Diritti umani

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Giorgia Decarli

Diritti Umani e DiversitĂ Culturale Percorsi internazionali di un dibattito incandescente


Š Copyright SEID Editori 2012 Via Antonio Giacomini, 26 - 50132 Firenze email: info@seideditori.it I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le fotocopie fotostatiche) sono riservati. Prima edizione digitale 2013 Isbn 978-888-9473573


ANTROPOLOGIA Collana soggetta a peer-review

Direzione Leonardo Piasere - Università di Verona

Comitato scientifico Dionigi Albera - Institut d’Ethnologie Méditerranéenne, Européenne et Comparative, CNRS-Aix-Marseille Université, Aix-en-Provence Rita Astuti - Department of Anthropology, London School of Economics and Political Science, Londra Barbara Casciarri, Département de Sociologie, Université Paris 8 Vincennes-St Denis, Saint-Denis. Setrag Manoukian, Institute of Islamic Studies e Department of Anthropology, McGill University, Montreal Ana Maria Rabelo Gomes, UFMG - Universidade Federal de Minas Gerais, Belo Horizonte Nando Sigona, Refugee Studies Centre, University of Oxford, Oxford

Redazione Silvia Manieri – SEID Editori, Firenze

Sito http://www.seideditori.it/antropologia.html



Dedico questo libro a Marika, sempre al mio fianco



Indice Introduzione....................................................................................................... 9 Capitolo Primo 1.

Diritti umani: due scuole di pensiero . ..................................................... 21

Capitolo Secondo 1. Il relativismo culturale.............................................................................. 29 2. Statement on Human Rights.................................................................... 33 3. Critica antropologica allo Statement......................................................... 38 Capitolo Terzo 1. 2. 3. 4.

Un consenso “quasi” universale................................................................. 45 Lo Stato socialista: il caso Unione Sovietica.............................................. 46 I rapporti con il diritto islamico: il caso Arabia Saudita............................. 54 Diritti umani e apartheid: il caso Sud Africa............................................. 77

Capitolo Quarto 1. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 3. 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5.

Riserve sulla Dichiarazione....................................................................... 97 Valori Asiatici........................................................................................... 97 Il diritto secondo Confucio...................................................................... 97 Il nuovo sistema...................................................................................... 102 La Repubblica Cinese............................................................................. 105 Cina e diritti umani................................................................................ 107 Valori Africani........................................................................................ 111 Il pluralismo giuridico degli Stati africani............................................... 112 Il diritto tradizionale africano................................................................. 114 L’Africa coloniale.................................................................................... 123 L’Africa indipendente............................................................................. 125 Africa e diritti umani.............................................................................. 128

Capitolo Quinto 1. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Un’inversione di tendenza....................................................................... 135 Le dichiarazioni “universali regionali”..................................................... 137 La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli.................................. 137 Le Dichiarazioni Universali dei Diritti Umani nell’Islam........................ 143 La Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli.............................. 149 La Dichiarazione dei Popoli Indigeni...................................................... 158


Capitolo Sesto 1. 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6.

UNESCO. Per un’evoluzione del concetto di cultura ............................ 173 Cultura come patrimonio dell’umanità................................................... 175 Cultura come identità............................................................................. 178 Cultura come sviluppo........................................................................... 184 Commissione Internazionale sulla Cultura e lo Sviluppo........................ 189 Proposte per una nuova etica globale...................................................... 193 La Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale............................. 202

Considerazioni finali 1.

Un immaginario politico “profetizzato”.................................................. 211

Riferimenti...................................................................................................... 217


Introduzione L’impostazione del presente lavoro non è stata una scelta semplice. La sua divisione in aree territoriali e la descrizione dei rispettivi sistemi politici e sociali, infatti, rischia di scadere in una grossolana riproduzione schematica di realtà culturali chiuse ed impermeabili, in un rapporto che Huntington definirebbe “scontro di civiltà” (Huntington 2004). È inadeguato dividere il mondo in scomparti stagni, parlare di civiltà occidentale, cultura islamica, tradizione africana o confuciana: termini peraltro ricorrenti nel linguaggio politico internazionale. Si rischia in tal modo, infatti, di celare l’infinità di connessioni e flussi umani, storici ed attuali, cui le presenti aree (così come il resto del mondo) assistono costantemente. Da un punto di vista esplicativo, tuttavia, questo si è rivelato l’approccio migliore allo sterminato tema della diversità culturale. Nel tentativo di semplificarlo il più possibile, si è reso necessario provvedere a più “scremature” ed analizzare più aree e livelli, senza peraltro averli esauriti tutti. In particolare è stato individuato uno specifico ambito di discussione: quello della diversità culturale nel campo dei diritti umani e delle Dichiarazioni internazionali ad essa inerenti. Ponendo attenzione a non cadere in un eccesso di culturalismo1, oggetto di questo studio sono progressivamente divenute le realtà statali e non, che a partire dal 1948, anno di emanazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, con le loro voci contrarie hanno alimentato un vivace confronto cui la politica mondiale tuttavia sembra avere dato poco rilievo sino ad anni recenti. Lo scopo non è quello infruttuoso di contestare la politica dei diritti umani, bensì quello di metterne in discussione un’universalità acritica, alla luce della diversità culturale da sempre esistente. Nei successivi capitoli, infatti, saranno esaminati differenti contesti culturali, e presi in considerazione una serie di principi e diritti contenuti nella Dichiarazione del ’48, che si ritengono non essere tali presso molte culture viventi, poiché incompatibili con le loro cosmogonie, con i loro sistemi filosofici e religiosi, con le loro storie na1 È bene, infatti, premettere che: 1) le culture non costituiscono totalità nettamente distinte; 2) non esiste sempre un rapporto di corrispondenza tra i gruppi e le culture, e non è sempre possibile una descrizione completa e incontestabile della cultura di ogni singolo gruppo. È pertanto fondamentale evitare ciò che Benhabib definisce una “sociologia riduzionista della cultura” (Benhabib 2005:22), essenzializzando la cultura in modo da rendere ogni gruppo etnico o razza chiaramente e nettamente distinguibile (Benhabib 2005).

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Introduzione

zionali, o perché la loro interpretazione stravolge in parte o totalmente il significato in genere ad essi attribuito. Si potrebbe obiettare al presente lavoro di essersi mantenuto su un piano più astratto e filosofico, che giuridico e storico. Come si apprenderà poco alla volta, tuttavia, il tema dei diritti umani non può prescindere dalla visione che l’uomo ha di se stesso e dal suo rapporto con il gruppo più o meno esteso di cui è parte. È proprio una questione di filosofia… Questo studio è “sospeso” nella sua presa di posizione. I diritti umani, infatti, s’ inseriscono in un ampio dibattito alimentatosi nel corso degli anni e strettamente legato al tema della diversità culturale: quello tra anti-relativisti2 e relativisti. Su un piano filosofico potrebbe essere corretto affermare che “universalismo sta a certezza come relativismo sta a dubbio” o meglio che “universalismo sta a stabilità come relativismo sta a desiderio di stabilità” (Remotti 2008). L’anti-relativista, ancorato a dogmi scientifici, religiosi, razionalisti, afferma l’esistenza certa di una natura umana permanente e stabile, e quindi di verità assolute e trascendenti. L’incertezza che nel corso dei secoli sino ad oggi ha accompagnato l’uomo sarebbe imputabile all’ignoranza ed alla superstizione, al prevalere del costume sulla ragione, che impedirebbe a quest’ultima di scorgere la stabilità della natura umana così come la sabbia ricopre la roccia, nascondendola3. Il relativista, al contrario, si chiede come mai tale natura non sia ancora stata scoperta dagli esseri umani, o perché chi pensa di averla trovata non l’abbia ancora esposta in qualche “formula sintetica”, o ancora se la natura umana dichiarata oggi sia la medesima dei pensatori di ieri (Remotti 2008). Secondo Remotti, accanto oppure oltre la natura umana (fattore di stabilità e di ordine), ci deve essere allora qualche altro fattore, che spieghi come mai gli esseri umani abbiano così a lungo brancolato nel buio, si siano lasciati dominare, per quasi tutta la loro storia, dai loro costumi strani e bizzarri, un fattore da cui soltanto alcuni privilegiati (alcuni uomini, alcune società o alcune religioni) sarebbero stati in grado di liberarsi (Remotti 2008:14).

2 Il termine anti-relativista comprende invero un ampio ventaglio di posizioni: universalisti, realisti, scientisti, razionalisti ed altri che con premesse e impostazioni differenti si schierano contro il relativismo culturale.

La metafora, utilizzata anche da Remotti, è presa a prestito da Descartes (1969), (Remotti 2008).

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Diritti Umani e Diversità Culturale

La posizione anti-relativista sembra separare un’umanità illuminata (costituita da chi ritiene di avere scoperto la natura umana) da un’umanità cieca: Vengono fuori due forme di umanità con diversi meriti, privilegi, destini e ruoli gerarchici: gli illuminati possono vantare la loro verità e dunque la loro superiorità a cospetto dell’ignoranza dei non illuminati (Remotti 2008:14).

Restano, tuttavia, aperti molti quesiti: tale verità è davvero stata scoperta? Chi ne è il depositario? Se una civiltà o filosofia ritiene di possederla, perché gli altri non sanno riconoscerla? Se accorressero filosofi, religiosi, scienziati di varie ideologie e formazioni, a chi dovremmo credere? Perché l’uomo nella storia ha preferito seguire i suoi costumi invece della sua natura? (Remotti 2008). Il relativista non nega l’esistenza di un assetto certo e stabile della natura umana, consapevole della brama dell’uomo di raggiungerlo, ma ritiene di non averlo ancora trovato, forse di non riuscirvi mai, o in alternativa che tale natura altro non sia che l’esito di un processo di naturalizzazione dei costumi di ogni società, giungendo così a ritenere che esitano tante nature umane quante sono le società esistenti (Remotti 2008). Quest’ultima ipotesi, particolarmente affascinante, si riallaccia al pensiero elaborato da Montaigne già a metà del Cinquecento. Secondo il filosofo francese, Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine [costume]; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione […]. Ma il principale effetto della sua potenza è che essa [la consuetudine, il costume, dunque la cultura] ci afferra e ci stringe in modo che a malapena possiamo riaverci dalla sua stretta e rientrare in noi stessi per discorrere e ragionare dei suoi comandi. In verità, poiché li succhiamo col latte fin dalla nascita e il volto del mondo si presenta siffatto al nostro primo sguardo, sembra che noi siamo nati a condizione di seguire quel cammino. E le idee comuni che vediamo aver credito intorno a noi e che ci sono infuse nell’anima dal seme dei nostri padri, sembra siano quelle generali e naturali. Per cui accade che quello che è fuori dei cardini della consuetudine [costume, cultura particolare], lo 13


Introduzione si giudica fuori dei cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù (Montaigne cit. in Remotti 2008:20).

L’incorporazione dei costumi sin dalla nascita e la loro condivisione sociale, pertanto, condurrebbero alla loro inconscia metamorfosi in leggi naturali della coscienza e strutture razionali della mente. Il passo successivo di un simile procedimento sarebbe un distacco dai costumi culturali (in antitesi con la natura e la ragione) e la generalizzazione di tali leggi, in un rapporto d’assimilazione o rigetto nei confronti delle altre culture. Tale processo di stabilizzazione, peraltro, non avverrebbe in tutte le culture o non sempre con le medesime conseguenze. La generalizzazione che esso comporta, infatti, potrebbe essere contenuta e limitata oppure massiccia al punto da estendersi all’umanità intera. Quest’ultimo caso si verificherebbe quando il ‘noi’ si elegge a rappresentanza di un’umanità unica ed autentica che pone fuori o contro natura tutto ciò che con essa non si conforma provvedendo ad educarlo o a sterminarlo (Remotti 2008)4. Offrire una sintesi dei due approcci, o modi di percezione, sul piano pragmatico è compito non facile essendo le loro definizioni sovente legate alla retorica e a ripetuti fraintendimenti: la posizione relativista, in particolare, è spesso argomentata criticamente con l’attribuzione di “posizioni di carattere generale, che nessuno in realtà sostiene” (Dei 2008:36) e talvolta è trattata con spregio e sarcasmo5. Definire il relativismo, invero, è opera complessa. Come si chiede correttamente Dei: Quanti casi ci sono di dottrine relativiste esplicitamente sostenute? In antropologia c’è il precedente della scuola boasiana, d’accordo. […] Nessuno dei grandi accusati del peccato di relativismo – da Kuhn a Geertz, da Wittgenstein a Winch – si è mai dichiarato relativista, né lo si può far diventare tale senza una palese forzatura […] del suo pensiero (Dei 2008:35:36). Per un interessante approfondimento, Remotti 2008.

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In un articolo intitolato Relativismo prêt-à-porter Ferraris giunse ad affermare: “Allora uno va in un bar, ordina un caffè, e visto che i prezzi sono definiti convenzionalmente e sono socialmente costruiti (cioè non c’è dentro il caffè qualcosa che ne stabilisce il prezzo), esce senza pagare, dicendo che si tratta di una mera convenzione, di un fatto puramente soggettivo” (Ferraris cit. in Dei 2008:37). Dichiarazione alla quale Dei risponde prontamente: “All’elenco delle accuse al relativismo mancava ancora quella di non pagare il caffè (più comunemente si definisce relativista colui che si adegua agli usi locali, e dunque non solo paga il caffè ma lascia o meno la mancia a seconda che si trovi a Roma oppure a Firenze”! (Dei 2008:37). 5

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Diritti Umani e Diversità Culturale

L’essenza antropologica del relativismo è racchiusa nella semplice e al contempo esaustiva definizione di Abbagnano secondo il quale la condizione per lo studio dei gruppi socio-culturali “altri” dal nostro è […] che si accetti di considerare come “relative” (e non assolute) tutte le culture, ivi compresa la nostra: che si accetti insomma la esistenza di una “pluralità di culture”, e che si adottino gli strumenti concettuali capaci di renderle tutte comprensibili, al di là delle svalutazioni o delle sopravvalutazioni pregiudiziali e non mediate (Abbagnano cit. in Clemente 2008:1).

Tale approccio, tuttavia, ha acquisito nel tempo nuovi significati che lo hanno caricato di un valore etico e dottrinale oggetto di polemiche provenienti da più direzioni, le quali, sebbene lecite, hanno contribuito a destabilizzare un’ampia parte del sapere antropologico, strumentalizzando e togliendo credibilità alla sue prospettive. Secondo Dei il pensiero scientista e quello teocon, in particolare, piuttosto che considerare il relativismo un problema sollevato dal dibattito epistemologico, lo trattano come fosse una dottrina – la cui assurdità fa meglio risaltare le loro convinzioni (la superiorità dell’Occidente e il rifiuto del pluralismo culturale, in nome della scienza della fede in un caso, della fede nella scienza nell’altro) (Dei 2008:42).

Il relativismo è oggi particolarmente osteggiato dal pensiero postcoloniale secondo cui l’enfatizzazione della diversità e dell’incommensurabilità delle culture cela i rapporti di forza e dominio tra esse esistenti (Dei 2008). È indubbio che nelle sue forme più radicali il relativismo culturale abbia sovente rischiato di vedere differenze ove vi sono ineguaglianze sociali o addirittura di produrre ineguaglianze sociali attribuendo differenze (Rivera 2008:21).

Un atteggiamento iper-relativista, peraltro, è sempre inadeguato non solo perché tende ad una sovravalutazione del concetto di cultura, secondo studiosi come Amselle, frutto della logica del potere coloniale (Amselle 1999), ma anche perché rischia d’incorrere in un 15


Introduzione

eccessivo culturalismo, intendendo le culture alla stregua di sistemi totali e non comunicanti. Il relativismo, tuttavia, incontra soprattutto l’opposizione del pensiero conservatore neo-liberista e teocon che vede in esso, e nel multiculturalismo ad esso correlato, una minaccia all’identità culturale e religiosa occidentale. Nel suo obiettivo di dare vita ad un villaggio globale, ad una cittadinanza universale, il pensiero liberale è stato accusato, non sempre a torto, di non saper (o voler) riconoscere la diversità culturale, intesa come resistenza di sistemi particolari di esistenza o convivenza, esaltando l’Occidente come forma suprema di civiltà. Ciò è quanto mai confermato nella politica, tutt’altro che secondaria (sebbene grezza), oggi ampiamente in vigore in Italia e dalle affermazioni dell’ex premier italiano Berlusconi, che già nel 2001 a Berlino dichiarava: Noi dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civilizzazione, un sistema che ha garantito benessere, rispetto dei diritti umani e, a differenza di quanto avviene nei paesi islamici, rispetto per i diritti religiosi e politici. L’Occidente continuerà a conquistare consenso anche se ciò significherà uno scontro con un’altra civiltà, l’Islam, rigorosamente radicata negli stessi costumi di 1400 anni fa (Berlusconi cit. in Aime 2006:39).

Allo stesso modo, nel 2004, l’ex-senatore Pera, in uno dei suoi numerosi attacchi al relativismo6, si chiedeva se fosse possibile dire oggi che il modello occidentale è migliore di quello islamico, come ieri si diceva che la democrazia occidentale è migliore del comunismo (Pera cit. in Aime 2006:38)7.

La “presunzione” del pensiero liberale occidentale ha in tal modo suscitato l’opposizione d’altrettanti universalismi e visioni del mondo alternative che rivendicano pari dignità, rafforzandole nei rispettivi fondamentalismi. La critica teocon si allea a quella scientista, sebbene quest’ultima si basi su presupposti differenti. L’apparente irrazionalità del relativi Per approfondimenti, Pera-Ratzinger 2004.

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Nel dibattito anti-relativista odierno il riferimento all’Islam è frequente e rappresenta l’elemento differenziale rispetto al passato (Dei 2008). 7

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Diritti Umani e Diversità Culturale

smo, infatti, minaccerebbe l’assolutismo della scienza e la sua autorità promuovendo invece percorsi personali trascendenti (dalla magia alle tendenze new age). Secondo Jervis (il quale forse ignora la frequente collaborazione tra antropologi e biologi o scienziati di altro genere), i relativisti, “individui meno inclini a documentarsi” e “più inclini alle polemiche” (Jervis 2005:40), confidano nell’opinione e non nella conoscenza, diffidano della scienza e dell’esistenza di leggi universali in grado di discernere “comportamenti più sani e normali da altri meno sani e meno normali” (Jervis 2005:38), ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ciò che è vero da ciò che è falso. Gli anti-relativisti, al contrario, sono in genere persone altamente istruite e dal profondo senso civico che, dopo un’accurata informazione, indagini e verifiche scientifiche, prendono posizione (Jervis 2005). Stando a Jervis, l’anti-relativista (o realista), spiega che […] la realtà naturale esisteva, con le sue regolarità e le sue leggi, molto prima di venire osservata dall’uomo. Inoltre fa osservare che concetti come “prova” e “verifica” sono talmente validi da costituire il fondamento della vita pratica di tutti […] Su queste premesse egli da più ascolto al parere degli esperti e delle persone istruite che a quello di chi non si è documentato e non dispone di un buon livello di istruzione. Inoltre, sul terreno della vita collettiva, non pensa affatto che tutte le società siano uguali ed è anzi convinto che alcune siano migliori di altre, per cui ritiene che il liberalismo in economia, l’indipendenza della magistratura, la democrazia parlamentare, una netta separazione tra lo Stato e le Chiese e la promozione delle scienze garantiscano, nell’insieme, assetti sociali superiori a tutti gli altri finora escogitati dall’uomo. […] nell’insieme, ciò che il realista sostiene è più fondato e più giusto e vero, di ciò che sostiene il relativista (Jervis 2005:38).

È vero: il relativista concorda con l’idea lévi-straussiana secondo cui una società può apparire stazionaria semplicemente perché la sua linea di sviluppo non significa nulla per noi, non è misurabile nei termini del sistema di riferimento che noi utilizziamo (LéviStrauss cit. in Aime 2006:39).

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Introduzione

Se il criterio di riferimento è quello scientifico o meccanico, infatti, l’Occidente certamente primeggia davanti a società meno sviluppate o primitive. Ma, se il criterio adottato fosse stato il grado di adattamento a trionfare negli ambienti geografici più ostili, non c’è nessun dubbio che gli Eschimesi da una parte, e i beduini dall’altra, si assicurerebbero il primato. L’India ha saputo meglio di qualunque altra civiltà, elaborare un sistema filosofico religioso, e la Cina un genere di vita, capaci di ridurre le conseguenze psicologiche di uno squilibrio demografico. Già da tredici secoli, l’Islam ha formulato una teoria della solidarietà di tutte le forme della vita umana - tecnica, economica, sociale, spirituale -, che l’Occidente avrebbe ritrovato solo recentemente, con taluni aspetti del pensiero marxista e con la nascita dell’etnologia moderna. […] L’Occidente, signore delle macchine, ha consocenze molto elementari sull’utilizzazione e sulle risorse di quella macchina suprema che è il corpo umano. In questo campo invece, come in quello, connesso, dei rapporti tra fisico e morale, l’Oriente e l’Estremo Oriente lo hanno anticipato di parecchi millenni (Lévi-Strauss 2002:26).

Il relativista, tuttavia, non smette al contempo di interrogarsi su elementi apparentemente comuni all’umanità come la mimica facciale, le risa, il pianto, il dolore e le emozioni8. E non solo, il relativismo culturale è per così dire la mossa iniziale […]. C’è ben altro da fare […] che fermarsi di fronte alla molteplicità e alla variabilità delle culture e asserire l’incidenza della diversità culturale, nella condizione umana. […] Cos’altro allora c’è da fare? Risponderei con una parola: tessere, nel senso di collegare, cucire, connettere […]. Individuati alcuni ‘temi’ […] si tratta di vedere come si Il riferimento è a Jervis che afferma: “Qualsiasi antropologo privo di paraocchi, che si fosse seduto per un pomeriggio in uno spiazzo fra le capanne di un villaggio tropicale a osservare i giochi dei bambini, avrebbe visto ciò che anche oggi un qualsiasi viaggiatore occidentale può constatare, magari con sorpresa: e cioè che la mimica, gli scherzi, le risa e i pianti, il “far finta”, il provocare e il sedurre, le manifestazioni di rabbia e quelle di dolore dei piccoli fra i tre e i seisette anni che interagiscono fra loro sono estremamente simili in tutte le latitudini e in tutte le culture” (Jervis 2005:83).

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Diritti Umani e Diversità Culturale presentino variati, simili e diversi nello stesso tempo, in questo o in quel contesto. C’è chi non può sopportare la diversità culturale e allora la riduce a ben poca cosa […]; e c’è chi se ne lascia catturare (Remotti 2008:255).

Il relativista sceglie di occuparsi della diversità come un dato di fatto e non come mero incidente di percorso rispetto alle leggi della razionalità umana che, peraltro, non sempre nega. Viene da chiedersi perché mai “il suo dubitare che la propria forma di vita particolare possa essere assunta a metro di misura universale” (Rivera 2008:21) costi ingiustamente al relativista l’accusa di svendere i propri valori, negare le conquiste dell’ Occidente, rifiutare qualsiasi principio universale, essere scettico o nichilista in campo morale (Rivera 2008). Forse perché, come afferma Remotti, tutti gli antirelativisti di questi nostri anni – non importa se credenti, laici o persino atei – condividono l’idea che a ‘noi’, attraverso la religione o attraverso la scienza, è stata rivelata la verità. Ponendo in luce una molteplicità di vie, di soluzioni, di forme di umanità, il relativismo diviene lo spauracchio che si aggira nella cultura europea, che incrina la fiducia in ‘noi’ stessi, che induce l’Europa (‘noi, moderni, occidentali, scientifici e cristiani’) ad abdicare al proprio compito storico. Qui ormai non si fa più distinzione tra chi crede e chi non crede: l’importante è stare tutti dalla stessa parte, cioè la difesa arcigna, senza tentennamenti, senza ‘se’ e senza ‘ma’, di un ‘noi’ che si differenzia da tutti gli altri e che ritiene di avere un compito storico ‘universale’ da svolgere nel mondo (Remotti 2008:256).

Tuttavia, come altrove riscontriamo cattiveria e stoltezza, “sarebbe riduttivo e folle pensare che la saggezza abiti solo qui da ‘noi’ ” (Remotti 2008:261). L’indeterminatezza dei suoi contenuti (o la sua errata comprensione), nonché l’incapacità diffusa di distinguere l’attivismo militante dalla ricerca e dalla conoscenza antropologica, conduce oggi il relativismo ad essere strumentalizzato, accusato di ingenuo realismo ma anche e soprattutto d’agnosticismo, quando non addirittura di depravazione! Nei discorsi di alcuni è forte, infatti, la tendenza a con19


Introduzione

siderare il relativista senza valori etici. La sua propensione all’analisi dei fenomeni a 360 gradi e a mettere in discussione gli apparati concettuali, lo espone di frequente all’accusa di appoggiare le più atroci manifestazioni di brutalità umana. Il suo umile dichiarare che tutto è relativo lo porta ad essere superficialmente accusato delle peggiori nefandezze, considerato filo-fondamentalista, sostenitore della Germania nazista o del cannibalismo. Questo, tuttavia, si deve più all’ipersemplicità con cui il relativismo è sovente trattato che alla realtà delle sue premesse. Questo lavoro vuole evitare simili accuse. Esso riconosce nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo il prodotto d’una specifica esperienza politica e culturale, perfezionatasi in Occidente, ed in particolare nel suo pensiero liberale, o socialdemocratico liberale (sebbene oggi i diritti umani ricorrano come strumento di persuasione nella retorica di tutti gli schieramenti politici)9. Esso ritiene, tuttavia, riduttivo ed insoddisfacente analizzare il tema dei diritti umani in modo tanto antitetico, soprattutto alla luce delle interpretazioni dogmatiche che i due orientamenti sono venuti oggi assumendo: universalismo come ideologia assolutistica ed etnocentrica delle gerarchie cattoliche e della destra americana con la sua dottrina della superiorità della civiltà occidentale, e relativismo come nemico assoluto dell’umanità, accettazione radicale ed incondizionata d’ogni manifestazione culturale, comprese le più “spregevoli”. Vorrei tentare, al contrario, di riconoscere una parte di merito ad entrambe le “posture” (Rivera, 2008:22), e le loro possibili connessioni a prescindere dalle attuali e non sempre corrette estremizzazioni: non vorrei escludere pertanto la possibile esistenza di verità a-storiche ed universali, ed il contemporaneo riconoscimento della varietà delle forme di vita. Con questo studio, infatti, tento di indagare l’eventualità di un punto d’accordo tra entrambe le prospettive e la possibilità di elaborare un approccio che valorizzi tutte le culture senza rinnegare totalmente l’idea di un progetto politico universale, sul quale peraltro sembra esserci ancora molto da fare. Lévi-Strauss sembra scettico di fronte ad una simile prospettiva e sostiene che non sia possibile 9 L’analisi delle astensioni dal voto alla Carta, dei successivi dibattiti inerenti i valori asiatici ed africani, dell’emanazione di numerose Dichiarazioni regionali, evidenziano le peculiarità degli elementi liberali, più o meno espliciti, contenuti nella Carta stessa, dimostrandone una volta di più la specificità.

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Diritti Umani e Diversità Culturale simultaneamente sciogliersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui, e restare diversi. La comunicazione integrale con l’altro, se pienamente riuscita, condanna a breve o a lunga scadenza l’originalità della sua creazione e della mia (Lévi-Strauss 2002:79).

Allo stesso tempo, tuttavia, egli riconosce come compito principale dell’etnologia contemporanea la scoperta delle leggi d’ordine dell’attività umana, quelle che invarianti attraverso le epoche e le culture, potranno permettere di scavalcare l’antinomia apparente tra l’unicità della condizione umana e la pluralità apparentemente sconfinata delle forme sotto cui la percepiamo (Lévi-Strauss 2002:94).

Allo stesso modo Geertz sembra non escludere tale possibilità confidando in una negoziazione delle differenze che possa condurre a delle unità (Geertz 1999). È possibile, dunque, elaborare una politica mondiale che potremmo definire del contratto, o per non essere tacciati di occidentalismo, del negoziato? È possibile sostituire al concetto d’umanità comune quello di comunità umana? A tal fine, l’universalità potrebbe divenire il contesto e lo strumento della negoziazione delle singole identità che compongono la comunità umana, ciò che fino ad ora non sembra essere stato. Se, infatti, i diritti umani oggi in vigore fossero l’esito di un reale confronto, non si spiegherebbe la delegittimazione ed il loro non riconoscimento da parte e nei confronti di una componente elevata della popolazione mondiale. Essi peraltro, emblema della ragione pubblica, continuano a rappresentare il luogo ideale del dialogo tra culture: dialogo che, tuttavia, necessita di metodologie nuove che vadano oltre gli stereotipi, e soprattutto di approfondimenti e traduzioni in termini familiari di esperienze e modi di sentire (prima che di lessici giuridici e scientifici), poiché il tema dei diritti umani non può prescindere dalla visione che l’uomo ha di se stesso. Approfondimenti che, pur rischiando di essere superficialmente tacciati d’insensibilità, cecità, agnosticismo o depravazione, non devono sottrarsi al loro importante compito. Un approccio non convenzionale alla questione relativismo/universalismo, rende possibile ipotizzare l’idea di una natura universale, di cui le culture esprimono differenti punti di vista? 21


Introduzione

Un’ultima nota in ordine alle traslazioni contenute in questo volume. Larga parte della bibliografia, prevalentemente in lingua inglese o francese, non ha traduzioni italiane ufficiali (salvo taluni documenti giuridici). Pertanto, tutte le citazioni di testi, manifesti, convenzioni e articoli, di cui non è riportata in nota la fonte di trasposizione ufficiale o maggiormente affidabile, sono tradotte in italiano dall’autore.

Sono numerose le persone che hanno contribuito in questi anni alla mia crescita culturale. Spero, tuttavia, di non fare torto a nessuno se mi limiterò qui a ringraziare solo coloro che mi hanno sostenuta in questo lavoro. Innanzitutto Leonardo Piasere per avere ispirato la mia ricerca con i suoi seminari e testi10 e per avermi assistita, prodigo di suggerimenti, nella stesura dell’intero manoscritto. Lyda Favali per la fiducia e per l’incitamento a intraprendere gli studi in antropologia. Marcello Flores, Maurizio Bettini e Pietro Clemente per gli spunti di riflessione offerti durante gli studi di dottorato. Gli amici e colleghi, fonte inesauribile di stimoli e di confronto. I miei cari e Tommaso per l’incoraggiamento e la pazienza. Dedico questo libro a Marika, sempre al mio fianco. V. in particolare Piasere 2010.

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