Don Cirillo e il nipotino

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PROLOGO

Il nipotino Tommaso scrive al nonno Caro nonno Giulio, o meglio mi piace di più chiamarti nonno Baffo, come ero solito fare da bambino. Fra i tuoi nipoti io sono il più vecchio e sono quello che ha avuto la fortuna di conoscerti e frequentarti di più: credo in fondo di assomigliarti un pochino e sono convinto che fra noi ci sia un legame particolare, per cui mi permetto questa confidenza, magari un pochino irrispettosa. Ti ringrazio molto delle bozze del libro che mi hai mandato da leggere, la mamma mi aveva avvisato che ti aveva finalmente convinto a mettere per scritto i ricordi della tua infanzia. Innanzitutto ti devo dire che mai avrei immaginato che tu negli anni della guerra, e bambino di pochi anni più giovane di me, avessi avuto una vita tanto travagliata e pericolosa, ma devo anche ammettere che non sapevo tu fossi capace di scrivere in modo così avvincente. Permettimi di confessarti che noi nipotini adesso ti vediamo, con un po’ di soggezione, come un anziano e burbero signore, pelato e con dei vistosi baffoni bianchi. Quegli stessi baffi che tu definisci con importanza vieilles moustaches, perché ti vanti di avere imparato il francese mentre facevi il cameriere in un bar di Parigi per mantenerti agli studi, visto che raccontavi di essere orfano e senza un quattrino. Conoscendoti, non credo che tu però dica la verità, quando narri che al barLes deux etoiles stringesti anche amicizia con la cantante Edith Piaf, che al mattino voleva il cafe’ au lait solo servito da te. Perdonami, ma mi sembra proprio una delle tue fanfaronate.

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Mi sembra veramente impossibile che un nonno così, severo e autoritario, quale noi ti vediamo, sia stato un bambino come me e i miei fratelli. Leggendo il libro, che tu stai preparando, vedo però che tu giovanissimo, mentre frequentavi le elementari, eri proprio simile a noi adesso: giocavi alla palla, agli indiani, e facevi i compiti proprio come adesso faccio io. Solo qualche cosa è cambiato, perché io scrivo questa lettera sul I Pad, mentre tu mi raccontasti che ai tuoi tempi usavi una penna con un pennino che si intingeva in un calamaio di inchiostro. Piacerebbe anche a me ogni tanto scrivere così, mi sembrerebbe per un attimo di tornare indietro nel tempo, quasi nell’Ottocento. Ma devo dirti delle bozze del libro: ho già letto tutto con grande curiosità ed interesse, e non vedo l’ora che tu scriva altri capitoli, e poi magari lo farai stampare.

... rivedere la chiesa...

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Caro nonno Baffo...

Io ti potrei aiutare a scegliere una copertina e, magari con delle vecchie cartoline d’epoca, potremmo anche pensare alle illustrazioni. Sfogliare il tuo libro per me è veramente come appassionarsi a un romanzo di avventure, e quasi me lo immagino già come un film. Dovremmo scegliere gli attori che andrebbero bene: un ragazzino per la parte di nonno Giulio, e poi un personaggio con la faccia cattiva per l’ufficiale nazista, e poi il parroco, e la guida alpina tuo amico, e la maestra e molti altri. Leggere che tu bambino, solo perché eri ebreo eri ricercato dalla polizia fascista e dai soldati nazisti, mi fa venire i brividi e poi sapere che, della tua famiglia fosti uno dei pochi a salvarti, mentre molti altri furono deportati in Germania e uccisi con il gas, la trovo una cosa veramente orribile. Tu scrivi che ti salvò l’aiuto del parroco di un paesino valdostano che ti ospitò nella canonica, con un falso nome, come tu fossi stato suo nipote. Bisogna ammirare anche il coraggio di quel sacerdote, che rischiò la vita per aiutare un bambino, che gli era stato affidato, e lui neanche conosceva.

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E quando leggo che il capitano tedesco, il comandante del presidio, ti guardava con simpatia, perché tu, da biondino qual’eri, gli ricordavi il suo piccolo Peter, e non sapeva che aveva davanti agli occhi un piccolo ebreo, e in effetti non se ne accorse mai, ha veramente dello straordinario. Penso proprio che tu sia stato fortunato, ma sono anche convinto che i tuoi nonni, che tu non vedesti più, da Lassù abbiano chiesto una particolare protezione per te. Dio esiste proprio, e in certi momenti si manifesta così, con miracoli, che non potremmo spiegare altrimenti. Ti ringrazio del libro, dei tuoi ricordi che hai messo per scritto, ma ti sono anche riconoscente del viaggio che abbiamo fatto insieme il mese scorso, solo tu ed io, per rivedere quel paese di montagna. Tornammo a rivedere la chiesa dov’eri nascosto, i prati dove correvi, perfino il lavatoio dove giocavi con le barchette di carta. E io adesso, mentre leggo, ti vedo proprio lì, come se non fossero mai passati gli anni. Caro nonno Baffo, Ti ringrazio ancora tanto delle memorie che ci hai trasmesso. Penso possano anche servire a noi giovani di oggi ad apprezzare di più i nostri tempi, lontani dai bombardamenti e dagli anni di guerra e di carestia, che tu invece da bambino hai subito. Ti penso con affetto, magari questa mia lettera ti ha commosso un pochino, ma io ti vedo che ti lisci i baffoni e mi strizzi l’occhio, come se fossi vicino a te. Un abbraccio da tuo nipote Tommaso

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CAPITOLO 1

L’incursione Mercoledì 1° dicembre. ’alba del 1° dicembre sorse serena sulla città di Torino. Era il 1943, terzo anno di guerra, e le cose non andavano affatto bene. Gli uomini al fronte, le città distrutte, morti, feriti, cibo razionato e poi dopo l’otto settembre anche la guerra civile fra gli stessi italiani, con incendi violenze e uccisioni di innocenti. Sulla collina torinese un gruppo di militi della DICAT, la Difesa Controaerei, avevano preso servizio da poco, e sostavano chiacchierando nell’aria gelida del mattino.

L

Alcuni erano uomini, altri giovani poco più che ragazzi, anche alcuni ciechi che si erano arruolati volontari ed erano stati accolti di buon grado per la loro grande sensibilità uditiva ed erano stati addetti agli aerofoni. Erano tutti nell’uniforme della Milizia, grigio verde con mostrine nere bordate di giallo arancio, tipiche dell’artiglieria, e camicia nera, qualcuno con in testa un vecchio elmo d’acciaio, modello Adrian, risalente ancora alla Grande Guerra. Tre grandi apparecchiature erano sistemate nel cortile come postazioni di ascolto. Ognuna aveva due poltroncine per gli operatori e grandi padiglioni metallici, simili a colossali trombe di grammofono, o quasi come orecchie di elefanti. L’aerofono meno recente era il Galileo mod. 34 con tre trombe di ascolto, gli altri erano il modello Galileo 40, ognuno con quattro amplificatori. Il radar in Italia non esisteva ancora, e questo era

... uniforme della Milizia

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... prima un ricognitore...

l’unico modo, insieme alle PA, le posizioni avanzate di avvistamento, di essere avvisati con un certo anticipo delle incursioni aeree nemiche. Da un mese a Torino non c’erano stati bombardamenti, ma tre giorni prima un ricognitore inglese aveva volato per quasi un’ora sopra la città, del tutto indisturbato. Probabilmente aveva fatto fotografie, ma sopratutto i nemici si erano resi conto della scarsissima difesa controaerea. Quel mercoledì mattina quel cielo sereno e l’aria così limpida erano veramente un invito per i bombardieri. I soldati italiani non erano tranquilli e ogni tanto guardavano verso l’alto a cercare conferma che l’orizzonte era sgombro. In effetti, verso le dieci, uno degli operatori sobbalzò, calzò meglio gli auricolari sulle orecchie infreddolite e si dedicò con maggiore attenzione ad ascoltare un leggero ronzio. Poteva essere un falso allarme, forse il generatore del gruppo elettrogeno piazzato nella palazzina di mattoni rossi che era un po più in là. Ma poi aumentò e per le esperte orecchie del milite cieco fu l’inconfondibile rumore di motori aerei, che pur ancora molto lontani, erano ingigantiti dai microfoni e dagli amplificatori dell’aerofono. E il rumore divenne un rombo di molti, molti grandi aerei che giungevano dal Sud, dagli aeroporti anglo-americani dell’Italia già occupata. Senza esitazione l’operatore all’ascolto premette il pulsante alla sua destra e suonò l’allarme per tutti i militari.

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Il capomanipolo telefonò immediatamente al Comando della Difesa Controaerei e l’emergenza scattò senza indugi in tutta Torino. In tutti i quartieri suonarono le sirene: sei colpi di sirena da 15 secondi con altrettante pause di uguale durata. E subito iniziò il caos, anticamera di quell’inferno che dopo solo pochi minuti avrebbe devastato mezza città. La gente cominciò a correre verso i rifugi antiaerei, segnalati da una grande R bianca, accavallandosi e spingendo in modo disordinato. Da tutti i palazzi, dalle scuole, da fabbriche ed uffici tutti scesero nelle cantine, le normalissime cantine condominiali, nobilitate durante la guerra dal titolo importante di rifugio antiaereo. Nelle cantine, lungo le pareti, erano allineate delle panche, ci potevano essere delle coperte, magari qualche bottiglia d’acqua o anche di vino. Dall’inizio della guerra, la gente aveva preso dimestichezza a trascorrere ogni tanto qualche ora di questa vita sotterranea, chiacchierando, giocando a carte, cullando i bambini più piccoli. Talora era solo una precauzione esagerata e terminava dopo un pò con il lungo segnale del “cessato allarme”, altre volte era un tempo interminabile, con il boato delle esplosioni sempre più vicine. E così anche quella mattina furono allertati ospedali e pronto soccorso, le ambulanze e i mezzi dei vigili del fuoco accesero i motori. In tutte le case i capifabbricato e i capiscala, riconoscibili da una fascia rossa al braccio destro, prepararono grandi secchi d’acqua su ogni pianerottolo e controllarono che tutti abbandonassero le abitazioni. Durante gli allarmi era vietato sostare o circolare in strada, solo ronde di carabinieri e di altri militari armati, pattugliavano le vie per evitare fenomeni di sciacallaggio nelle abitazioni abbandonate. E poi gli aerei arrivarono, prima un ricognitore che fungeva da apripista, e poi a stormi i grossi bombardieri B 17, a gruppi di dieci, scortati a quota più alta da una miriade di piccoli caccia, che lassù nell’aria gelata lasciavano tutti una lunga scia bianca di condensa. La contraerea sparò qualche colpo, senza convinzione, pochi ed imprecisi. E poi le bombe, tante bombe, piccole e grandi, esplosive ed incendiarie, immediate o a scoppio ritardato, singole e a grappolo, e razzi e spezzoni incendiari. Per l’ennesima volta Torino bruciava.

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CAPITOLO 2

Tragiche giornate Mercoledì 1 e giovedì 2 dicembre osì quel giorno, mercoledì 1 dicembre 1943, Torino subì uno dei più pesanti bombardamenti di tutta la guerra. Fu un bombardamento diurno, iniziato verso le dieci del mattino, durò circa due ore e vide impegnato un centinaio di bombardieri americani. I grandi quadrimotori B17, partiti all’alba dagli aeroporti già occupati nell’Italia meridionale, giunsero sulla città in tutta tranquillità, senza trovare ostacoli né difese.

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Mentre gli inglesi venivano a bombardare le città italiane nelle ore notturne, era una caratteristica degli americani di colpire di giorno per meglio centrare gli obiettivi strategici e militari, fidando nella più completa assenza di difesa controaerea e di aerei italiani che si alzassero in combattimento. In realtà se era più facile centrare gli obiettivi, in quelle ore le città erano affollate, gente per le strade, operai nelle fabbriche, studenti nelle scuole. Così anche questa volta fu una carneficina: i morti furono un centinaio, più di cinquecento i feriti, fabbriche e caserme distrutte e in fiamme, ma anche tante case private e palazzi interi rasi al suolo, colpiti ospedali e scuole, molti morti anche fra i soccorritori, infermieri e vigili del fuoco. La città bruciava ancora persino il giorno dopo, giovedì 2 dicembre, specie nella zona sud, il Lingotto, piazza Car-

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... una vecchia signora...


... carri e carretti...

ducci, via Nizza, piazza Graf e via Madama Cristina, tutte le vie più vicine alle fabbriche Riv, Microtecnica e Fiat, che erano stati gli obiettivi primari. Le vie erano ingombre di macerie, mancava l’acqua e la luce, i tram cittadini non funzionavano. Fra le rovine circolavano solo ambulanze, auto militari e vigili del fuoco. E poi le persone che erano uscite dai rifugi antiaerei, quasi sempre cantine, e che vagavano stordite, piangenti, impietrite di fronte ai disastri che si presentavano ai loro occhi, cercavano le loro case, ma erano solo più cumuli di cemento e di mattoni, cercavano i loro parenti o amici, ma ben sovente non c‘era più nulla o forse un lenzuolo che nascondeva dei resti bruciacchiati. Su un angolo di piazza Carducci, una vecchia signora con un logoro cappotto verde, guardava sconsolata i resti di quella che era stata la sua casa. Il giovedì mattina, nelle vie dei quartieri colpiti, invece del normale traffico cittadino di auto e tram, c’erano biciclette, carri e carretti, spinti a mano o tirati dai cavalli. Sembrava che tutti volessero fuggire o sfuggire a qualche cosa. In via Nizza lo stabilimento Fiat del Lingotto era quasi completamente distrutto e ancora fumava, formando su tutto il quartiere una nuvola bassa e grigia, quasi una nebbia, addensata dall’umidità e dal gelo.

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