Chiamami Jack

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Capitolo 1

L A PARETE D ’ ARGENTO

La Parete d’argento: così la chiamano, e a ragione. È la parete sud della Marmolada, la “regina delle Dolomiti”: è una lavagna larga parecchi chilometri e alta quasi mille metri. Alterna zone di lisce placche di calcare grigio a tratti più fratturati, con rientranze e canne d’organo. Il suo limite occidentale è costituito da uno spigolo così affilato che pare cesellato da un orefice. È una parete possente, affascinante, intrigante. Ma quando infuria il mal tempo può trasformarsi in un inferno: i temporali arrivano improvvisi, si schiantano contro l’immensa lavagna e scaricano su di lei la potenza dei loro venti. Grandinate come proiettili, ecco cosa abbiamo dovuto sopportare da ieri pomeriggio. Un bivacco imprevisto, una notte tremenda, per fortuna sdraiati sulla seconda terrazza della via classica di salita. Sdraiati, ma non per questo tranquilli e al caldo. Non eravamo pronti per accamparci sotto il mal tempo, non potevamo esserlo. Siamo saliti l’altro pomeriggio al rifugio Falier, in Val d’Ombretta. Un’ora abbondante di sentiero: ce la siamo fumata, siamo allenati, siamo reduci da numerose gite, non avevamo paura né titubanza. Erano mesi che sognavamo la sud della Marmolada per la via classica. La prima via aperta su questa parete, l’unica che non contenga difficoltà di sesto grado. Una via in anticipo sui tempi, salita a inizio Novecento, oltre vent’anni prima degli altri itinerari della sud. Per questo la chiamano La vecchia: è il nomignolo affettuoso per indicare “la via vecchia”. 11


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Ieri mattina abbiamo attaccato lungo i camini basali, stretti e umidi. Ci sentivamo forti e allegri. Le relazioni indicano questo primo terzo come il tratto con le maggiori difficoltà di arrampicata. In breve siamo arrivati alla prima terrazza. Il sole rideva con noi. Ci sentivamo padroni del mondo, gli appigli quasi ci scappavano sotto le mani, tanto salivamo veloci. Nel lungo tratto fra le due terrazze, troppo presi dall’arrampicata, non ci siamo accorti che il cielo piano piano si velava, che strane nuvole striate disegnavano pesci lattiginosi, e che il vento fresco diventava sempre più insistente e gelido. A una sosta, mentre ci scambiavamo il materiale di arrampicata, abbiamo sentito il primo crepitìo lontano. Un tuono! Ci siamo guardati: che sarà mai? Mica verrà proprio qui, e poi noi andiamo su veloci, il duro è sotto i nostri piedi, certo c’è ancora molto da salire, ma dovremmo farcela, su, dai!, non perdiamo tempo! Dalla prima alla seconda terrazza si sale in obliquo verso destra: le rocce sono un po’ meno verticali della parte basale, ma non così facili come immaginavamo. Ogni passo diventava più complicato, alla stanchezza si aggiungeva la preoccupazione per il maltempo. Il vento si è rapidamente trasformato in bufera e il temporale ci ha aggredito senza scampo, come un falco che piomba sulla preda. La grandine ci prendeva a sassate, il vento ci toglieva il respiro. Le mani sono presto diventate rosse, poi viola, le dita non sentivano più gli appigli. Sotto il turbinìo degli elementi gli occhi faticavano a stare aperti. Abbiamo indossato la giacca a vento e anche il passamontagna sotto il casco, ma non era comunque sufficiente. Il freddo, la sete, la stanchezza e la paura ci prostravano, ci piegavano. Destreggiandoci fra placche bagnate e appigli inzuppati di grandine, siamo arrivati alla seconda terrazza. Era quasi buio, ma soprattutto era buio dentro di noi perché si stava spegnendo la nostra luce interiore. Non avevamo sacchi da bivacco né fornello, non avevamo previsto di passare la notte all’adiaccio. Non si può immaginare, a casa, quanta sete si 12


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patisca in parete, durante una bufera: sei circondato dall’acqua, che ti entra nella schiena e ti bombarda la testa, ma la gola urla, tanto è arsa. Ci siamo accucciati, più che sdraiati, sui detriti della terrazza, là contro la roccia che riprende verticale. Ho capito che il mio amico stava male, non era pronto per una vera tempesta, l’allenamento della sua prima estate di arrampicate lo aveva preparato per salite solari, non per discese all’inferno. Il suo viso è presto diventato violaceo, tumefatto, le labbra gonfie, non parlava più. Gli occhi persi, parevano inanimati, solo un filo di respiro mi confermava che non lo avevo perso del tutto. Io non stavo molto meglio: con i temporali, le pareti dolomitiche si trasformano in cascate e trascinano giù pietre e detriti. Una mano è stata colpita, il sangue rappreso, la pelle spaccata, è gonfia a tal punto che non riesco quasi a muoverla. Anche il mio viso non deve essere tanto meglio del suo. Ma io un po’ più di esperienza di salite in montagna ce l’ho, ed è strano che abbia completamente rimosso il rischio di eventi del genere: siamo saliti con zaini leggeri, solo il necessario per l’arrampicata, giusto una giacchetta e un misero paio di guanti che ormai sono sfilacciati dalla bufera e bruciati dal gelo. Spingo il mio amico contro la parete, di traverso sotto le prime rocce verticali, gli giro il viso per coprirlo dalla furia degli elementi. Ormai è notte inoltrata; da quassù potrebbero vedersi le luci nelle vallate e addirittura le stelle, se fosse sereno. Ma il temporale ha lasciato il posto a una vera perturbazione: alla grandine si è sostituita la neve. Siamo a fine estate, ma stiamo gelando sotto una fitta nevicata che non vuole proprio esaurirsi in fretta. Ho freddo, ho paura. Sento il vuoto intorno a me, dentro di me. Mi giro sopra l’amico, cerco di scaldarlo con il mio corpo, non voglio perderlo. Trascorrono ore così, ogni tanto scrollo la neve che si è accumulata sopra di me, mentre cerco di coprire il più possi13


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bile il corpo di lui: «Dai, resisti, fra poco è l’alba, vedrai che smetterà, ce la faremo!». Ogni tanto piango: «Non mi lasciare!» gli dico. Ora sta albeggiando e vedo laggiù le prime strisce: s’intuisce che la compattezza delle nuvole si sta allentando, forse la perturbazione sta per andar via. Ci eravamo un po’ appisolati, è da un po’ che non nevica. Allora ripulisco l’amico dalla neve, lo giro verso di me, cerco di svegliarlo, di smuovere le guance dure come lastre di ghiaccio. Lui apre gli occhi, e sembra volermi dire: «Che ci faccio quassù?» Già, non me l’ero chiesto: che ci facciamo quassù? Perché siamo finiti su una parete dolomitica? Proprio noi due che, all’inizio dell’estate, neppure ci conoscevamo? Spero che il cellulare prenda; prima non l’ho neppure acceso perché non volevo sprecare batteria; e poi, di notte e con la bufera, l’elicottero non sarebbe certo venuto a recuperarci. L’alba è livida, qualche raggio di sole taglia le nuvole dense, ma tira ancora un vento forte. La parete è bianca e fredda, più di una lavagna sembra un pandoro cosparso di zucchero. Zucchero ghiacciato, ma anche la roccia è ghiacciata. Ora il cellulare prende, anche se salta un po’, ma riesco a chiamare i soccorsi. Mi dicono di preparare l’amico, per me non sanno, forse mi recupereranno con un secondo giro. Dipende dal tempo, se regge oppure no. Non importa, ora voglio che prendano lui, che lo portino giù, fuori da questo mondo inumano. Lo sposto, lo metto proprio in centro alla terrazza, lui mi lascia fare, non avrebbe la forza per opporsi; solo dal flebile respiro capisco che mi vede. «Dai, fra poco è finita. Non mollare proprio adesso, dai!». Lui si rianima un po’, muove lentamente le mani, poi le braccia, tenta qualche parola. All’inizio sono suoni incom14


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prensibili, poi articola qualche frase. Finalmente riesco a comprenderlo. Dice: «E pensare che quattro mesi fa non ti conoscevo. Perché mi hai portato qui?». Già: perché l’ho portato lì? In lontananza inizia a sentirsi il rumore sibilante dell’elicottero, per ora è ancora lontanissimo. Mi sono inginocchiato, ho posato la sua testa sulle mie ginocchia e la tengo fra le mie mani. Lui apre gli occhi di nuovo, mi sorride. Il sorriso sembra quasi spaccare la pelle arsa dal gelo. Che ci facciamo quassù? Per capire come mai siamo qui, su questa terrazza abbarbicata a metà parete della Marmolada, dopo una notte di bufera, la domanda è un’altra. Che cos’è successo durante l’estate che sta finendo?

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Capitolo 24

C HI

È CHI ?

Piazza Bodoni è un vero salottino in centro a Torino. L’hanno lastricata e sgomberata dalle auto, è simile a un angolo parigino, con palazzi d’epoca che la circondano e un monumento equestre che agisce da perno centrale dello spazio. Se ti siedi in uno dei dehors sulla piazza, puoi gustarti una birra fresca o un aperitivo ascoltando musica classica. Sulla piazza si affaccia il conservatorio Giuseppe Verdi e dalle sue aule, specie se le finestre sono aperte, escono suoni melodiosi a tutte le ore. Nilde stava fumando nervosamente, dopo una birra ghiacciata, e si rivolse a Jack, seduto dall’altra parte del tavolino: «Adesso che ci siamo rinfrescati la gola, mi racconti perché sei a Torino?». Jack si arrotolò i riccioli sale e pepe sul collo, prendendo una pausa di silenzio come un consumato attore di teatro: «Te l’ho accennato. Si vede che ti sei così emozionata nel vedermi che non hai fatto attenzione. Sono qui di passaggio, nel pomeriggio parto per la Valle d’Aosta. Sai quel tipo di Saluzzo, quel Tomatis». «Nicola?» lo interruppe Nilde. «Sì, Nicola. Mi porta a fare un’escursione. Sopra Aosta. La Becca della Nonna». «Semmai sarà la Becca di Nona» lo corresse la donna. «E cosa ci andate a fare sulla Becca di Nona?». «Sì, esatto, la Becca di Nona. Mi vuole portare a tutti i costi lassù. Abbiamo un piano strategico, mi deve avvicinare in tempi brevi alle ascensioni, vogliamo fare la salita della Marmolada da sud verso fine agosto, al massimo ai primi di settembre. Manca poco ormai». 138


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«Ah!» commentò Nilde, schiacciando il mozzicone nel posacenere sul tavolino. «Sì, certo, direi che manca un mesetto circa, basta guardare l’agenda. Come mai ti è venuta questa fissa dell’arrampicata? Non ti bastavano la vela e...». «E...?». «E le donne, le conquiste». «Non saprei darti una risposta, sai. Un po’ dipende da questo Nicola, è stata una vera sorpresa, mi sto divertendo un sacco quando siamo insieme. Un po’ dipende dalla montagna: ho percepito che c’è un qualcosa, nell’andare in montagna. Come per la vela, ma forse la vela mi ha un po’ saturato, non ho mai smesso di farla in tutti questi anni. Forse sto cercando nuove emozioni». Nilde ebbe uno scatto, rovistò nella borsa e tirò fuori il cellulare: «Aspetta, guarda, dovresti proprio chiacchierare con mio marito, anche lui dice che andare in montagna ha un qualcosa di speciale. Io non lo so, ma... Aspetta». Nilde compose il numero: «Pronto, Luciano? Dove sei? Ah, in centro per commissioni. Sì, sì, le so io le tue commissioni! Senti, io sono in piazza Bodoni, fai un salto? Vorrei farti conoscere un mio collega. Siamo proprio sotto il conservatorio, ci trovi in uno dei dehors». Jack terminò la sua acqua tonica, posò il bicchiere sul tavolino: «Non l’hai nemmeno salutato. Siete proprio dure, voi donne torinesi» e scosse la testa. «Come?» chiese Nilde che già stava pensando ad altro, all’imminente riunione professionale nel suo studio. «Ah, sì. Siamo dure, ma sai, ho un po’ di fretta, anzi ho decisamente fretta, mi aspettano per una delle ultime riunioni prima della pausa estiva. Te l’ho detto quando mi hai telefonato poco fa per combinare questo drink insieme, no?». Il bip-bip dei loro cellulari, posati sul tavolino, attirò la loro attenzione. Nilde rise: «Guarda il tuo amico, Nicola. Scrive come un pazzo su Twitter: Montagnes valdôtaines, Vous êtes mes amours... Che pazzo. Ma hai visto quanto twitta? Ha scoperto il giochino e deve compensare con il passato». 139


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La donna sorrise scuotendo ancora il capo. «Che c’è da ridere?» Jack non focalizzava bene la situazione. «È l’inizio di un canto di montagna della Valle d’Aosta. Vuol dire: montagne valdostane, voi siete i miei amori». «Beh, carino, no?» osservò Jack giochicchiando con il suo cellulare. «Pensa se lo scrivessi io delle donne veneziane». «Solo veneziane?» Nilde lo squadrò inclinando leggermente il capo e alzando le pupille contro l’arcata superiore, in modo da guardarlo fra il bordo degli occhiali da sole e le sopracciglia. «In effetti, mi manca una torinese» sogghignò Jack. «Ma non dispero». «Per il momento, mi sa che devi soprassedere». Nilde si alzò in piedi, raccogliendo le sue cose dal tavolino e prendendo in mano la borsa. «Devo correre in studio! Quel tira pacchi di mio marito Luciano ci ha fregato, me lo immaginavo. Non importa, sarà per un’altra volta. Ciao, neh?». Chinandosi velocemente, Nilde diede al collega un soffice bacio sulla guancia. Anche Jack si alzò, per dirigersi alla cassa del locale. Luciano era in realtà impegnato ad acquistare uno zaino nuovo per l’escursione sopra Aosta. Impiegò più tempo del previsto, perché voleva scegliere uno zaino adatto anche alla Marmolada. Con lo zaino floscio in spalla, camminava per le vie del centro città, zigzagando fra i palazzi barocchi, con l’obiettivo di raggiungere Nilde in piazza Bodoni. Arrivando da una vietta laterale, girò l’angolo e, proprio mentre la sua vista si allargava nell’ampio spazio di piazza Bodoni, si trovò di fronte Jack. «Nicola!» lo abbracciò il veneziano, «ma che ci fai a Torino? Non abbiamo appuntamento alle due del pomeriggio?». La prima reazione di Nicola fu una reazione alla Luciano, cioè allargò le braccia e stava per dire: «Ma io, a Torino, ci abito». Ma quella era una frase che riguardava appunto Lu140


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ciano, mentre lui, in un istante, era stato proiettato in un’altra dimensione, quella di Nicola. «Ecco...» balbettò, «ecco... Sono venuto a comperare uno zaino nuovo, ci servirà domani alla Becca di Nona» e glielo porse. «Bello. Anzi: fico!, come direbbero i ragazzini». Jack lo indossò, ma lo zaino continuava a rimanere floscio sulle spalle. «Vedrai, quando sarà pieno di roba non lo troverai così bello. Ti segherà le spalle». Jack prese sottobraccio l’amico: «Visto che sei qui, mangiamo un boccone e poi partiamo?». Prima che Nicola potesse rispondere, gli suonò il cellulare che aveva in tasca, quello nero e grande, quello di Luciano. Si svincolò dall’amico e fece due passi in là, con un gesto verso Jack come per dirgli: «Scusa, perdonami, faccio in fretta». Era Nilde: «Allora, Luciano, belle figure mi fai fare sempre! Volevo che tu conoscessi un mio collega veneziano, che è qui a Torino per il week end: nel pomeriggio va in Val d’Aosta con amici. E tu non ti sei neppure fatto vedere. Guarda, sei un vero maleducato!». Luciano, anzi Nicola, o forse era ancora Luciano (neppure lui sapeva bene chi fosse in quel preciso frangente), non rispose, era troppo forte il rischio di commettere passi falsi, con Jack a due metri. Alla fine disse: «Guarda, ero incasinato e ho impiegato più tempo del previsto». «Beh» commentò Nilde, «ti è andata bene che sono dovuta venir via, perché ho una riunione in studio. Così non sono stata lì come un baccalà ad aspettarti. Ma fammi il piacere: smettila di essere così superficiale, cresci una buona volta!». Click. Nascondendo nella mano il cellulare nero, per timore che Jack potesse notarlo, lo infilò nella tasca dei pantaloni, riuscendo anche a spegnerlo. Poi, girandosi di nuovo verso l’amico, Nicola estrasse 141


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dalla tasca sinistra dei pantaloni l’altro cellulare, quello grigio e piccolo. Per fortuna che dopo aver tweettato Montagnes valdôtaines, non l’ho spento, si disse. Si avvicinò a Jack: «Scusami sai, le solite rogne: se non è il lavoro, sono i figli o la moglie». Jack sorrise: «È per questo che io lascio in giro mille segnali di fumo: dentro la cortina fumosa mi dileguo. Spesso corro alla Giudecca. Non sempre con una donna, a volte passo interi pomeriggi a dipingere. Sto cercando di imparare davvero a dipingere. Dipingo come cambiano i colori della laguna nelle diverse luci del giorno. Allora: mangiamo un boccone? Questa piazza mi piace molto, ti va?», e allargò un braccio a indicare lo spazio simil-parigino. Si sedettero ai tavolini di un ristorante, pochi metri più in là del dehors in cui erano seduti poco prima. «Su cosa ci indirizziamo?» Jack agguantò la carta delle proposte. «Cose leggere, fra poco dobbiamo viaggiare con il caldo e poi camminare un po’». Jack non fece in tempo a chiamare il cameriere che gli squillò il cellulare: «Ciao, sono Nilde, vorrei davvero scusarmi per quel cafone di mio marito! Guarda, lo spellerei vivo. Adesso che fai?». Jack sorrise: «Non ti preoccupare, ho rimediato. Nicola, l’amico di Saluzzo, è venuto a Torino prima del previsto. Ora stiamo mangiando insieme, poi partiamo per la Becca del Nonno». «E daje! Becca di Nona, non del Nonno!». «Sì, sì, hai ragione, ma non sono ancora pratico dei nomi: Becca del Nonno è più facile da ricordare. Comunque, in settimana ti racconterò com’è andata, ok? Baci baci». Pose il cellulare sul tavolo: «Eh, le donne», commentò con rassegnazione «Sempre a far questioni». Nicola sorrise: «Proporrei un’insalatona nicoise, che vuol dire nizzarda. Uova, tonno, acciughe, capperi... Insomma: sapori di Provenza». 142


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I loro cellulari emisero un suono in contemporanea. Era un tweet. Si affrettarono entrambi a leggere, ciascuno dal proprio apparecchio. Era Nilde: Gli uomini: immaturi, casinisti, incapaci. Che palle!

«Cameriere!» Jack alzò una mano, voltandosi verso il locale, «una bottiglia di prosecco. Ben ghiacciato, mi raccomando».

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