Viaggio in Valle Varaita

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Note storiche, geografiche e culturali La Val Varacio, come viene chiamata la Valle Varaita nella parlata occitana, si trova nelle Alpi Cozie meridionali, si distende verso la pianura tra i paesi di Verzuolo e Costigliole Saluzzo e sale fin ai colli e alle montagne più elevate attraversando quattordici comuni. A occidente segna la linea di frontiera con la Francia, confinando con la Valle dell’Ubaye e la Valle del Guil; a sud confina con la Valle Maira mentre a nord confina con la Valle Po, fino al territorio del comune di Brossasco, e nella parte più bassa con la Valle Bronda. Il torrente Varaita è il primo affluente di destra del Po e ha origine dalla confluenza dei torrenti Varaita di Bellino e Varaita di Chianale, che avviene a Casteldelfino; il ramo del Varaita che scende dal Vallone di Bellino nasce ai piedi del Monte Maniglia, mentre il ramo che scende da Chianale sgorga nel Vallone di Soustra il quale culmina con il Monte Losetta, conosciuto dai francesi con il nome di Pointe Joanne. Quella del torrente Varaita è una valle amena e verdeggiante, caratterizzata da boschi e ampi pascoli che salgono fino ai piedi delle vette più alte. È un territorio fertile

e ricco di risorse, tanto che nel passato i dolci versanti solatii erano intensamente coltivati fino a quote ragguardevoli e rappresentavano una importante risorsa per la sussistenza degli abitanti. Lo rilevò anche il grande statista Quintino Sella nel 1863, in occasione della prima salita di una spedizione italiana al Monviso, nella relazione che scrisse sotto forma di lettera all’amico Bartolomeo Gastaldi: «... ti dirò come la valle della Varaita sia una delle valli alpine che il viaggiatore percorre con maggior piacere. Infatti se il suo fondo venne recentemente depauperato dei noci colossali di cui andava altero, esso è tuttavia quasi ovunque verdeggiante di prati perennemente irrigati dalle acque della Varaita e dei torrenti laterali. La costa settentrionale è meno doviziosa di vegetazione, perché i cereali vi sono coltivati fino a grande altezza, ma il fianco meridionale è ricco di bellissime foreste di larici, le quali danno alla valle un aspetto verdeggiante fatto a bella posta per riposare l’occhio stanco dall’aridità, che oggi travaglia l’Italia settentrionale». Nella sua attenta descrizione non manca un apprezzamento per i valligiani: «In gene-

Una mandria sul sentiero che sale al Rifugio Vallanta


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15 occitana. Un’appartenenza che si percepisce un po’ ovunque nei paesi e che si esprime in modo forte nella parlata tipica, molto diffusa soprattutto nella parte medio alta della valle. Le musiche e le danze legate alla tradizione occitana non sono mai state dimenticate nella Valle Varaita che, nel secolo scorso, è stata un po’ il motore di traino per il recupero e la riproposta degli antichi balli anche per le altre valli occitane d’Italia. Stesso discorso vale per le antiche feste occitane, prima fra tutte la Baìo di Sampeyre, che in valle si sono conservate in modo sorprendente e rappresentano oggi un inestimabile patrimonio culturale. Anche l’architettura esprime opere di notevole rilievo. In alta valle, i villaggi rurali, dove la robustezza delle abitazioni si coniuga con la funzionalità delle strutture comunitarie, rappresentano un esempio unico di creatività legata alle esigenze abitative del passato. Lungo tutta la valle è soprattutto l’architettura religiosa che ha conservato in chiese, santuari, cappelle e altre opere a carattere devozionale antichi e pregevoli esempi di edifici adattati e modificati nel corso dei secoli, dove spesso si mescolano i diversi stili romanico gotico e barocco.

Il campanile della parrocchiale di San Giacomo della borgata Chiesa di Bellino


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22 Pontechianale, frazione Maddalena. Cappella di Santa Maria Maddalena. Dipinto di san Marco: la particolarità è che la mano destra sollevata del santo è composta da sei dita

Vallone di Gilba, la borgata Danna. In primo piano il pilone dipinto dal pittore Testa che riporta la scritta: “PER VOTO DI GUERRA I FRATELLI GIACOMO, GIOVANNI E DOMENICO SEIMANDI FU TOMMASO FECERO FARE. ANNO D.NI 1929”

te delle opere pittoriche oggi presente è stata realizzata proprio a partire da quella epoca in poi. Anche questi artisti che esprimevano stili più moderni hanno lasciato una loro impronta particolare. Fra questi spicca la figura di Giorgio Boneto, originario di Pratoguglielmo, frazione di Paesana, che in Valle Varaita realizzò i suoi dipinti soprattutto su case private e piloni votivi negli ultimi

decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento. Quella di Giors Boneto pitore di Paisana, come amava firmarsi, è un’arte popolare dove le figure sono grossolane e le proporzioni non vengono rispettate; una pittura semplice e un po’ naïf che emana una notevole forza espressiva. Giuseppe Gauteri (1805-1878) nacque a Busca in una famiglia numerosa che diede i natali a numerosi artisti. Tre dei suoi fratelli, Francesco, Luigi e Giovanni, furono importanti pittori del Saluzzese e decorarono chiese anche in Valle Varaita, mentre Giuseppe fu un pittore più popolare e realizzò pitture su chiese, cappelle, piloni e opere su case private. Sua è l’immagine della Madonna della Misericordia di Valmala dipinta sull’originario pilone, ora visibile dietro l’altare del santuario. Una pittura più “matura” venne espressa da Giovanni Borgna (1854-1902), di Martiniana Po, certamente uno dei pochi pittori itineranti ad avere frequentato l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Il Borgna, aiutato spesso dalla sorella Rosa, in Valle Varaita dipinse soprattutto chiese e piloni votivi. Le sue opere principali sono visibili nei comuni di Venasca, Brossasco, Frassino, Sampeyre, Casteldelfino e Pontechianale. Tra tutti quelli che furono attivi in Valle Varaita vanno ancora ricordati due pittori originari del posto che hanno lasciato numerose opere: Tommaso Francesco Testa (18671934), della borgata Pratolungo di Sampeyre e Francesco Agnesotti (1882-1960), anche lui nativo di Sampeyre.


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Verzuolo Verzolo o Verzolio venne citato in documenti risalenti all’XI secolo. Con i suoi 420 metri di altitudine è il paese meno elevato della valle; una porzione significativa del suo territorio si allunga verso la pianura aperta mentre la parte opposta, di natura collinosa, si adagia lungo il grande costone montuoso che divide la Valle Varaita dalla Valle Bronda. L’economia del paese è prevalentemente agricola nei territori delle frazioni, dove prevalgono la frutticoltura e l’allevamento, mentre nel capoluogo è condizionata da una grande tradizione di produzione cartaria. All’inizio del Novecento l’ingegnere ligure Luigi Burgo venne a Verzuolo dove impiantò la prima centralina per rifornire di energia elettrica il paese. Per sfruttare l’esubero dell’energia che la centralina produceva, impiegando anche la potenza di alcuni canali d’acqua locali, decise di realizzare un impianto per la produzione della carta: nel 1905 nacque la società Cartiere di Verzuolo ing. Burgo & C. L’azienda crebbe rapidamente, nacquero altri stabilimenti in diverse regioni d’Italia, tanto che nel 1930 la cartiera Burgo era considerata un colosso del settore a livello europeo. Nel 1943 Luigi Burgo, che era anche se-

natore del Regno d’Italia, venne imprigionato per complotto contro il fascismo, dopo la guerra l’ingegnere venne totalmente riabilitato e le sue aziende si ammodernarono e continuarono a crescere. Pur vedendo nel corso degli anni alcune variazioni a livello societario, oggi l’azienda, che produce con l’impiego di impianti industriali tra i più moderni al mondo, continua a essere ai massimi livelli nel settore. Dalla strada provinciale, imboccando via castello in direzione della collina, dopo un breve tratto di strada si entra nel borgo medievale di Verzuolo, detto “la Villa”, che riserva delle interessanti particolarità. La chiesa parrocchiale dei Santi Filippo e Giacomo si trova a valle dell’antico borgo e venne costruita negli anni tra il 1706 e il 1712. Apparteneva al convento dei Cappuccini, che si erano stanziati a Verzuolo fin dal XVI secolo per contrastare il diffondersi delle eresie protestanti; venne poi eretta a parrocchia solo nel 1819 quando acquisì il titolo dall’antica parrocchiale dei Santi Filippo e Giacomo che si trova più a monte, in una zona meno comoda per gli abitanti che risiedono nella parte bassa del paese. La chiesa è dedicata

Particolare della Deposizione dipinta sulla facciata dell’antica chiesa parrocchiale dei santi Filippo e Giacomo


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1691, questa volta a opera dei soldati francesi che ritirandosi dall’assedio di Cuneo misero il borgo a ferro e fuoco. Delle vecchie mura rimane oggi il più antico monumento di Costigliole: la Porta Grafiona, che risale al XIII secolo, in passato uno degli accessi al ricetto medievale che sorge sulle ultime pendici del Monte Pagliano. Lungo via Porta Grafiona, che ricalca un tratto dove sorgevano le vecchie mura, si ha una bella vista di Costigliole dall’alto, e su una casa si può scorgere un’antica statua: forse una lapide sepolcrale. Il vecchio borgo caratterizza ancora oggi il paese con i suoi tre castelli: il Castellotto, il Castello Rosso e il Castello Reynaudi, tutti e tre costruiti a partire dalla fine del Quat-

trocento su resti di costruzioni preesistenti, poi adibiti a strutture residenziali senza mai avere funzioni difensive. Il Castellotto è oggi un’abitazione privata e nel periodo natalizio fa da scenografia naturale al presepe vivente che viene organizzato dalla parrocchia di Santa Maria Maddalena e dal locale gruppo gli “Amici del Presepe”. Il Castello Rosso è oggi adibito a hotel, ristorante e centro benessere. Sembra essere il più antico dei tre e al suo interno conserva un affresco attribuito alla scuola del pittore fiammingo Hans Clemer, detto il Maestro d’Elva e noto per la sua intensa attività nel saluzzese a cavallo tra i secoli XV e XVI.

Il borgo antico di Costigliole


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La Sagra dell’Uva Quagliano, che si tiene ogni anno alla fine di settembre


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43 pe Filippo Porporato, vescovo della Diocesi di Saluzzo, che era nato proprio a Piasco. Si tratta di un grande edificio con una severa facciata classica, progettato dall’architetto saviglianese Bartolomeo Ricca. I mattoni per la costruzione della chiesa vennero fabbricati in loco, appena fuori del paese. La domenica, dopo la messa, i paesani facevano una lunga catena umana e con il passamano trasportavano i mattoni al cantiere per il fabbisogno settimanale dei muratori, per questo motivo la zona ha assunto il nome di Monatera. All’interno della parrocchiale si trova un bel fonte battesimale del 1450 proveniente dall’antica chiesa parrocchiale dei Santi Fabiano e Sebastiano di cui oggi resta la torre campanaria annessa al municipio e un’antica cappella inglobata nell’edificio comunale. L’antica chiesa di San Giovanni Battista risale all’XI secolo e un tempo ricopriva la funzione di parrocchia, nel Seicento venne adibita a chiesa cimiteriale e oggi è dedicata alla Madonna del Carmine mentre il titolo originario è stato trasferito all’attuale parrocchiale. La chiesa conserva nell’abside un pregevole ciclo di affreschi di Pietro da Saluzzo databile attorno al 1470, dietro l’altare è visibile un quadro delle storie di san Giovanni Battista: la richiesta di Salomè a Erode della testa del Battista su pressione di Erodiade e la decapitazione del santo. Lateralmente sono visibili le figure di santa Caterina d’Alessandria, santa Maria Maddalena e san Nicola da Tolentino. Non lontano dalla chiesa della Madonna del Carmine, sulla via centrale del paese, si

trova un antico pilone che risale probabilmente al 1472; è forse il più antico di tutta la valle. La struttura è a pianta quadrata e priva di nicchie, su un lato era dipinto san Nicola da Tolentino, questo affresco è stato staccato a fine Ottocento e donato dal comune al marchese Emanuele Tapparelli d’Azeglio per esporlo al museo di Casa Cavassa di Saluzzo, dov’è tuttora conservato. Da una descrizione di fine Ottocento risulta che sul pilone erano anche affrescati una Madonna in trono con Bambino e i santi Secondo e Sebastiano. Anche questi affreschi sono stati attribuiti a Pietro da Saluzzo. Della stessa epoca sono gli affreschi di Pietro da Saluzzo che si trovano nella cappella di sant’Anna, appena fuori dal capoluogo, sulla strada per Costigliole. Questi affreschi rappresentano l’Annunciazione, la Madonna col Bambino, sant’Anna e santa Caterina da Siena.


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Il Vallone di Gilba Un discorso particolare merita la verde e incontaminata conca di Gilba che si imbocca deviando dalla provinciale nelle vicinanze della cappella di San Rocco. Da Brossasco il Vallone sale fino al Colle di Gilba, a 1524 metri di quota, che mette in comunicazione le valli Po e Varaita. Il valico nel passato veniva utilizzato dai viandanti che si recavano ai mercati e alle fiere dei paesi di Paesana, Barge e Sampeyre. La zona dove si trova il colle viene detta anche Pian Pilone perché qui esiste l’oratorio di Santa Caterina d’Alessandria. Un pilone devozionale che un tempo rappresentava una fermata obbligatoria per i tanti pellegrini che a piedi transitavano da qui, per raggiungere il santuario di Becetto nella frazione omonima di Sampeyre, oppure il santuario della Madonna d’Oriente, nel Vallone di Croesio, sul territorio comunale di Sanfront. Il territorio di Gilba si divide in due zone: Gilba Superiore e Gilba Inferiore. I villaggi della zona più elevata sono solo in parte sul territorio di Brossasco, le frazioni più alte, Ricchetta, Danna, Lantermino e Tecchiasso, appartengono infatti al comune di Sampeyre, di conseguenza anche il territorio che da questi villaggi sale fino al colle appartiene a Sampeyre. Tutte le borgate più alte orbitano attorno alla chiesa parrocchiale di San Sisto (1168 m), dove si trova anche il cimitero, un tempo sede della scuola elementare. Qui l’ambiente severo condizionava pesantemente la vita dei residenti stabili, soprattutto nel rigido periodo invernale, quando l’isolamento durava anche per mesi. Nonostante queste difficoltà oggettive gli abitanti di Gilba Superiore furono sempre più numerosi di quelli delle borgate di Gilba Inferiore. In quota il territorio si apriva a pascoli e boschi radi che favorivano la pratica dell’allevamento del bestiame e la possibilità di avere dei campi coltivati, mentre le borgate più basse si trovavano immerse nei castagneti che fornivano pochi redditi e i magri bilanci famigliari dovevano essere integrati con la lavorazione nelle locali cave di gneiss o con l’emigrazione stagionale. Gilba Inferiore è composta da piccole borgate che orbitano attorno alla principale, Masueria, dove si trova la chiesa della Madonna della Spina che fino a qualche anno fa era attiva come parrocchia. Il piccolo centro era anche sede di una scuola elementare. Un tempo le borgate di Gilba erano piene di vita, oggi sono in gran parte disabitate per buona parte dell’anno. Molte case riaprono però gli usci nel periodo estivo, quando le borgate diventano meta di escursionisti che vanno alla scoperta di questi villaggi di pietra che sono delle vere opere d’arte. Le cappelle e un numero elevatissimo di piloni votivi, dipinti da artisti itineranti, caratterizzano i sentieri e le borgate di Gilba e sono un segno evidente della grande fede che un tempo confortava gli abitanti di questo territorio isolato dalle grandi vie di comunicazione. Nel Vallone di Gilba sono stati censiti degli affioramenti di Piropo, un cristallo rarissimo presente in pochi siti al mondo, già scoperto anche nella vicina Valle Po a Martiniana.


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Frazione Chiesa Frazione Celle

rete di fianco un altro originale dipinto di un altro autore, meno vistoso ma piuttosto curioso, rappresenta Gesù crocifisso visto di schiena e ai piedi della croce le tre Marie (Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e Maria Salomè). Un’altra caratteristica degli edifici di Bellino è la presenza delle cosiddette têtes coupées, che si trovano soprattutto nelle strutture religiose, ma anche su alcune antiche case private. Queste teste antropomorfe sono considerate dei simboli di derivazione celtica. All’esterno della parrocchiale di San Giacomo, in borgata Chiesa, si trova murata capovolta una testa raggiata che potrebbe ricordare un culto solare di origini precristiane. Le borgate di Bellino sono dei complessi ed efficienti microsistemi urbanistici che ben testimoniano la civiltà contadina del passato. Qui l’architettura rustica, frutto della creatività costruttiva dei montanari, rappresenta il grande patrimonio del paese, che andrebbe tutelato come è stato fatto per altre strutture architettoniche tradizionali in Italia e nel mondo. La chiesa parrocchiale di San Giacomo, di originario stile romanico, è stata modificata nel corso dei secoli e della struttura primitiva ha mantenuto solo alcuni elementi: un portale, dei capitelli e altri particolari in pietra come la figura di un animale e di una testa umana. All’interno conserva un bell’altare in legno dorato ornato da sculture e un’acquasantiera raffigurante un leone coronato di spine. Il particolare di maggior pregio è certamente il possente campanile in stile romanico-lombardo risalente al XIV se-


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del martedì grasso e della domenica precedente ed è animato da un numero variabile di personaggi. Uno dei più significativi è il Viei (Vecchio) che porta una maschera di legno e rappresenta il patriarca della compagnia; è accompagnato dalla Vieio (Vecchia) la sua inseparabile compagna che ha un abbondante seno e la gobba. È il Viei che quando il corteo si trova la strada sbarrata da una barriera parlamenta con la persona più in vista del borgo per avere il permesso di rimuovere l’ostacolo. Altri personaggi sono i Picounier, i Sapeur (Zappatori), il Medic (Medico), le Sarezines, l’Arlequin (Arlecchino) che viene sorvegliato dal Sooudà (Soldato), il Turc (Turco) che viene sorvegliato dal Carabinier (Carabiniere) o Gendarme, il Gingolo, il Mounsù e la Damo (il Signore e la Dama), il Cadet e la Espouso (la coppia di Sposi), i Portatori del Ciciu (Pupazzo) che portano il fantoccio del Carnevale seduto sopra una barella e i Sounadour (Suonatori) che animano i balli. Nelle ultime edizioni è stata inserita la figura del Narratore che, armato di megafono, illustra al pubblico le varie fasi della festa. Stanno ormai scendendo le prime ombre della sera quando il martedì grasso, davanti alla chiesa di Santo Spirito di Celle avviene il grottesco rito del battesimo del Turco (per merito dei Padrini e delle Madrine della Beò che sono riusciti a convertirlo) con del vino rosso e il personaggio che inizia improvvisamente a parlare occitano. Quando è ormai buio la festa si chiude con il rogo del Ciciu che rappresenta la fine del Carnevale e della Beò, ma la festa continua con canti e balli fino a notte inoltrata.


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Il Bosco dell’Alevé Il Bosco dell’Alevé e la cembreta più estesa e più meridionale delle Alpi e d’Italia, si sviluppa su una fascia montana di circa 825 ettari che va dai 1500 ai 2500 metri di altitudine, tra i comuni di Sampeyre, Casteldelfino e Pontechianale. Il nome Alevé deriva da elvo o elvu che nella parlata occitana locale identifica il pino cembro. Il Bosco dell’Alevé ha origini molto antiche e quando il poeta latino Virgilio riferendosi al Monviso, nel X libro dell’Eneide citò il Vesulus pinifer, ovvero il Vesulo (Monviso) ricco di pini, probabilmente alludeva proprio ai pini cembri che crescono ai piedi del Monviso, nell’alta Valle Varaita; non esistono, infatti, altre foreste ai piedi della montagna ad altitudini così elevate. Alle quote più basse, il bosco risulta essere molto fitto e ai cembri si affiancano altre specie vegetali come il larice e l’abete; alle quote più elevate, il cembro cresce isolato o in gruppi di pochi elementi in ambienti pietrosi dove il nutrimento è scarso e le condizioni climatiche sono estreme. Fustigati dalla furia degli elementi, i cembri si contorcono, crescono modellati dal vento e affondano le loro radici nelle spaccature delle rocce fino a rag-

giungere gli elementi necessari per la sopravvivenza. Esemplari solitari di pino cembro si possono trovare a quote che sfiorano i 3000 metri. Il pino cembro (Pinus cembra), detto anche cirmolo, è originario delle montagne più elevate del centro Europa. Presenta un’ampia e fitta chioma arrotondata di colore verde scuro, gli aghi si trovano raggruppati in ciuffi di cinque elementi e i fiori sono piuttosto vistosi e di colore giallo-rosso; alcuni esemplari di cembro che si trovano in Valle Varaita hanno più di seicento anni. Il legno del pino cembro viene utilizzato per realizzare sculture, mobili tradizionale e utensili vari. Il pregevole altare in pino cembro intagliato della chiesa parrocchiale di San Lorenzo di Chianale porta la data 1726 ed è riferibile alla scuola brianzonese. L’altare poggia su quattro robuste e artistiche colonne tortili sempre di pino cembro. Per gli amanti della natura il Bosco dell’Alevé presenta delle piacevoli sorprese. Il suo ambiente incontaminato permette numerose e gradevoli escursioni che si snodano fra tratti di fitta foresta che si alterna a radure, laghi e praterie dove in estate pascolano le mandrie. A quota 2017 metri si trova il

Bosco dell’Alevé, fiore di pino cembro


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Itinerari a piedi Diamo qui di seguito la sintetica descrizione di una selezione di itinerari a piedi per apprezzare l’ambiente naturale e montano della Valle Varaita. Sono percorsi escursionistici che presentano diversi gradi di difficoltà. Per quanto riguarda gli itinerari di alta montagna sono stati scelti percorsi panoramici attorno al Monviso: gli itinerari 5, 6 e 7 si sviluppano sul percorso del “Giro del Viso”. (Grado di difficoltà: T - turistico, E - escursionistico, EE - escursionisti esperti. I tempi sono indicativi e valgono per il solo percorso di salita, con esclusione dell’itinerario 2 che è ad anello e dell’itinerario 4 che prevede anche la discesa.) Itinerario 1

Vallone di Gilba: dal bivio per la borgata Barra (1153 m) al Colle di Gilba (1524 m) Dislivello: 371 m Tempo: 1,30 ore Difficoltà: T Questo itinerario si può percorrere anche in mountain bike o addirittura in auto, tenendo conto che l’ultimo tratto sterrato è adatto solo a mezzi fuoristrada. Salendo la strada di fondovalle del vallone si gira a sinistra, al bivio per la borgata Barra, si supera il ponte sul torrente e si parcheggia l’auto. Si sale a piedi lungo la via

Cartelli indicatori nel Bosco dell’Alevé

Vallone di Gilba, le antiche case della borgata Danna


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