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Introduzione al tema Siamo noi a forgiare la mente La mente è cangiante per natura, non è fissa né immutabile: si modifica in continuazione. Il celebre lama tibetano Sakyong Mipham la paragona al tofu, formaggio di soia che può essere cucinato in vari modi per la sua capacità di assorbire diversi tipi di condimenti. Sperimenta l’ambiente circostante, le qualità, l’energia, i concetti, le sensazioni, le emozioni. Se, ad esempio, vediamo un film in cui prevale la violenza, la mente assorbirà violenza, se viene a contatto con un ambiente amorevole, assorbirà amore. La responsabilità di come vogliamo colorarla è tutta nostra e di nessun altro perciò converrà nutrirla con un ambiente conforme alle nostre aspettative. Non possiamo controllare il tempo o l’intensità del traffico cittadino; possiamo, però, controllare le nostre intenzioni, i nostri coinvolgimenti e indirizzarli verso uno scopo preciso. Prendersi cura della propria mente vuol dire alimentarla di intenzioni, motivazioni; in una parola plasmarla nel modo desiderato. La meditazione, di cui ci occuperemo tra non molto, è rivolta proprio a questo scopo: insegnare alla mente a rimanere tranquilla, rilassata, a non muoversi come un cavallo non addomesticato che corre ovunque e in continuazione. Senza questo addestramento, questo allenamento teso a stabilizzare e focalizzare la mente su un supporto o obiettivo qualsiasi, non saremmo in grado di andare nelle direzioni volute: ci troveremmo costantemente sballottati nei flutti caotici della vita di ogni giorno rincorrendo ora l’obiettivo X all’ora Y e, subito dopo, dopo l’obiettivo Y finendo sfiniti e nervosi alla fine della giornata. Nel contesto speci-
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fico dello sport, e del podismo in particolare, per migliorare la propria corsa occorrerà allenare la mente così come si allena il fisico. Sul fisico gli effetti di un allenamento ben svolto e strutturato si vedono chiaramente nelle forme di un corpo atletico, sufficientemente scavato ma non emaciato, con muscoli e tendini ben reattivi, con l’acquisizione di doti di resistenza o velocità. Per la mente gli effetti non mancheranno di manifestarsi quando riusciremo ad allenarla, renderla flessibile e stabile, e indirizzarla verso quegli obiettivi che ci stanno a cuore. Ad esempio praticare un’attività sportiva possedendo, soprattutto, una visione di ciò che vogliamo realizzare. In sua assenza non saremmo in grado di sapere in quale direzione muoversi con il rischio di farsi catturare da obiettivi devianti che si potrebbero presentare lungo un ideale percorso. Così, se si è impegnati a gareggiare su una qualsiasi distanza, l’obiettivo minimale è quello di terminarla e non limitarsi a percorrere solo un tratto della strada: diventare un finisher, termine inglese attualmente molto in voga nel mondo podistico, ovvero un runner che porta a termine ciò che ha iniziato. Con questa intenzione saldamente presente, frutto di una mente disciplinata, difficilmente ci fermeremo al quinto o sesto chilometro, ma arriveremo fino in fondo.
È più importante il corpo, la parola o la mente? Uno dei più grandi maestri tibetani di meditazione del passato, Khenpo Ganghar, si chiede: «È più importante il corpo, la parola, o la mente?». A questa domanda fa seguire poche ed incisive considerazioni. Con il corpo proviamo caldo e freddo, sperimentiamo grandi piaceri e pene. Possiamo danzare, meditare e apprezzare cibo delizioso. Con la parola possiamo comunicare, cantare, parlare. Con poche semplici parole si può diventare marito e moglie e con altrettante poche parole si può iniziare una guerra. Con la mente possiamo avere pensieri e idee, acquisire conoscenza, pensare al passato, immaginare il futuro o luoghi in cui non siamo mai stati. E così conclude: «Sebbene il corpo, la parola e la mente siano tutti importanti, la mente è più importante. La mente rappresenta il re o, in termini
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moderni, il boss, il padrone. Solo con la mente possiamo iniziare un qualsiasi movimento del corpo o un discorso, per cui più la mente verrà allenata e più profondi saranno gli effetti da essa prodotti: ecco perché è così necessario aver molta cura della nostra mente». Nella citazione riguardo alle possibili azioni del corpo non viene menzionata la corsa, di resistenza o veloce. Possiamo tranquillamente aggiungerla, perché il correre rappresenta una delle principali azioni compiute nel corso di un anno da sempre più podisti in ogni parte del mondo. Inoltre il movimento del correre, anche se potrebbe apparire scontato, inizia nella mente, e sempre nella mente vengono vissuti i vari momenti della corsa, sia quelli piacevoli che quelli poco esaltanti: tutto danza lì, tutto transita da questo “luogo” che ho virgolettato perché il termine non va certo inteso in senso soltanto fisico. È importante? Certo, perché esiste un’unica relazione tra respiro e mente. La tradizione buddista tibetana sostiene che il respiro si possa paragonare a un cavallo e la mente al suo cavaliere: se il respiro è calmo diventa più facile avere accesso alla mente o, metaforicamente, per il cavaliere riuscire a cavalcare un cavallo docile. Ora, tutti i runners sanno come il respiro durante la corsa rappresenti uno dei fattori centrali con cui ci si confronta: se ci si sente in forma avviene una integrazione perfetta con l’azione atletica, per cui la mente vive un momento magico, come un cavaliere saldamente in sella al proprio cavallo. Se invece il respiro diventa affannoso, difficoltoso, lo stato mentale diventa poco lucido e l’azione atletica perde di efficacia, diventa pesante, trascinata, poco estetica; e il cavaliere non si trova a proprio agio dovendo cavalcare un cavallo agitato. Questo legame tra mente e respiro è facilmente sperimentato e acquisito da chi pratica abitualmente la corsa. Non è forse acquisita, almeno da molti, l’importanza del fattore mentale per migliorare o, addirittura, potenziare la propria corsa. Mi sono perciò riproposto, ricorrendo alla mia cinquantennale esperienza con i pantaloncini corti, alla pratica meditativa da principiante e a varie letture, di proporre alcune semplici tecniche per accedere a forze aggiuntive di tipo psicologico da integrare e fondere con quelle fisiche ritenute basilari per allenamenti tradizionali o evoluti.
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Rapporto mente e guarigioni «La nostra capacità di far ricorso al potere terapeutico della mente è direttamente proporzionale a quella di sciogliere le morse dell’attaccamento, cioè sbarazzarci delle piccole/grandi preoccupazioni che limitano e imprigionano la nostra visione e di rilassarci in un più ampio spazio di noi stessi e del nostro posto nell’universo» DANIEL GOLEMAN
C’è un aspetto in campo medico che mi ha sempre incuriosito: l’effetto placebo. Di cosa si tratta esattamente? A un paziente affetto da problemi di salute viene somministrata una “stravagante medicina” priva di principi attivi: solo un po’ di acqua naturale. Inaspettatamente il paziente migliora o raggiunge la guarigione perché ha creduto che l’acqua fosse una vera medicina. Ha fatto pieno affidamento su presunte proprietà curative, in verità fisicamente inesistenti, ed è guarito o migliorato. Qualcosa d’incredibile. Viene da chiedersi cosa l’abbia portato nuovamente tra i sani o lontano dalla sofferenza. Non certo sostanze materiali perché il “farmaco-placebo” non ne conteneva, bensì impalpabili e ancora sconosciute energie curative interne di natura psichica attivate da un soggetto in cura e alimentate dalla fiducia; un esempio di come le nostre convinzioni siano in grado di orientare le risposte dell’organismo. Inutile negarlo o provare a girarci intorno: la guarigione o miglioramento dello stato di salute è un effetto del potere della mente di creare energie risanatrici. Quest’ultima affermazione potrebbe apparire un po’ forte a chi è legato alla razionalità scientifica e anche un po’ “gratuita” perché non sempre l’effetto placebo funziona. Rimane il dato incontrovertibile che, comunque, qualche volta funziona, e se fosse possibile conoscerne l’arcano meccanismo potremmo eliminare, almeno in parte, un bel po’ di farmaci chimici imparando a trasmettere al corpo forze guaritrici o risanatrici.
L’esperimento del caffè: effetti sull’organismo Un altro esempio di effetto placebo piuttosto curioso si riferisce a un liquido diverso dall’acqua, una bevanda nazionale: il caffè. Alcuni ricercatori della University of East London hanno realizzato dei test per verificare quale fosse l’effettivo potere del caffè sull’organismo. Come si legge nella rivista Appetite, è stato somministrato a un gruppo di volontari del semplice caffè, comunicando che conteneva caffeina, mentre in verità si trattava di caffè senza caffeina.
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In una serie di test successivi volti a misurare prestazioni mentali, tempi di reazione e umore, alcuni soggetti di questo gruppo sono riusciti a fare addirittura meglio di altri volontari che avevano consumato un vero caffè contenente caffeina. Secondo gli studiosi questo risultato è dovuto all’aspettativa, piuttosto diffusa, che questa bevanda migliori sensibilmente le prestazioni. Questo avviene a un livello talmente elevato per cui chi l’assume ne avverte gli effetti anche quando in realtà la caffeina non è presente. Anche questo esperimento evidenzia l’importanza del fattore mentale nel trasformare sostanze neutre in sostanze attive, a conferma di come un qualsiasi pensiero può, in determinate condizioni, diventare energia e risultare determinante per il raggiungimento di uno specifico scopo o prestazione.
Prime e provvisorie conclusioni evidenziate da 4 “se” e qualche domanda • • • •
Se siamo noi stessi a plasmare la mente Se riusciamo a trasformare il fisico con la disciplina di un allenamento Se un paziente “trasforma” una sostanza neutra in un “farmaco” per il suo fisico malato Se un bevitore di caffè decaffeinizzato sperimenta gli stessi effetti di un caffè vero
Per quale motivo dovremmo meravigliarci della possibilità di ottenere altre trasformazioni significative con la forza del pensiero? • Come possiamo negare la possibilità per un atleta di influenzare la propria mente fino al punto di migliorare, ottimizzare, qualificare le proprie prestazioni atletiche? •
Il fattore mentale nel pensiero di un celebre coach e del suo talentuoso allievo Fu Cerutty, uno dei primi allenatori di successo a livello mondiale, nel lontano 1964, a individuare e dare rilievo all’importanza del fattore mentale nella preparazione di un mezzofondista. Egli affermava che il suo pupillo Herb Elliot fosse mentalmente diverso dagli altri mezzofondisti, che avesse il dono di esaurirsi in corsa, cioè di riuscire a dare
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tutto sè stesso, incondizionatamente, nell’azione atletica. Una dote rara derivante non tanto dall’effetto dei suoi allenamenti quanto dal suo modo di essere, dalla sua personalità. Lapidarie nonché indicative le sue parole: «Il successo nella corsa è dovuto non tanto all’allenamento del vostro corpo quanto alla capacità di allenare la vostra mente. Questa constatazione contribuisce a spiegare perché corridori di successo ottengono costantemente ottime prestazioni mentre altri, pur dimostrando ottime prestazioni in allenamento, non riescono ad affermarsi nelle competizioni». In linea con le affermazioni del suo maestro, gli fa eco lo stesso Elliot, uno dei più grandi mezzofondisti di tutti i tempi, che sembra aver ben assimilato la lezione quando afferma: «Enfatizzando il lato fisico dell’allenamento si è superbamente condizionati dal punto di vista fisico, anche se mentalmente non si migliora. Se invece ci si concentra sull’aspetto mentale è inevitabile che il fisico segua la mente». E ancora: «La mia regola aurea è stata quella di allenarmi per acquisire resistenza mentale e non puntare solo sull’aspetto fisico». Altrettanto significativo il commento di un altro famoso runner del passato, Marti Liquori: «Gli atleti che riescono a dedicarsi allo sviluppo della resistenza mentale sono da annoverare tra le persone più resistenti al mondo. Nessuno nasce con questo genere di resistenza ed essa non si manifesta in una notte. Voi dovreste svilupparla, coltivarla, curarla». A commento di queste affermazioni ribadisco l’importanza di praticare un allenamento mentale che si dovrebbe tradurre in un atteggiamento positivo nell’affrontare le prove atletiche. Può infatti accadere che uno stesso atleta, in presenza di condizioni esterne simili, ottenga risultati diversi a seconda dell’atteggiamento col quale affronta gli allenamenti e le competizioni. Se c’è capacità d’indirizzare efficacemente le energie mentali si raggiungono quasi sicuramente risultati d’indubbio valore atletico. Se, al contrario, si valutano i propri limiti come qualcosa d’insuperabile si diventa vulnerabili e difficilmente si ottengono miglioramenti e prestazioni di buona qualità.
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Un termine ricorrente nel linguaggio sportivo: la “testa” Chiunque si occupi di sport in modo non superficiale o si misuri in qualche attività atletica è intimamente convinto dell’importanza del fattore mentale, la cosiddetta “testa”. In pochi mettono in dubbio questa affermazione, mentre diventa più arduo capire quali siano i metodi da adottare per sfruttare le potenzialità psichiche. Nella saggistica nazionale non mancano autori che con originalità si sono cimentati in questo tema. Senza dimenticare un recente testo in lingua inglese dell’autorevole lama tibetano Sakyong Mipham, che affronta la pratica della corsa di durata con un inedito e costante paragone tra la mente del meditatore e quella del corridore. Sakyong Mipham indica un possibile parallelismo caratterizzato da stati psicologici e fisici che vengono individuati simbolicamente con le caratteristiche peculiari di quattro animali cari alla cultura orientale: la tigre, il leone delle nevi, il garuda (simbolico volatile con due braccia e due ali) e il drago1. Ognuno di essi rappresenta un ideale gradino di evoluzione atletica e mentale a cui si accede gradualmente grazie all’esercizio, fino a vivere la corsa in modo rilassato e fecondo pur avendo un obiettivo sostenuto dalla determinazione. Si tratta di una serie di fasi progressive denominata “delle quattro dignità”, che culmina con la “corsa altruistica”, ultimo ideale gradino in cui non si pensa più a se stessi ma agli altri.
1 Nella fase o dignità, “tigre” si acquisisce la necessaria tecnica per correre in modo efficace imparando, inoltre, a focalizzarsi sul gesto atletico e sul respiro mentre in quella individuata come “leone” si possono godere i frutti del lavoro atletico di base svolto fino a riuscire a correre con gioia. La fase “garuda” è un ulteriore passo in avanti: si perviene ad una buona conoscenza di sé stessi come atleti fino al punto di provare a sfidare in imprese importanti per verificare quali sono i propri limiti. Decisamente “elevata” sul piano etico la fase del “drago” ove non si corre per soddisfare il proprio ego, per gratificarsi ma per rivolgere l’attenzione agli altri, a quel prossimo che necessita di aiuto morale o materiale.
Come la “testa” ha accompagnato una lunga pratica sportiva Per usare un termine caro a tanti sportivi anche molto famosi come la plurimedagliata Cagnotto, senza l’intervento decisivo della cosiddetta “testa”, della forza di volontà da essa proveniente, non sarei mai riuscito a praticare la corsa per così tanti anni, circa 50. Quindi questa “testa” conta eccome e fa la differenza. Lo affermo con serenità e convinzione perché ho potuto verificare sulla mia persona l’esistenza di energie psichiche propulsive. Per una serie di motivi però si finisce spesso per lasciarle inattive limitandosi ad agire entro la cosiddetta comfort zone di tranquillità psi-
«Devo tutto alla mia testa, alla mia capacità di archiviare il passato» TANIA CAGNOTTO campionessa mondiale tuffo dal trampolino di 1 metro 2015 a Kazan (Russia) 2
2 La Stampa, 30 luglio 2015.
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cologica. Questi motivi possono essere la pigrizia di attivarle ed allenarle, il timore di soffrire fisicamente in modo eccessivo, o uscire da schemi mentali collaudati a cui si è affezionati. Scegliere, magari inconsciamente, di collocare la propria mente entro i confini di una virtuale soglia da non oltrepassare mai, significa limitarsi a giocare in difesa evitando di misurarsi a fondo con sé stessi. Così facendo si ostacola l’anelito insopprimibile dell’uomo di andare oltre la propria situazione attuale, evitando di far emergere capacità sconosciute. Certo, questo passaggio richiede un atto di volontà interno, oppure uno stimolo esterno com’è accaduto al sottoscritto. Un bel giorno di qualche anno fa mi sentii indirizzare una frase piuttosto tagliente durante un riscaldamento prima di una corsa campestre: «Cosa ti alleni a fare se non provi a vincere». A quel punto scattò in me qualcosa che mi portò alla linea di partenza con ben altra convinzione, deciso a osare una condotta di gara diversa. Rimasi dapprima nel gruppo tenendo il ritmo senza troppa difficoltà. Poi inevitabilmente si fece viva l’inseparabile e invisibile compagna, una fatica avvertita all’inizio sotto forma di disagio sopportabile per poi diventare insistente, incombente, fino a diventare assillante con il progredire dello sforzo. In genere era in grado di sopraffarmi per cui finivo per diminuire il ritmo, accorciando la falcata e procedendo più lentamente. Quella volta però in una frazione di secondo decisi di oltrepassare quell’ideale confine che separa una corsa normale da una corsa veramente impegnata: riuscii a concentrarmi esclusivamente sull’azione atletica, con l’unico pensiero di non farmi invadere la mente dalla fatica. Iniziai, con determinazione, ad aumentare leggermente il ritmo senza la paura di non farcela: mi trovai così in testa. Stranamente riuscivo a sopportare e dominare il disagio crescente della fatica con l’occhio al traguardo che vedevo sempre più vicino. Era fatta. Non solo riuscii a vincere quella gara: avevo avuto la meglio sull’avversario interno ancorato a un modello mentale limitato, quello di correre senza provare a “buttare il cuore oltre l’ostacolo”. Ero riuscito ad attivare la forza di “credere fino in fondo in
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me stesso”, a contare con fiducia sul tipo di allenamenti svolti e affidarmi alle forze psicologiche presenti in me. Capii una cosa importante: fino ad allora mi ero limitato a gareggiare al di sotto delle mie possibilità rinunciando ad alimentare una equilibrata autostima finendo per correre timidamente, non completamente dissolto e impegnato nella corsa. Da allora seguì un cambiamento di atteggiamento: una vera “ristrutturazione mentale”. Correvo con l’intento di vivere in pieno la corsa e con la convinzione di disporre dei mezzi per riuscirci. Senza quella svolta conseguente a uno stimolo esterno, apparentemente antipatico, non sarei mai riuscito a migliorami veramente sul piano dei risultati e a raggiungere quei pochi traguardi di una storia atletica assolutamente normale. E da allora ogni volta, dopo aver tagliato il traguardo, ho ripensato a quel piccolo miracolo che avveniva ogni volta che avevo il coraggio di uscire dalla comfort zone, dal me stesso originario, dalla pigrizia volitiva. Si potrebbe concludere che “solo la mente conta”, ma non è completamente vero. Alla base occorre dedicarsi a una preparazione atletica accurata costituita da allenamenti regolari.
L’importanza dell’allenamento mentale e i problemi a cui si va incontro in sua assenza Campioni affermati di ieri, come abbiamo ricordato nella prefazione, capirono l’importanza del fattore mentale, e alcuni di quelli di oggi non fanno mistero di valorizzarlo facendosi assistere nella preparazione da un mental coach, un preparatore mentale, una figura professionale recente con caratteristiche ben diverse dall’allenatore tradizionalmente inteso: una persona il cui compito è rivolto ad allenare e predisporre le menti degli atleti ad affrontare sfide molto impegnative, a porsi obiettivi precisi e ambiziosi. A ricordarmelo, sinteticamente, è stato il coach mentale Davide Gattinoni con una corrispondenza inviatami qualche anno fa: un buon coach mentale «Allena le persone a raggiungere il massimo livello personale di performance per cogliere i risultati prefissati», comunicando all’atleta obiettivi
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ben formulati, aiutandolo a gestire i propri stati emotivi in modo efficace, riuscendo a farlo accedere in modo consapevole alle proprie risorse interiori, formulando strategie per trasformare i sogni in obiettivi e gli obiettivi in risultati, riuscendo a far acquisire necessaria consapevolezza di sé fino al punto di superare la paura di sbagliare, di essere inadeguati. Il dubbio che non tutti i campioni lo perseguano è messo in evidenza da un servizio giornalistico pubblicato dalla Gazzetta dello Sport a novembre del 2010, il quale rivela come un campione del calibro di Buffon, portiere della nazionale italiana di calcio, sia stato addirittura vittima della depressione (lo ha ammesso lui stesso nel libro autobiografico Number 1), ragion per cui ha dovuto far ricorso allo psicologo per uscirne. Il pallavolista Meoni dichiarava nell’intervista di soffrire di ansia per il timore di non essere adeguato al ruolo che tutti si attendevano da lui. A seguire, la celebre Pellegrini, nuotatrice eccelsa e sempre all’apice in campo mondiale, finì addirittura vittima di un attacco di panico (condizione estrema di separazione di corpo e mente secondo lo psicologo Vercelli) che la costrinse al ritiro nei 400 metri stile libero agli Euroindoor di Eindhoven 2010. Quelle descritte sono vicende di campioni famosi, persone di carne e ossa come noi, sicuramente ben allenati sul piano fisico e costretti, loro malgrado, a fare i conti con una mente che di fronte a grandi sfide manda segnali di ribellione, comunica di non sopportare l’eccessiva tensione se non viene adeguatamente allenata e preparata.
Il duplice volto della fatica: fisica e mentale Anni fa mi accadde di partecipare a un corso di meditazione sulla pacificazione mentale tenuto da un lama tibetano, una persona che auguro a tutti un giorno o l’altro d’incontrare per l’influsso benefico che ha saputo imprimere alla mia vita. Ci era richiesto di sedere a gambe incrociate con la schiena perfettamente perpendicolare in una determinata posizione denominata dei Sette Punti (la posizione in cui sono normalmente raffigurati i Budda nella iconografia orientale) per mantenere il corpo in una posizione idonea a favorire la me-
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ditazione. L’esercizio consisteva nel seguire, senza distrarsi, le due fasi della respirazione: inspirazione ed espirazione. Un esercizio apparentemente semplice, senza compiere alcun sforzo fisico eccetto quello di adattarsi all’inusuale postura a cui noi occidentali, per cultura, non siamo abituati. La posizione eretta o seduta è infatti quella prevalente nel corso della giornata di lavoro o di studio di ciascuno di noi. Non ci verrebbe mai in mente di sedere a gambe incrociate su un cuscino invece di accomodarsi su un’accogliente sedia o un divano per riflettere o per discutere con qualcuno. L’esercizio consisteva nell’eseguire una sequenza di 21 conteggi di ogni ciclo respiratorio, replicata per un certo numero di volte ed alternata con periodi di riposo. Il vero problema non era costituito dal disagio fisico proveniente dalla postura richiesta: pesava, piuttosto, la particolare fatica mentale costituita dal rimanere quasi immobile e stabilmente attento all’andirivieni del respiro, mentre nella mente si succedevano pensieri vari, uno dei quali piuttosto ricorrente: «Ma quando finisce?». Stando in ritiro, non distratto da altre occupazioni, godevo di una certa tranquillità e potevo notare, con sempre maggiore consapevolezza, come la mente fosse invasa da pensieri ed emozioni di ogni tipo. Così mi accadeva di cogliere il magico momento del loro nascere e l’inevitabile tentativo di seguirli. Nonostante l’inattività fisica mi accorsi subito di sostenere una fatica mentale sempre più impegnativa e crescente col trascorrere dei minuti. Contemporaneamente a uno sforzo fisico davvero minimo ne sostenevo uno psichico piuttosto importante per riuscire a mantenere l’attenzione sul respiro. Pur senza compiere alcuna attività fisica sentivo il desiderio di smettere: alzarmi, fare due passi, uscire dalla situazione impegnativa alla quale non ero normalmente abituato. Proprio come si prova il fortissimo desiderio di terminare un 400 metri in imminenza del traguardo, perché sovrastati dalla fatica. Perché provavo fatica psichica per mantenere l’attenzione sul respiro? Quale rapporto intercorreva tra la vocina suadente che mi suggeriva di tenermi alla larga dall’impegnarmi più a fondo nella corsa, e il desiderio di terminare al più presto la sessione di meditazione?
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3 La Stampa, 1 ottobre 2007.
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Evidentemente in entrambi i casi prendeva il sopravvento una mente poco disciplinata e poco orientata a rimanere focalizzata su un certo obiettivo: non ero ancora “padrone della mia mente” in quanto l’allenamento mentale era appena iniziato. La fatica di porre una continua attenzione al respiro era simile, nella sostanza, a quella che deve affrontare un qualsiasi runner o grande top-runner impegnato su una certa distanza di gara per rimanere concentrato sull’obiettivo del giorno. Infatti in un’intervista a La Stampa3 quel mostro sacro di Gebresellasie, maratoneta eccelso ed ex detentore del record del mondo sulla distanza dei 42 chilometri, ebbe modo di dichiarare: «La strada cerca sempre di portarti da un’altra parte». Chiara metafora che indica come un certo pensiero sorga insistentemente nella mente quando il disagio di procedere ad alti ritmi si fa sentire e ti invita a desistere, a uscire dal tracciato di gara e ad accomodarti sulla prima sedia a disposizione. Il maratoneta, e lo conferma questo grande interprete di una distanza classica e storica, lotta perennemente non solo contro il tempo, contro i disagi provenienti dallo sforzo, ma soprattutto contro questi pensieri dotati di una indiscutibile forza che rischiano di condurre l’atleta distante dall’obiettivo prefissato. Questo conferma la necessità, per chi sceglie di misurarsi in questa sfiancante competizione, di prepararsi a non farsi ammagliare da pensieri seducenti che lo inducono ad arrendersi. Se questo è il problema, e ritengo che lo sia, occorre dedicarsi a un allenamento particolare per far sì che il pensiero di “andare da un’altra parte” non venga preso in considerazione, mantenendo la mente, disciplinata per evitare di trovarsi perennemente in sua balia nei momenti cruciali. Il punto d’arrivo potrebbe essere costituito dalla possibilità di riuscire a creare un’alleanza con la propria mente per evitare di confliggere in continuazione e poter così usufruire della sua forza positiva. La pratica meditativa tradizionale, quella praticata stando seduti, è proprio uno degli allenamenti suggeriti, perché ha come obiettivo quello di riuscire a calmare e disciplinare la mente per renderla stabile e poco vagante. In che modo tutto ciò può tradursi concretamente? Con una serie di sessioni di meditazione protratte per un periodo di tempo significativo
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di alcuni mesi. Ciò servirà ad acquisire una progressiva stabilità mentale che servirà a non farsi sovrastare dai sicuri momenti di difficoltà e a non esaltarsi in quelli in cui tutto gira liscio; sopratutto, a non abbandonare gli obiettivi fissati prima di una allenamento, di una gara, di una stagione agonistica. Il tema che sto trattando solitamente è poco affrontato da buona parte dei non professionisti della corsa di resistenza. In questi ultimi tre anni mi è capitato di discutere di allenamenti con diversi runners e di frequentare quasi giornalmente un forum sul web legato ad uno sito internet di podismo. Raramente ho trovato persone disposte ad approfondire il tema della preparazione mentale da effettuare, anche se quasi tutti ne ammettevano l’importanza. Probabilmente non si trattava della volontà di non discutere: al di là di alcune affermazioni generiche, emergevano incapacità e difficoltà a entrare nel merito del tema. Non mancavano invece racconti di persone vittime di continui infortuni o afflitte da qualche fastidio ortopedico anche di non poco conto che continuavano a gareggiare facendo indubbio ricorso a energie mentali, in uno sforzo che oserei definire masochistico e che arriva a farmi dubitare della possibilità di trovare nella corsa una soddisfazione, un piacere o un beneficio.
Meditazione e corsa: questi i punti in comune Potrà anche apparire singolare eppure i punti in comune di queste due attività, sono più d’uno: • nell’addestramento meditativo tradizionale e nell’esercizio atletico della corsa è necessario mantenere una ferma attenzione su ciò che si sta facendo per un periodo di tempo che può oscillare da qualche secondo a minuti od ore. Nel primo caso occorre mantenere l’attenzione sul respiro o su un altro oggetto scelto come supporto dell’atto meditativo mentre nel secondo ci si concentrerà su quanto avviene a livello psico-fisico durante la prestazione atletica, imparando a tenere a bada la vocina suadente che invita a rallentare il ritmo, a smettere di faticare; • prestando attenzione all’atto respiratorio il meditatore si crea le condizioni per rigenerare la mente così come si rigenerano i panni sporchi nella lavatrice per farli tornare
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pronti all’uso. Si lasciano da parte per un po’ di tempo i pensieri legati a preoccupazioni, problemi, vicissitudini, ricevendo metaforicamente una boccata d’aria fresca per la mente; • sia nella corsa che durante la meditazione occorre trovare un punto di equilibrio tra un eccesso di attenzione o di rilassamento. Nella corsa l’eccesso sfocia inevitabilmente in una rigidità fisica che si traduce in un’andatura poco sciolta, un’espressione facciale tesa, spalle e braccia poco rilassate, con il risultato di buttare al vento un sacco di energie che potrebbero riversarsi nell’azione atletica. Un rilassamento esagerato conduce invece a una corsa svogliata e poco incisiva. Allo stesso modo una meditazione svolta con un eccesso di attenzione, rigidità fisica e psichica o esercitata con lassismo non sarà foriera di benefici per la mente. Che questo equilibrio sia difficile da raggiungere è testimoniato da un monaco che, ai tempi del Buddha, non riusciva a trovare la giusta disposizione mentale per meditare: tentava di concentrarsi e ne ricavava solo dei forti mal di testa. Provò allora a rilassarsi e finì per cadere nel sonno. Chiese allo stesso Buddha come avrebbe dovuto comportarsi. Gli fu risposto di trovare una giusta tensione simile a quella ottenuta regolando ad arte le corde del “vina” (un antico strumento musicale); i migliori suoni scaturivano da corde non troppo tese e non troppo allentate. In questo delicato equilibrio sta un po’ il segreto di una buona meditazione e di una buona corsa; • la corsa e la meditazione necessitano di un impegno continuo per ottenere risultati apprezzabili; serve a poco meditare un giorno per pochi minuti e poi ricordarsi dopo una settimana di riprendere l’esercizio meditativo. Allo stesso modo correre a singhiozzo, far trascorrere notevoli intervalli tra una seduta e l’altra non è consigliato da nessun preparatore; • la pratica di un regolare allenamento comporta la lenta trasformazione del proprio fisico che diventerà sempre più adatto alla corsa così come la pratica giornaliera della meditazione favorirà un cambiamento della mente che acquisterà più stabilità, quiete e flessibilità.
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Primi spunti per una preparazione mentale Dedicare tempo a preparare la mente, magari con la stessa intensità con la quale ci si impegna a irrobustire muscoli, apparato respiratorio e cardiaco, costituisce un passaggio di non poco conto. Subito però sorge spontanea una domanda: in che modo? Il primo passo è senz’altro quello di abituare la mente “a stare sul pezzo”, ovvero a concentrarsi su ciò che si sta facendo in un preciso istante. Quindi l’imperativo sarà quello d’imparare a non divagare e ad abituarsi a permanere sull’attimo presente. Metaforicamente si tratta di non abbandonare il sentiero mantenendo una presenza mentale ferma, costante e vigile. Tutti sappiamo ciò che accade quando viviamo la vita quotidiana in modo distratto; può accadere di uscire da una stanza per dirigersi in un’altra dimenticando lungo il tragitto cosa si deve fare. Evidentemente la mente si è scostata dal pensiero iniziale e si è spostata su un altro, importante o futile, deviando l’attenzione. L’atto dello spostarsi non era in sincronia con quanto passava per la mente per cui si è creata una insana scissione rappresentata da un’immagine curiosa: la mente presente in cucina e il corpo in sala da pranzo. Un altro caso di abbandono del momento presente è fornito da coloro che quando sono al lavoro pensano ai problemi famigliari e quando sono a casa rincorrono le pratiche d’ufficio. Sembra strano eppure sono poche le persone interamente presenti in ciò che fanno, e i podisti non fanno certo eccezione. Perché questo accade? Nel primo caso è avvenuta una divaricazione tra quanto si è pensato di fare e la sua esecuzione, così come accade quando si decide di essere gentili per l’intera giornata ma poi, appena si incontra il primo interlocutore, lo si tratta poco garbatamente. Questa mancanza di sincronia tra due entità (corpo e mente) è la causa di molti problemi. L’esagerato andirivieni concettuale o emozionale impedisce di concentrasi stabilmente su quello che si sta facendo per occuparsi, spesso inconsciamente di qualcos’altro. Nel secondo caso si è sballottati tra due luoghi, ufficio e casa, senza vivere nessuna esperienza a fondo.
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Ora per tornare a quanto più ci interessa, cioè la corsa, penso sia possibile estendere ad essa alcune delle considerazioni appena avanzate. Durante la corsa la perenne attività della mente entra in contatto con l’azione squisitamente fisica di un corpo che corre; corpo e mente, entrambi attivi, sono pronti a influenzarsi a vicenda fino a fondersi in un’unità perfetta al verificarsi di determinate condizioni. So di addentrarmi in un campo impegnativo e andrò incontro e qualche rischio. Gli specialisti delle materie trattate (psicologi anzitutto) mi perdoneranno se mi accadrà di utilizzare termini tecnici in modo non sufficientemente preciso mentre cerco di descrivere una realtà davvero impalpabile e tendenzialmente inafferrabile come la mente. Sappiano che sono sinceramente animato dall’intento di dare un contributo, seppur modesto, per spostare lo sguardo dei molti e invitarli a guardare alla corsa di resistenza con occhi diversi; di offrire inoltre un possibile incentivo per continuare a correre soprattutto quando le motivazioni agonistiche andranno inevitabilmente ad affievolirsi in parte o del tutto, o quando si entrerà nella terza età podistica con inevitabile calo delle forze fisiche. Negli anni, attraverso la pratica della corsa come ricerca del benessere psicofisico, mi sono convinto che dedicarsi alla corsa di resistenza pur a ritmi blandi possa diventare un momento di crescita interiore, di conoscenza di sé stessi a un livello non superficiale, sempre che non ci si limiti a occuparsi solo del gesto fisico. Accanto a un percorso di crescita sportiva se ne può affiancare uno altrettanto gratificante: quello interiore. L’atleta è pur sempre un essere umano, costituito non solo da muscoli, tendini, vasi sanguigni: è soprattutto un individuo nel senso più completo, alla ricerca di qualcosa che lo faccia star bene con sé stesso. Se è vero, infatti, che l’agonismo è un forte stimolo ad allenarsi per gareggiare, ad affermarsi in qualche modo, a migliorarsi sul piano fisico per andare alla ricerca di soddisfazioni, è ugualmente vero che una corsa non finalizzata a questi pur degni intenti possa diventare altrettanto ricca, pienamente gratificante. Una corsa depurata dagli inconvenienti dello stress, dal doversi sottoporre giornalmente
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a una faticosa e minuziosa preparazione, a rigidi allenamenti da portare a termine in un particolare giorno e in un determinato modo previsto da un’ottima tabella pensata dal miglior allenatore. Anche in questo caso, come vedremo, sarà possibile affermarsi e durare più a lungo, qualora si sappia governare la fantastica risorsa della mente di ciascun individuo. Gli approcci a metodi mentali, com’è ovvio, saranno diversi da una persona all’altra pur convergendo in un punto: riuscire a scoprire e realizzare il proprio potenziale, svilupparlo e raggiungerlo, o quanto meno provare a sfiorarlo.
Correre con la mente: solo un’espressione suggestiva o una realtà possibile? Chi corre da un po’ di tempo e partecipa a prove impegnative come la maratona ha probabilmente maturato idee piuttosto precise sul come affrontarle, fino a giungere a delineare lucide analisi. Come questa appartenente a Ignazio Antonacci, preparatore atletico e consulente running, pubblicata su runnerman.it: «Il training mentale è un aspetto alquanto importante per correre una maratona al top, ma molto trascurato dai podisti, forse anche per il fatto che le conoscenze, e soprattutto le applicazioni, non sono alla portata di tutti, o meglio sono accantonate da molti perché considerate meno importanti della corsa vera e propria. Come tutti noi maratoneti sappiamo, la maratona la si corre con la mente oltre che con le gambe, soprattutto gli ultimi chilometri. Avere una mente lucida e vigile, forte e orientata all’obiettivo, sicuramente è un arma in più da sfruttare nei momenti di crisi e di difficoltà della gara. Per tale motivo consiglio nei giorni prima della maratona di migliorare le potenzialità della propria mente, sfruttare la capacità di visualizzazione e immaginazione indispensabile per “correre mentalmente” i 42 km. Prendere visione del percorso e analizzarlo mentalmente passo dopo passo
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fino a quanto non si è avuta la percezione di imprimere nella propria mente un’immagine positiva e vittoriosa della gara». In queste poche righe viene offerta una visione diversa: quella di prendere in considerazione un fattore mentale come la visualizzazione e l’immaginazione per “correre sia con la mente oltre che con le gambe”. Dopo aver introdotto il tema del ruolo della mente e offerto qualche spunto per approfondirlo, credo sia giunta l’ora di passare ai vari capitoli iniziando con una modalità semplice, ovvero rapportandoci mentalmente a un’azione che abbiamo compiuto sin dai primi mesi di vita: camminare sviluppando consapevolezza.
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Indice Introduzione al tema ..........................................................................................................................pag. 7 1. Camminare con mente e corpo (yoga walking) ....................................» 25 2. La forza di fermarsi a meditare .....................................................................................» 29 3. La visualizzazione .............................................................................................................................» 43 4. L’autostima................................................................................................................................................» 51 5. Il riscaldamento mentale ........................................................................................................» 55 6. La consapevolezza e il framing .....................................................................................» 59 7. La meditazione dinamica.......................................................................................................» 69 8. La motivazione.....................................................................................................................................» 77 9. Il pensiero positivo ..........................................................................................................................» 85 10. Il mantra .......................................................................................................................................................» 89 11. Affrontare la fatica con due nobiltà .......................................................................» 93 12. Per uscire dalla teoria .................................................................................................................» 97 13. Un traguardo ambizioso.........................................................................................................» 105 Glossario minimo .........................................................................................................................................» 111 Biografia essenziale di persone citate ..............................................................................» 121 Bibliografia............................................................................................................................................................» 125