Il canale bracco

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Testi del tempo sui cubi di cemento del molo


I

Il Noordzeekanaal unisce il Mare del Nord all’IJ, un lago che si trova nella provincia dell’Olanda Settentrionale e bagna Amsterdam. IJ è un termine frisone, ma non ho mai capito se hanno ragione quelli che lo fanno derivare dal germanico ahwô o dal francese eau, (in entrambi i casi la traduzione è acqua). Il canale è lungo 21 chilometri e largo alcune centinaia di metri, in alcuni tratti quasi un chilometro. Scavato a mano nel diciannovesimo secolo, è in funzione dal 1876 ed è provvisto di chiuse, ben cinque, e di ponti mobili, veri e propri barconi piatti e gialli che traghettano macchine, biciclette e persone da una riva all’altra. Visto da una foto satellitare, il Noordzeekanaal assomiglia alla linea di cresta che chiude la Val Prino, ma questo delle sovrapposizioni a ogni costo è un vizio tutto mio. Avvicinarmi alle acque in un punto qualsiasi, come ho fatto il giorno in cui sono giunto al magazzino delle catene, è stato un approccio sbagliato. La lettura di un canale va affrontata dal suo incipit. Ma come si fa a dire dove inizia il nostro? L’acqua è ferma, oppure la distribuiscono per mezzo di pompaggi, la fanno penetrare dalle chiuse con l’ingresso di una nave, ed è come se una volta scorresse verso Amsterdam e l’altra verso il Mare del Nord. Quanto a me, ho deciso che inizierò il percorso alle fauci del Mare del Nord, così una volta ad Amsterdam – quando il canale confluisce nell’IJ – risalirò l’altra riva verso il mare. Per il resto, tenterò di rimanere fedele all’acqua e di tornarvi il prima possibile, se la nostalgia delle sovrapposizioni e gli impianti idrici e le fabbriche coi loro reticolati mi allontaneranno dalla riva. 13


II

Con Piet non esco da almeno tre settimane, in pratica da quando sono tornato dalla Liguria. Tanti anni a condividere le passeggiate attraverso questo quartiere, i boschi, le dune, a guardare le mareggiate, le aringhe: e poi più nulla. Con l’uscita di Soggiorno a Zeewijk, Piet ha ricevuto la sua copia e da quel giorno non mi ha più cercato. Se lo incontro è sempre molto gentile, e di solito lo invito a fare merenda da me, ma lui ha sempre fretta, o ha appena finito di mangiare un’aringa al chiosco. Ogni tanto faccio finta di niente, passo davanti alla sua vetrata e lui mi apre la porta. Entro, mi vado a riempire un bicchiere d’acqua in cucina e mi siedo sul divano, mentre lui riprende a fare le sue cose, o si siede con me a sorvegliare la vetrata, attività alla quale dedica peraltro parecchio tempo. Piet Van Bert, flâneur della sabbia, settantacinque anni, una vita da disoccupato professionista, l’amico che mi ha insegnato a guardare l’Olanda come la Lezione di anatomia di Rembrandt. È il Piet col quale ho passato le notti d’estate sull’erba a parlare di donne e dei nomi delle strade di Zeewijk, copiati dall’oggettistica della Via Lattea. Poi, da quando è uscito Soggiorno... Credo di sapere cosa è successo. Aver scritto che non abbiamo donne e facciamo questa vita da stalker legalizzati, che studiamo le vetrate della gente e giriamo da un marciapiede all’altro, e non possiamo neanche dire di avere un cane che almeno giustificherebbe i nostri giri a vuoto, ecco, gli ha dato fastidio. Ma non se lo poteva immaginare che avrei scritto queste cose? Non era quello della verità nuda? Si alza, si avvicina alla vetrata, dandomi le spalle. Tu non hai bisogno di me, sembra volermi dire. Tu non vuoi raccontare i luoghi, te ne servi per le tue sto14


rie senza trama, che è ben diverso da scrivere ciò vedi. Ciò che a te interessa è sostenere quanto un luogo è abitabile o no, e poi, quasi subito entra in scena l’umano. In Soggiorno a Zeewijk non succede nulla, eppure puzza di morte e di storia come la Lisboa di Pereira nelle sere di agosto del 1938. Che non è cosa volevi tu, sia chiaro, perché alla fine Soggiorno puzza solo di pesce morto. Questa cosa me l’ha fatta notare ieri, e quando ha visto che non ribattevo mi ha detto: Non so neanche che cosa stai scrivendo... La stessa domanda me l’ha rifatta oggi. Poi guarda la vegetazione del giardino anteriore sconvolta dal vento. Non gli ho ancora parlato del progetto. Il vento è un animale che russa, gli ricordo. Al mio paese c’è un gufo che dorme in un buco nel muro della chiesa e russa. Al sentire dell’animale che russa sorride alla vetrata, ma quando ripesco il paese fa una faccia pietosa. È stata una nostra idea, mia e di Piet, l’accostamento del vento all’animale che russa. Il vento qui ha le sue pause, nulla del rumore di un torrente gonfio in Val Prino. Non si espande, non rotola, di fatto agonizza, e non è neanche il vento della Patagonia di Chatwin, che assomiglia all’avvicinarsi di un camion che non arriva mai. Qui il vento si ferma e riprende, arranca, frena e stride come se trovasse dei semafori. Ma Piet e io non siamo mica le persone indicate a raccontare gli animali che russano: cani, l’ho detto, e animali domestici non ne possediamo, e quanto al resto la notte dormiamo rigorosamente da soli. Da bambino io sì, dagli otto ai quattordici anni, le russate le ho sentite ogni notte: dividevo la camerata del collegio con un centinaio di coetanei e quando non riuscivo a dormire ascoltavo. È come per le rane di Zeewijk, quelle che d’estate popolano il mio stagno preferito e diventano una sola gigantesca rana. A un certo punto la camerata si trasformava in un unico animale russante. 15


L’animale del vento ha unghie e code, fischietti e ciabatte, gli dico. Non mi guarda, e dopo un po’ mi chiede: Cosa scriverai? La biografia del canale, butto lì. Ogni tua storia inizia lungo un canale, o sul porto, o a Scheveningen, solo che poi trovi l’acqua di qualche condotto irriguo, ti perdi negli orti e così secca tutto. E dopo la siccità resta la zavorra. Ha ragione. A quale canale ti vorresti dedicare stavolta? Piet, quanti canali ci sono a IJmuiden? È il Noordzeekanaal, il canale balbuziente, il corso dal doppio incipit. Ha di nuovo accennato un sorriso, e siccome ce l’ho costretto, mi ha spiegato un po’ i pericoli cui vado incontro. Un canale che dura tutto un libro non penserai mica che sia come il racconto di un fiume? Guarda Morelli, lo scrittore del fiume Sangro, lui sì che ha seguito il corso. È andato più lento o veloce, ma è andato, ha ascoltato le cascatelle, il rotolare pigro, si è fatto svegliare dagli uccelli, è passato sotto i ponti. Tu che corso accompagni che il canale, come dici tu, inizia in due posti? Che acque ascolti? Il Noordzeekanaal è muto, non si muove, e non è nemmeno stagnante: sotto è attraversato da correnti marine che entrano e strisciano lungo i fondali, e prima di Amsterdam si mischia alle acque dell’IJ, ma prende l’umidità di mezza Europa. È un lavandino con sopra uno scolapasta. Un muro di gomma. Prova a specchiartici. Ci hai già provato? Non ci riesci. La superficie è piatta, ma se la guardi bene ha già le rughe, basta che l’aria la pettini, oppure fa le grinze se passa una chiatta. Il canale è un gatto dormiglione, un gattone lungo e muto, ti fa credere che puoi fare ciò che vuoi con lui, non mormora, è lì che ti prende in giro. Che titolo gli dai in italiano? Non puoi mica chiamarlo per nome: Noordzeekanaal... Tacciamo per un po’, vorrei prendere appunti ma lo irrigidirei. 16


Ci infilerai zavorra? Intendi Liguria? Lo sai bene cosa intendo. Beh, la Liguria è presente. Per un esule è come tenere il passo tra passato e futuro; e per l’incalcolabile istante in cui il passo resta in bilico ci gioca anche il presente. Mollare la Liguria lungo la narrazione sarebbe come lasciare dei vuoti, delle pagine bianche, non avrebbe senso. E poi l’incontro col canale è un esercizio che riesco a eseguire anche se mi trovo negli orti in Liguria o al torrente, come ho fatto quest’estate. E queste cose devo dirle. Queste cose le hai già dette in Soggiorno. Piet, se uno nei libri usa le montagne non è detto che ogni volta ricicli l’immagine... Il canale, Piet, è come un nastro d’acqua che scorre e passa, ma la ruota narrativa è sempre la stessa, a volte s’incanta, slitta, perde aderenza. Questa è una cosa che ho capito un giorno dalle parti del magazzino delle catene. (Forse era un’idea sua, poi è tornata a galla e io ho avuto il merito di aspettarla.) Vedi, il canale vuol farti credere che è un nastro e intanto fa camminare te. Gli ho detto che ha ragione, e ci avevo già pensato, per questo arrivavo a casa stanco. E poi aggiungo che sono queste le cose che amo sentire, e probabilmente, se non gli spiace, e se le ricorderò – ma le ricorderò – le annoterò. Lui alza le spalle. Si risiede sul divano. Dammi ancora qualche dritta, Piet. Quando mi hai tradotto la prima pagina del Racconto del fiume Sangro, dice, hai menzionato per ben tre volte la parola descrivere, due volte la parola contemplare e quattro la parola guardare. Ecco cosa puoi fare, e questo puoi farlo anche se il canale non parla, non scorre e non ride: guardarlo come se fosse un fiume. Così l’offendi. 17


III

A pensarci bene, prima di iniziare un libro frequento sempre luoghi acquatici, dev’essere una fissazione la mia. Ad esempio, prendo il bus e vado a fare un giro sulle spiagge di Wijk aan Zee; oppure lo stesso bus e poi un treno mi portano sulla spiaggia di Scheveningen. La terza scelta, invece, mi sposta di poco, è un luogo collegato al quartiere di Zeewijk: esco di casa, attraverso diverse costellazioni (le strade di Zeewijk, l’ho detto, portano i nomi di stelle, costellazioni, nebulose, oggetti celesti) e in dieci minuti scendo al porto. Le barche-frigo sono quelle sulle quali ho lavorato quando mi sono fermato qui, venticinque anni fa. Mi piace notare i cambiamenti. Alcuni pescherecci hanno modificato il nome e al posto di quello di una principessa ora portano quello di un porto della Frisia o di un pesce. Allora chiedo ai pescatori: scusate, ma questo non era il Wilhelmina? E i pescatori mi confermano che sì, era il Wilhelmina. Quando ci faticavo io cadeva a pezzi, e ora sembra nuovo: le gru moderne, lo scafo rammendato dai migliori saldatori. Noto anche le ultime novità. Oggi, ad esempio, da un angolo di acqua putrefatta emerge un pezzo di barca. Non si capisce bene se è la poppa o la prua, e sulla corda che la tiene legata al pontile ci si posano gli aironi. Lungo l’Haring Haven hanno ammucchiato pezzi di catene, quelle tutte rotte e consumate dal mare, gli anelli della dimensione della ruota di un motorino destinate al cimitero lungo il canale. Cammino tra i binari, e il panorama muta: un tempo IJmuiden possedeva una stazione, da qui partiva il pesce per mezza Europa; ora arrugginiscono anche i binari. E allora pas18


saggi a livello inutilizzati, matasse di corde e un via vai di muletti, pancali e il pesce che parte sui camion. E aironi, tanti aironi. In Liguria, quando perdono la rotta infilano un torrente e lo risalgono fin su nell’entroterra. Qui, invece, spingono la testa in avanti, come per sputarsi lontano dalle zampe, se ne stanno sulle cose o si alzano in volo, sfiorano i rottami, e ti guardano con un’aria da vedovi. L’estate scorsa un lettore mi ha chiesto se tutta quest’acqua nei miei romanzi si deve all’Olanda. Al solito non ho saputo rispondere e ho detto può darsi. Certo, l’acqua non è un caso. Succede a quelli che a un certo punto della vita finiscono per credere di essere esuli e passano regolarmente un periodo della giornata lungo le rive di un fiume, di un lago, di un porto, di un mare, di un canale. La camera da letto dove dormivo da bambino, prima di andare in collegio, custodiva un segreto. Piccola, con una sola finestrella, muri di pietra e un soffitto a volta, era come le camerette di altre centinaia di bambini liguri, ma poi a farne un luogo straordinario era la notte. Se non mi addormentavo subito e premevo bene l’orecchio sul cuscino (meglio ancora: se mi stendevo sul pavimento di piastrelle verdoline) sentivo il passaggio dell’acqua. Solo di notte. Era acqua di bealera che durante l’inverno alimentava i mulini (il paese si chiama Molini) e d’estate innaffiava la verdura. I mulini lavoravano solo di notte, così come nel regolamento delle acque era scritto che d’estate l’irrigazione degli orti oltre il paese (la cui acqua passava sotto le fondamenta delle case) doveva avvenire di notte. Sentii quel rumore per sette anni, poi conobbi le camerate dei collegi, e quando tornai a Molini, una notte mi sdraiai sulle piastrelle, ma l’acqua non passava più. Il motivo per cui orti e mulini si rifornivano in un altro punto del torrente e attraverso un altro condotto lo ignoro ancora adesso. C’erano stati dei crolli, dicevano, e un giorno volli capire da me, così mi infilai là sotto facendomi 19


strada con una torcia elettrica. Il rumore era rimasto, sottile come il brusio della conchiglia poggiata all’orecchio, come il gemito di una capramuta nel torrente, così sottile che dalla cameretta era impossibile sentirlo. E assieme al brusio, le pietre avevano trattenuto l’odore del torrente. Camminavo sul bordo, in effetti c’erano state delle frane, e con un bastone toglievo le ragnatele. Le pareti erano asciutte come gli intonaci d’estate e lungo tutto il condotto ci vivevano topi e grilli. Ogni tanto scivolavo su una pietra e allungavo il piede sull’altra sponda. Un bisciotto strisciava tra ossa di roditori. Qua e là si aprivano fessure e finestrelle ferrate e nella luce della pietra tufacea, tra le porosità un tempo inzuppate, cresceva un po’ di capelvenere. Camminai finché non ebbi l’impressione di essere sotto il pavimento della cameretta, allora spensi la torcia elettrica e mi concentrai, pensando di ricordare il passaggio dell’acqua.

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IV

Ho spiegato il mio piano a Piet. Ogni giorno un pezzo di canale, niente più vetrate, niente costellazioni. Mi sveglio, faccio colazione in silenzio, mi preparo lo zaino e esco. Il bus mi lascia nel punto in cui ero arrivato il giorno prima. Percorro qualche chilometro, non di più, mi siedo sugli scogli, guardo le acque e penso agli orti, e se penso agli orti appunto sul taccuino che penso agli orti, poi cerco una fermata del bus e torno a casa a scrivere, in silenzio. Piet si alza dal divano, si avvicina alla vetrata. E nei punti in cui lo perderai? Non è il fiume del tuo amico che si fa seguire passo per passo, ci sono zone chiuse dal filo spinato, fabbriche che arrivano sulla riva e tratti di riva che sono riserve naturali, con tanto di cartello che ne vieta l’accesso. Cosa fai? Un giro largo, e poi scrivo che ho fatto il giro largo. È come sulla sponda quando c’è un po’ di sole e la distesa di diamanti pallidi ti riporta alle stagioni di quando eri ragazzo, e allora racconti che ti sei allontanato, nient’altro... la vita costringe a fare giri larghi, Piet. A volte dipende da noi, altre no. A volte scriviamo una parola con la tastiera e abbiamo la sensazione di aver premuto un tasto sbagliato, ma andiamo avanti, ed è come se facessimo un giro largo; poi rileggiamo la parola sbagliata e la correggiamo. Titolo? Te l’ho detto, Biografia di un canale. Sottotitolo: Cronache da uno stagnante Nord.

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V

Dietro casa cominciano le dune, a dividerle è la stradina di conchiglie che ho calpestato per anni con Piet. Prima della spiaggia si passa accanto ai bunker e agli stagni, che sono veri e propri laghetti sulle cui rive crescono mirtilli neri e ninfee, ci vivono rospi e rane e ci fanno le tane i conigli. Mentre ero in Italia e pianificavo il libro, pensavo che al sottotitolo “Cronache da uno stagnante Nord” dovesse seguire qualcos’altro, ad esempio “e da un lontano occidente ligure”. Poi diventava troppo lungo. Per un po’, tuttavia, al posto di annegare tutto quanto nella pozza della capramuta, accanto a quello dell’occidente ligure ho coltivato anche la possibilità di un altro sottotitolo: “Cronache da uno stagnante Nord e da un far west ligure”. Ma come si fa a chiamare un luogo far west ligure, o peggio ancora “west coast ligure”? Dopo la Liguria non ci dovrebbe essere nulla, solo le oceaniche nostalgie. Tra l’altro, il riferimento alla Liguria ridurrebbe l’impatto dello “stagnante Nord” annullando in parte il fatto che questo libro è stato pianificato in Liguria, ma scritto interamente guardando un canale e uno stagno. Una volta nello stagno ci ho fatto pure il bagno (nel canale mai), e mi sono beccato un’infezione alla pelle che mi è durata per mesi, perché sul pelo dello stagno ci si posano i gabbiani, quelli enormi, dal becco con la macchietta rossa, gli aironi sperduti e altri trampolieri di cui non so il nome. Ci si bagnano le zampe e il becco, poi ci fanno i loro bisogni e l’acqua si riempie di batteri. 22


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