solo l'ora in tutti gli angoli del mondo, ma anche l'ora in cui sorge e cala il sole su tutto il globo, le fasi della luna, la collocazione delle costellazioni nell'universo, i movimenti di traslazione che compie la Terra attorno al sole, nonché quelli di rotazione che compie attorno al suo asse e quelli di rivoluzione che compie attorno alla luna, gli anni bisestili, il passaggio del sole (il cosiddetto mezzogiorno locale) su tutti i meridiani, i giorni della settimana e lo zodiaco. E persino, sebbene con un certo grado di approssimazione, come con modestia ammetteva lo stesso José Simón, il grado di incidenza dell'attività dei principali vulcani sull'intensità, l'ampiezza e la frequenza delle maree. La morte ha purtroppo colto Alemán sulla soglia dei sessant'anni, e gli ha impedito di portare a termine la sua opera. Progettava infatti di aggiungere altri strumenti di misurazione al suo Orologio Enciclopedico, tra cui, anche questa confidenza la devo al parroco della chiesa della Mare de Déu di Andratx, di un meccanismo che calcolasse i cicli mestruali e di un altro che misurasse il variare della percezione olfattiva susseguente all'addensarsi delle nuvole nel cielo o all'accumularsi delle foglie secche per terra.

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Le parole e le immagini che descrivono, tracciano un ritmo galoppante, si muovono tamburellando sul foglio, la scrittura produce una vibrazione che è impossibile eludere, un suono sordo che trascina nel profondo del testo, inghiottiti dal ritmo il fiato si fa corto, le immagini si avviluppano e sovrappongono in un susseguirsi di fotogrammi incessanti, mentre il campionario si srotola, ci si avvicina al fulcro, forse che si forse che no. Vincenzo Denti

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Donato Novellini

LETTO PER LO SCRITTO: BLEU

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Odiavo la città, piccola bigotta pettegola ordinaria insignificante ripetitiva incappottata giallo marroncino. Immaginavo sovente la gente felice al lungolago, abbronzata, intenta a fare surf sui fiori di loto e cenette a base di crostacei scongelati, con candele profumate ed oleandri di gomma. Metodo classico che sbollisce ghiacciato (il cestello con strofinaccio immacolato, mi raccomando), divanetti bianchi finto Bauhaus dove trattenere tonicamente il respiro. Tanto più che non c’era gusto per l’educazione nei tavolini fuori dai locali (signorina); implorare patatine mollicce aperte da giorni non mi veniva spontaneo, mentre i piccioni all’arrembaggio come topi volanti parevano apprezzare lo sbriciolìo incessante, la vergognosa carità dell’avanzo; tutta una ricerca spasmodica sotto al tavolo destinata ad attirare calci violenti, maledizioni ed improperi. Crosta e mollìca, per altro giungeva sempre prima lo scontrino della consumazione. Per mio conto il rifugio era in quel bugigattolo del Caffè Noir, lo stretto necessario in orari di scarso afflusso, giusto il tempo per un rosso delle Langhe. Latita il coraggio in occasione dei commiati, nevvero? Me ne andavo esattamente quando vedevo giungere la gente giusta, gli affabulatori col sorriso di marmo, gli untuosi presuli della mondanità. Di che avrei potuto discutere con l’avventore abituale? “Offro io! Ma si figuri… paga Heidegger”. Posticipare o evadere. Le solite facce alle solite mostre, i soliti sorrisi accomodanti, le solite maldicenze rivolte agli assenti, i soliti quadri stucchevoli, il solito informale buttato lì, mal fatto e male illuminato, medesimo vinaccio con noccioline e alla fine applausi. Avrei voluto mandarli tutti affanculo in gregoriano latino aramaico dialetto. E diventare di colpo un severo cattolico conservatore, perché no? Anzi no un ortodosso, un derviscio, un anonimo condomino del Monte Athos, il pronipote orientale mai riconosciuto da Hugo Ball, la staffetta dadaista di Fiozzi e Cantarelli – messa in latino ed estasi roteante – giammai un nichilista contemporaneo, come tutti quei mezzi froci finto postpunk chini a masturbarsi sul telefono, quelli con il ciuffo in piedi per l’aperitivo in bermuda e la simpatia scoppiettante nell’aria, quelli del logo sulla scarpa, quelli del sodalizio della caviglia scoperta. Darsi una sistemata. Avrei voluto continuare ad essere l’orgoglio di mia nonna, il paggetto elegante per l’ora del tè. Un collezionista di francobolli, il cresimante ingenuo con la frangia ben pettinata ed i mocassini marroni lucidi, il padrone d’un cane della pubblicità, al limite pure un osteopata, un bibliotecario, un esperto di funghi, il messo comunale, uno, qualcuno, ma non trop-

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po. Piuttosto che suburra metro-drogata collegio e castigo, in luogo dell’effimera felicità dei nottambuli cocainomani. Poi domani tutti Canottieri. Giandomenico quarto, duca dell’agnolo in brodo, nient’altro che un revival per accumulatori di storie già scritte da raccontare come fossero nuove, balsamico caramelloso e scaglie di grana: l’abbiamo tagliata. La conservazione dei beni culturali giudicata perdita di tempo, anzi hobbistica da dopolavoro per apprendisti uscieri. “Hai preso il modulo?”. Ero stanco della Storia, tediato dalla rendita inerte che imponeva, soverchiato dalla devozione remota all’araldica. Donne delle pulizie a spolverare antiche sculture, tutti s’industriavano per armonizzare la Storia, per imbastire consenso attraverso mercatini dell’antiquariato, le buone e genuine robette di una volta, le uova sode, gli antichi sapori, qui scorreva un canale. Là edicola in ferro battuto, i Bonaccorsi sempre rimpianti. Che avesse forse ragione il cameriere, con la sua eccitata quanto dissoluta apologia dei Gin? Ubriacarsi è sempre stata una faccenda per facoltosi teatranti. Significa cedere alla seduzione del demiurgo, alla prestidigitazione del barman. Perdersi. Svanire. Nel mentre fissavo gli embarghi assoluti, le velenose idiosincrasie: niente Lago di Garda, per carità, meta di nottambuli dopati e famiglie sudaticce con gelato colante; niente centri commerciali, ci s’andava da giovani ad odiare la gente, in tre o quattro con impermeabili neri e sguardi di disprezzo rivolti ai clienti con carrello della spesa stracolmo d’inutilità, all’opulenza crassa e gelatinosa dello spesone; niente catene commerciali, immondezzai lustrati da indiani che dormono di giorno nel parcheggio sul retro. Niente ristoranti di pesce di mare in pianura o peggio ancora giapponesi gestiti occultamente da cinesi, baracconi di falso velluto laccati in plastica nero oro fucsia bronzo, mete predilette da zitelle e pusillanimi. Pizzeria di napoletani – Ah, le palme di plastica! – in periferia con Lagavulin riflesso alla specchiera dietro al bancone, aspettando per altro che si liberi un tavolo, mentre potrei morire adesso solo per il fatto di essere qui, costretto alla realtà dai modi spicci del cameriere. “C’è un tavolo che si libera tra dieci minuti”. Occorreva tuttavia uscire dal perlinato teatro, respirare, camminare a vuoto, intrufolarsi in un cortile dai muri scrostati, in un bar di vecchi o in una bocciofila fumosa, evadere trasfigurando la normalità, la banale visione di luoghi noti, dei tre laghi morti che braccano la città. Senza donne nei paraggi sono pur sempre amenità, zollette che non si sciolgono bene nel caffè e farfalle secche schiacciate nei

libri, miracolosamente ritrovate poi in seduta sul cesso. Esco quindi di casa dopo infiniti ripensamenti, parcheggio di fretta in piazza Virgiliana alla ricerca di un negozio di antiquariato, ho tra le mani un letto di legno che vorrei far valutare e possibilmente vendere. Non lo venderò mai, mi dico. Le azioni anticipano sempre le intenzioni, che furono belle e buone, che furono Bleu.

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Qual è il senso? Che viaggio è questo? Chi sono i passeggeri? I nomi, qualcuno ci deve dire i nomi, le loro vite, dove abitano? Astronauti bambini, animali adulti, vecchi mostri che vagano per lo spazio? Un universo plurimo, adiacente, parallelo? Fondali, scenari, palcoscenici di mondi lontanissimi di paesaggi e figure sfocate, evanescenti, misteriose? Presenze volanti invisibili che lasciano fruscii, deboli voci, sussurri? Una terribile, tragica storia segreta o un gioioso racconto a lieto fine? Sappiamo niente, questa è la verità! La dimostrazione è il testo di Scheggi che ci lascia un pianto al quale tutti dovremmo attenerci almeno una volta al giorno e scegliere finalmente di piangere per qualcosa o qualcuno che abbia un senso. L’editore

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Duccio Scheggi

a Lisa Lelli

FIABA BREVE PER BAMBINI SPARITI

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C’era una volta un astronauta alla deriva, non era stato creato ma generato da sua madre. Nel suo vagare nello spazio non aveva trovato pianeti dove potessero vivere esseri con piedi o radici, quindi continuava a scivolare. Anche perché lui non aveva più piedi né radici. Le sole e uniche radici che persistevano vivevano nei suoi capelli, che adesso erano diventati un tutt’uno con il suo scafandro. Non era un eroe, e non voleva esserlo, era diventato, suo malgrado, gradualmente cinico. Volava e viaggiava nello spazio, ma gli sembrava di essere fermo, appeso al cielo o all’universo, che lo teneva sospeso. Prima di diventare uomo, l’astronauta, era stato sulla terra e aveva vissuto da animale, assecondandosi ogni giorno, finché non capì che la sua natura lo portava a non volersi più raccontare, a creare per sé la possibilità di esplorare luoghi nuovi, che non avessero i limiti spaziali della terra, che non avessero confini, bordi, margini, argini, coste, rive, angoli. Gli altri animali sulla terra, vedendolo trasformarsi in un astronauta decisero di crederlo un mostro, perché a loro così appariva. In natura si vive solo con la pelliccia, la pelle, le corna, le zanne, le unghie, cosa sono le tute spaziali? Come si può fluttuare? Non poter più essere ancorati alla terra, carponi, e correre... Gli uccelli invece lo guardavano, si ricordavano dei dirigibili, degli aerei e di tutte quelle bizzarre opere dell’uomo che si trovavano nelle loro rotte e che viaggiavano per piacere, non per natura, simulavano e scimmiottavano il loro volo, ma non migravano mai con le stagioni, non si nascondevano alle intemperie o tornavano a sistemare il nido dopo aver trovato sulla terra qualche elemento di rinforzo. Gli uccelli cantavano, non per salutare l’astronauta, ma perché lo avevano sempre fatto, era il loro modo di continuare anche loro a raccontarsi la propria storia e cantandone le gesta farsi eroi. L’astronauta iniziò a volare mentre sentiva in lontananza il pianto di un bambino. Per lui fu come il conto alla rovescia prima di partire, ma oggi continua a sentirlo e si è quindi dato la spiegazione che quel pianto solo gli astronauti possono udirlo. È quello che gli studiosi avevano chiamato “l’eco del Big Bang”. Una volta divenuti esseri spaziali si ha la capacità di udire questa nuova atmosfera sinfonica. Proprio come gli uccelli sentono i richiami d’amore, o i lupi gli ululati notturni dei loro simili, i richiami nella foresta, così il bambino iniziava a piangere, per tutti coloro che lasciavano la terra.

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Gli animali non sentivano il pianto del bambino, loro portavano attenzione solo su qualcosa che non esisteva, e così facendo per miracolo creavano il mostro. L’astronauta era un mostro, e non meritava di vivere con loro sulla terra, “che se ne vada pure!” dicevano, guardandolo prendere il volo. Lui li guardava e pensava: “loro non lo sanno, ma anch’io sono un animale, o forse lo sono stato, sto solo seguendo la mia natura”. Non poteva più essere individuato però, ora era un bersaglio mobile che spariva. Ha immaginato già tutto perché il tutto aveva iniziato ad immaginarlo, così com’era, apparentemente fermo ma eternamente in moto. Viaggiando nello spazio l’astronauta cominciò a corrodersi, lentamente, come l’asteroide che entra nell’atmosfera terrestre, ma stavolta al rallentatore. Si stava spogliando, dissolvendo, polverizzando, assottigliando, come una saponetta per l’usura. E mentre si restringeva iniziava a diventare il pianto che udiva. Era suo figlio, lui era suo figlio, neonato, e piangeva disperato per poter stare col padre. Lui sì, lo aveva creato. Ora erano la stessa cosa. Continuando a corrodersi si vide ai confini della nostra galassia un feto che aveva per cordone il tubo da palombaro degli astronauti, e il suo pianto riecheggiava nell’universo. Era il pianto di tutte le Ere. Un pianto d’amore per la vita.

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Un Guido Gozzano moderno, anzi addirittura proiettato in un futuro non vicinissimo, rivive il Natale dell’infanzia, un disincantato Natale di inizio secolo (XXI). Non parodia ma omaggio, il componimento scaturisce da una laica, sommessa indignazione, cui fa da bersaglio non certamente il messaggio di Redenzione, ma il suo stravolgimento da parte dello tsunami delle mode e della futilità di massa. Una parola-chiave si ostina a non tornare in mente al narratore (lapsus sintomatico!) se non casualmente e alla fine. L’autore

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Stefano Tonietto

I.

LA PAROLA NON TROVATA Un Gozzano moderno

Allora, era quello il Natale (mi torna improvviso il ricordo) vivace, felice ed ingordo laggiù nel villaggio globale? Ricordo, il Natale dell’Undici come se fosse presente… Ah, mettere a fuoco la mente… O subdolo oblio che m’ottundi…! L’inizio d’un tiepido inverno (“È il clima, è l’effetto di serra!”)… in Africa, in Asia una guerra… dovrebbe cadere il Governo… la crisi… va su la benzina… il monito austero del Papa… la striscia scorrevole, sciapa, del Tigi di prima mattina. Ritorna la casa tra poco dov’era quel solo bambino, con Zucchero, suo bastardino, compagno fedele di gioco. Papà che leggeva il Corriere a mamma nell’idromassaggio: “Ai tempi, che tempi!, di Baggio! Mondiali? Sì, voglio vedere…”. Com’era lucente il Natale: abeti, palline, festoni, le solite care canzoni laggiù nel villaggio globale: Jingle bells, jingle bells jingle all the way… Stille Nacht, heilige Nacht… Tu scendi dalle… belle, o Re del cielo…

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II.

III.

Quest’oggi siam tutti alla Messa, persino lo zio radicale, persino la nonna, la quale con un motorbiker s’è messa.

Vigilia! Per gli ultimi acquisti ancora non è troppo tardi, che gioia! Ed insegna Leopardi ch’è presto per essere tristi.

Tra i banchi (navata di mezzo) si scorge il famoso avvocato eletto, mi pare, al Senato, un uomo, si dice, di prezzo.

O libico senza lavoro, sorridi, solleva la testa! In mensa dei poveri (è festa!) avrai questa sera il pandoro.

Con lui viene su all’offertorio quell’altro dell’opposizione, votata la stessa mozione sui banchi di Montecitorio.

Che bello là in piazza il banchetto di frutta dei miei cingalesi! Festoni e ghirlande hanno appesi che fanno bellissimo effetto.

Non manca l’illustre primario cui devono molti la vita: “Che lista d’attesa infinita!” “Ma va’ dov’è lui proprietario…”.

Saluta il barbiere iracheno, sorride il barista cinese, per quanto ad entrambi (è palese) non possa importare di meno.

“O quello? Che canta, là dritto…” “Filantropo, noto industriale… evase la patrimoniale, reato alla fine prescritto”.

Peccato, però, che l’ucràina le nonne non voglia badarle: un Bauli ci tocca comprarle che costi non meno del Màina.

“La moglie del Conte, l’attrice!” “Be’, attrice… faceva i provini… Nei ruoli brillanti ed affini aveva la mano felice”.

Il pusher pedala svogliato battendo gli stessi quartieri: son tutti passati già ieri, stasera c’è scarso mercato.

“Bambino, santissimo dono – s’innalza un sospiro concorde – proteggici, siamo alle corde… Che venga varato il condono!

L’idraulico, addirittura!, risponde (siam tutti più buoni!) e viene. Per due guarnizioni stavolta rilascia fattura.

Bambino, è pur sempre Natale; ascolta le supplici voci! Fa’ in modo che in tempi veloci s’approvi lo scudo fiscale!

E l’ultimo market rionale che gli outlet non hanno strozzato è aperto allorché senza fiato, a un’ora ch’è quasi Natale,

Bambino, ci aspetta la neuro; pietà miserere essoess! Preservaci tu dallo stress per l’oscillazioni dell’Euro!”.

entriamo: “Avete una bella, da mettere sopra l’abete, ma sì, voglio dire… sapete… la cosa cometa, la… quella?”.

Persino il moldavo all’ingresso del giorno più buono risente: un obolo più consistente in mano chi entrava gli ha messo. Nell’ultimo canto a cappella si prodiga il coro tenace. Guardiamo il presepio. Che pace! Risplende là in alto la… quella.

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IV.

V.

Nell’angolo c’è il presepietto di Capodimonte (costato un occhio!), l’abete addobbato, politicamente corretto.

La bella cugina dal seno rifatto, che digita (è teen!) sull’ultimo grido touchscreen quaranta essemmesse, non meno,

“E non ce l’abbiamo il camino! – osserva l’infante saccente – Da dove verrà veramente il vecchio barbuto nonnino?”.

trasmette del suo cicisbeo le nuove pur sempre ed antiche golose novelle alle amiche che fanno lo stesso liceo:

O tenero Babbo, figura gioviale, obesa e chimerica, venuto per noi dall’America assieme alla bibita scura,

“La moto l’ha nuova di palla, ma certo, una rossa Ducati! Domani si va da Graziati. Tivì bibibì, stammi scialla”.

conosci la dolce panzana assunta a livello di mito che t’ha proclamato marito dell’ilare, arzilla Befana? Lo sai che ci sono bambini cui par sia tuo figlio Gesù? “Oh, insomma! E Maria?” Per i più la Fata sarà Dei Dentini.

E vola, tra cavi ravvolta d’i-pod e cuffiette alle orecchie, tra tante ventenni più vecchie ai punti di nota raccolta,

Ed ecco l’amena storiella sull’albo stampato a fumetti dei Magi, che vanno diretti seguendo, seguendo… la sella.

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davanti ai locali più “in” a caccia dell’ultimo Witz (ma lei non sa dirlo) e lo spritz s’alterna al più rapido gin. In alto, ben sopra di quella folla, sull’inquinamento di luci, si fa strada a stento, lumino stentato, una… bella.

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VI. Ricordo quel certo Natale. Perché proprio quello? Non so, mi pare che allora, però, s’andasse non poi così male. Mi viene il fiatone, boccheggio… ma no, mi ricordo… cioè… e tutti pensavano che ci fosse anche un limite al peggio! Al solito, adesso vorrei concludere, ed ecco che arranco, ho troppo parlato, son stanco, mi siedo… saranno le sei. Natale… Un’immagine, bella! Ma come offuscata da un velo… comparve, comparve nel cielo, comparve, comparve… sì, quella…! Mio figlio – non quello che vola lassù con la NASA, il minore – mi prende per mano, che amore. Sussurro: “Non so la parola…”. “Avanti, papà, non è un dramma; è tempo d’andarcene a cena. Ricordi? C’è pure zia Lena… C’è in video-satellite mamma”. Zia Lena? Sarebbe…? “Ma dài, me lo chiedi? La mamma di Stella!”. La mamma… la mamma di Stella? Ah, Stella!... Perdona… l’Alzheimer…

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La superficie tranquilla di un tavolo da cucina diventa tastiera dove gli istanti, in parola ordinata, concedono spazio allo spessore emotivo del momento. I colori occupano posti in un movimento sonoro e trascinano nell’onda rassicurante, tempo, infanzia, creazione e settimana. Il sole assolato è l’assoluto e sapiente accentuarsi del gioco, del gioco dell’orso, storia infinita della paura, del prigioniero, del tenero urlo al tamburo della sua voce nell’esibirsi alla vita. Beatrice Delbosco

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Silvia Delitala

SETTE GIORNI D’INVERNO Sognavo la mano avvolta di rosso e parole, parole acute di blu. La cucina, avvolta dalla luce del pomeriggio, il tavolo di marmo e un bicchiere decorato di un rosso rugoso, pieno di coca-cola. Così l’infanzia svaniva.

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Sette giorni d’inverno all’incontro con il sole sette giorni d’amore dopo il tramonto.

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Il sole assolato solleva il sale assoluto e sapiente ripieno di mente cangiante di latte di polvere piena di magica sfera di vuote parole di perle svelate al gioco dell’orco.

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La paura avanza rossa come il sangue entra nella bocca e ti stringe a se ti divora con il suo abbraccio. Ridi con il ghiaccio tra i denti.

La strada si avvicina alla mente, rovescio addosso il mio amore, una tazza di caffè, verde-azzurro, pallido come il giallo dell’interno, un sorriso. Solo il tavolo ci separa.

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La densa triade di liriche inedite che Giorgio Bàrberi Squarotti offre in questa plaquette al lettore attento – se non necessariamente in fabula – ci propone altrettante variazioni tematiche della sua caratteristica poesia in moderni versi sciolti, dal ritmo apparentemente narrativo ma in realtà pervasi e sostenuti da un pathos evocativo asciutto e scolpito, memore della nostra più sicura tradizione poetica novecentesca, da Pascoli al conterraneo Gozzano, da Sbarbaro a Campana, da Saba e Montale a Caproni e al Pavese “whitmaniano”: tradizione a sua volta tributaria degli amati e lungamente attraversati classici della letteratura italiana. Le “voci” del trittico sono animate dalla compresenza, cruciale quanto affascinante ed inquieta, tra l'elemento tragico e quello gnomico-lirico (ma mai elegiaco), tra acuminato realismo e “illusione teatrale” di sapore barocco e pirandelliano ([…] Il tempo / è finito. Rimane questo enorme / spazio, pieno di cose quasi vere) lumeggiando una sorta di mito diroccato ma irrinunciabile, che pervade un mondo popolato da apparizioni amletiche, ambiguamente eloquenti ed implicitamente nostalgiche, proiettive della voce autobiografica del poeta, come un proustiano je che diviene, declinato al plurale, un nous che intreccia una disincantata, ancora pirandelliana “pena di vivere così” con accorate accensioni e tralucenti epifanie, ad un tempo sacrali e sensuali (le due “ragazze seminude”, presenze del resto topiche nei versi dello scrittore). Così un'articolata e sottesa compresenza degli opposti convive in una realtà “accennante”, come quella dell'oracolo delfico, dei frammenti di Eraclito, del lucido “intelligere” di Spinoza, del dramma conoscitivo del Tasso, di Hölderlin o di Rimbaud. Nei poeti di ogni tempo degni di questo nome, e in Bàrberi Squarotti stesso, vige l'attiva fedeltà vocazionale ed etica di testimone della condizione umana, qui fissata tanto nelle sue feriali piattezze e mediocrità non auree, quanto nelle sue guizzanti illuminazioni, sempre presenti e sempre perdute. Perciò l'ammirazione che fin dalla mia liceale giovinezza hanno suscitato in me la figura e l'opera di Giorgio Bàrberi Squarotti – quest'ultima versatile e penetrante quanto generosa verso gli autori esordienti o richiedenti un suo viatico – ha assunto, con progressiva naturalezza, i tratti della gratitudine amicale e colloquiale che suscita un maestro “congenere”, a noi legato da profonde eredità culturali, nonché da simpatetiche affinità elettive con la sua vasta e fine humanitas. Sono, queste, doti ormai rare in tempi di caotica ed arrogante devastazione della civitas occidentale, della sua composita ma fondante repubblica delle lettere. In questo

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inquietante scenario, che induce molta intellighentsja europea ad un rinunciatario ed evasivo minimalismo, Giorgio Bàrberi Squarotti ha riscattato e riscatta l'erudizione storico-critica della pratica accademica, propria di un moderno scriba enciclopedico attraverso il dono – mai ostentato – della “luce intellettual, piena d'amore” già propria del suo Dante; luce che è, anche e sempre, il “doloroso amore” per la vita proprio dell'annoso e sapiente Ulisse di Saba, così connaturato al suono-colore e alle forme, integre o turbate, della poesia. Maura Del Serra

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Giorgio Bàrberi Squarotti

L’AFFRESCO DI CIGLIÈ Ce lo trovammo accanto, nel crepuscolo di aprile, nel bar di Monforte, mentre con Diana e con Maria assistevamo alla partita fra Sampietro e Olimpia. Era invecchiato, stanco. Salutò con un cenno. – Vuoi – gli disse Eugenio – un bicchiere di arneis? Scosse la testa. È tanto tempo che non vengo qui – Non guardate me. Come va l’incontro? Ne ho viste troppe, perse in illo tempore. Fatemi posto, mi riposerò un poco. Credo che verrà più tardi anche l’amico pescatore in Tanaro. Diana si avvicinò, col fazzoletto di lino incomincio ad asciugargli sul volto il sudore freddo, le lacrime. Monforte d’Alba 29 giugno 2012

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L’affresco di Cigliè Il soldato era inginocchiato, in mezzo fra l’angelo e la vergine col libro aperto in mano: la barbetta nera, la corazza brunita, i pantaloni a sbuffo, a quadri gialli e rossi, l’elmo posato accanto come omaggio o emblema della sottomissione della pace. Nella cappella di Cigliè, quel sabato, c’erano due famiglie, alcuni vecchi, due ragazze seminude, un mite calciatore, una cantante accaldata. Anche c’era il filosofo, e guardava con commiserazione quell’affresco. Mormorò: – Ma è ridicolo, è un’offesa stolta alla storia e alla ragione questa confusione di tempi e spazi e immagini. Guarda: c’è, al di là della finestra, anche una chiesa a Nazareth, ben nove mesi prima che incominciasse l’èra volgare, e, sul campanile, una croce. Non ha senso, il pittore è l’ignorante o il furbo, che, per il denaro, affresca quello che i preti impongono di fare di buon accordo con il feudatario per lo stupore ingenuo e l’obbedienza dei contadini di vigneti e campi. La ragazza più giovane, abbronzata, bionda, si avvicinò, gli sussurrò: – E se tutte queste immagini ed altre ancora nei musei, nelle cappelle più remote e perdute come questa e nei palazzi e nelle chiese fossero la rappresentazione dell’eterno che non ha a che vedere con la vostra filosofia e con la vostra storia? Il pittore ha voluto figurare la visione imperfetta del divino nelle forme possibili del mondo di qui, dove oggi trascorriamo miti

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ore di vita, che (anche voi credete, è vero?) ci saranno computate come il vento leggero, le grandi nuvole bianche, i fiori dei convolvoli, il pioppo argenteo, che offre luce e ombre alterni in ogni attimo che scossa, la lepre che attraversa il sagrato di gramigna e il suono remotissimo del Tanaro. Ecco: questo il pittore dice, sì, anche colline nevicate, il giglio, il pavimento con losanghe nere e bianche, le due rondini che guardano verso di voi, posate una di fronte all’altra nell’intelaiatura rossa della soglia del cielo che ha dipinto nell’affresco. Oh, ci sono molte più cose fra la terra e il cielo di quanto possa la vostra ragione fantasticare. – Stasera vuoi che andiamo in discoteca? Gabriele canta, c’è buona birra, certo ci offriranno barbera, agnello arrosto, nella folle luce sarò baciata e bacerò l’angelo che è sceso dal Castellino. Monforte d’Alba 9 luglio 2012

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– Il vento (dici) è giunto fino a questa laguna estrema dell’aurora, dove ormai sempre più tardi si intravedono volti in partenza, pioppi irrigiditi, gatti sbandati, altane vuote, un giovane che aspetta, incerto, l’amata, ma è forse in anticipo o fugge ancora sulla riva molle della nebbia celeste perché ha udito, dietro, un passo affannato, un breve ansito. – Credo che tu ti sbagli: troppe volte abbiamo atteso; e ormai non ricordiamo da quale antro o quadrante sia partito. Dopo, quando sarà scomparso, allora potremo dirci: certamente fu un fiato vagabondo, un’illusione di brezza che non significa nulla. Altra sarebbe la sua voce, fresca di rinnovata vita, luminosa, e a vicenda così ci assicuriamo che ci sarà il futuro, e, con pazienza, basta aspettare. Ci siamo distratti, forse, e invece era un alito, molto breve, debole, un po’ inceppato, ma passò come una folgore di luce. Il tempo è finito. Rimane questo enorme spazio, pieno di cose quasi vere. Genova 16 ottobre 2012

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Agnese Ambiveri mette il proprio talento al servizio della scrittura. Con spirito peterpanesco, si immedesima in un bambino il quale, dal punto di vista del suo mondo interiore, ne esprime con leggerezza e profondità la purezza e l’incanto, condizione ancora libera da pregiudizi o preconcetti che domani lo faranno accorgere della sua nudità. Un libro per bambini scritto da un adulto, ma anche un libro per adulti scritto da un bambino. Questo ci offre l’autrice, che riesce a parlare a due mondi così distanti ma che dovrebbero essere così vicini. Marco Longo

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Agnese Ambiveri

NINNA NANNA NINNA OH

Quando arrivava l’ora di dormire a Tommaso non veniva mai sonno. Finché erano le 19.00… le 19.30… le 20.00… gli si chiudevano gli occhi, ma lui cercava di tenerli ben aperti, perché a quell’ora guardava la televisione con mamma e papà, e non voleva di certo perdersi i cartoni animati! Ma alle 21.00 la mamma e il papà volevano che lui andasse a letto. Le luci spente, le tapparelle abbassate, le coperte rimboccate per bene e… il sonno era svanito! Tommaso se ne stava a pancia in su, con gli occhi spalancati a fissare il soffitto. Ma non ci trovava nulla di interessante e così, annoiato, andava a chiamare la mamma, che gli raccontava una fiaba. Era così brava che Tommaso si immedesimava di volta in volta nel principe, nel pirata, nel cavaliere, nel mago della storia; e si entusiasmava e si eccitava a tal punto, che alla fine era più sveglio di prima. E solo grazie alla pazienza della mamma riusciva ad addormentarsi. Una sera la mamma, che aveva proprio esaurito tutta la fantasia, prese in braccio il piccolo Tommaso e lo cullò a ritmo di una ninna nanna, che i suoi genitori, a loro volta, recitavano a lei: NINNA NANNA NINNA OH QUESTO BIMBO A CHI LO DO LO DARÒ ALLA BEFANA CHE LO TENGA UNA SETTIMANA… Alla Befana? Lecca lecca, caramelle Mou, rotelle di liquirizia! La Befana ha sempre un sacco pieno di dolci per i bambini, e in una settimana se ne possono mangiare davvero parecchi! È vero, si dice che sia brutta: una vecchietta un po’ ingobbita con un gran naso e un bitorzolo sopra. Ma Tommaso non aveva dubbi: bella o brutta che fosse, una vecchietta che se ne va in giro con tante leccornie sulle spalle, non può che essere gentile e generosa. La sua casa doveva essere un po’ come quella della nonna: profumata di torte appena sfornate, sempre in ordine e pulita, ricca di monete di cioccolato fondente, riscaldata dal tepore del forno acceso e colorata dalle mille caramelle di forme e gusti differenti. La Befana avrebbe fatto accomodare Tommaso: “Prego, prego…”, e si sarebbero seduti ad un tavolino rotondo, apparecchiato con due tovagliette, due tazze da tè, due piattini e due forchettine da dolce. Avrebbero fatto merenda inzuppando grossi biscotti nel tè e dividendosi una profumatissima torta al limone ricoperta di glassa. E per

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cena: minestra di caramelle in brodo di sciroppo alla fragola! Decisamente, una settimana di vacanza a casa della Befana Tommaso se la sarebbe fatta volentieri! LO DARÒ ALL’UOMO NERO CHE LO TENGA UN ANNO INTERO… L’Uomo Nero, per Tommaso, era il vicino del piano di sotto; un signore di nome Abib. Abib veniva da un Paese lontano, ed era tutto nero, fatta eccezione per i denti e le orbite degli occhi, che erano bianchissime. A Tommaso era simpatico perché rideva spesso e di un riso sonoro e contagioso. E quando rideva quei denti tutti bianchi risaltavano così tanto che non si poteva fare a meno di guardarli. A Tommaso ricordavano quei sassolini perfettamente bianchi e lisci che si trovano talvolta sulla spiaggia. Secondo Tommaso Abib doveva essere un signore allegro e simpatico perché indossava sempre vestiti colorati, e mai una giacca o una cravatta. Una volta il papà gli aveva raccontato che nel Paese di Abib vivevano gli elefanti. E non si trovavano dietro a un vetro, come al bioparco, ma liberi, proprio in mezzo alle persone! “Alcuni uomini salgono in groppa agli elefanti, proprio come tu fai con il pony, e li usano per spostarsi da un luogo a un altro” aveva spiegato il papà. Se Tommaso avesse passato un anno con Abib sicuramente lui lo avrebbe portato nel Paese degli elefanti e forse gliene avrebbe anche fatto cavalcare uno! Avrebbero rincorso zebre, dato la caccia al ghepardo e salutato le giraffe dal collo lungo! Pare che il Paese di Abib sia ricco di animali in libertà. Nelle loro avventure avrebbero riso così tanto che anche i denti di Tommaso sarebbero diventati bianchi come quelli di Abib. Decisamente, non era il caso di perdersi un’occasione simile. “Affare fatto!”, pensò Tommaso, “domattina dico alla mamma che sono pronto per partire e le chiedo, per favore, di aiutarmi a fare le valigie”.

a partire” pensò Tommaso. “E poi domani mi ha promesso la pasta al forno, e la pasta al forno come la fa lei non la fa nessuno; e settimana prossima mi accompagna al cinema, e solo la mamma sa quali cartoni mi piacciono; e mi ha appena regalato tanti colori per disegnare, e solo a lei voglio regalare il mio primo disegno; e…”. E così, coccolato dalla voce e dal morbido calore della mamma, i pensieri pian piano si spengono, e Tommaso si addormenta.

LO DARÒ ALLA SUA MAMMA CHE GLI FA FARE LA NANNA “Le braccia della mamma sono così calde, il suo respiro così profumato, i suoi vestiti così morbidi che… quasi quasi aspetto un attimo

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Le parole hanno ragione come l’ombrellino bianco e la testa vuota. Bianca evade dalle agitate stupidità con semplicità e sintesi raffinate che si espandono fino alla morale, sempre nel gioco, nella moltitudine di particolari, di ricche gioiosità al servizio della riflessione. Si allarga, scivola e afferra. Sono specchi di volti reali diversi dall’immagine riflessa, immagini a pastello, ad acquarello di fatti della vita che delineano mondi per tutti, piccoli e grandi, centro e centri dell’essere. Poesia e favola s’intrecciano sull’altalena che fa rimbalzare il pensiero in un grande mare lanciando cerchi di carta per stare dentro in minuti teatrini o grandi foreste. Vuoto e pieno lasciano libera la libertà. Lorenza Amadasi

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Bianca Pitzorno

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POESIE SCIOGLIDITA scritte per provare la nuova macchina da scrivere

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Forse un giorno di dicembre solo solo se ne andava e potendo andare solo tutto nero e chiuso stava. Ma la gazza del corbaccio, a novembre incanutita, se lo prese sotto il braccio temperando una matita. Ed il povero straniero col mantello inzaccherato trangugiando latte e siero gocciolava dal costato. Chi l’ha detto che l’ottobre è un mesaccio umido e tetro? Gli spazzini di Valobra se lo portan sempre dietro, sulle spalle dentro un sacco chiuso bene con legacci, però il sacco tiene poco perché è fatto sol di stracci, stracci e toppe sfilacciate, sempre molli e pronte a cedere. Ciò che è chiuso dentro il sacco Si sfarina come cenere.

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La signorina andava con l’ombrellino di pizzo bianco lungo la riva fiorita del fiume. L’uccello Martin Pescatore brillava di blu nelle sue piume e come un lampo calava dall’alto del ramo, tuffandosi in acqua col becco già aperto ghermiva il pesce e, vivo, lo riportava in alto tra le foglie. Lo mangiava. “È buono il pesce?”– chiedeva lei. “Signorina, non la conosco”– tagliava corto l’uccello. Chi l’avrebbe detto che da questo dialogo sarebbe nata fra i due un’inimicizia mortale? Chi l’avrebbe detto che la vendetta della signorina avrebbe provocato la morte del Martin Pescatore, a sua volta pescato, spennato e fatto arrosto allo spiedo, lardellato e farcito d’olive? Ma chi tra i mortali, signorine o pesci, può conoscere il futuro? Quel giorno d’aprile il sole splendeva nel cielo e gli uccelli cantavano tra i rami. Il pizzo bianco dell’ombrellino aperto era come una nuvola di fiori di melo. (Il poeta si diverte scrivendo cose senza senso, ma il musicista pretende almeno il rispetto della rima e del ritmo, altrimenti se non c’è senso e non c’è musica, di che poesia si tratta?). E così la povera bella signorina tornò a casa, e mentre tornava cominciò a piovere, e lei chiuse l’ombrellino per non sciupare il pizzo bianco. Ma si bagnò i capelli che diventarono ricci e scolorirono, motivo per cui quando la vide, il suo innamorato la lasciò e per il gran dolore si arruolò nella Legione Straniera.

Egli non aveva un’idea in testa che fosse un’idea, ma solo capelli, e tra i capelli pidocchi. E forfora. Fosforo, niente. In compenso parlando era prudente, e accorgersi di tanto vuoto non era facile per la gente. Poi, incautamente, andò dal barbiere e si tosò (a causa dei pidocchi e della forfora) ed avendo, davvero stranamente, il cranio trasparente, tutti poterono guardarci dentro e accorgersi del suo niente. Fu allora che si comprò un cappelluccio tirolese, ornato da una piuma di pernice o fagiano. L’ingenuo inganno non lo portò lontano. Tanto profondo era il vuoto del cervello che risucchiò il cappello, e restò la piuma in superficie. Passò un protettore di piume – almeno così si dice – la credette in pericolo, così sospesa nel vuoto, e, valorosamente, sfidando il senso del ridicolo, si tuffò a salvarla. Troppo tardi si accorse dello sbaglio. Cadde, naturalmente, dentro al cranio ampio e accogliente, e sprofondò nel niente, trascinandosi dietro anche il cane che teneva al guinzaglio. E il cranio, ancorché sempre trasparente, così fu un po’ meno vuoto. Poiché il salvatore di piume sapeva molte poesie a memoria, tutte di tema avicolo, anche la testa si riempì di quelle parole.

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Così, dice la storia, se interrogato, adesso, il proprietario del vuoto cervello – anzi, ex-vuoto – poteva citare il passero e il gabbiano, la cincia e il pettirosso, lo stornello e il fringuello, la gazza e il beccaccino. Fallito il tentativo del cappello, si comprò un parrucchino di seconda mano – o forse di seconda testa? – e lo sistemò sul vuoto, (ora un po’ meno vuoto). Sorretto dal salvatore di piume e dal suo cane fedele, l’aggeggio questa volta resse, e non cascò. E fu così che nacque la fama di una bella lucidissima intelligenza.

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Leggere la poesia di Maura Del Serra è un viaggio nei terreni in cui profondano o si elevano i pensieri e il cuore dell’uomo, quando rifiutano la strada liscia delle formule e delle convenzioni; è un viaggio d’esplorazione, che già in partenza sa di non poter giungere ai confini, tanto profondo è il logos che ha dettato i versi. Anche qui tre testi ruotano, martellanti e delicati, attorno ad alcuni nodi dell’esistenza: lo sguardo giudice del potente (sia esso leone o corallo o angelo) e la voce "musica dolente" delle vittime, la dimensione cangiante delle ragioni, affermate e negate nella loro relatività, i volti del tempo e della sua misura, a battere il senso dell’attesa o la sua delusione. Sono nodi in parte suggeriti dai titoli, quasi temi da sviluppare facendone risuonare l’eco. Giungono attraverso la lettera dei detti e dei luoghi comuni e poi si sciolgono nella simbolicità delle figure, nella aequivocatio semantica di termini che suonano uguali per poi sdoppiarsi in significati diversi, nella declinazione della varietà. In un’alternanza di affermazioni, domande e risposte (che hanno la forza visionaria del teatro), Maura Del Serra gioca coi sensi multipli delle parole e fa sì che i significati liberati si combinino e proliferino in una sorta di dialogo a distanza, superando barriere di civiltà e di latitudine. Ed ogni volta sono i versi finali a slargare l’orizzonte, a rilanciare con un’immagine la prospettiva verso l’alto, vuoi con i sogni non imprigionati dai destini, vuoi con l’alfabeto del poeta dettato alle stelle, vuoi con l’ora appesa, nella sua meraviglia bambina, al “treno delle nuvole” sotto la pioggia. A segnalare come la poesia possa essere una scala appoggiata al cielo per togliere opacità. Zena Roncada

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Maura Del Serra

IDIOMS In che stato “Guarda in che stato sei” disse il turbine alla frana, il leone alle viscere della gazzella incauta, lo stupratore alla vittima esausta, il corallo stellato al goffo sommozzatore, l'angelo al peccatore, il re Sole al suo terzo pianeta attossicato. “In che stato, in che terra, in che lingua persa siamo?” chiesero i profughi, i morti e gli amanti. “In tante, in tanti” disse l'eco nella sua tana di musica dolente, “quanti i sogni di fede che vi si struggono in cuore”.

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Non sentire ragioni

Non veder l'ora

“No, non sento ragioni, ma la Ragione sola” lo scienziato ammonì gli anti-vivisezionisti. “Ragioni non ne sente, ha il cuore sordo e assassino” bruciando l'harem dissero le donne altère e tristi. “Non sento più né ragioni né torti” cantò il monaco zen, volando nel suo segreto. “Non sento miserabili ragioni di lutto” rise la Morte – “ho sposato il destino”. “Sento per voi le ragioni di tutto” s'alza il poeta, e detta alle stelle l'alfabeto.

“Non vedo l'ora” disse il cieco al pendolo risuonante. “Non vedo l'ora” urlò in coro lacero il migrante al treno dell'Altrove. “L'ora no, non la vedo – vedo secoli-luce appesi a questo istante” sillabò la sciamana. “Non vedo l'ora, ma solo i secondi che ancora vi regalo” ghignò l'attentatore alle memorie di bellezza umana. “Non so leggere, ma la vedo, l'ora” disse il primo bambino: “è il treno delle nuvole che prendo quando piove”.

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BIOGRAFIE

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Rosanna Flisi è nata a Viadana, dove vive e insegna Italiano e Storia in un Istituto Superiore. Adora i fiori e le piante di cui sa tutto o quasi. Il suo giardino (in cui lavora alacremente) e la Poesia sono i suoi rifugi. Ama anche di “formidabile” amore la musica classica. Lou Artìs nasce a Fidenza nel 1969 da padre francese e madre romagnola. Ottiene il diploma di perito tecnico industriale nel 1989. Da allora, in cerca di lavoro senza mai trovarlo, è considerato, nella ristretta cerchia dei conoscenti, un originale millantatore dedito all’ozio. Non si è mai allontanato da casa, tranne che per un noto Viaggio in treno a Bologna nel 1992, effettuato in giornata e per il quale ha tracciato un breve diario mai pubblicato. Inediti risultano anche il racconto del 1995 I sovvertivi e la raccolta di poesie Figliafoglia dell’anno successivo. Questa è la sua prima pubblicazione. Steve Manfroi, nato a Milano, oggi risiede in una ex ridente località turistica sul Garda attualmente semisoffocata dal cemento. Musicista/ Autore con molti vizi tra i quali recitare mantra, non prendere psicofarmaci e scrivere racconti, in vent’anni di ostinata attività artistica ha pubblicato i cd La luce blu (1994), Bassimondi (1996), Pinocchio di Russia (2000), Pro wine (2004), Luci sotterranee (2010), Welcome to the garage (2012). Lorenza Amadasi e Afro Somenzari si sono conosciuti nel 1975. Enrico Baj (Milano, 31 ottobre 1924 - Vergiate, 16 giugno 2003) tra i più importanti artisti italiani del Novecento, tiene rapporti con poeti e letterati italiani e stranieri (André Breton, Max Ernst, Raymond Queneau, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Man Ray ed altri). Nel 1951 fonda con Sergio Dangelo il Movimento della Pittura Nucleare e due anni dopo insieme ad Asger Jorn fonda il Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista. In occasione della mostra The Art of Assemblage a New York nel 1962, conosce Marcel Duchamp col quale intrattiene una affettuosa amicizia. Negli anni Sessanta entra a far parte del Collège de Pataphysique che successivamente lo nomina Satrapo Trascendente, la più alta carica patafisica. Nel 1964 ottiene una sala personale alla Biennale di Venezia e nello stesso anno espone alla Triennale di Milano. Nel 1972 a Milano espone la grande tela “I Funerali dell’anarchico Pinelli” ritirato dalla Questura, riesposto trent’anni dopo a Brera e nel 2012 a Palazzo Reale. Tra i suoi numerosi libri vanno ricordati Patafisica (Bompiani, 1982), Automitobiografia (Rizzoli, 1983), Impariamo la pittura (Rizzoli, 1983), Ecologia dell’arte (Rizzoli, 1990). Nel 1994 l’Istituto Patafisico Vitellianense lo nomina Ministro Indivisibile dell’Etoile d’Or. 149


Alberto Cappi. «Alla fine nacqui il cinque maggio millenovecentoquaranta. Fu una data non senza conseguenze perché iniziò da lì una seccante litania parentale e amicale per cui ad ogni successo o catastrofe si alzavano voci del tipo “5 maggio, eh” oppure “Ei fu…”. Come se le sorti dipendessero da Napoleone. Il peggior voto del mio non breve curriculum scolastico lo ottenni, manco a dirlo, per un commento all’ode manzoniana. Mi sta bene. […] Poi passai all’astronomia e successivamente alla fantascienza. Sono state davvero tappe verso la fuga nell’avventura. […] Nei primi anni ’70, la strada era quella di Scheiwiller, uscì per il Laboratorio delle Arti un mio Alfabeto, scrittura sperimentale che tocco nell’80 il feltrinelliano Viaggio al termine della parola e nell’84 le Per Versioni di Spirali. […] Verso gli anni 90 il mio modo di poetare ebbe una svolta. Virò, come si diceva allora, verso il significato e il senso. […] In quel tempo (l’incipit è evangelico) uscivano a ruota alcuni miei testi quali Il sereno untore, Visitazioni, La casa del custode. […] Ho avuto la fortuna di originare Piccoli dei con Giuliano Della Casa, Quattro canti con Giosetta Fioroni e Cesare Viviani, La bontà animale con Pietro Lenzini. […] Da poco la Provincia di Mantova mi ha dedicato Le copie della luna, che raccoglie una scelta poetica dalle prime alle ultime mie composizioni. Oggi ho intrapreso altre battaglie, di diverso genere. Il tempo e l’occhio alla poesia però, lo pensavo a Bogliasco quando la Fondazione ligure mi invitò un mese a scrivere Arnia, non mancheranno mai. In fondo, che ho da fare? Sono un poeta tranquillo». Era il 2007. Poi Il modello del mondo (Milano, 2008, Premio “Mario Luzi”). Dopo la sua morte, nel 2009: Poesie 1973-2006 (Novi Ligure, 2009); Bordertime (Rovigo, 2010). Paolo Morelli è autore di alcuni libri che hanno avuto la fortuna di un cane bastardo in chiesa, anche se poi ogni volta c’era qualcuno a cui il cane stava simpatico e lo richiamava dentro, giusto in modo che possa esser ricacciato a calci per strada dai chierici schierati. Ma loro sono cani ostinati si vede, delinquenti, hanno stupito pure lui in questo senso, uggiolano e fastidiano al punto che c’è sempre qualcuno che torna a carezzarli. Questo provoca ai chierici delle vere e proprie crisi mistiche durante le quali e finalmente se li scordano. Lui sostiene che, dopo una gioventù sgattaiolata, lunga e assai fortunata ha contratto il tremendo vizio di scrivere, e da allora è diventato sfortunato, scarognato anzi. L’unica cosa che al riguardo riesce a metterlo di buon umore è il fatto che ogni volta che si ritrova con degli scrittori di peso questi appena lo vedono finiscono per tastarsi dove hanno il portafogli.

do naturale, ha incontrato un vasto consenso di critica e di pubblico, portandolo a esibirsi su importanti palchi internazionali. Protagonista e sceneggiatore del premiato film documentario Oltre la Frontiera, è autore di diversi reportage sulla natura trasmessi dalla Rai. Ha pubblicato Il passaggio dell’orso (Salani, 2013), L’ombra del gattopardo (Salani, 2014), Incubo a occhi aperti (Piemme, 2015) e La luna è dei lupi (Salani, 2016). Brunella Eruli (Firenze, 1943-2012) ha insegnato a Pisa, a Firenze, a Salerno, poi all’Università per Stranieri di Siena. Si è occupata di autori di fine Ottocento e soprattutto del Novecento: Huysmans, Aurier, Kahn, Schwob, Queneau, Perec, Genet e ha pubblicato saggi tra i quali: Jarry, i mostri dell’immagine (Pisa, Pacini, 1982), Dal futurismo alla patafisica. Percorsi dell’avanguardia (Pisa, Pacini, 1994). Ha anche tradotto il romanzo Messalina di Alfred Jarry. Da sempre appassionata di teatro vanno ricordati i suoi saggi: Huysmans al circo: Pierrot sceptique; Il dittatore al circo: Le cirque solaire di Gustave Kahn; Gli oggetti idioti: Da Roussel a Duchamp; Wielopole-Wielopole, Les Voies de la Création théâtrale (su Kantor); L’attore disincarnato. Avanguardia e marionette. Attratta dalla patafisica di Jarry ha subito aderito all’OPLEPO, Opificio di letteratura potenziale (1985), la gemella italiana dell’OULIPO, che ha conosciuto una stagione italiana (basti ricordare Calvino, ma anche Ruggero Campagnoli). Nel 1991, ha curato a Firenze il convegno Attenzione al potenziale! Il gioco della letteratura (ed. Nardi, 1994), con una folta rappresentanza oulipiana e oplepiana. È stata uditore del Collège de Pataphysique, membro della Société des amis d’Alfred Jarry e della Société des amis de Valentin Brû, redattrice della “Rivista di Letterature moderne e comparate” ed è stata nominata Zarina dell’Istituto Patafisico Mediolanense e Ministro Sfavillante dell’Etoile d’Or dell’Istituto Patafisico Vitellianense. Per FUOCOfuochino ha pubblicato Aesopiana. Situazioni transitorie di animali tautogrammatici (2010). Edgardo Franzosini è originario di un paese della Brianza il cui nome, in poco più di mezzo secolo, è stato già cambiato tre volte. Lo stesso Franzosini, nel corso degli anni, si è trasformato da semplice lettore, in traduttore e infine in scrittore. Il suo primo libro, pubblicato con uno pseudonimo, aveva per titolo: “Bela Lugosi. Biografia di una metamorfosi”.

Giuseppe Festa è laureato in Scienze Naturali e si occupa di educazione ambientale. Appassionato musicista, è cantante e autore del gruppo Lingalad. La sua musica, carica di suggestioni evocate dal mon-

Donato Novellini è nato nel 1973. Nel 1990 ha iniziato la sua carriera artistica con il Cul dal Sac. Ha esposto in vari spazi della città di Mantova tra i quali: Casa del Mantegna, Archivio di Stato, Palazzo Ducale e del mantovano: Galleria del Premio Suzzara, Museo Polironiano di San Benedetto Po. Ha partecipato a tre edizioni di Mantova Creativa,

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collaborato con Eterotopie, Centro di Cultura Einaudi e ha scritto per Corraini Edizioni a proposito di design. È stato direttore artistico di Spazio Mariconda. Dal 2011 è presidente dell’Associazione Imprimatvr per la quale ha curato tutte le edizioni della Biennale. Nel 2014 ha fondato il primo fablab della provincia di Mantova, nell’ex macello comunale di San Martino dall’Argine. Dal 2015 cura le rubriche di estetica Cul de Sac su I Fiori del Male.it e Artefatti su Barbadillo.it. Duccio Scheggi ($-Iena, 1985 volg.). Creatore di CadaveriSquisiti(.it), scrive, dipinge, dirige e decostruisce in nome di Uccido Sc. e benedetto dal sempiterno Alfred Jarry. Vive tra il Cosmo, Firenze, un teatro della Circassia e l’altro(ve). Ha pubblicato per ed. Pagine (2013 volg., nell’antologia n.118, “il Cigno” e n. 60, in “Sette autori”) alcune poesie tratte da “La Luce dell’Altrove” (sua terza raccolta di poesie, mai davvero raccolte poiché non cadute) di cui una è illustrata (da Bernardo Anichini) e pubblicata per ed. Maldoror Press (di C. Mangone, in “Corpi che Amano”, nel 2011 volg.). Sono in corso di pubblicazione alcune sue drammaturgie (scritte tra il 2007 e il 2015): “Enantiodromia della Libertà-Trilogia teatrale” e “L’Estasi della Neve-ovvero il grande spettacolo di farsa patafisica” (per ed. Collage de Pataphysique). Stefano Tonietto è mezzo salentino, benché nato a Padova, città la cui fondazione mitica non ha cantato in un poema in esametri, l’Antenoreide. Il suo cognome deriva da un Tonieto, agricoltore che morì nel 1476. Insegna a liceali classici e apprende da loro. È stato lui che ha scritto Olimpio da Vetrego. Ha inventato una disciplina, la Filologia Ricostruttiva, finalizzata a colmare creativamente le lacune della produzione letteraria altrui. Attualmente si occupa di Filologia Ricostruttiva Romanza, componendo nei volgari italiani rime che non sono mai state scritte ma che avrebbero potuto. Non ha più la colecisti ma tira avanti. L’anagramma del suo nome, secondo Renato De Rosa, è: Fa inetto sonetto. Silvia Delitala. Sono nata una mattina d’estate di tanti anni fa. Le cicale e il vento mi hanno accompagnato nella scoperta del mondo dei suoni. Scrivo parole e musica che poi semino dove capita. Ho notizia di qualche fioritura in quattro continenti. Negli altri, chissà... Della mia vita niente ha importanza, se non il fatto che sono un essere umano, e che di umanità racconto.

autori della nostra letteratura e quasi altrettante raccolte di versi. Agnese Ambiveri nasce a Milano a metà degli anni ’80 e inizia presto a leggere libri per grandi. Ora che è adulta ha deciso di leggere e scrivere libri per bambini. Bianca Pitzorno è nata a Sassari nel 1942. Laureata in Lettere Classiche con specializzazione in archeologia, dopo un breve periodo di scavi ha conseguito un master in cinema e televisione, ha frequentato la Scuola del Piccolo Teatro di Milano e ha lavorato per molti anni come funzionaria addetta ai programmi televisivi culturali presso la RAI di Corso Sempione. Attualmente vive e lavora tra Milano e Alghero. Dal 1970 ad oggi ha pubblicato circa cinquanta opere tra saggistica e narrativa (per bambini e per adulti) che in Italia hanno venduto più di due milioni di copie e sono state pubblicate anche in molti altri Paesi (in Europa, in Asia e in America). Ha tradotto in italiano opere di Tolkien, Sylvia Plath, David Grossman, Tove Jansson, Soledad Cruz Guerra, Mariela Castro Espìn, Enrique Pérez Díaz. Nel 1996 l’Università di Bologna le ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della Formazione. Tra i suoi titoli più recenti il saggio Le bambine dell’Avana non hanno paura di niente (Il Saggiatore, 2006); le biografie Giuni Russo da Un’estate al mare al Carmelo (Bompiani, 2009) e Vita di Eleonora d’Arborea principessa medioevale di Sardegna (prima edizione Camunia del 1984, ora aggiornato sui nuovi documenti venuti alla luce. Mondadori Oscar Storia 2010) e infine il romanzo La vita sessuale dei nostri antenati - spiegata a mia cugina Lauretta che vuol credersi nata per partenogenesi (Mondadori 2015). Maura Del Serra è poetessa e drammaturga fra le più raffinate e intense del panorama contemporaneo. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo (Shakespeare, Proust, Woolf, Mansfield, Lasker-Schüler, Tagore, Juana Inés de la Cruz...) e ha dedicato numerosi studi monografici a poeti e scrittori moderni e contemporanei. Per la sua opera ha ricevuto alcuni dei maggiori riconoscimenti nazionali e internazionali. Suoi testi poetici, critici e teatrali sono stati tradotti nelle principali lingue europee.

Giorgio Bàrberi Squarotti è nato a Torino il 14 settembre 1929. Ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Torino come ordinario dal 1967 al 2002. Ha diretto e organizzato la redazione del Grande Dizionario della Lingua Italiana della casa editrice UTET in ventidue volumi e ha pubblicato un cospicuo numero di saggi critici dedicati ad

Gianluigi Toccafondo (San Marino, 1965) nel 1985 si è diplomato presso l’Istituto d’Arte di Urbino. Nel 1989 ha realizzato il suo primo cortometraggio premiato al Festival di Lucca (1990). Ha creato le sigle di programmi televisivi Tunnel, Carosello, Almanacco delle profezie e per la 56ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, sono suoi gli spot pubblicitari per Sambuca Molinari, Avanzi e Fandango. Ha diretto i cortometraggi La piccola Russia (2004) con cui ha vinto premi e candidature internazionali e Essere morti o essere vivi

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è la stessa cosa (2000). È stato aiuto regista per il film Gomorra di Matteo Garrone. Come illustratore ha lavorato per Einaudi, Feltrinelli, Mondadori, Fandango, Scott Free e altre case editrici. Ha collaborato con le riviste Linea d’ombra, Lo Straniero e Abitare. Ha esposto i suoi lavori in Italia a Parigi e Tokio. Nel 2010 ha realizzato le tavole per la prima raccolta di FUOCOfuochino.

saraceno (Nodo Libri, Como, 2009). Traduttore di Flaubert, Céline e Perec, per i bambini ha scritto L’Ottavo Nano (Battello a vapore) e Il giovane Napoleone (Gallucci). Collabora a “La Stampa”, “Corriere della Sera” e “Il Sole 24 Ore”, ed è presidente del Centro Internazionale di studi Primo Levi di Torino. Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla seconda raccolta (2012).

Gino Ruozzi (1958) insegna letteratura italiana all’Università di Bologna. I suoi studi sono in particolare rivolti alla tradizione italiana ed europea delle forme brevi: aforismi, pensieri, massime, epigrammi, favole, apologhi, bestiari, facezie, dal Medioevo al Novecento. Ha curato i volumi Pensieri diversi di Francesco Algarotti (Milano, Angeli, 1987); Facezie e dialogo de la partita soa di Ludovico Carbone (Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1989); Scrittori italiani di aforismi (2 volumi, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1994-1996); Epigrammi italiani (Torino, Einaudi, 2001); Favole, apologhi e bestiari (Milano, Rizzoli Bur, 2007). Ha pubblicato le monografie Ennio Flaiano, una verità personale (Roma, Carocci, 2012) e Quasi scherzando. Percorsi del settecento letterario da Algarotti a Casanova (Roma, Carocci, 2012). Ha scritto la premessa alla prima raccolta di FUOCOfuochino (2010).

Ugo Nespolo è nato a Mosso di Vercelli nel 1941. Una infinità di cataloghi, libri e libricini sono il suo corredo. Ha esposto in tutto il pianeta, sul lato chiaro della Luna e sul secondo anello di Saturno. Ha viaggiato su satelliti naturali e artificiali; il suo spirito arte-vita lo ha portato a divulgare l’Ordre de la Grande Gidouille presso tutti gli abitanti del suo condominio. Chissà perché, invitato a Pomponesco e a Casalmaggiore, non è mai pervenuto. È Faraone e Ministro dell’Etoile d’Or. Per FUOCOfuochino ha pubblicato Faraone Totale e Cru & Crudo, entrambi nel 2010 e nel 2014 ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 3.

Guido Scarabottolo (Sesto San Giovanni, 1947), laureato in architettura presso il Politecnico di Milano, nel 1973 è entrato a far parte dello studio Arcoquattro che si occupa di architettura e comunicazione visiva in ambito editoriale e pubblicitario. Grafico e illustratore ha lavorato per tutti gli editori italiani, la RAI, le principali agenzie di pubblicità e le maggiori aziende nazionali; ha collaborazioni in Giappone e negli Stati Uniti. Negli ultimi dodici anni ha progettato tutte le copertine di Guanda illustrandone gran parte. Designer per diletto, di tanto in tanto realizza mobili e oggetti. Ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 2 (2012). Ernesto Ferrero, torinese, ha lavorato a lungo nell’editoria, dove è stato direttore editoriale di Einaudi e Garzanti e direttore letterario di Mondadori. Dal 1998 è direttore del Salone del libro di Torino. Tra i suoi romanzi N. (Premio Strega, 2000), L’anno dell’indiano, Disegnare il vento (Premio Selezione Campiello, 2011) e Storia di Quirina, di una talpa e di un orto di montagna, tutti presso Einaudi. All’età dell’Impero ha dedicato anche le Lezioni napoleoniche (Mondadori, 2002, 2014), il monologo teatrale Elisa (Sellerio, 2002), il saggio Napoleone e i libri (Edizioni Henry Beyle, Milano, 2015). È anche autore del libro di memorie einaudiane I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2005). Tra i suoi saggi si ricordano anche Primo Levi. La vita le opere (Einaudi, 2007) e La luna del Manzoni e altre storie di grano 154

Andrea Cortellessa è nato a Roma nel 1968. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre. Tra i suoi libri Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella prima guerra mondiale (Bruno Mondadori, 1998) e La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi (Fazi, 2006). Il suo ultimo libro è Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi (Exòrma, 2016); insieme a Marco Belpoliti ha curato il numero di «Riga» dedicato a Goffredo Parise (Marcos y Marcos, 2016). Con Luca Archibugi, nel 2010 ha realizzato per RaiCinema il documentario Senza scrittori. Per Giancarlo Cauteruccio ha curato le drammaturgie di Canti Orfici. Visioni (da Dino Campana, Teatro Studio di Scandicci, 2014) e di Tre movimenti di luce (da Dante, Maggio musicale fiorentino, 2015), Per Bompiani, Adelphi, Garzanti, Le lettere e Feltrinelli ha curato testi di Giorgio De Chirico, Giorgio manganelli, Elio Pagliarani, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli e Luigi Di Ruscio. Per L’Orma editore dirige la collana di testi italiani contemporanei fuori formato. Collabora a «Doppiozero», a «Tuttolibri» e altre testate. È nella redazione della rivista «alfabeta2» e «il Verri» e collabora ai programmi culturali di RAI-Radio Tre. Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla terza raccolta (2014). Giuliano Della Casa è nato a Modena nel 1942. Cresce nell’Emilia di Spatola, Ghirri, Parmiggiani, e quella rete aperta e vivacissima di scrittori, musicisti, artisti visivi segna la sua formazione accanto alle Scuole d’Arte. Si afferma presto come pittore, dalla prima personale a Modena nel 1966 espone i suoi acquarelli in Italia e nel mondo, fino a considerare la California una seconda casa. Illustra monumenti let155


terari per i Millenni Einaudi come La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (2001) e Gargantua e Pantagruel di Rabelais (2004), realizza copertine, lavora con scrittori e poeti alla concezione di opere che intrecciano parole e immagini, disegna bozzetti di scena per il teatro. È Sultano Protocalligrafo per l’Istituto Patafisico Vitellianense. Nel 2016 ha realizzato le tavole per la raccolta FUOCOfuochino 4. Elena Pontiggia (Milano, 1955) insegna Storia dell’arte all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano. Dal 2011 scrive su La Stampa. Si occupa in particolare dell’arte italiana e internazionale tra le due guerre e del rapporto tra modernità e classicità. Si interessa agli scritti di poetica, pubblicando i principali testi teorici degli artisti da Cézanne e dalle avanguardie a Pollock. Ha fatto parte fino al 1993 del Comitato Scientifico del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e dal 2002 al 2006 del Consiglio d’amministrazione della Quadriennale di Roma. Tra le mostre, al P.A.C. di Milano, ha organizzato Sironi. Il mito dell’architettura (con A. Sironi e F. Benzi), nel 1990 e Persico e gli artisti nel 1997. Per la Fondazione Stelline di Milano ha organizzato le mostre Arturo Martini (con C. Gian Ferrari e L. Velani) nel 2006 e Stupore nello sguardo. La fortuna di Rousseau in Italia da Soffici e Carrà a Breviglieri nel 2011. Per Abscondita ha pubblicato Edward Hopper. Scritti, interviste, testimonianze, (2000), La Nuova Oggettività Tedesca (2002), Il Novecento Italiano (2003), Il ritorno all’ordine (2005), Il movimento di corrente (2012), Christian Schad (2015). Ha inoltre pubblicato La grande Quadriennale. 1935: la svolta dell’arte italiana (con C. F. Carli, Electa, Milano, 2006), Modernità e classicità. Il ritorno all’ordine in Europa dal dopoguerra agli anni trenta (Bruno Mondadori, Milano, 2008) e Mario Sironi. La grandezza dell’arte, le tragedie della storia (Johan & Levi, Milano, 2015). Per FUOCOfuochino ha scritto la premessa alla quarta raccolta (2016).

2007. Del 2010 è invece il progetto Wundernachtkammer allestito in una stanza dell’ala napoleonica di Palazzo Te a Mantova (testi di Gabriella Belli). Del 2011 è la Wundernachtkammer Sogno Smarrito per il Museo del Carate di Ivrea (a cura di Lorena Giuranna). Ha realizzato le tavole per FUOCOfuochino 5 (2017). Vive e lavora a Milano. Patrizia Maddalena Giacomina Sardo Marras nonostante le apparenze non vanta nobili origini. Nasce ad Alghero, paese di mare e di maestrale, nel 1963. Sin da quando aveva 14 anni si accompagna ad Antonio Marras con cui condivide da sempre gioia e dolori. Sebbene appassionata di viaggi, vela, equitazione, cinema, arte contemporanea e letteratura, dedica tutta la sua vita alla Moda alla quale si sente debitrice. Dice sempre che i vestiti le hanno salvato la vita. Mai senza rossetto e senza Pier Ives, il suo jack russel. Nel 2017 ha scritto la premessa alla raccolta FUOCOfuochino 5. Alberto Casiraghy è un gentile ciclone senza sosta. Pulcinoelefante è la sua occasione migliore per assicurare al mondo che la bellezza risiede nella parola. Mentre con una mano allunga un minestrone, con l’altra eecupero un messaggio in bottiglia, con l’altra ancora lascia l’impronte di uno zoccolo di capra. Per FUOCOfuochino ha pubblicato Fuochy Inqujeti (2010) e ha realizzato le tavole di questa raccolta FUOCOfuochino 6. Martina Corgnati storica dell’arte e curatrice, è nata a Torino, ha studiato all’Università Statale di Milano. Insegna Storia dell’Arte all’Accademia di Brera dove dirige il Dipartimento di Comunicazione e Didattica dell’Arte. Ha scritto diversi libri e curato tantissime mostre, in Italia e all’estero e ha scritto la premessa a questa edizione.

Lucia Pescador è nata a Voghera il 9 febbraio 1943. Diplomata all’Accademia di Brera a Milano, dove poi ha insegnato al Liceo Artistico, ha privilegiato da sempre il disegno, lavorando su tematiche legate alla natura, alla cultura e all’arte. Inizia ad esporre nel 1965. Negli Anni ’70 e ’80 partecipa al gruppo Metamorfosi lavorando accanto alle colleghe Benedini, Bonelli e Sterlocchi. Espone le opere degli Anni ’80 nella mostra milanese Una nave per Kazimir al Refettorio delle Stelline nel 1992 (a cura di Lea Vergine). Negli Anni ’90 inizia la raccolta di immagini e catalogazioni per voci sull’arte e sulla cultura del XX secolo dal titolo Inventario del Novecento con la mano sinistra, che prosegue oltre il 2000. I lavori Nero Giappone e Giallo Cina sono allestiti da Corraini a Mantova nel 2003. La mostra Ambulanti tra Occidente e Oriente parte da Milano per arrivare a Mumbay nel 2006 e Shangai nel 156

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CATALOGO

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1. SILVANO FREDDI, I vampiri

25. LUCETTA BIASCIN, Via Trucis

2. IHLL BIHTO, Euforismi. Pensieri transitori

26. SANDRO MONTALTO, Un grosso apostrofo

3. LORENZA AMADASI, Omaggio a un bottone. Per tutti i bottoni

27. ANTONIO CASTRONUOVO, Versi tossici

4. TANIA LORANDI, L’ottaedro regolare? Omaggio a Ibicrate il Geometra, padre delle lunule

28. PAOLO COLAGRANDE, C’era un mio amico 29. ANONIMO, Brusio di banane

5. AFRO SOMENZARI, Brevissimi. Quattro racconti

30. MAX BLUE BERNI, Intervista a Günter Grass

6. ROBERTO BARBOLINI, Grand tour 7. VIRGINIA MERISI, Il signor Cirillo

31. PAOLO COLAGRANDE, Non basta camminare

8. GUIDO CONTI, Mia mamma fuma il sigaro

32. MARIO ALDOVINI, Una voce così 33. CAMILLO CUNEO, Star-falcioni

9. GIANNI CELATI, Ma come dicono di vivere così

34. ARMANDO ADOLGISO, Contraccettivi letterari (Parte prima)

10. GIUSEPPE PEDERIALI, Una fola della Bassa

35. MIKLOS N. VARGA, Momenti 36. ARMANDO ADOLGISO, Contraccettivi letterari (Parte seconda)

11. UGO NESPOLO, Faraone Totale 12. PAOLO ALBANI, Manualetto pratico ad uso di coloro che vogliono imparare a scrivere il meno possibile

37. ROBERTO BARBOLINI, La vigna di Salomone

13. VIRGINIA MERISI, L’incidente

38. CAMILLO CUNEO, Cercasi

14. AFRO SOMENZARI, Spogliatoio per nudisti

39. MIKLOS N. VARGA, Aforismi a fondo perduto

15. ANTOINE NAVILLE, P. Pensieri sulla poesia e sui poeti

40. GIOVANNI MACCARI, Lo sputo che cade

16. BRUNELLA ERULI, Aesopiana. Situazioni transitorie di animali tautogrammatici

41. CRISTIANA MINELLI, Pacco di Natale 42. LORENZA AMADASI, Per sentito dire

17. ALBERTO CASJRAGHY, Fuochy inqujeti

43. MAURIZIO MAGGIANI, Implorazione di Settembre che viene ad Agosto che va

18. CAMILLO CUNEO, Caviale allo spiedo

44. PUPI AVATI, Diario di un bimbo

19. VITTORIO ORSENIGO, Incidenti quasi mortali

45. FRANCESCA BONAFINI, La stanza 46. MARIO ALDOVINI, La saga degli istrici

20. ANTOINE NAVILLE, Piss Italia 21. MARZIO SERGIO BINI, Dal dentista

47. MASSIMO GATTA, Per una metafisica portatile del lavare i piatti a mani nude

22. ALEX MASSIGLI, Silenzio assenzio 23. FRANZ TANK, Siate gentili coi refusi

48. DIEGO ROSA, Ode

24. UGO NESPOLO, Cru e crudo

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49. ROBERTO BARBOLINI, Dieci comandamenti per l’uso personale della bellezza

74. MIRKO CALIFONDI, Ho un senso 75. PAOLO ALBANI, Spiritello cattivo

50. PAOLO ALBANI, Dal buco della letteratura

76. ELENA FANTASIA, Game over

51. CAMILLO CUNEO, Vendesi / Affittasi

78. GIORGIO BELLODI, Discorso alla Polacchia

77. VIRGINIA BOLDRINI, Specchi

52. CARLO BATTISTI, Vite segnate

79. JACOPO FELIX NARROS, Lo scontrino di Ponge

53. RENZO BUTAZZI, Bovi, pie donne e nonni

80. SARA RICCI, Vetrofanie

54. HANS TUZZI, Zizi Bambula

81. LIDIA BEDUSCHI, Gelo

55. RENZO BUTAZZI, Mario e il tempo

82. GUIDO OLDANI, I perdenti

56. GIANFRANCO MAMMI, Rimedi naturali

83. GIANFRANCO MAMMI, Il gatto Grappino e il suo padrone Stenelli

57. DANIELA MARCHESCHI, Fuoco

84. ISABEL FUREY, Il numero di Lancillotto

58. VIRGINIA BOLDRINI, La famiglia di Tiglio

85. JACOPO FELIX NARROS, Quindici vecchie

59. HANS TUZZI, Maribárbola e Nicola 60. ALDO GIANOLIO, Braciola 61. SIMONETTA GILIOLI, Burrocacao

86. GIACARLO BARONI, Uccelli improbabili

62. GIORDANO GALANTE, I bellerrimi

87. GABRIELE OSELINI, La via delle noci

63. VIRGINIA BOLDRINI, Storia di uno zerbino

88. MASSIMO GATTA, Il cappotto sdrucito di Marcel Proust e altri luoghi

64. ANTONIO CASTRONUOVO, Tredici epigrammi letteroidi 65. DON BACKY, I figli delle stelle 66. ALFREDO GIANOLIO, Elogio dell’ignoranza

99. VALENTINA FORTICHIARI, La carretta del mare

123. DANIELE ZINNI, Il decalogo della libertà

100. ALFONSO LENTINI, L’alpino Samantha

124. ALBERTO BERTONI, Una conversazione sul Duomo di Modena

101. ANTONIO SERVENTI TACETE, Villa il nano

125. ELIA MALAGÒ, del disamore

102. ALIPIO SANTOS, Lecchiamo i manifesti

127. ADRIÁN N. BRAVI, Gli zoppicanti 128. ALESSANDRO ZACCURI, Le ricordanze

103. UBER TOSI, Ebe 104. LAMBERTO PIGNOTTI, Se queste sono storie

129. PATRIZIA BARCHI, Nove morti letterarie involontarie e una volontaria

105. FREDIANO SESSI, Nella. Una ragazza italiana nel campo di Ravensbrück

130. ROSANNA FLISI, Cercasi anima 131. ROBERTO BOB BUSSOLA, Per sempre Su

106. LISA BIGGI, Ho il petto ripieno 107. ROBERTO FREAK ANTONI, Demenziale

132. LOU ARTÌS, Io se fossi 133. STEVE MANFROI, Risotto

108. GIANFRANCO MAMMI, Buoni propositi

134. LORENZA AMADASI - AFRO SOMENZARI, Un centesimo di Dada

109. OTELLO SARZI, Eventi esemplari

135. ENRICO BAJ, Sic stantibus Rebus

110. ROBERTO BARBOLINI, Alfabeto Morse

136. ALBERTO CAPPI, L’aspettavamo da sempre

111. MARIO BENATTI, Inutile pensare un giorno

89. GUIDO DAVICO BONINO, Lettera a Giulio Einaudi

112. ANONYMUS, Monologo

90. DINO BALDI, Il giardino

114. JACOPO FELIX NARROS, Tifosi teppisti

91. PAOLO PERGOLA, Festeggiamenti

126. ZENA RONCADA, A vederlo così

137. PAOLO MORELLI, Rabelais a Roma 138. GIUSEPPE FESTA, Il tessuto dei sogni

113. ROBERTO BOB BUSSOLA, Su

139. BRUNELLA ERULI, Passaggi obbligati: Calvino e Les fleurs bleues di Queneau

67. GIANFRANCO MAMMI, Transitalia, I pedaggi della penisola

92. CAMILLO CUNEO, Elogio del pompiere

115. FABIO FUMAGALLI, Tradimento

68. VALERIO MAGRELLI, Quattro poesie scientifiche

93. PAOLO MACCARI, Ultimi atti

116. ANONYMUS, Risposta

140. EDGARDO FRANZOSINI, L’Orologio Enciclopedico

94. CRISTIANA MINELLI, Il maestro di linfa ed io

117. MIKLOS N. VARGA, La minima Commedia. Omaggio a Dante Alighieri

141. DONATO NOVELLINI, Letto per lo scritto: Bleu

95. JACOPO FELIX NARROS, Dormo un’orata

118. GUIDO VIRGINIO VILLA, Calvario rosso

96. TONY FICANTE, La 99

119. LUCA FERRARI, Finale

143. STEFANO TONIETTO, La parola non trovata. Un Gozzano moderno

97. UMBERTO BELLINTANI, Nella notte di poca luna

120. CAMILLO CUNEO, Il docente d’ignoranza

144. SILVIA DELITALA, Sette giorni d’inverno

98. GIANFRANCO MAMMI, Questione di ore, secondi pensieri

121. FEDERICO CENTENARI, Il saldo

145. MIKLOS N. VARGA, Raccolta differenziata. Aforismi biodegradabili

69. ANDREA SONCINI, Pausa pranzo al patibolo 70. FRANCO NASI, Aspettando il verde, Diciassette semaforismi 71. LINO DI LALLO, Aforismi artefatti 72. ADAMO CALABRESE, Le maree al tempo di Carlo Magno 73. SERGIO SOZI, Italia - Slovacchia 2 a 0

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142. DUCCIO SCHEGGI, Fiaba breve per bambini spariti

122. ROBERTO BOB BUSSOLA, Ancora Su

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146. GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, L’affresco di Cigliè 147. CAMILLO CUNEO, Frasi fatte per romanzi del futuro 148. AGNESE AMBIVERI, Ninna nanna ninna oh 149. MIKLOS N. VARGA, Dissolvenze incrociate. Aforismi alla moviola 150. BIANCA PITZORNO, Poesie scioglidita. Scritte per provare la nuova macchina da scrivere 151. DONATO NOVELLINI, Dadavanzali 152. MAURA DEL SERRA, Idioms

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Siate gentili coi refusi

Finito di stampare nel aprile 2019 presso Arti Grafiche Castello - Viadana (MN)


FUOCOfuochino

La piĂš povera casa editrice del mondo


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