CAPITOLO III
Lo scontro VALMALA SANTUARIO, 6 marzo 1945 Qualcuno non ha avuto neanche il tempo di capire cosa capitava in quel diluvio di urla, spari e colpi che arrivavano da tutte le parti. Molte cose da nascondere e la vita da salvare salendo in alto tra ghiaccio e neve. Per qualcuno la salita è una scalata senza fine, per qualcuno la salita è la fine. Per altri è il piazzale che non finisce mai e il colle è solo un pensiero lontano tra sangue che cola e braccia spezzate. Resistere è anche morire, sparando fino all’ultimo o freddati senza alcuna pietà, da una furia bestiale.
Lo svolgimento dello scontro è stato raccontato, in modo più o meno fedele, in decine di interventi in occasione delle commemorazioni, come diremo più avanti. Questa narrazione ha come base principale il dattiloscritto Valmala martedì 6 marzo 1945...18, anche perché i resoconti scritti, non numerosi e soprattutto giornalistici, scontano spesso imprecisioni nei tempi, nel numero dei caduti e nelle modalità della battaglia. La cronologia della vicenda ci dice anzitutto che la marcia di avvicinamento degli uomini del Bassano avviene nella notte tra il 5 e il 6 attraverso le borgate dell’ubac di Brossasco (Vacot, S. Mauro, Duranda). In queste borgate prelevano con le buone e con le cattive (soprattutto con le cattive) alcuni civili e supposti “renitenti” facendosi da loro guidare attraverso i sentieri e caricandoli del peso del mortaio e del relativo affusto. «... la notte del sei marzo del 1945, verso le tre del mattino, la banda Pavan fece irruzione a casa mia e mi prelevarono. Mio fratello cercò ancora di nascondermi, facendomi salire nel solaio attraverso una botola, ma non feci più a tempo. Mi nascosi sotto il letto, ma mi videro subito e mi presero senza picchiarmi. Fu invece picchiato mio fratello, perché aveva cercato di nascondermi. Prima di me erano stati prelevati altri due del paese ed insieme fummo costretti ad accompagnarli al santuario di Valmala, attraverso pian Pietro. Prima di partire presero tutto l’oro che mia madre aveva...»19 18 Il titolo completo del documento, inedito, è Valmala, martedì 6 marzo 1945... testimonianze dedicate alle famiglie dei caduti e per non dimenticare e venne redatto nel 1995, in occasione del cinquantenario, dai sopravvissuti allo scontro. Le piccole parti in corsivo in questo capitolo sono attinte direttamente da questo documento. 19 Testimonianza di Giuseppe Chiotti in Civili e partigiani nella Resistenza in val Varaita, Tesi di Laurea di Milva Rinaudo, Università degli Studi di Torino, aa. 1993-1994, p.283. Al termine dello scontro gli “ostaggi civili” (ostaggi, quindi passibili di fucilazione per rappresaglia), otto in totale (compreso il figlio del capo della centrale idroelettrica di Brossasco), scendono coi prigionieri a Venasca e di qui sono condotti a Casteldelfino. Dopo parecchi giorni sono trasferiti a Cuneo, poi a Borgo San Dalmazzo e infine al colle della Maddalena per essere impiegati in lavori vari. L’antivigilia della Liberazione fuggono con due repubblichini, svalicano in val Maira e finalmente pochi giorni dopo il 25 aprile riescono a tornare a casa, dopo oltre 50 giorni, di penosa e faticosa “odissea”.
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Pavan “interroga� un civile
Gli alpini della Monterosa verso il Santuario
Gruppo mortai a pian Pietro
Panoramica dello scontro (disegno originale di Riccardo Assom g.c.)
Pistola sul tetto avvista i fascisti
Partigiani in fuga salgono nella neve
Ulisse e Gigione
All’altezza della borgata Chiot del Bosco si dividono in due tronconi: la squadra mortai sale a sinistra verso Pian Pietro attraverso la Meira del Bero, l’altro gruppo si dirige verso il Santuario dalla borgata “Ciastralet”. Pavan colpito da una colica si ferma in una casa e non parteciperà all’azione. Il comando viene assunto dal ten. Cavalli coadiuvato dai sottotenenti Tongiani e Giardina20. Verso le 7 e 30 del mattino di martedì 6 marzo Pistola vede il gruppo di Pian Pietro, riferisce, ma tutti concordano che il pericolo non è imminente e l’azione non è rivolta a loro. Per maggiore sicurezza Ivan e Tigre escono a perlustrare la zona attorno alla chiesa ed è proprio Tigre ad avvistare il grosso degli alpini che, salito dalla borgata “Ciastralet”, come abbiamo detto, sta per affacciarsi sul piazzale. Risalgono immediatamente per informare il comandante: Tigre urla «... sun si!» (sono qui!), gli fa eco Ivan gridando «... i fascisti!, i fascisti!». Ernesto e Giorgio ordinano di nascondere il materiale non trasportabile, bruciare gli elenchi compromettenti e uscire dal santuario, sganciandosi verso l’alto in direzione del colle per tentare di svalicare in Maira. Del resto non è nota la consistenza numerica degli attaccanti e quale ruolo debba giocare il gruppo avvistato a Pian Pietro. La dinamica dello scontro è abbastanza certa: non tutti escono contemporaneamente e non tutti dalla stessa parte; sostanzialmente si formano tre gruppi rispettivamente di otto, quattro e poi quattro, uomini. Quando già arrivano i primi colpi di mortaio ed inizia il crepitio delle armi automatiche della seconda pattuglia, per primi dal lato est (parte destra per chi guarda il retro del santuario avendolo di fronte) – allora chiuso con una stanza uguale a quella ancora esistente sul lato ovest – escono Ernesto, Ivan, Giorgio, Abete, Gigione, Edelweiss, Ulisse e Cirillo. Sono quelli che hanno più possibilità di raggiungere il colle ed infatti almeno 3 riusciranno a salvarsi. Dal lato ovest Sander, Gabri, Pierre e Dado. Da ultimi Ercole, Tigre e Sarel «attardatisi a nascondere» del materiale21 e poi ancora Pistola. Sinteticamente dei primi otto, tre si salvano, i quattro usciti dal lato ovest muiono tutti, gli ultimi quattro vengono fatti prigionieri.
20 Claudio Bertolotti, op.cit., p.178. Romualdo CAVALLI, triestino, classe 1920, già tenente anche nel Regio Esercito dal 1942. Sergio TONGIANI di Pontremoli, classe 1923 e Giuseppe GIARDINA, siciliano, classe 1925, entrambi ufficiali di complemento della Gnr prima di approdare al Bassano. 21 In particolare Walter Botto (Sarel) si attarda a nascondere quella macchina da scrivere che ha ottenuto dalla Preside della sua scuola, con promessa di restituzione a guerra finita (Alla Preside andrà a dire poi che, nonostante l’avesse preservata e nascosta, qualcuno l’aveva trovata nel nascondiglio... e rubata).
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Sono proprio quelli usciti da ovest ad essere colpiti per primi: Sander al braccio a metà del piazzale, Pierre al ginocchio, Gabri alla testa, in modo grave; Dado illeso si accovaccia a terra. Il gruppo di Ernesto invece riesce ad arrivare all’inizio della salita e qui viene colpito al piede Gigione che, spronato dai suoi, si trascina carponi fino alla casa cantoniera. Da qui faticosamente riesce a raggiungere il colle e svalicare in val Maira dove sarà curato presso il distaccamento di Steve. Il racconto di Gigione: «... mi sono sentito una botta in un piede. Mi alzo e casco!... La pallottola mi ha preso sotto il piede e mi è uscita sopra alla caviglia. Allora ho avvertito Ernesto che ero ferito e lui mi ha detto di andare avanti... Io non ho più visto cosa hanno fatto gli altri, sono andato sempre su, sempre su e loro mi sparavano. C’era neve, neve gelata e infatti sono arrivato su che avevo le mani che sanguinavano, perché piantavo le dita nella neve ghiacciata per aiutarmi a salire... sentivo le pallottole che arrivavano, vedevo la neve che si alzava e andavo avanti... sino a quando sono arrivato alla Casa cantoniera... Poi... quando sono stato in cima mi sono buttato dall’altra parte a rotoloni, in val Maira... dopo un po’ ho scorto due uomini... ho urlato, urlato che venissero a prendermi... un bel momento è arrivato un gruppo di partigiani di Steve... mi sono messo a piangere! Mi sono scaricato...»22
Non così fortunati Ulisse e Giorgio che vengono colpiti a morte, uno al volto, l’altro al petto, all’inizio della salita più o meno nei pressi del pilone votivo o poco oltre. A tentare di raggiungere il colle rimangono ora in cinque che, rispondendo al fuoco come possono, riescono ad arrivare alla cava di pietra, circa a metà salita. Tra questi Abete, forse perché più esperto del posto, riesce a svalicare, nascondendosi tra le rocce già sul versante di Dronero. Gli ultimi quattro usciti (Ercole, Tigre, Sarel e Pistola) intanto, tra i colpi delle mitragliatrici23 e dei mitra, riescono a raggiungere l’angolo tra i due fabbricati sulla sinistra del Santuario. Ricorda Tigre: «... appena usciti un tremendo fuoco incrociato si rovesciò su di noi... e i fascisti di Pavan sparavano praticamente a colpo sicuro, in quanto distanti non
22 Testimonianza di Luigi Debernardi (Gigione) in Riccardo Assom, Giovani tra le montagne, cit., pp.117-118. 23 Le testimonianze dei sopravvissuti concordano nel ricordare i colpi veloci e cadenzati della cosiddetta “sega di Hitler”: la mitragliatrice leggera, tedesca, MG42, capace di sparare fino a 1500 colpi al minuto. Il Diario del Bassano non parla di mitragliatrici, solo di fucili mitragliatori, ma quest’arma era comunque in dotazione al battaglione.
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più di qualche decina di metri... in quell’inferno di fuoco rimasi subito ferito, prima ad un tallone, poi al capo, di striscio...»24
Vengono però circondati, catturati e picchiati «con un caricatore del mitra... da un sottoufficiale» mentre Dado, alzandosi da terra con un movimento brusco, è ucciso sul posto. Viene ordinato a Ercole e Pistola di recuperare Gabri, ferito, che in procinto di essere medicato è anche lui “giustiziato” con un colpo di pistola sempre dallo stesso sottufficiale25. Stessa sorte tocca a Sander e Pierre che, medicati rispettivamente al braccio e al ginocchio, vengono freddamente eliminati «con un colpo alla nuca» proprio nel luogo dove attualmente è sistemata la lapide commemorativa. Tigre (anche lui ferito, ma non medicato dall’infermiere, accortosi che quelli che medicava venivano “liquidati”), Sarel, Ercole e Pistola vengono portati in una stanzetta sul lato ovest, picchiati «... hanno iniziato a darci botte con il caricatore del mitra. Prima è entrato un sergente, non tanto alto, e lì si è sfogato. Noi cercavamo di coprirci la faccia. Poi quello ha finito di sfogarsi ed è entrato un altro. Era uno alto, doppio eh!... È entrato dentro, si è tirato su le maniche e ha iniziato a battere. Ci ha messo in fila contro il muro e “alè”, picchiava!... Un bel momento si è fermato, ci ha guardati bene, ha visto che nessuno di noi sanguinava e ha tirato fuori il caricatore del mitra, il caricatore da quaranta colpi. Io ero in fondo alla fila. Ha iniziato dal primo... ha dato l’ultimo colpo a me... invece che di piatto, me l’ha dato di taglio... è entrato nella testa... ha cominciato a venirmi giù il sangue sul volto. Quando ha visto il sangue, è diventato matto! Ci è saltato addosso...»26
e poi allineati davanti alla chiesa per essere fucilati, come gli altri. Il passaggio di alcuni aerei alleati sopra il Santuario fa rifugiare tutti sotto il porticato e «l’esecuzione viene sospesa». Nel frattempo il gruppo di pian Pietro (che ha aggiustato il tiro avendo rischiato in un primo tempo di colpire gli stessi alpini) si avvicina al Santuario fino a circa metà strada (località “Roccia Sparela”) da dove è più facile indirizzare i colpi verso l’alto, verso il crinale. Da questa posizione infatti riescono a vedere e a prendere di mira i quattro rimasti a tentare la salita del monte. Ernesto ordina di dividersi per of24
Testimonianza di Tigre in Il Corriere di Saluzzo, n.10, 8.3.1975, p.3. Probabilmente il già citato Frison. 26 Testimonianza di Carlo Cavallo (Pistola) in Riccardo Assom, Giovani tra le montagne, cit., pp.108-109. 25
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Gigione ferito
Cirillo colpito
Abete ormai in salvo
Edelweiss in salvo guarda il santuario
frire meno possibilità di essere colpiti. Sarà l’ultimo ordine del comandante partigiano. Cirillo continua a salire a mezza costa verso ovest ma, colpito già quasi nel bosco, muore probabilmente dissanguato. Il suo corpo non viene ritrovato insieme agli altri il giorno dopo, ma solamente oltre un mese più tardi da alcuni uomini saliti a far legna in quel punto. «Un colpo di mortaio scoppiato a poca distanza» fa precipitarte Ernesto e Ivan nella neve verso il basso. Ripresa la salita, quando ormai si intravede l’ampia scanalatura del colle, la scheggia di un altro proiettile scoppiatogli vicino, perfora la tempia del comandante. Così sarà trovato il giorno dopo senza nessun altra ferita. Nel frattempo Ivan ferito a un ginocchio non può più proseguire la salita, tenta di fermare il sangue che esce, raggiunge la casa cantoniera sulla strada militare, «spara tutti i colpi che gli restano» e muore colpito da raffiche al viso. Edelweiss invece per una decisione fortunata e forse inconsapevole, anzichè tentare la salita verso il colle, piega a destra, verso ovest, lungo la militare che, superato un costone, lo sottrae alla vista e gli permette di mettersi in salvo: «... io invece sono andato su verso la fontana della Ciabra, quindi arrivato lì ho pensato di percorrere la strada militare. Sono ragionamenti che uno si fa al momento. Ho ancora un particolare: mi ricordo che mentre salivo e sulla neve le pallottole si infilzavano e sollevavano briciole sulla faccia, io avevo un motivo; un motivo di canzone e continuavo... non cantavo forte... ma continuavo... quel motivo che mi seguiva...» – la mente, in condizioni di stress, reagisce nei modi più strani, ragiona oggi dopo tanti anni Edelweiss – «... ad ogni modo, io sono arrivato sulla strada militare poi, al posto di continuare su il pendio, l’ho seguita. In quel punto – vi è ancora un avvallamento – mi sono trovato protetto...»27
Gli spari sono cessati, rimane un silenzio di neve, sangue e gelo. E sono appena le nove. I repubblichini non salgono neanche a controllare se i partigiani colpiti sono morti, hanno fretta di rientrare (forse temono il ritorno degli aerei) scegliendo di non ritornare a Brossasco ma a Venasca dalla zona di Pian Pietro dove possono recuperare il gruppo col mortaio.
27
Testimonianza di Angelo Boero (Edelweiss) in R. Assom, Giovani tra le montagne, cit, p.79.
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Il colpo mortale a Ernesto
I prigionieri
I prigionieri al muro
In quella stessa data l’estensore del Diario del battaglione annoterà: «... il plotone Adami si è scontrato questa mattina nei pressi del santuario di Val Mala con la banda del tenente Ernesto composta di 13 persone. Il Ten. Adami per indisposizione aveva dovuto abbandonare il comando che era stato assunto dal tenente Cavalli. I partigiani attaccati decisamente si sono difesi ma sono stati in breve sopraffatti. L’azione ha avuto i seguenti risultati: 9 morti, 4 prigionieri...» – segue un minuzioso elenco delle armi recuperate – «... sono stati inoltre fermati 4 renitenti alla leva e un disertore della Divisione Littorio. Il nostro plotone, eseguito il compito si ritira su Venasca in attesa di nuovi ordini...»28
Comunque caricano i quattro prigionieri e gli ostaggi al limite del sopportabile e si avviano. Poco prima di Pian Pietro i partigiani Marino, King e Trapani29 che stanno dirigendosi al Santuario per la riunione convocata da Ernesto vedono da lontano la colonna in marcia e la scambiano per un gruppo di partigiani. Presi di mira dalle armi automatiche, si ritirano e non vengono feriti: «... arrivati oltre pian Madama in vista del Santuario,vediamo da una curva della mulattiera che dal Santuario arriva a pian Pietro, spuntare a meno di 200 metri una colonna di uomini. All’inizio, vedendola composta di pochi elementi, la scambiamo per la spesa del comando che normalmente passava su tale percorso per andare a Lemma a rifornirsi del necessario. Aumentando il suo numero, io che ero in testa mi rivolgo a King e Trapani che erano con me: “Attenzione, non sono loro, sono in troppi; buttiamoci a terra”. Nello stesso momento veniamo bersagliati da raffiche di armi automatiche... ci dividiamo e... ritorniamo a Mattone e nel tardo pomeriggio veniamo informati in parte di quanto è accaduto al Santuario...»30
La marcia di ritorno è particolarmente dolorosa per Tigre cui sono stati tolti gli scarponi e per Pistola, causa una leggera commozione cerebrale per i colpi ricevuti. Raggiunta Venasca i quattro prigionieri e gli ostaggi civili vengono rinchiusi nelle scuole elementari, dopo essere stati duramente interrogati. Due giorni dopo vengono trasferiti a Casteldelfino e, temendo un attacco partigiano, Tigre viene costretto a sistemarsi, quasi semisvestito com’era, sul tetto della cabina dell’autocarro come scudo umano.
28
Diario del battaglione Bassano, 6.3.1945, in Carte Dalmastro, cit. Gerolamo CONIGLIARO (Trapani), palermitano, caposquadra poi commissario di distaccamento della 181a. 30 Mario Casavecchia, Partigiani in val Varaita, Ricordi di un garibaldino, 1987, Anpi Verzuolo, p.130. 29
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Frison “giustizia” i feriti
Ricorda Tigre che pochi giorni dopo alcuni repubblichini «... fecero irruzione nella mia casa di Piasco e portarono via tutto, lasciando mia madre nella disperazione... e, rispetto ai giorni passati come prigioniero a Casteldelfino, ha davanti agli occhi scene di maltrattamenti, al limite della tortura con le ausialiarie che gli spegnevano le sigarette sulla pelle chiamandoli... cani, vigliacchi, traditori della patria...»31 Dopo qualche giorno di interrogatori anche duri e di falsi annunci di prossima fucilazione vengono liberati per scambio con alcuni alpini prigionieri dei partigiani grazie anche alla mediazione di don Michele Lerda, vicario di Revello. Il 22 ripassano, ormai quasi liberi, da Venasca e ricorda Sarel «... c’è stato un mitragliamento. Loro sono scappati sotto l’ala del mercato, lasciandoci legati sopra al camion, mentre un aereo mitragliava. Ci siamo presi uno spavento! Poi è arrivata la gente ed è stato commoventissimo! Ci buttavano caramelle cioccolato... Ci avevano già visti quando eravamo arrivati, legati, dopo la cattura a Valmala...»32
L’aria che la guerra sta per finire infatti comincia a farsi sentire ma le due ore tragiche dell’attacco fascista hanno prodotto nove caduti, quattro progionieri, tre soltanto in salvo. Tra questi Edelweiss verso sera, quando gli spari sono cessati da molto tempo, ritorna verso il Santuario dall’alto, per capire quale sia la situazione, se ci siano ancora presenze partigiane o ad31 Testimonianza in La Resistenza in valle Varaita, Il Corriere di Saluzzo, a cura di Toni Forez, n.11, 15.3.1975, p.3. 32 Testimonianza di Walter Botto (Sarel) in R. Assom, Giovani tra le montagne, op cit., p.90.
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La borsa di Giorgio
dirittura fasciste, tradite dalle luci. Ma tutto è buio, tutto è silenzio. Decide quindi di avviarsi verso Lemma per dare la notizia dello scontro al distaccamento di Ancona e a Marino, fratello di Ernesto. Il giorno seguente Edelweiss, King, Marino con alcuni uomini del distaccamento e alcuni valligiani di Lemma ritornano al Santuario per capire cosa è successo e recuperare i morti. Sistemata una squadra con mitragliatrici in alto sul crinale per evitare sorprese, in una drammatica “via crucis” trovano otto cadaveri, a cominciare dall’alto quello di Ernesto, già rigidi là dove sono caduti. «... Ernesto sono andato a prenderlo con le mie braccia quando è morto. Siamo saliti lassù e li abbiamo caricati sopra tre “lese”. Li abbiamo portati a Lemma. Ernesto quando l’abbiamo trovato, era senza scarpe, aveva delle lamette da barba e lo spazzolino da denti fuori dal taschino. Non si vedeva una ferita! Aveva una scheggia proprio nella tempia...»33
Caricati i corpi su delle lese (slitte) vengono portati a Lemma nella cappella di S. Rocco. «... con l’aiuto dei contadini li hanno portati in una cappella. Allora ci hanno mandate io e un’altra a sistemarli per la sepoltura. Io ero povera e a casa mia ho preso tutti i “fazzoletti” più belli che avevo, poi siamo andate su e gli abbiamo lavato la faccia, li abbiamo pettinati, erano tutti coricati lì... È entrato un uomo, uno di Papò di Verzuolo che aveva suo figlio morto lì
33 Testimonianza di Ettore Cristiano (Balilla) classe 1929 in Riccardo Assom, Giovani tra le montagne, op.cit. p.113.
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e come lo ha visto si è buttato in ginocchio. Poi rivolto a suo figlio ha detto: “Guarda, io non posso più farti niente, sei contento? Io prendo la tua cinghia per ricordo di te”...»34
Ripuliti dal sangue, i corpi vengono deposti nelle bare costruite la notte stessa in un segheria verso Rossana al mulin d’la val 35. I funerali si svolgono il giorno otto marzo officiati dal parroco don Francesco Demarchi, i corpi tumulati nel piccolo cimitero della frazione. Il giorno seguente gli avvoltoi delle Brigate nere di Busca arrivano sperando di sorprendere i partigiani mentre danno sepoltura ai loro compagni: devono “accontentarsi” di minacciare prima gli artigiani che hanno costruito le bare, poi il prete perché ha celebrato la sepoltura a «ribelli e banditi». Poi addirittura obbligano a scavare nella fossa per accertarsi che veramente ci siano le bare e, fedeli al loro stile di delinquenti, prelevano come prigionieri il parroco stesso e due suoi aiutanti, rilasciati poi qualche giorno dopo36. Il ritrovamento, accanto al cadavere di Giorgio, il commissario della brigata, della sua borsa nella quale erano contenuti documenti importanti, per poco non aggiungeva tragedia a tragedia (fortunatamente Tigre riesce almeno a bruciare l’elenco degli appartenenti alla Brigata, elencati sia col nome di battaglia che con quello vero)37. Da uno di questi documenti infatti viene fuori che un caporalmaggiore della Monterosa (un certo Papa), addetto al magazzino nella caserma di Costigliole S. e innamorato di una ragazza del posto, fornisce armi ai partigiani. I suoi contatti sono due partigiani di Verzuolo: Campanello e Fulmine38. Non resta ai fascisti che andarli a prendere: 34 Testimonianza di Caterina Comba (Speranza) in R. Assom, Donne nella bufera, op.cit., p.119. Il morto è il giovane Panero Pierino (Pierre). 35 In una rubrica de La Stampa intitolata Impronte cosi l’articolista scriveva il 24 ottobre 1999 (la storia non era andata proprio così, il luogo non è esatto, ma l’atmosfera era più o meno quella): «“Quanto ho pianto. Segatura e lacrime. Nove ne ho costruite in una notte. Nove bare per nove amici”. Filippo Giordano ha trent’anni, paura e rabbia quando si mette al lavoro. È il marzo del 1945. A Valmala, dopo la carneficina, i nazisti hanno ordinato a donne e vecchi che i “banditen” devono restare lì, per strada, insepolti. C’è il coprifuoco ma di casa in casa vola una decisione che coinvolge tutti: quei ragazzi partigiani vanno sepolti, da cristiani. Alle casse ci pensa Filippo: aziona il mulino perché il rumore delle macine copra quel lavorio di sega, martello e singhiozzi. Filippo Giordano, classe 1915, domani sarà sepolto nel cimitero di Rossana». 36 Delle Brigate Nere dice Riciotti Lazzero: «... non vi furono mai, nella nostra storia recente, reparti di più basso livello morale e tecnico-militare... in quei reparti nati in un’ora sbagliata s’infilarono al momento giusto per approfittare dell’occasione anche pregiudicati, arrivisti, violenti, trafficanti, profittatori...» Riciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Milano, Rizzoli, 1983, pp.9-10. 37 Testimonianza di Tigre In Milva Rinaudo, op.cit., p.282. 38 Campanello è Francesco TRUCCO. Nato nel 1924 a Costigliole Saluzzo, è residente a Verzuolo dove lavora alla Cartiera Burgo. Partigiano in valle dall’estate precedente, caposquadra. Fulmine è Andrea COSTAMAGNA, classe 1922, nato a Manta ma anche lui residente a Verzuolo, operaio, partigiano in valle dal giugno ’44.
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«... quel giorno arrivavo da Villa Burgo, dove ero andato a lavorare... C’eravamo io e un altro... quando arriviamo giù... vediamo un gruppo di alpini che fermavano la gente... C’era Pavan e con lui Papa che mi indica. Mi hanno beccato e come prima cosa mi hanno riempito di botte. Subito, subito. Poi mi hanno portato su al Comune dove loro erano già stati e avevano già prese le carte d’identità mie e dell’altro, di Fulmine... Pavan mi ha chiesto qual era il mio nome di battaglia. “Campanello”, gli ho risposto. Pavan mi ha detto allora: “Campanello, hai finito di suonare...”»39
Sotto la casa di Costamagna, mentre Pavan sale a prelevarlo, approfittando del fatto che c’è soltanto un alpino a sorvegliarlo Campanello riesce a dileguarsi e con una rocambolesca fuga si mette in salvo. Anche Fulmine, avvertito in tempo, è riuscito a fuggire e a Pavan, come al solito, non resta che arrestare il padre, che riesce anche lui a fuggire il giorno dopo da Venasca, dove era stato portato. Per i due verzuolesi tutto fortunatamente si risolve per il meglio ma nella cartella viene trovato anche un compromettente documento riguardante il maggiore Molinari, il comandante del Bassano. In esso si parla di contatti e di un incontro del maggiore con un comandante Gl (suo compagno di corso alla scuola militare) avvenuto pochi giorni prima. Nell’incontro il maggiore prometteva informazioni ed aiuto per preservare le centrali idroelettriche della valle, alla fine della guerra, in cambio ovviamente di un trattamento personale di favore40. Il comando Gl aveva informato il comando garibaldino dell’avvenuta trattativa e una copia della relazione da inviare al comando di Divisione si trovava appunto nella cartella di Giorgio. Il distaccamento Bottazzi non fu più ricostituito. Dei sopravvissuti Abete ottiene il congedo per occuparsi del suo bestiame, Edelweiss torna al Giambone diventandone il commissario, Gigione curato al piede non guarirà che a guerra finita. I quattro prigionieri rientreranno in reparti diversi. Col senno del poi improvvisati strateghi (ovviamente non presenti) hanno discusso se non sarebbe stato meglio barricarsi dentro il Santuario in attesa che il distaccamento di Ancona o i partigiani di Steve venissero in soccorso. Ma dalla zona di Lemma e tantomeno dalla val Maira nessuno aveva sentito e poteva sentire l’eco dello scontro. Si aggiunga che i partigiani
39
Testimonianza di Francesco Trucco in R. Assom, Giovani tra le montagne, op.cit., pp.203-204.
40 Un trattamento di favore il maggiore Molinari l’ebbe certamente. Intanto, come alla stragrande
maggioranza dei militari del Bassano, non gli fu torto un capello, dopo il 25 aprile. Nel dopoguerra, questo e altri tardivi comportamenti, gli varranno comunque il reintegro nell’Esercito con lo stesso grado e la carriera aperta.
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I nomi di battaglia «... sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite…» (Beppe Fenoglio, I ventitrè giorni della città di Alba). I nomi di battaglia (i nick name partigiani!) sono una delle particolarità più interessanti della lotta di Resistenza. Rifacendosi esplicitamente all’esperienza delle Brigate Internazionali nella guerra di Spagna, assolvono il compito basilare di garantire l’anonimato, difendere il partigiano e soprattutto la cerchia familiare da possibili rappresaglie e minacce. Si trasformano spesso in una sorta di iniziazione nel momento dell’ingresso nella formazione, sottolineando anche che la “scelta partigiana” è la rinuncia ad una vita precedente,
per una nuova. Per chi proviene già dai ranghi dell’esercito tradizionale poi “certifica” la differenza tra un combattere per costrizione rispetto a un combattere per decisione e volontà propria. La scelta del nome è quasi sempre definitiva ma a volte può essere cambiata o perché si è stati comunque individuati (Medici si chiama all’inizio Macera con riferimento alla sua città di provenienza ma lo cambia poi nel nome dell’eroe garibaldino della difesa della Repubblica romana Medici) o perché il vecchio nome non si adatta al cambiamento di formazione. Approfonditi studi sul tema hanno poi sottolineato che al di là della funzione pratica i nomi di battaglia finiscono per rappresentare anche funzioni di tipo culturale o simbolico che possono quindi riferirsi ai caratteri fisici, alla cultura, all’esperienza, alla vita di chi li sceglie. Spesso (e sono quelli più mi-
al Santuario non conoscevano l’esatta consistenza numerica degli assalitori che avrebbe comunque potuto scoraggiare il possibile aiuto esterno (l’incontro fortuito con il gruppo di King in zona Pian Pietro lo dimostra) e d’altronde l’armamento del Bottazzi non era tale da sostenere un attacco prolungato o addirittura un assedio portato con armi decisamente superiori. Si dice che i partigiani non hanno combattuto, sono solo scappati. Tutti i sopravvissuti concordano sul fatto che si è risposto al fuoco con le armi individuali che ognuno possedeva: pochi mitra, due sten e alcuni moschetti, tutte con raggio d’azione limitato quanto a distanza utile di tiro e con pochi caricatori. Le armi pesanti erano state nascoste e non erano immediatamente recuperabili. Dal punto di vista psicologico poi si veniva attaccati 88 | Combattere in Valle Varaita
nacciosi o “terribili”) servono anche a esorcizzare la paura e comunque in definitiva spesso rivelano aspetti più o meno profondi del carattere. Così accanto a semplici pseudonimi che attingono al nome di battesimo reale (Giorgio, Ernesto, Filippo), trasformato (Marino), fittizio (Ezio), diventato un diminutivo o un accrescitivo (Carletto, Vanni, Gigione) o un soprannome affettivo (Dado), troviamo i riferimenti geografici (Reggio, Ancona, Trapani) a volte mischiati con suggestioni culturali (Bellini), riferimenti ai fenomeni naturali (Saetta, Fulmine), ai nomi di animali ritenuti più coraggiosi, forti o aggressivi (Lepre, Tigre), ad alberi o delicati fiori che ricordano scampagnate in montagna (Abete, Edelweiss, Margherita) a politici o uomini di lotta (Barbato). In altri casi i riferimenti culturali sono più espliciti (Chopin, Bacco, Ulisse) o si rifanno a quell’arma che non si è mai riusciti ad avere (Sten).
Più delicate le scelte delle staffette e delle patriote (Speranza, Luce, Selene, Kira). Al punto che lo stesso Adami, tenente del Bassano, per una sorta di identificazione antagonistica adotta una specie di nome di battaglia. E tutti, civili e partigiani, spesso non conosceranno il suo vero nome, ma solo quello di... Pavan. Quasi tutti i partigiani qui nominati hanno un nome di battaglia conosciuto. Non tutti, ma quasi, sono incasellabili in categorie tipiche che in qualche modo li spiegano, come abbiamo visto sopra. Alcuni, non molti, sono decisamente particolari come King, scelto da Lelio Peirano prendendolo in prestito dal nome di un cane senza sapere che si trattava di un altisonante vocabolo inglese “reale” o Walter Botto che adotta Sarel come acronimo di “Società anonima rubinetti e lavandini” inventato durante una esercitazione al tempo della scuola.
di sorpresa in una base ritenuta sicura e senza conoscere il numero degli avversari che sembravano comunque molti. Ingaggiando un combattimento ravvicinato contro i mitragliatori non ci sarebbe stata storia, sarebbero sicuramente morti tutti. A parte l’istinto di sopravvivenza, lo scopo dei distaccamenti partigiani (soprattutto col sentore di una fine ormai vicina della guerra) non era certo quello di “cercar la bella morte”, ma dopo lunghissimi mesi di lotta vedere finalmente la fine della guerra e il ritorno a casa. Da un altro punto di vista però bisogna riconoscere che l’azione dei monterosini sotto l’aspetto militare fu un successo (è la tipica operazione a tenaglia), preparata anche, come abbiamo detto, da un quasi certo depistaggio sulla zona di attacco e da una probabile ricognizione del luogo, come Valmala 1945 | 89
sembrano dimostrare le impronte nella neve trovate qualche giorno prima da Edelweiss e di cui abbiamo parlato. Se quindi di azione di guerra si è trattato (o meglio di guerra antipartigiana) appare comunque incomprensibile e ingiustificabile l’esecuzione a freddo dei partigiani feriti e l’ipotesi di fucilazione dei quattro, poi prigionieri. Carlo Cornia autore del libro Monterosa, Storia della Divisione Alpina Monterosa della Rsi non vi fa cenno preferendo insistere sui compiti di presidio di confine come se l’attività antipartigiana quasi non fosse esistita. Più documentato ed onesto il lavoro di Claudio Bertolotti membro peraltro dell’“Istituto Storico-Culturale Divisione Monterosa” che a proposito del fatto dà due giudizi apparentemente contrastanti. Da una parte afferma che «... fu un’azione militare a tutti gli effetti... nulla da eccepire neppure sul lato giurisprudenziale: non si trattò di combattenti riconosciuti ma di “terroristi” sottoposti alle leggi di guerra che ne prevedevano la fucilazione immediata...»
Ma immediatamente dopo si chiede «Dal punto di vista umano? Un’azione triste, odiosa. Uomini impotenti e feriti uccisi a sangue freddo dopo essere stati medicati; appare quantomeno discutibile il comportamento dei monterosini. Uomini in guerra, diedero in questa situazione il meglio ma anche il peggio di se stessi; dalla documentazione raccolta possiamo oggi dire chi commise il fatto: fu il maresciallo Frison a uccidere due di quei partigiani, lo stesso che ebbe la sorella stuprata, seviziata e uccisa dai partigiani del suo paese. Può non essere un attenuante, non vogliamo porla sotto quest’ottica, ma può farci comprendere ciò che potè passare per la mente dei protagonisti di allora...»41
Si potrebbe anche ipotizzare che l’azione contro il comando partigiano (presso il quale si presumeva fossero custoduti documenti importanti) sia stata una sorta di resa dei conti interna al battaglione Bassano. Pavan voleva procurarsi le “prove” del doppiogiochismo o (per lui) del “tradimento” di Molinari. Da questo punto di vista, siccome i repubblichini non sapevano quanti erano i partigiani, non hanno controllato (e quindi non sanno nem-
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Claudio Bertolotti, Storia del Battaglione Bassano, op.cit., p.180.
90 | Combattere in Valle Varaita
meno se qualcuno si è salvato), l’esecuzione dei prigionieri a sangue freddo oltre ad una inutile barbarie potrebbe nascondere la volontà di non lasciare testimoni. Ovviamente questa è solo un’ipotesi non suffragata da nessun documento e da nessuna testimonianza e come tale va considerata. Rispondente ad una dietrologia al limite dell’inverosimile invece l’ipotesi che i veri obiettivi dell’attacco fossero in realtà Giorgio e soprattutto Ernesto e che l’imbeccata a Pavan sia arrivata addirittura da settori in quel momento marginali del partigianato della zona, fortemente preoccupati del possibile ruolo di aggregazione politica dei due garibaldini comunisti a guerra finita (grazie al consenso, alla fama, al carisma conquistati sul campo) e interessati quindi alla loro eliminazione. Ciò resterà per sempre nel campo delle pure supposizioni.
King, Marino e Trapani
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Indice Prefazione di Francesca Galliano...........................................................................................................pag. Introduzione dell’Autore....................................................................................................................................... »
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Lo chiamavano Chopin .............................................................................................................................................. » I parte VALCURTA 1944 (Settembre 1943 - Dicembre 1944)................................................. »
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CAPITOLO I Un difficile inizio ..................................................................................................................................................... » CAPITOLO II Valcurta, 25 marzo 1944 ................................................................................................................................. » CAPITOLO III Lo sbandamento, la ripresa e l’estate partigiana ............................................................... » CAPITOLO IV Valcurta, 21 agosto ................................................................................................................................................. » CAPITOLO V Guerra civile .................................................................................................................................................................. »
11 13 25 31 39 45
Bibliografia per immagini............................................................................................................................ »
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Ernesto ........................................................................................................................................................................................... » II parte VALMALA 1945 (Gennaio 1945 - Marzo 1945)................................................................... »
52
CAPITOLO I La situazione .................................................................................................................................................................. » CAPITOLO II Le forze in campo ..................................................................................................................................................... » CAPITOLO III Lo scontro .......................................................................................................................................................................... » Bibliografia per immagini............................................................................................................................ »
53 55 60 72 92
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Maledetta primavera ..................................................................................................................................................... » III parte I GIORNI DI APRILE (Marzo 1945 - Maggio 1945) ................................................... »
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CAPITOLO I Verso la Liberazione ............................................................................................................................................. » CAPITOLO II Resa dei conti? ............................................................................................................................................................ »
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Bibliografia per immagini............................................................................................................................ »
109
Lupo, King e gli altri ..................................................................................................................................................... » IV parte LA MEMORIA DI VALMALA (1946-2015) ............................................................................ »
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CAPITOLO I Il dopoguerra e gli anni ’50 ......................................................................................................................... » CAPITOLO II Il 1959.................................................................................................................................................................................... » CAPITOLO III Dagli anni ’80 ad oggi ........................................................................................................................................ »
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Bibliografia per immagini............................................................................................................................ »
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Postfazione di Daniel Daquino ..................................................................................................................... » Neve Rosso Sangue, il film .................................................................................................................................... »
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Bibliografia di riferimento ................................................................................................................................... » Ringraziamenti..................................................................................................................................................................... » Indice dei nomi................................................................................................................................................................... » Indice dei luoghi ............................................................................................................................................................... » Referenze fotografiche .............................................................................................................................................. »
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158 | Combattere in Valle Varaita