Lune di rame

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POLLI ALLA DIAVOLA SUL DESCO DI UN MERCANTE

È l’anno del Signore 1495, per tutti. Con il Marchesato di Saluzzo, il 1495 è più generoso e offre un servizio sociale aggiuntivo, trattandosi di uno degli anni gestiti politicamente da un aristocratico dotato di una mente assai aperta per l’epoca sua. Al timone del governo, veleggia in acque non sempre tranquille Lodovico II. Per fortune nobiliari, felicemente coniugato in seconde nozze con una fresca dama francese, che gli ha portato in dote anche un caratterino alquanto pernicioso. L’aria tersa inaugura i rigori del primo inverno e punzecchia con vigore questo spicchio di terra incastonato tra i monti. Ma una morsa di gelo ben più terribile da qualche settimana sta stritolando la valle raccolta intorno alla culla dell’antico Padus. A Rifreddo e Gambasca, pittoreschi villaggi acciambellati come gatti pigri alle falde del Monviso, si è appena consumato l’ultimo atto dell’ennesima tragedia in fetore di stregoneria. Lasciamo a un imprenditore, per affari suoi di passaggio nell’antico feudo, l’onore non senza l’onere della spifferata condivisa secondo la più deontologica postura della corretta informazione, di farci da guida. Forse sarebbe più appropriato pensare a lui come a una cavia storica. E però di questo esperimento da fattucchieria letteraria l’onesto trafficante di tessuti non è informato. La malia è innanzitutto manipolazione e mistero, e tale deve mantenersi, anche se ci sei dentro fino al collo. Se supponesse, costui, che sta per entrare da protago157


nista nelle esternazioni da guitto, ma non del tutto infondate, di un collezionista di vicende vissute con aspirazioni da intellettuale, probabilmente cercherebbe di dileguarsi nelle foschie di una mattina dall’apparenza normale. E di passare inosservato. Ormai è troppo tardi per tornare sui propri passi. Purtroppo la nomination è già stata intercettata a mezzaria dal cantastorie che, con un tempismo da elogio e senza troppe cortesie, lo catapulta in una storia scottante. Letteralmente. Cosicché l’elegante turista, intabarrato fino alle orecchie, se ne va incontro al suo fato. Ignaro e gaudente, non immaginando che esattamente lì, dove sta pestando e ripestando le sue intirizzite estremità, proprio costì, intorno a quelle quattro mura di paeselli infreddoliti, ha da poco preso forma e senso una dimensione surreale. La sua candida opulenza sta per varcare quel limite sottile che separa l’accaduto per davvero, dall’idea di ciò che sarebbe accaduto per sventura di mascaria. E lui sta per aggiungere un altro capitolo a una consumata antologia di favole criminali: la fiaba noir delle streghe con passaporto pedemontano è appena stata concepita. C’era, quella volta, la prima volta del mercante di canapa e lane a zonzo pel Marchesato, nel die sabbati XIXa, cioè il diciannovesimo giorno di dicembre. Insomma, senza perdersi in carabattole medioevali, l’evento accadde in un sabato intarsiato dal pizzo della galaverna. Nell’aria svolazzava un gelo da ammazza cristiani ed echeggiavano morituri i rintocchi dell’ora terza per i monaci dei conventi zonali, infervorati negli uffici mistici. Ma il nostro non abbisognava di un salmo a ogni piè sospinto. Perché lui la ragionava come San Benedetto. Il suo lavorare era come il pregare dei frati ed era regolato su un altro campanile, quello dei commercianti. 158


Per il mercante, dunque, era appena scoccata l’ora italica sedicesima. Per l’orologio del ventunesimo secolo: sono appena passate le nove del mattino. Dieci minuti più, dieci minuti meno. Ebbene, è giunta l’ora giusta. Eccolo che si appropinqua di gran carriera nell’incerto lucore mattutino. E misura a piè convinto la strada maestra della valle, strofinandosi a rondò le mani inguantate. A piedi, per l’ultimo tratto. Il precedente se l’è fatto traballando a cassetta insieme a un villano broncio, fattosi servile per mero interesse. Il mercadante designato, e temporaneamente sfaccendato, avanza con cipiglio d’ordinanza e una certa circospezione, che non guasta data la delicatezza dell’oggetto in questione, da moderno ispettore di polizia. Perché è quella fede incrollabile in se stesso che lo sospinge, ed è la molla interiore di cui si avvale per affrontare ogni situazione impegnativa. Nel paese che si è lasciato alle spalle, ha appena udito di una faccenda seria. Molto seria. Anzi serissima. E vuole vederci chiaro. È uno fatto tutto d’un pezzo.

Se n’è partito all’alba dalla capitale del Marchesato con l’idea di non attardarsi in quisquilie, perché soffre quel freddo da boia, e odia il cielo torbido che imperversa sul suo copricapo arzigogolato minacciando nevischio. Nei suoi piani originali: un semplice giretto, rapido e senza indugi, a scopo informativo. Si è scomodato per accantonare ragguagli utili per transitare attraverso la galleria del Re di Pietra, di cui gli hanno decantato meraviglie per 159


la praticità, e il conseguente risparmio di tempo. I commercianti del borgo gli hanno garantito, sul proprio onore, dell’ottima riuscita dei trasporti attraverso il novello foro. Tutti esaltati a celebrare il trionfale traforo, mercé la solerzia del loro buon Ludovico, spazientito perché i vicini di casato ci facevano la cresta sul commercio del sale, prima del suo capolavoro. Tutti concordi sulla fattura, ingegnosa a detta di ogni bocca, neanche paragonabile alla perigliosità del sovrastante passo delle Traversette, assai sdruccioloso e strettissimo. Prima di giungere alla meta, nel villaggio di Crissolo si trova un buon albergo per ristorarsi, così ne parlano in zona. Che sia decente almeno, l’ostello montano!, così si augura nel suo animo bisognoso di comodità. Usciti alla luce con la protezione degli angeli montanari, si punta verso Ristoulas nel suo caro Delfinato, dove si è francesi di nome e di fatto. E perciò salvi e gaudiosi. Una breve traversata, più corta di un buon tiro di arbalesta. Che sarà mai una mediocre gittata di freccia da balestrieri strabici? Solo un istante di coraggio da tramandare ai nipoti, se mai arriveranno in orario da poterseli godere un pochettino, con quelle figlie squinternate che si ritrova. E lui lo sa per la perizia acquisita sul campo delle fiere internazionali che, anche quando non si portano a casa contratti, l’esperienza di vita che ne deriva è oro colato. Soprattutto quando si baratta con i fiorentini lana per seta e non bisogna farsi turlupinare. Ma il tempo rimane sempre denaro, in ogni trattativa, su questo c’è poco da incornarsi. Lo rasserena un fatto. Se l’anno precedente da quella grotta traforata a colpi di scalpello, sono passate alcune artiglierie e una parte delle milizie di Carlo VIII, suo re eccellentissimo che Dio lo protegga in battaglia, e salvi anche i commerci dei sudditi operosi mentre s’impegna per la gloria della Francia, può ben ardire di infilarsi sotto la 160


somma roccia anche un diffidente commerciante, quale egli si vanta di essere. E averla vinta sull’innata cautela che ancora lo trattiene. Se fosse poi confermato quanto si va dicendo ovunque, che tutto il sale che si consuma in ogni angolo della terra piemontese se ne entra placido e sicuro dal buco montano, già vagheggia di caricare panni e drapperie direttamente a dorso di animale, invece di prenderla alla larga sui moli provenzali. Ma li vuole gagliardi i suoi muli, e perciò è disposto a scucire una cifra di tutto rispetto, purché sul più bello non facciano quegli scherzi balordi da bestie testarde. Appena un paio di ore prima, ci teneva ad andare subito al nodo della questione. Solo che una fortuita coincidenza gli ha fatto lo sgambetto. Cosicché l’escursione si è impiastrata di grigio fumo. Anzi, di nero pece. Nei dintorni della dogana di Revello, mentre passeggiava dalle parti della chiesa collegiata per un’onesta offerta a protezione dei suoi traffici, ha teso le orecchie nella direzione giusta. Presso la porta della guardia che immette nella valle del Po, un capannello di perdigiorno farfugliava di maldicenze da taverna, lanciate a briglia sciolta dal vino. A un primo ascolto gli sono sembrati zotici da piazza, che millantavano fanfaronate per farsi notare dagli stranieri di passaggio. Cogliere il nocciolo dei discorsi, aizzarli e portarli ad arruffarsi come ricci per parlare uno prima dell’altro, è stato come giocare a dadi con gli stolti, per uno scaltro come lui. Ognuno ha i suoi metodi. Qualche monetina fatta luccicare al momento giusto e i minuscoli soli, uno qua e uno là, riscaldano gli animi. Poi le lingue si srotolano pari pari ai suoi tessuti. Il bisbìglio riguardava i corpi abbruciati di ben nove 161


donne. Su questo fatto dell’abbruciamento, però, ha il dubbio di non aver ben compreso. La faccenda è un po’ nebbiosa riguardo al raccapricciante trattamento nelle ciance di quegli avvinazzati che, tra una sghignazzata sguaiata e l’altra, uno spintone e una spallata, straparlavano di brutto, urlandosi addosso. Ma sul fatto che a qualcuna sia stato dato il tormento, anzi esortata con metodi convincenti a vuotare il sacco come si suole dire, eh già... su questo è in pratica certo. Qui c’è di mezzo il supplizio della corda. Ci metterebbe la mano sul fuoco! «Nove masche, dico nove, a patti con il diavolo, per san Sebastiano in croce! E una sguattera giovinetta morta ammazzata nel chiostro di un gran monastero per una bizza del satanasso! Tutta sconquassata l’hanno trovata! Oh Santa Maria della mercede!» prorompe fragorosamente senza avvedersene. Qualche canonico del collegio in entrata muta alla chiesa lo sbircia in tralice con occhio severo. Vanamente. Lui, con la mente fissa su quel numero di femmine sciagurate, che gli pare esorbitante per un circolo alpino di ruspante stregoneria, imperterrito manco li considera. Le ciacole forsennate che ancora infuriano nella borgata limitrofa passate a fior di labbra, lo hanno fatto fremere di curiosità dalla pelata decisa, che pare la tonsura di un novizio, fino alla punta delle calzature, che invece paiono da giovincello scapestrato tanto sono di ricercata fattura. Per un tipo come lui, uno che ha girato il mondo che vale, uno che non si è mai sentito spaesato in luoghi mai frequentati, e che sarebbe disposto a salpare seduta stante per quel nuovo mondo appena trovato da un genovese premiato dal mare per la cocciutaggine, l’arrivare a quel punto di coinvolgimento è un solleticare troppo allettante per ignorare il pissi pissi popolare. 162


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INDAGINI ROVENTI

Nel caracollare intirizzito, per tenersi compagnia, divaga approdando oltreoceano. Avessero bisogno di qualche sua pezza per coprirsi le pudenda in quel paradiso terrestre, dove pare non ci sia ancora vergogna di nudità, dove si sussurra che l’oro si raccoglie per strada, e sulle piante cresce il pane, e via dicendo meraviglia su meraviglia, ci si potrebbe lucrare un pochettino, con onestà cristiana, ben inteso, fantastica sognando il caldo dei tropici. Poi rientrando in terra piemontese, riaggancia il vecchio problema. Poiché, non bisogna dirlo neanche al cane, ma lui sotto sotto non ci crede mica a quelle fandonie di stregoneria come sono propalate dal libro scritto dai due domenicani tanto cari al trono romano. Quel manuale per cacciatori di disgraziate, che gira dappertutto con il sigillo papale. Quel maglio di parole infette tirate fuori dall’inferno da Institoris e Sprengerus, che uccide più della peste nera. E non si dia in giro a credere che svenda remedia adversus maleficia: lì dentro si è accesa la miccia di un’ecatombe. Secondo il suo modesto parere di latinista amatoriale. Perciò, è curioso di sapere se il martello delle malefiche è arrivato fin lì a menare duro in gergo ecclesiale, come comincia a dubitare. Il desiderio di togliersi un sassolino dalla scarpa grosso come il tomo in questione, che da quando ne aveva letta qualche pagina alla spicciolata in quel di Francoforte gli dà il torcibudella, e non vuole più uscirgli dalla testa. Questo, almeno, può permetterselo per mettersi il cuore quieto, da buon credente. 163


E alla fine del tormentone cervellotico. Proprio questi: “Vi dico e non vi dico, che non tutto si può dire, messere”, perché “Il pericolo è grande come il Visolo, messere”, soltanto “Si sa di donne versate a striare vacche e porci, messere”, ma “Passare da accusatore ad accusato è volo di gallina, messere”, l’hanno invogliato a proseguire imperterrito verso il luogo dell’esecrabile misfatto. E prendere per così dire due piccioni con una fava: camarille pubbliche e private a tiro di una schioppettata di archibugio. Quantunque. Invece di avvantaggiare i ragguagli che gli possono essere utili per transitare con cognizione di causa attraverso il nuovissimo tunnel, rendendo mille volte grazie alla benevolenza del signore che governa con regale lungimiranza su queste terre d’incanto, inizia pian piano a concentrarsi su ricerche ben diverse. Se non proprio scartando gli affari, già ben abbozzati con i canapai saluzzesi: «Furbacchioni anzichenò che credevano di farmi babbeo sul prezzo delle matasse, perché i loro canapali sono abbondanti, e i Liguri se le strappano di mano quest’anno. Tela marchesana di ottima fattura per le vele delle navi, ne vien fuori, nulla da ridire, ma per far biancheria da madame avvezze a passeggiare con il vaio sotto il naso a spolverarle, altro ci vuole! La mano di velluto ci vuole, la mano di canapa fina bisogna avere per paludare il desco dei mercanti...», sicuramente mettendoli in secondo piano. E poi, con un tratto di indulgenza verso se stesso: «Andiamo per un dì a nozze Domineddio, e tenetene conto per il mio angolo di paradiso, ché si va a ficcanasare nel vostro interesse!» Un diversivo dal lavoro ci vuole, ogni tanto, si consola. 164


D’altronde ha spiccioli di tempo da investire, prima di entrare nel merito dei muli più adatti per temperamento a menare indenne la sua preziosa scorta di canapa e lane. Tanto preferisce attendere che sul forame del monte Vesulo, o alla francese mont Visol, o come per accidente si chiama in tutte le lingue usate nel Marchesato, sia come sia al mercante non tange, insomma che, sulla bella montagna puntuta del Princeps Ludovicus trivellatore illuminato, non vi sia più pericolo di neve per non inzuppare il patrimonio. La prudenza non è mai troppa. Infilzati tutti gli alibi, e anteposta la novità alla premura, può concedersi di bighellonare in loco e nelle parrocchie limitrofe per sbirciare dentro il pentolone dove ancor ribolle l’infernale paccottiglia. E ciondola e trotterella come un nullafacente arricchito, ma con l’aria saccente di chi ha i fiorini sulla pancia perché se li è sudati, e può permettersi di fare ciò che gli pare senza dar di conto ad alcuno di sé. «Ché, non per vantarmi, ma sono che uno ha viaggiato molto, e chi va in giro per affari ne sente di tutti i colori. Ma soprattutto ne vede di ogni sorta, e di questi roghi ho una certa esperienza» conclude con un buffetto distratto che spolvera pigramente la bisaccia marrone. Si compiace di se stesso, provando un sottile piacere nel lisciarsi il ricco tessuto che lo protegge dai rigori del settentrione italico, indugiando oziosamente sul castone della preziosa cintura. Che pochi possono permettersi. Eh, già, roba da ricchi, anzi da arricchiti col sudore della fronte, come canta il libro sacro! Passa a valutare con distacco perplesso il paesaggio dintorno. Proprio non riesce a credere che un tale villaggio da presepe nascondesse simili storture. Le notizie che ha carpito al primo di passaggio a conferma della truce vicenda, lo sbalordiscono. Mentre il suo 165


sproloquio mellifluo ha appena rintronato l’ignaro villico che ha avuto la malasorte di incrociarlo a mezza via. Il quale preso un po’ da carità cristiana, un po’ dalla speranza di vedersi scivolare nella scarsella consunta quattro soldi senza troppo brigare, l’ha caricato sul barroccio per risparmiargli un pezzo di strada. Intanto registra nella materia grigia ogni venticello di notizia. Questa davvero varrà la pena di raccontarla alle figlie sconsiderate, quelle tre acque chete che gli tengono testa su tutto, in modo da metterle in guardia da quella loro lingua troppo imprudente, che spesso corre più veloce del cervello. E quello, il buon cervello dono di dio, bisogna mettere da parte e usarlo bene, coi tempi che corrono, e le invidie che covano sotto la cenere dei camini più impensati! La brama di denaro, quello altrui, si dice in giro che ispiri la delazione più della garanzia di santità di là dai Pirenei. E certe allucinazioni sono assai infettive, come le epidemie da eresia che gli van tenendo la coda alle prime. Con un paio di terribili noterelle sul suo bel quadernetto dei conti, le sistemerà a dovere le sue scervellate petulanti, che hanno la mania di pasticciare con le erbe dell’orto e di atteggiarsi a medichesse di convento. E di blaterarlo in giro, come cosa da farne vanto con chicchessia. Per quattro virgulti aromatici rubati a una badessa, da queste parti si finisce morte ammazzate e poi saltano fuori le magagne di tutto il paese. Manco fossero state d’oro zecchino, le dannate erbacce da cacciare in pentola, ambite solo da cerusici di pessima reputazione! Funzionerà più una lezione scritta, che un paio di ceffoni sulle loro gote paffute. Con quelli ci ha già provato a essere sincero con se stesso. Ma solo per proteggerle, per 166


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