Viaggio nel tempo

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Introduzione Un pensiero, un’idea, una sensazione: quando arrivano non puoi far finta di niente e girarti dall’altra parte. Così è successo questa volta, così è successo altre volte. Ma quando vengono, questi momenti, ti riempiono il cuore e l’anima. Non perché sei convinto di aver scritto un capolavoro. No, questo proprio no, non è questo lo scopo della scrittura. Lo scopo della scrittura, al di là di quello che c’è dentro, intorno, sopra sotto, rimane quello di una necessità impellente. Non per dire questo o quello ma, semplicemente, per “obbedire” a qualcosa che dentro ti spinge a fare quello che, appunto, non puoi fare a meno di fare: scrivere e basta! Ancora di più, in questo caso, il piacere nasce da un pensiero, da una sensazione che ti porti dietro da tempo. Senti che prima o poi dovrai “produrre” qualcosa, ma non sai assolutamente cosa verrà fuori. E allora aspetti, aspetti finché arriva il momento… e vai giù, a capofitto, nel gomitolo di pensieri e parole che si ingarbugliano ma che pure senti liberarsi nel modo più ordinato possibile. Sapevi che dovevi scrivere qualcosa, e vorresti che l’esposizione rappresentasse pienamente ciò che sentivi.

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Ma cosa appare alla fine? Non lo so neppure io. Come una madre che partorisce il suo bambino, ho partorito i miei pensieri, e non mi importa se siano belli o brutti, come una madre accetta il suo bambino senza riflettere sulla sua bellezza: l’importante è che goda buona salute. Ecco, per me solo questo conta: che i pensieri espressi godano buona salute, e per quanto possibile siano piacevoli e interessanti da leggere. Se poi lasceranno nel lettore anche qualche sensazione profonda, come quelle che hanno ispirato le mie parole, tanto meglio. In ogni caso il mio “lavoro” l’ho fatto, e sono perciò contento di aver ubbidito alla mia ispirazione. Del resto non potevo fare altro. Come introduzione non potevo trovare parole più adatte. Non le ho scritte io ma ne condivido il contenuto, le ha scritte un mio amico che si chiama Di Cicco. Mi regalò un suo libro di poesie e questa ne era l’introduzione. Ciò che mi accingo a scrivere rispecchia perfettamente le parole scritte dal mio amico, non potevo non scrivere ciò che voleva essere scritto. Poco importa se l’aspettativa che ha prodotto la forza di questa bella introduzione verrà in parte disattesa da quanto seguirà. Vorrei ricordare che per scrivere un libro, o anche qualcosa che gli somigli, non è indispensabile essere uno scrittore, come per cantare una canzone non è necessario essere un cantante, e così via. 6


L’importante è di non prendersi troppo sul serio, e di rendersi conto all’incirca delle proprie capacità. Fatto questo siamo liberi di esprimere ciò che sentiamo dentro di noi, e la via è libera a tutti. Di solito l’introduzione non gode il favore dei lettori, si tira dritto all’inizio del libro. Spesso aiuta a comprendere meglio la lettura, perciò dopo aver terminato un libro io ho preso l’abitudine di rileggerla. L’introduzione è un po’ come l’indice, non si sa se la collocazione più giusta sia all’inizio o alla fine; in effetti chi scrive o, come nel mio caso, tenta di scrivere un libro, l’ultimo capitolo è rappresentato proprio dall’introduzione, in cui il tentativo è quello di far comprendere, e di comprendere a propria volta il lavoro svolto.

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Moretti Emanuele. - “Manuelo” 8


Ricordi... Spesso mi trovo a ricordare degli episodi o racconti vissuti e sentiti in famiglia, in particolare durante l’infanzia. Un po’ per un fatto personale di cercare di rivivere quel tempo passato e quasi riascoltare certi avvenimenti, ma anche per proporlo e lasciarlo come ricordo ai miei nipoti o a chi abbia voglia di dare un’occhiata indietro, non troppo vicino, ma nemmeno troppo lontano, cercherò di ricordare e raccontarne una parte. Forse la bilancia penderà dalla parte di mio padre, non per un fatto di parzialità, ma perché penso che certi episodi o avvenimenti si prestino meglio al racconto; anche se mentre sto scrivendo queste prime righe non so di preciso cosa racconterò, che non è il frutto di appunti, ma quanto mi tornerà in mente giorno dopo giorno, dopo che avrò pensato e ripensato, o chiesto se me ne capiterà l’occasione. Potrei raccontare tantissime cose di mia madre, ricordi e insegnamenti, facili da ricordare, ma in certi casi difficili da esprimere, una vita in apparenza semplice e normale, che era invece molto dura e piena di sacrifici. Una vita meno movimentata di quella di mio padre, non certamente più tranquilla o priva di problemi, come per tante persone di quel periodo; Moretti Maria Rosolinda Italina, “Italina”, nata il 18 dicembre del 1910, e vissuta sempre a Beverone, quarta di sette sorelle. Mio nonno materno, Emanuele Pietro Enrico, “Manuelo”, nato nel 1877, morì nel 1931 a 54 anni di età, per una broncopolmonite trascurata e per le troppe fatiche. Mia madre a volte ricordava che quando venne il medico a visitarlo, rendendosi conto della situazione disperata, lo rimpro9


Una parte della famiglia Moretti. In alto a destra la nonna Paolina. verò bonariamente dicendogli “Manuelo, Manuelo!”, sottintendendo che se si fosse riguardato un minimo forse ci potevano essere delle speranze. Così quell’uomo forte, che aveva cercato di tirare avanti con tutte le sue energie la numerosa famiglia di sole donne in un podere a mezzadria, terminava le sue fatiche ancora giovane, ed ora le sue figlie dovevano prendere per forza la loro strada. La madre con le giovani figlie, anche se alcune lavoravano come degli uomini, non sarebbero state in grado di tirare avanti il podere, anche perché quasi tutte si sarebbero sposate e quel nucleo famigliare sarebbe diventato sempre più piccolo. Il podere poco dopo la morte di mio nonno, suppongo nel periodo in cui si faceva il cambio dei poderi, i primi di novembre, passava di ma10


no, e forse il peggio sul momento penso che sia toccato alla moglie, mia nonna Paolina. Mia nonna paterna, Amabile Pesalovo di Beverone, era andata in sposa a Dante Antognelli di Villa di Tresana, e piÚ precisamente del Dobiale. Per un certo periodo abitarono nel comune di Tresana, e poi in quello di Terrarossa. La famiglia di mio nonno Dante era composta dai genitori, Costantino Antognelli ed Enrica Bellavigna, e da otto figli, mio nonno Dante, Samuele, Zefferino, Sofia, Teresa, Leopolda, Marianna ed una sorella che morÏ a diciotto anni mentre al lavoro nei campi, in un’estate molto calda, ma di lei non si ricorda il nome.

Nonna Amabile e nonno Dante

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Una volta io e mio padre andammo da Beverone a Villa, avevo nove anni, quattro ore a piedi, per le antiche strade ancora utilizzate: Saldino, Borseda, Debeduse, Villagrossa, Prede Bianche, Ortigaro, Camporella, Villa, o come si usava dire più semplicemente “Di là dal monte”. Mio padre nacque il 17 agosto del 1913 a Tresana, primo di tre fratelli maschi. Non erano anni particolarmente felici, stava per arrivare il flagello della prima guerra mondiale, ed un altro ancora peggiore in quanto a numero di vittime, da qualche parte ho letto 22 milioni, la “spagnola”. Come non bastasse, in quegli anni era particolarmente attiva la “difterite”, o come la chiamavano in dialetto “mà de grüpu”. Fino agli inizi degli anni ’30 rappresentava una delle maggiori cause di mortalità infantile, poi fu trovata la medicina, ed oggi questo male è quasi debellato in tutto il mondo. Il vaccino trivalente “DPT”che viene fatto ai bambini al di sotto dell’anno di età, comprende difterite, pertosse e tetano. Non fu la guerra, ma queste malattie che si accanirono contro questa famiglia. Nel 1916 per primo morì Luigi che aveva appena un anno, fu sepolto nel cimitero di Terrarossa, ed ancora oggi nel terreno è ancora visibile la piccola lapide. Mio padre andava tutti gli anni per i morti a fare visita al fratellino, ora lo facciamo noi. Il vedere quella data, 1916, non mi è mai sembrata così lontana, quando se ne va un bambino lascia sempre un vuoto particolare. Dopo appena due anni morì mio nonno Dante, quando aveva 39 anni. Era il 1918, ed era la famigerata spagnola. Di mio nonno è rimasto il porto d’armi, con anno di rilascio proprio il 1918, agosto. Fra gli altri dati vi è “di condizione - benestante”, ed immagino non volesse dire che era ricco, ma che non se la passava nemmeno male. 12


Fu sepolto nel cimitero di Villa. In quella situazione fra le cose più importanti da fare non vi era certamente quella di mettere una lapide a mio nonno, che poi mise mio padre molti anni dopo, all’interno del muro di cinta del cimitero appena si entra sulla destra, perché nessuno ricordava dove era stato sepolto. Mia nonna si trovò vedova con due figli a cui pensare, e così ritornò al suo paese natio, nella casa paterna.

Nonna Amabile con il padre Luigi. - “Lüviğetu” 13


Non passò molto tempo, nel 1921 la difterite si prese anche Lino che aveva tre anni, e fu sepolto nel cimitero di Beverone “nato a Terrarossa, di anni tre: il parroco don David Beverinotti”. Ho sentito dire che quando i bimbi muoiono diventano angeli, allora io ho due zii angeli; chissà quante volte mi hanno aiutato e io non me ne sono accorto. Nel corso della vita mi sono successe delle cose, che a ragionarci ho pensato che mi fosse andata proprio bene… o raccomandazione? Non so cosa potesse provare in quel periodo mio padre che aveva solo otto anni, e non posso nemmeno immaginare l’animo di mia nonna che aveva perso il marito e due figli in così pochi anni. La sopravvivenza era legata naturalmente a ciò che si otteneva dai campi, ed era veramente dura. Come un sogno ricordo che mia nonna raccontava di alcuni suoi viaggi “di là dal monte”. I fratelli di suo marito non si erano dimenticati della loro cognata, e per quanto era nelle loro possibilità in qualche modo le davano un aiuto. Era tempi difficili, e durante il percorso non era da escludere la possibilità di fare incontri sconvenienti. Mia nonna era una donna molto forte di carattere, non aveva paura di niente, o perlomeno è quello che si percepiva e che ho sempre pensato. In effetti poi viene da pensare che era così per tutti, o si era coraggiosi o il coraggio ci si faceva venire, altrimenti la vita diventava ancora più difficile. Ad ogni buon conto mia nonna, durante i suoi viaggi “di là dal monte”, portava con sé una specie di spunzone lungo circa due palmi ben appuntito, che ricordo di aver visto e che lei chiamava “stiletto”. Lo “stiletto” lo portava infilato nella crocchia dei capelli, quindi pronto all’uso e a trasmetterle un certo conforto. Avendo conosciuto, anche se da piccolo, 14


le sorelle di mia nonna, la Gemma e la Italina, potrei anche dire che un carattere particolare fra il deciso e il ruvido lo avessero proprio di natura, unito al fatto di quanto le era successo, sta di fatto che il cuore di mia nonna forse si era indurito più del normale. Ma queste sono solo valutazioni mie, dei nostri tempi, mentre forse vedrei le cose in modo diverso se avessi vissuto le sue esperienze. Sta di fatto che anziché trattare il solo figlio che le era rimasto, mio padre, con un minimo di dolcezza, una dote particolarmente poco di moda in quei periodi, era diciamo poco comprensiva e troppo autoritaria nei suoi confronti. Mio padre, attorno ai quindici anni, a causa di questa incomprensione decise di scappare di casa. Dove andare? La decisione era già stata presa: “di là dal monte” dai suoi zii. Unico bagaglio le cose che erano sue: una gallina ed un mandolino. Spiegò agli zii la sua versione dei fatti, e cioè che secondo lui la madre non lo trattava bene, e loro non poterono far altro che accoglierlo con molto affetto. Mia nonna immaginò o forse sapeva dove era andato il figlio, e si vede che una certa discussione c’era stata, sicché informò i carabinieri. Questi di fronte a quel ragazzo, oltre che ad una dovuta ammonizione, ironicamente gli domandarono se credeva di essere già un uomo per il semplice fatto di avere un po’ di peluria sotto il naso. Mio padre spiegò anche a loro le sue ragioni, dicendo che sarebbe ritornato a casa, ma a certe condizioni: essere trattato meglio e un vestito nuovo. Non posso dire se la prima condizione fosse stata rispettata, ma penso che le cose fossero andate sicuramente meglio, visto che mio padre non fece altre fughe da casa, d'altronde come poteva mia nonna non voler bene al suo unico figlio, anche se le risultava difficile 15


Costantino con il vestito nuovo. 16


dimostraglielo; mentre la seconda fu certamente rispettata, perchÊ in alcune vecchie fotografie, quelle che si facevano nei giorni di festa, mio padre indossa un vestito completo a righine. Lo tenne da caro quel vestito, niente di strano in un periodo che erano in pochi ad avere un vestito completo, peccato che aveva il difetto di diventare corto, dato che mio padre cresceva ed il vestito era sempre quello. Immagino, anche se non lo posso dire con certezza, che per accondiscendere alla seconda condizione di mio padre per rientrare a casa, venne in aiuto di mia nonna il cognato Samuele che faceva il sarto. Per tornare brevemente al mandolino, mio padre in seguito, assieme a due paesani, chitarra e violino, animarono anche delle feste da ballo nei paesi vicini. Per ottenere un certo effetto scenico, mio padre a volte lo suonava mettendolo dietro la schiena; e noi, quando negli anni ’60 abbiamo visto nascere i complessi con le chitarre elettriche, pensavamo che fosse tutta una nostra invenzione,

Gruppo di beveronesi con i suonatori di 17


e che dire poi dei virtuosi che si mettevano la chitarra dietro le spalle! Mio padre aveva un forte legame con i parenti di Villa, tutti gli zii e i cugini erano molto affezionati al loro parente che era andato ad abitare “di qua dal monte”. Di questo me ne accorsi di persona, perché anch’io sono sempre stato accolto con tanto affetto ogni volta che sono andato a fare una visita in quei luoghi. Anche se non espresse mai questo desiderio, quando morì lo portammo nel cimitero del suo paese natio, quello di suo padre. Non posso parlare di tutta la vita di mio padre e mia madre, non ne sarei in grado e non fa nemmeno parte del mio scopo, mi basta ricordare alcune delle cose più particolari o significative, e quanto detto giusto per dare un’idea del prima che si sposassero. Erano giovani quando decisero di sposarsi, ma anche questa come tante altre cose, è una valutazione dei nostri tempi, allora a quell’età erano ben più maturi, era proprio un fatto di esperienze di vita. Mio padre aveva vent’anni, mentre mia madre ne aveva ventitré. Si diventava maggiorenni a ventun anni, quindi mio padre non lo era, e per sposarsi serviva l’autorizzazione dei genitori, cioè di mia nonna. Per lei non era ancora il momento che suo figlio si sposasse, e non gli concesse il permesso. Mio padre per aggirare l’ostacolo si inventò una scappatoia: andò dal prete, quel don David Beverinotti ricordato prima, e gli espose il suo problema. La sua fidanzata era incinta, volevano sposarsi, ma la madre non gli voleva concedere il permesso. Vista la situazione il parroco disse che se ne sarebbe occupato lui, ed arrivò la sospirata autorizzazione. Però, dopo qualche mese, quando il buon parroco si 18


accorse che la sposa non era incinta, prese mio padre e gli fece una bella ramanzina. La nostra casa, prima che vi si stabilissero i miei genitori, era una stalla. Era, come è ancora, su due piani. Al piano terra le cantine, o come si dice in dialetto “fundeghi”, e al primo piano una grande cucina con due piccole camere. Inizialmente non fecero il solaio, che fu fatto per la prima volta di “faesite”, una specie di cartone pressato, attorno agli anni ’60. Si vedevano le tegole e i travicelli, con la leggera luce che trafilava fra le tegole a seconda dell’orario del giorno, cioè dell’inclinazione del sole. Quando grandinava era un divertimento raccogliere i chicchi ghiacciati che riuscivano ad insinuarsi nelle piccole fessure delle tegole e cadevano nel pavimento di tavole. Le tegole erano state comprate usate, e tutt’oggi, a parte le poche che si sono rotte, anche per avervi camminato sopra per lavori, sono ancora al loro posto. Anche per il gabinetto, come per il solaio, si dovette aspettare l’avvicinarsi degli anni ’60. Non so perché, ho tanti ricordi, ma fra questi, per quanto mi sforzi non riesco a ricordare il disagio della mancanza del gabinetto, si vede che eravamo talmente abituati che non lo sentivamo un disagio, ma una cosa normale. Per povera che fosse, e comunque esclusa la casa dei Beverinotti, quelli che erano più benestanti, non penso che le altre fossero meglio, la casa c’era, ma era anche costata dei soldi, e si era reso necessario fare qualche debito. Niente di che, era una cosa normale, avrebbero pagato un po’ per volta. A volte a sentir raccontare certe cose sembra che non siano vere, anche perché siamo abituati a fare i confronti con la nostra realtà, ed è difficile anche capire o provare ad immedesimarsi nell’avvenimento. 19


Mia madre era incinta, non so di quanto e non ricordo se di mia sorella o mio fratello più grande. Andarono con mio padre a Levanto a comprare un maialino da allevare. Si vede che più vicini non se ne trovavano, o forse lì c’erano a miglior prezzo; e perché anche mia madre, e non solo mio padre… domande. Non serve una risposta ai fini del racconto. Comprarono il maialino, ed insieme ad esso anche un fiasco d’olio, forse un omaggio in aggiunta all’acquisto fatto. L’olio allora era prezioso, come condimento a Beverone si adoperava quasi esclusivamente il lardo di maiale, prezioso e utile anche il maiale. Il percorso non poteva essere che: Stadomelli, Memola, Pignone, Levanto. Grosso modo un buon camminatore di oggi penso che impiegherebbe non meno di quattro ore, per l’andata. Tornarono a Beverone, con il maialino dentro un sacco in spalla a mio padre, e mia madre con il fiasco d’olio, non so se altro. Prima di andare in casa misero il maialino nella stalla, mentre nel frattempo il fiasco dell’olio era stato appoggiato in uno scalino della scala che portava in casa. Nel vederli tornare, un gatto che era sopra il terrazzino, forse spaventato dal loro movimento, scappò velocemente urtando il fiasco che… si ruppe. Penso che fosse sempre di quel periodo un altro racconto che mi fece mia madre. Non ricordo il perché o il percome, ma un giorno mio padre e mia madre andarono all’isola Palmaria perché erano venuti a sapere che c’era la possibilità di prendere un buon podere a mezzadria, e non so nemmeno se mia madre fosse particolarmente entusiasta di quella idea, perché nonostante la vita dura lei ha sempre avuto un forte legame per il suo paese. 20


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Questa buffa fotografia l’ho presa lo stesso giorno che ho preso l’altra. Siamo tutti quelli del distretto di Massa che ci siamo trovati tutti qua al 18° reggimento. Come vedi siamo 21, ma 20 ci siamo rimasti, e quello che faceva 21 è proprio il trombettiere che c’è rimasto mezzo.

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Andavano per vedere e non a lavorare, quindi mia madre si vestì con il miglior vestito che aveva, immagino che vestito di lusso possa essere stato, certamente l’unico per la festa. Arrivati a Portovenere andarono in barca alla Palmaria, dove erano ad aspettarli i proprietari del podere. Voglio ricordare che mia madre era nata a Beverone, e il suo lavoro era stato esclusivamente quello di pastora, contadina e da poco mamma. Era giovane, e nonostante quel misero vestito faceva anche la sua bella figura, troppa bella figura. I proprietari, non so se direttamente a loro due o all’eventuale intermediario, dissero che quella signora era troppo bella, non poteva essere una buona contadina, e visto che eravamo in luogo di mare, è proprio il caso di dirlo, l’affare non andò in porto. Mio padre fu chiamato alle armi alla fine di settembre del 1935, nei fucilieri del 18° reggimento bersaglieri, a Milano. No so se tutto il reggimento, ma la sua compagnia si muoveva in bicicletta. Erano biciclette che non foravano mai perché avevano le gomme piene, il pignone della ruota posteriore era fisso, se la ruota girava lui girava, quindi occorreva pedalare in continuazione. Potevano essere ripiegate in due per trasportarle in spalla, ed erano robuste ma molto pesanti. Mi capitò di vedere come erano fatte ad una mostra, in cui era esposta anche quella di Enrico Toti, eroe nella prima guerra mondiale, che siccome era senza una gamba aveva un solo pedale, e confrontando la loro fattura mi accorsi che in quasi vent’anni di migliorie ne erano state fatte ben poche. I ricordi del periodo militare nei bersaglieri sono un paio di foto, e il racconto di una visita che la sua compagnia fece ad Alfredo Binda, famoso campione di ciclismo, 23


che contento per la visita di questi bersaglieri ciclisti, non potendo ospitarli tutti in casa, cosa che toccò al solo capitano e immagino a pochi altri, disse loro di prendere qualche grappolo d’uva dal piccolo vigneto che aveva, forse un piccolo orto. Il risultato fu che quell’anno Binda fece a meno di vendemmiare, il lavoro l’avevano già fatto i bersaglieri. Non so se mio padre fece tutto il periodo del militare a Milano, perché ho dei confusi ricordi, forse una parte la fece vicino casa e non tutti i giorni. Mia sorella Adriana aveva appena due anni, inoltre mio padre era figlio unico di madre vedova; non so se per il primo motivo o per il secondo, comunque fu congedato nel luglio del 1936; congedo illimitato. Siccome sto parlando di cose e di un periodo in cui non ero ancora nato, per riordinarmi le idee ora farò un salto di tempo in avanti, per poi tornare di nuovo indietro. Quando nel 1961 finii le scuole elementari avevo dieci anni; non per una mia scelta cosciente, ma più per quella dei tempi che stavano cambiando, mi trovai ad essere il primo, non solo della famiglia ma anche del paese, a frequentare le scuole medie, a Brugnato. Mio padre trovò due stanze in affitto a Rocchetta che furono la nostra casa durante la settimana. I primi anni non c’era ancora la strada carrozzabile e nemmeno l’automobile, il lunedì giù per la Selva del Monte Nero e il sabato percorso inverso e ritorno al paese. Non ricordo di aver avuto difficoltà per il mangiare, la casa o il viaggio, però mia madre e il mio paese un po’ mi mancavano. Finite queste andai alle superiori a Spezia, cambiando casa per24


lomeno ogni paio di anni. Il fatto era che mio padre non avrebbe potuto abitare in un appartamentino in città, sia per un fatto economico che per il modo di vivere, era abituato in campagna e dopo il lavoro di ufficio gli piaceva il lavoro dei campi. Era il periodo che i terreni anche vicino alla città venivano abbandonati, si potevano trovavano case con terreno annesso a poco prezzo. Mio babbo si buttava di buona lena a ripristinare i campi abbandonati, i proprietari tornavano e vedevano il lavoro fatto, immancabilmente se ne venivano fuori con un “Antognelli, i terreni sono belli, (dopo che li aveva risistemati lui) qualcosa le rendono, e sarebbe il caso di aumentare l’affitto”. Mio padre sapeva parlare, ma in quei casi era di poche parole: arrivederci e ricerca di una nuova casa. Tutti quegli anni passati assieme, salvo rari episodi sempre noi due soli, parlavamo di tante cose, però mi parlò raramente e solo pochi accenni dei nove anni trascorsi in Africa. Quello che ho sentito raccontare di quel periodo e che in parte ricordo, è stato soprattutto a Beverone, quando i grandi si ritrovavano a veglia in casa dell’uno o dell’altro, ed io avevo meno di dieci anni. Allora, quando non c’era ancora la televisione ed era ancora un divertimento stare ad ascoltare, d’inverno, con i giorni corti e le notti lunghe in circolo attorno alle stufe, i grandi si raccontavano le esperienze vissute, e noi bambini o perlomeno a me succedeva, eravamo talmente presi dai racconti da immaginarsi ed inventarsi i luoghi e gli avvenimenti con la fantasia, al punto che alcuni li ricordo e li rivedo ancora. Solo dopo molti anni ripensando a quei racconti mi è venuto il desiderio di dar loro un ordine cronologico, perché sul momento ovviamente non potevo essere cosciente di preciso di cosa, 25


come e quando quelle cose fossero avvenute. Assieme ai miei ricordi vi poteva essere ciò che aveva scritto mio padre. Fu nel periodo delle superiori che gli venne voglia di scrivere una racconto dettagliato del periodo trascorso in Africa. Munito di macchina da scrivere, enciclopedia e tanta voglia si mise a scrivere. Dopo pochi anni, terminate le scuole e il militare gli chiesi a che punto era; mi rispose che aveva avuto un ripensamento. Mi spiegò che non voleva crearsi problemi, perché lui non poteva che scrivere ciò che aveva visto e vissuto, ma forse non era ancora il momento di sapere certe cose, e dato anche che nonostante ritenesse di essersi sempre comportato correttamente, qualche problema nel passato lo aveva avuto, pertanto non voleva crearne né per sé né per la sua famiglia a causa di ciò che pensava di scrivere, anche se in buona fede. Mi disse di aver bruciato tutto, però poi trovai le prime pagine de “Le mie memorie”, in cui per la verità non c’era scritto niente di particolarmente sconveniente; il racconto, che avrebbe dovuto abbracciare un periodo di nove anni, si interrompe appena dopo la partenza, alla fine del viaggio dal porto di Napoli a quello di Massaua, e l’inizio del viaggio in treno alla volta di Asmara. In seguito riporterò alcuni tratti di queste poche pagine. Tornando al periodo successivo al congedo, il 1936, penso che trascorsero circa tre anni di vita relativamente normale per quei tempi. Poi avvenne che mio padre decise di partire per l’Africa. Per diversi anni non mi ero mai posto l’interrogativo del perché vi fosse andato, pensavo al fatto della guerra, avevo sentito i racconti, e basta, tutto lì. 26


Dopo diversi anni mio fratello Lino che, anche se aveva solo due anni di più sapeva molte cose della vita più di me, mi spiegò che mio babbo non era stato consigliato per niente bene. Gli fu detto che avrebbe potuto pagare in poco tempo i debiti che aveva fatto per farsi la casa, però doveva andare per un periodo in Africa. Sottinteso che non si parlava assolutamente di guerra, ma di lavoro, e si capisce anche dalle brevissime memorie di mio padre in cui disse che lasciava la vanga per il piccone, con l’aggiunta di un fucile, per azioni di semplice sorveglianza. Il cattivo consiglio stava nel fatto che forse questi incaricati per i reclutamento di operai-soldati qualcosa su cosa sarebbe potuto accadere la dovessero immaginare, e magari non era opportuno fare questo tipo di proposta ad un uomo come mio padre, con una famiglia e la madre vedova. Sono i ragionamenti del dopo, poiché nessuno può sapere cosa sarebbe successo se questa scelta non fosse stata fatta, forse poteva andare anche peggio. Mio padre quindi pensò così di sistemare i problemi economici arruolandosi per l’Africa, l’Africa Orientale. Si pensava che in quelle terre servivano dei coloni, alcuni italiani vi si erano già trasferiti, altri ne sarebbero serviti per migliorare le loro condizioni e quelle dell’Italia. Sta di fatto che partirono con certe motivazioni e presupposti per trovarsi poi in situazioni per niente desiderate.

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Mamma, babbo, Adriana. 28


Mamma, babbo, Nello. 29


Beverone 1940.

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Il periodo storico Per meglio comprendere gli eventi, penso che sia opportuno farsi un’idea di quel periodo storico facendo un breve richiamo ad alcune date e cosa accadde. Nel 1935 inizia l’invasione italiana dell’Etiopia, che si conclude con l’entrata delle truppe in Adis Abeba nel ’36. Vittorio Emanuele III viene proclamato imperatore d’Etiopia. Il primo settembre del ’39 la Germania occupa la Polonia. Francia ed Inghilterra dichiarano guerra alla Germania dopo due giorni. Nel ’40 la Germania si annette Norvegia, Belgio, Danimarca, Olanda e Lussemburgo. Sempre nel ’40 l’Italia dichiara guerra a Francia e Inghilterra. Le truppe tedesche entrano a Parigi, l’Inghilterra resiste nonostante i massicci bombardamenti. Nell’agosto del ’40 le truppe italiane invadono la Somalia britannica. Agli inizi del ’41 le truppe inglesi passano alla controffensiva in Africa settentrionale con risultati alterni. Fra aprile e giugno del ’41 gli inglesi conquistano Massaua, l’Amba Alagi, L’Asmara e Adis Abeba, che erano in mano all’Italia. Il forte Toselli cadde il 15 maggio, l’Amba Alagi si arrese il 19. 31


Verso la fine del ’42 la famosa battaglia di El Alamein, vinta dagli inglesi contro italiani e tedeschi. Otto settembre 1943 caduta del fascismo, resa incondizionata dell’Italia agli alleati. Dovrà passare tutto il 1944 ed arrivare il venticinque aprile del 1945, perché le truppe tedesche in Italia si arrendano agli alleati. Attorno alla metà del 1945 incominciarono a rientrare i primi uomini dai campi di prigionia, i rientri si conclusero nel ’47, mio padre fu fra gli ultimi. Io sono nato nel 1951, non è una notizia storica particolarmente importante, ma solo per ricordare che le cose raccontate avvennero prima della mia nascita.

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“ Le mie memorie “ Non so le date precise, ma la partenza per l’Africa ebbe inizio con un raduno a Orvieto da cui, prima della partenza, fece ritorno a casa, i primi di maggio. Nella sua breve assenza Nello, che aveva compiuto da poco un anno, incominciò a fare i suoi primi passi, e mio padre fece in tempo a vederlo camminare prima di ripartire. Ora cercherò di sintetizzare le otto pagine rimaste da “Le mie memorie”. In esse, che per mio padre rappresentavano solo l’inizio di un lungo racconto, si perse molto nella spiegazione geografica, aiutandosi con un’enciclopedia, con lo scopo penso di capire meglio le caratteristiche ed i nomi precisi dei luoghi dove si era venuto a trovare. “Già dal 1935-36 l’Italia occupò l’Abissinia, che di fatto divenne Africa Orientale Italiana. La guerra era finita già nel ’36, ed ora serviva un’opera di bonifica e ricostruzione”. Questo è l’inizio del racconto, la motivazione per cui furono inviati in Africa. Il 9 maggio ’39 giunsero a Napoli, tutto il battaglione al completo, cioè compagnia comando più altre tre compagnie. Il giorno 10 partirono sul piroscafo Ogaden, la compagnia comando, la prima e la seconda compagnia. Per mancanza di posto la terza compagnia, di cui faceva parte, attese un nuovo imbarco che fu il giorno 14. Trovarono posto in una motonave che trasportò la loro compagnia, duecento uomini, e molte giovani spose con relativi bimbi, che andavano a raggiungere i propri mariti o padri che si erano stabiliti in Africa per lavoro. 33


Si era imbarcata anche una compagnia di varietà che si esibiva dopo cena portando un po’ di allegria ai viaggiatori. Stando così le cose era evidente che si aspettavano di trovare ambienti tranquilli con scarsi rischi, come forse poi fu nei primi periodi. “All’atto della partenza, sia noi militari che le giovani spose con i propri figlioletti, eravamo assiepati in coperta per ricevere gli addii e i saluti che la popolazione del luogo già da alcuni anni era soggetta porgere, sia ai partenti che a chi rientrava. Bellissima la visione, direi straordinaria, per chi come me si trovava per la prima volta sopra una nave in partenza, nel vederci allontanare dalla terra ferma, dal grandioso panorama che ci presentava il porto di Napoli. Dapprima abbiamo d’innanzi una grandissima Napoli, poi pian piano questa rimpicciolisce sempre più, finché rimane un piccolo punto, sempre più piccolo, fino a scomparire del tutto. Al vederci allontanare dalla terra ferma si prova un certo senso che non trovo vocabolo adeguato per definirlo; dolore, sgomento, paura, abbandono, tristezza, non saprei che altro. Fatto si è che dal sorriso che era sul viso di tutti al momento della partenza, a pochi minuti di distanza ci guardavamo l’un l’altro negli occhi, silenziosi, non una parola, gli occhi lucidi, poi gli sguardi si abbassarono, ed era giunto il momento come si suol dire “ognun per se e Dio per tutti”. Il giorno dopo si fermarono a caricare frutta nel porto di Messina. Arrivarono al porto di Massaua il 19 maggio, dopo cinque giorni di navigazione. Qui sbarcarono, mentre li attendeva un trenino che li avrebbe portati ad Asmara, ad un’altezza di 2400 metri per 120 chilometri di ferrovia, per circa quattro ore di viaggio. E qui finiscono anche le pagine che scrisse mio padre. 34


I primi due anni di Africa Le “Memorie” di mio padre terminano con l’arrivo al porto di Massaua e con il trasferimento in treno ad Asmara, il 19 maggio 1939. Ho letto un po’ di storia riguardo ai rapporti e ai conflitti che vi furono fra l’Italia e quest’area, l’Africa Orientale. Ho compreso meglio come si era arrivati a quel periodo, con l’alternarsi degli avvenimenti ho avuto le mie sensazioni, ma non ho ricercato ragioni o torti, non era questo il mio scopo; però il tutto mi ha aiutato a sentirmi più vicino a quello che stavo scrivendo. Pur non essendo in grado di dire con precisione tutti i luoghi in cui si trovò mio padre, o i percorsi compiuti, con l’aiuto del poco che è scritto sul retro di alcune fotografie, consultando l’atlante geografico e Internet un’idea ci si può fare. La prima data che ho trovato, dopo quella del 19 maggio, l’arrivo a Massaua, è il 25 luglio che è in una fotografia in cui è riportato anche il luogo “Corbetà - Zona Galla”. Questa località si trova a sud del lago Tana, da cui nasce il Nilo Azzurro. Prese il nome dal luogo di provenienza dei primi coloni, una cittadina della Lombardia, Corbetta, inizialmente fondata come accampamento militare. In etiope il nome divenne K’orbetà, ed ecco scoperto perché mio padre scrisse Corbetà. Raccontava che lungo le sponde del Nilo il terreno era particolarmente fertile, tanto che si potevano avere anche due raccolti in una sola stagione. Naturalmente si riferiva al Nilo Azzurro, che scorreva poco lontano da Corbetà. Ovviamente questo fenomeno positivo, quando avviene in modo regolare, vale per tutto il Nilo, la cui superficie 35


di terreno coltivabile si amplia man mano che gli affluenti ne aumentano la portata. In una lettera di mio padre, fine anni ’70, fra cose di altro genere disse che il primo anno che era stato in Africa, era trascorso fra altopiano e bassopiano etiopico, con lunghi giri d’ispezione, incolonnati, per tenere sotto controllo il territorio e quelli che per loro erano ribelli. Scrisse che percorsero oltre tremila chilometri, forse arrotondando per eccesso, spesso senza fissa dimora, dormendo sotto le tende issate lì per lì. Ricordavo di queste perlustrazioni, ma non di così tanti chilometri, e non le ricordavo raccontate come particolarmente faticose e nemmeno pericolose, però, non di rado qualcheduno della retroguardia, se rimaneva attardato troppo dalla colonna, una fucilata poteva prenderla, e il suo destino era in mano alla mira di chi aveva sparato. Altre volte era successo che il colpo della fucilata non lo aveva sentito nessuno, ma la solita retroguardia tornava con un uomo in meno, probabilmente vittima di un agguato silenzioso. Dopo un certo periodo, dato che veniva dalla campagna e le bestie le sapeva trattare, gli fu assegnato un mulo, bianco. Forse i giri d’ispezione diventarono meno faticosi, ma al termine della giornata, prima del rancio doveva sistemare prima il mulo, sia come strigliatura che come foraggiatura, poi veniva lui. Trovarono il modo di dedicarsi anche all’agricoltura, cioè l’orto, e di questo spedì a casa una bella fotografia. Occorre aprire una breve parentesi per le fotografie. Queste era utilizzate oltre che per l’immagine di per se stessa, anche per scrivervi dietro. Erano scritti controllati prima di essere spediti, sopra recavano la data nel modo in cui si usava nel periodo fascista, cioè l’anno riportato era in numeri romani, in progressione dal periodo dell’i36


nizio del potere di Mussolini. Inizialmente non riuscivo a capire questo modo di indicare gli anni, poi per intuizione lo compresi ed in seguito ne ebbi conferma. Nel nostro calendario contiamo gli anni dalla nascita di Gesù, ed ora c’era chi li voleva contarli dal momento in cui iniziava il suo potere. Venivano scritti con numeri romani seguiti da “E.F.” quindi il numero di anno in cui ci si trovava dall’inizio dell’era fascista. Poi scoprii che Mussolini ad avere questa idea non fu nemmeno il primo. Sarebbe lunga la lista di chi ha avuto manie di grandezza, e che avrebbe voluto essere il più grande della storia. Le cartoline che mio padre spedì dall’Africa furono conservate da mia madre a Beverone; alcune furono spedite da mia madre a mio padre, ed evidentemente visto che ci sono ancora significa che fecero lo stesso percorso di mio padre, un po’ di guerra, sette anni di prigionia ed il rientro dal Sud Africa. Inizialmente erano state incollate in un album, poi quando mi accorsi per caso che sul retro di una c’era scritto, guardai anche le altre. La scoperta era che le vecchie foto occorre guardarle sempre anche nel retro. Poco dopo un anno che mio padre era in Africa si fece crescere la barba. Questa caratteristica, unita al fatto che aveva imparato il dialetto del luogo, fece si che nei villaggi venisse visto con un certo rispetto, quasi fosse un personaggio importante, e così il comandante lo impiegava come tramite per scambi o acquisti di vario genere. L’ultima fotografia che riporta il nome Corbetà è datata dicembre 1939. Dopo questa, se ne trova una del giugno’40 in cui nello sfondo si vede il forte Toselli. L’ultima fotografia in ordine di tempo è del primo dicembre ’40. Mentre osservavo la carta geografica ho trovato di37


versi nomi che non mi giungevano nuovi, fra questi il forte Macallè, però per ora la memoria non mi ha suggerito nessun ricordo. Ci sono un paio di episodi che ai tempi in cui vennero raccontati era come vedere un film, e visto che li ricordo bene forse furono raccontati anche più di una volta. Racconto del primo serpente: la compagnia quel giorno stava facendo un giro di perlustrazione, ad un certo punto chi comandava la compagnia decise per una sosta. In tre di nascosto, compreso mio padre , andarono in cerca di un corso d’acqua così da poter rinfrescarsi in qualche pozza. Facendo questo avevano disobbedito all’ordine di non separarsi mai dalla compagnia, esponendosi ad agguati. Trovarono un piccolo laghetto, ma bisognava saltare giù da una roccia, e fra quella boscaglia non si riusciva a vedere se ci fosse qualche pericolo. Decisero chi dovesse saltare giù per primo, fucile in pugno. I due rimasti sulla roccia, uno era mio padre, videro l’amico saltare, toccare terra, sparare un colpo a bruciapelo e cadere, capiranno dopo, svenuto. Questi dopo racconterà che appena toccato il suolo vide sotto la roccia “due lanterne”, e la cosa che gli venne istintiva fu quella di spararvi contro un colpo, poi il buio. Le lanterne erano gli occhi di un grosso serpente che, forse nascosto strategicamente sotto la roccia in attesa di qualche preda assetata, colpito mortalmente dalla pallottola “dum-dum”, incominciò a dimenarsi tutt’intorno, insanguinando anche la pozza d’acqua. Va specifi38


cato che la pallottola “dum-dum” ha la caratteristica che appena colpisce si frantuma in molti pezzi, quindi anche se non viene colpito un punto vitale, gli effetti sono comunque devastanti. Era stata inventata dagli inglesi, e vietata dalla Convenzione di Ginevra dopo la prima guerra mondiale. Poi la storia ci ha insegnato e ce lo ricorda anche attualmente, che i trattati vengono disattesi tutti i giorni, con l’aggiunta che più andiamo avanti e sempre maggiori sono i danni causati dalle armi vietate o consentite. Passato il pericolo e saltato il bagno rinfrescante, decisero di portare il serpente alla compagnia. Date le dimensioni faticarono non poco, utilizzando opportunamente un palo di legno sopra cui lo legarono. Una parte del serpente fu cucinata, e ne bastò per tutta la compagnia; dissero che era molto buono. Il comandante non li punì, ma tenne per se la pelle del serpente, che poi mandò a casa. Racconto del secondo serpente: un mattino dei soldati sentirono in lontananza una serie di “ooop! … ooop!” ma sulle prime non gli dettero molta importanza. Dopo un po’ di tempo gli “ooop! … ooop!” continuavano, con un ritmo più lento del precedente; incuriositi decisero, mio padre compreso, di andare a vedere cosa stesse succedendo, verso la direzione da cui provenivano questi “ooop! … ooop!”. La scena che si presentava era che un negro si difendeva a bastonate da un grosso serpente: il serpente riceveva una bastonata da una parte e cascava, si rialzava e attaccava, ma ne riceveva un’altra dall’altra parte, e il negro per non perdere il 39


ritmo della lotta ed anche per farsi coraggio, si aiutava con questi “ooop! … ooop!”. Ormai il serpente era esausto, ma anche il negro. Un soldato si incarica di sparare al serpente, con attenzione, quando l’animale è fermo e non sia nella traiettoria del negro. L’animale colpito a morte cadde, come cadde anche il negro, come se fosse colpito anche lui, ma era solo sfinito. Forse questa storia aveva un seguito, riguardo all’utilizzo del serpente come nell’altro racconto, od anche del negro contento per il pericolo scampato, ma nella mia memoria termina con i due contendenti che terminano la battaglia cadendo entrambi. Trascorso questo primo anno relativamente tranquillo, rispetto a ciò che doveva avvenire, arrivò il secondo che lo fu molto meno. Riferendosi ai cenni storici riportati in precedenza, immagino che la situazione peggiorò alla metà del ’40, per poi precipitare sul finire dello stesso anno. Ripercorsero ancora molti chilometri a piedi, poi l’ultima fotografia come già detto del primo dicembre 1940. Disse che gli fu chiesto di arruolarsi nei “lanciafiamme”, forse nel dettaglio non conosceva bene di cosa si trattasse, ma istintivamente rifiutò. Si trovò in mezzo alla guerra vera, come fuciliere gli fu affidata una mitragliatrice la cui canna veniva raffreddata ad acqua. Interrompo brevemente il racconto per una breve precisazione: naturalmente sto raccontando i ricordi di tanti anni fa, avrò commesso degli errori, ma ho voluto scrivere così come ricordavo, e non dopo le ricerche che facevo strada facendo. Rileggendo, in questo passaggio mi sembra opportuno inserire che, alla luce delle varie ricerche di cui parlerò in seguito, risulta che dall’11 giugno all’8 aprile 1940 risultò vera operazione di guerra. 40


Del periodo di guerra vera e propria, il solo ricordo che ho è che occupavano e difendevano una posizione che dominava una valle, e venivano attaccati dal basso dalle truppe inglesi. Gli attacchi avvenivano di notte, povera gente che andava a combattere contro altra povera gente, ondate di uomini che andavano all’attacco incuranti di essere falciati, mio padre diceva che erano di varie nazionalità. Gli inglesi impiegavano soldati delle loro varie colonie, qui vi erano molti indiani. Per dargli maggior coraggio usavano ogni mezzo, erano ubriachi, forse anche qualcos’altro, addirittura alcuni cantavano, attaccavano a ondate, i “bengala” rischiaravano in parte la notte, un bene e un male per entrambi. Non ho mai sentito dire a mio padre cosa succedeva nel dettaglio. Per alcune notti resistettero a queste inesauribili ondate, poi forse fu mandata un’ondata più numerosa e furono presi prigionieri dagli inglesi. Riferendomi ad una fotografia in cui mio padre era di guardia al forte Toselli, e non conoscendo la data in cui fu fatto prigioniero, pensavo che si trattasse di quella che è ricordata come la seconda battaglia dell’Amba Alagi, “Il forte Toselli cadde il 15 maggio, l’Amba Alagi si arrese il 19, dell’anno 1941”. Più avanti vedremo che questa era un’ipotesi sbagliata, poiché mio padre fu fatto prigioniero l’8 aprile a Massaua, ma lascio questa citazione perché questa è storia, e comunque in questi luoghi mio padre vi trascorse qualche periodo. A questo punto erano trascorsi circa due anni dalla partenza dall’Italia, ma ne dovevano passare ancora altri sei prima di ritornarvi.

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Ricordo di Corbetà 25 luglio 1939 A. XVII E.F. Zona Galla. Ti invio questa fotografia , dove siamo in tre e formiamo il terzillo di tre corpi e un’anima sola. Siamo tre ammogliati, quello di sinistra è di Genova, quello di centro di Spezia, quello di destra sono io. Ci siamo conosciuti a Orvieto e abbiamo la fortuna di non essere mai stati separati uno dall’altro. Tutt’oggi siamo assieme nei conducenti. Ci amiamo e ci aiutiamo scambievolmente. Ti bacio, tuo sposo A. C. In alto: “Sempre uniti A C. M M. L G”. 42


Corbetà 25 luglio 1939 A. XVII E.F. Zona Galla Questo caro ricordo lo invio ai miei cari figlioletti. Ho la scimmietta in testa ma è un peccato che non si conosce. Crescete buoni piccini cari, che il vostro papà continuamente vi pensa e vi sogna. Con la piena speranza di conservarci da ambedue le parti in buona salute, e così arrivare a quel giorno non molto lontano, di baciarvi e abbracciarvi paternamente, affettuosamente vi bacio. Vostro papà A. C. 43


Il giorno del suo ventiseiesimo compleanno spedÏ due fotografie uguali: una per i figli e una per la moglie. In basso è il retro della prima.

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Ricordo dell’Africa Orientale Italiana nel giorno del mio compleanno 16 agosto 1939 A. XVII E.F. Zona Galla Ti invio a te cara sposa questo mio caro e sincero ricordo preso nel giorno del mio compleanno. Come saprai oggi stesso ho compiuto il ventiseiesimo anno di età, e per grazia di Dio oggi stesso è venuto sua eccellenza il generale Muratori a passarci una rivista. Quindi abbiamo fatto festa, così ho potuto festeggiare il mio compleanno. Questa fotografia l’ho presa nell’orto in mezzo all’insalata e i fagioli. Ti noterò che oggi per pranzo me e quei due compagni che ho già ricordato, abbiamo mangiato una quarantina di uccelletti presi ieri. 45


Caro sposo, ti mando questa piccola fotografia, spero la gradirai volentieri. L’ha presa il compare il giorno ‘29. Non siamo rimasti tanto bene, io sono rimasta scura, ma te sarai contento lo stesso. Siamo nella scaletta di casa, i bambini sono belli, ma qui non li sono rimasti, beh pazienza. Italina 46


Ricordo d’Africa Orientale Italiana 28 sett. 1939 A. XVII Sono rimasto scuro per il sole africano. Gli abissini festeggiano il Marascal che è come la Pasqua, il caldo è già qualche giorno che si fa sentire. A quanto dicono i mesi più caldi sono dicembre e gennaio. Anche lì quei mesi sono caldi? Saluti e baci a te e piccini, tuo aff.mo sposo A.C. 47


CorbetĂ 1 ottobre 1939 A. XVII E.F. Zona Galla Ti invio questo caro ricordo dove sono assieme al mio amico di Spezia. Saluti e baci a te e piccoli, tuo aff.mo sposo Costantino. 48


CorbetĂ ottobre 1939 Riceverai questo ricordo dove sono assieme a parecchi compagni. Riceverai i piĂš fervidi e sinceri salutissimi e bacioni a te e bambini. Tuo aff.mo sposo Costantino.

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Ricordo d’Africa 20 dicembre 1939 A te cara mamma e a Voi caro nonno invio i piÚ affettuosi salutissimi e bacioni. Mi dico tuo aff.mo figlio e Vostro aff.mo nipote Antognelli C. in segno di sincero affetto. 52


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Ricordo d’Africa 20 dicembre 1939 A voi cari piccini assieme alla cara mamma invio i più cordiali e affettuosi salutissimi e bacioni in segno di sincero affetto. Vostro aff.mo papà e tuo aff.mo sposo. Antognelli Costantino. 54


Ricevi un ricordo da tua madre e i suoi due nipotini a lei tanto cari.

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Africa Orientale Italiana In segno di affetto invio a te e al Nonno questo mio ricordo. Buone feste. Saluti e baci sinceri, aff.mo A.C. 56


Ricordo dell’A. O. I. li 10 giugno 1940 A. XVIII E.F. Invio a te e al nonno questo mio ricordo, in segno di sincero affetto, tuo figlio Costantino. 57


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Cosa accadeva in Italia… cioè a Beverone? I primi tempi che mio padre era in Africa, mia madre, penso ogni mese, andava a Rocchetta a ritirare il sussidio, cioè quanto spettava a mio padre, che salvo per poche cose indispensabili, utilizzava per finire di pagare il materiale e i lavori fatti in casa. Poi le cose cambiarono e questi soldi non arrivarono più, immagino poco dopo, se non subito dopo, l’inizio della seconda guerra mondiale. Risparmiando fino all’ultimo centesimo mia madre pagò tutti i debiti, ma aveva pur sempre due bambini da allevare oltre a se stessa, e le braccia a disposizione erano solo le sue, altri potevano aiutarla ben poco, altri ancora, sua madre compresa, avrebbero avuto a loro volta bisogno di essere aiutati. Niente di nuovo in tutto ciò, libri su libri e qualche programma televisivo spiegano dettagliatamente quanta fatica occorreva per guadagnarsi il pane. Peccato che questi ricordi non riescano ad insegnarci un gran che, ma forse è normale, forse le cose per comprenderle bisogna viverle. Nel 1940 venne a fare scuola a Beverone una maestra di Sarzana che si chiamava Carla Fiori. Giusto l’anno in cui vi fu la dichiarazione di guerra. La conobbi, e mi raccontò tante cose di quel periodo, fra le quali ricordava di una donna con due bambini che aveva il marito in Africa. Pensava di fermarsi a Beverone per alcuni anni, vi si era trovata molto bene, e a più di 95 anni di età ricordava questo luogo e le persone con affetto. Insegnò nel nostro paese solo un anno, perché vinse un concorso e ritornò nei suoi posti, a Luni. Per poter ritirare a Rocchetta lo stipendio che le spettava come insegnante, 60


le fu consigliato di prendere la residenza a Beverone, e ricordava ancora che con lei i beveronesi erano 77; da un ricordo il censimento di quell’anno. Quando si organizzarono i partigiani per un certo periodo Beverone fu sede della terza compagnia, al comando di Amelio Guerrieri. Anni dopo i paesani ricordavano questo nome, come pure alcuni ex partigiani si ricordavano di Beverone, ed alcuni di loro ritornarono a far visita al paese e a cercare qualche ricordo. Fortunatamente all’interno del paese non avvennero combattimenti, solo uomini che si nascondevano dai rastrellamenti dei tedeschi, a volte con dei risvolti anche comici; naturalmente visti oggi con i pericoli scampati. Un paesano, poco più che un ragazzo, fu preso in uno di questi rastrellamenti, ma le due sorelle coraggiosamente, incuranti di ogni sorta di pericolo a cui potevano andare incontro, andarono al comando tedesco dove era stato portato e tenuto prigioniero, e riuscirono a farlo liberare. Ci fu chi si nascose nella porte opposta al paese del monte della chiesa, alla “Tana”. Alcuni, anche di paesi vicini, si nascosero nel Monte Nero, ringraziandolo ancora a distanza di anni. Durante uno di questi rastrellamenti, proveniente da Stadomelli e che transitava per Beverone, mia madre si trovava a Stadomelli con Nello che aveva circa sette anni. I tedeschi dissero a mia madre che con il rastrellamento in corso non poteva rientrare a Beverone, ma lei lassù aveva una figlia di quasi dieci anni, Adriana, e non voleva lasciarla sola fino al giorno dopo. Allora le dissero di accodarsi a loro, a debita distanza.

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Fortunatamente non incontrarono partigiani con il rischio di scontri, ed arrivarono a Beverone che era quasi notte. Qui si infilarono un po’ in tutte le case, compresa la nostra, e anche se non fecero prepotenze un po’ di timore lo portarono. Mia madre ricordava che in casa, appoggiato da qualche parte, e data l’occasione pericolosamente in vista, c’era un pezzo di stoffa di seta; parte di un paracadute che gli alleati usavano per mandare rifornimenti ai partigiani. La seta di questi paracadute era preziosa, e in quel periodo di miseria tornava utile per qualche indumento, però averla in casa poteva far pensare di aver un certo tipo di relazione con i partigiani. Mia madre era preoccupata per questo fatto, era stato uno dei suoi pensieri lungo il viaggio in salita verso il paese, però appena entrò in casa mia sorella Adriana la rassicurò, nonostante fosse ancora una bambina aveva intuito questo pericolo e la stoffa l’aveva ben nascosta, forse sotto della legna da bruciare. Nonna Amabile, Nello, Adriana.

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La prigionia Non posso dire con precisione il percorso che fece mio padre da quando fu fatto prigioniero in poi, certamente in quelle famose serate a Beverone attorno alla stufa lo raccontò, ma io ricordo molto poco, forse perché erano episodi che catturavano meno di altri la mia fantasia. Ho provato a fare qualche ricerca per tentare di comprendere meglio il periodo e gli avvenimenti. In queste ricerche mi sono imbattuto anche in un diario di un ex prigioniero che mi è stato di aiuto, di cui riporterò qualcosa in seguito. Mentre leggevo le varie notizie trovate mi sono accorto di ricordare molti anche se piccoli particolari, e tanti elementi si collegano. Tengo a dire, ripetendomi, che non mi interessa una cronologia dettagliata e precisa, ma un semplice ripercorrere tutti i ricordi e gli avvenimenti, riportando il nome dei luoghi, non preoccupandomi più di tanto di eventuali errori. Mio padre raccontava di lunghe marce, altopiano e bassopiano etiopico, tanti non resistevano a quelle condizioni climatiche, anche per la mancanza di cibo, e a volte passò la sua razione di cioccolato per dare un po’ di energia a qualche giovane in difficoltà. Non tutti sopravvissero alle dure condizioni climatiche e alle fatiche. Apro una breve parentesi per dire che sono sicuro di questo breve ricordo, ma non lo sono della sua collocazione temporale. Il dubbio mi è venuto per via del cioccolato, perché mi sembra strano che gli inglesi ne dessero a dei prigionieri appena catturati. Però ho voluto scriverlo ugualmente, sia che fosse del periodo in cui faceva63


no i lunghi giri d’ispezione, sia che fosse del periodo in cui furono fatti prigionieri; per una forma di rispetto anche del più piccolo ricordo, naturalmente piccolo oggi da seduto, ma diverso provando ad immaginare quegli uomini, in zone desertiche, con acqua e cibo razionati, e trovare un po’ di forza con un quadretto di cioccolato. Il porto da raggiungere più vicino alla zona in cui fu fatto prigioniero penso che fosse Massaua, però suppongo che fosse inagibile a causa delle molte navi italiane affondate all’interno di esso. Ancora oggi abbiamo dei dubbi su come andarono certe cose, ma allora a livello di informazione doveva essere proprio un caos. Dicevano che nel porto di Massaua c’erano stati dei traditori perché molte nostre navi erano state affondate, e non dai nemici. In seguito si dirà che la motivazione fu che nell’imminenza della sconfitta, per non far cadere le navi in mano nemica furono autoaffondate. Qualunque porto fosse, prima, nelle vicinanze di essi, i prigionieri vennero raggruppati in campi provvisori. Apro una breve parentesi per un episodio avvenuto in questi campi. Per il fatto che mio padre era in Africa, la maggior parte di quanto gli era dovuto veniva corrisposto a mia madre in Italia, come racconto da un’altra parte. Anche a mio padre in Africa veniva corrisposta una parte di stipendio, probabilmente per le piccole spese. Forse aveva fatto dei progetti su come utilizzare questi soldi. Ho uno di quei ricordi che non si sa se sono stati un sogno o un racconto lontano. Forse mio padre disse che spese i suoi risparmi per comprare qualche focaccia, ma fu così? Nel suo diario l’ex prigioniero, che pressappoco fece il percorso di mio padre, ricorda che quando furono fatti prigionieri, i primi giorni furono raggruppati 64


in campi privi di tutto, recintati da reticolato. Naturalmente e comprensibilmente, con le dovute riserve, gli inglesi non erano organizzati per quella situazione, e chi era dentro quei recinti i primi giorni fece la fame, come se non fosse bastata quella per arrivarvi. Attorno a quei reticolati la gente del luogo, in cambio di soldi o altro, portava qualche panino o focaccia locale. Il prigioniero del diario scambiò il suo orologio con dodici panini ogni mattino, per quattro giorni, che poi divise fra le dodici persone di cui era composta la sua tenda. Per analogia mi sono fatto l’idea che i risparmi di mio padre furono barattati con qualche focaccia. Se fosse andata così non si pensi che quel venditore sia stato particolarmente disonesto, perché vi fu anche l’inflazione, per cui i soldi di mio padre persero quasi tutto il loro valore. Strategicamente i prigionieri dovevano essere portati il più lontano possibile dai campi di battaglia, così dal porto del raggruppamento, con un lungo viaggio utilizzando navi da carico furono trasportati nel porto di Durban, in Sud Africa, per essere poi trasferiti nei vari campi di prigionia. Dal diario già ricordato si nota che quel viaggio durò circa un mese, e chi lo scrisse era partito dal porto di Alessandria. Racconta che il periodo che va da quando furono fatti prigionieri, al viaggio, all’arrivo nei campi di prigionia, dal punto di vista fisico, fu particolarmente molto duro, al limite della sopravvivenza. È narrato l’episodio di un prigioniero che morì il giorno dell’arrivo a Durban, perché un soldato inglese, incaricato della distribuzione del pasto al loro arrivo, composto da un bicchiere di latte e una galletta biscottata molto buona, pensando di far bene e visto che avanzava, gli dette un 65


secondo bicchiere di latte. La causa era che lo stomaco e l’intestino di questi uomini si era contratto, e dovettero riabituarsi a mangiare gradatamente. Ho letto che la maggior parte degli italiani fatti prigionieri dagli inglesi nei fronti dell’Africa Settentrionale ed Orientale, fra il 1941 - 42, furono portati nei campi di concentramento in Sud Africa, in particolare nel campo di Zonderwater, mentre gli ufficiali in gran parte ebbero altre destinazioni. In particolare per il campo di Zonderwater ho trovato racconti dettagliati che vanno dai primissimi periodi alla sua definitiva chiusura. La loro lettura come già detto mi ha fatto tornare alla mente tanti particolari, e sempre più mi viene da pensare che quello potesse essere il luogo dove mio padre trascorse quasi sette anni. Al momento racconterò proprio questi brevi ricordi, sperando di poterne sapere di più dopo aver contattato alcuni indirizzi trovati tramite Internet. Erano prigionieri anche dei professori, che organizzarono delle scuole; ho trovato scritto che 9.000 analfabeti impararono a leggere e scrivere. A proposito degli analfabeti racconterò una vicenda che aiuta a comprendere il significato di questa parola, ma non so se la vicenda fosse di quel periodo, o di quando si trovava in Africa Orientale, comunque riguarda un compagno di avventura di mio padre, analfabeta. Quando gli arrivavano le lettere da casa se le faceva leggere da mio padre, però, per far si che mentre leggeva non venisse a sapere gli affari suoi, gli tappava gli orecchi. Mio padre studiò diverse materie e la lingua francese, un po’ più delle attuali scuole medie. La sua calligrafia cambiò del tutto, diventò 66


molto precisa, l’inclinazione delle lettere rasentava la perfezione, non più gli errori elementari che si trovavano sul retro delle fotografie dei primi due anni di Africa. Le lezioni delle varie materie diventarono un libro di circa seicento pagine, rilegato a mano, con cura. Di questo libro riporterò le immagini dei titoli delle materie o argomenti studiati L’inchiostro usato è di vari colori, e mi sembra di ricordare che lo fecero anche artigianalmente. In molti misero a disposizione le proprie conoscenze o arti, e quindi si poteva insegnare o imparare, ricevere e dare in base anche alle esigenze. Mio padre imparò anche a fare il cuoco, e fu un cuoco apprezzato in diversi matrimoni quando, per usanza e necessità, negli anni ’50 i pranzi si facevano ancora in famiglia. Nel libro appena ricordato alla voce “Ricette di cucina” ve ne compaiono ottantaquattro. Le prime notizie uscirono dai campi di prigionia grazie a delle suore in visita ai prigionieri, che per eludere i controlli degli inglesi, si nascondevano i vari biglietti anche fra gli indumenti, per la precisione, intimi. Cosa era scritto nei biglietti di così segreto? Nome e cognome del prigioniero e indirizzo della famiglia a cui comunicare che era vivo. Chi “collaborava” con gli inglesi, cioè faceva dei lavori per loro, sia nei campi che al di fuori, lavorando per fattorie o altro, poteva trovarsi meglio, però non sapendo quale fosse la vera situazione in Italia, c’era il timore di rappresaglie nei confronti dei proprie famiglie. Il susseguirsi degli avvenimenti e stravolgimenti politici creò molto disorientamento fra i prigionieri. A questo proposito va ricordato, che in prigionia qualche notizia di ciò che avveniva nel mondo ed in Ita67


lia la venivano a sapere, ma per rendersi conto di quanto potesse essere incompleta e parziale, basta pensare a quanto non fosse chiaro nemmeno in Italia quanto stava avvenendo. Chi vinceva e chi perdeva, e chi non si rassegnava a perdere, le alleanze, insomma la confusione era molta. Con le varie notizie che non chiarivano come stavano le cose, era difficile fare la scelta che poteva essere più opportuna. Quindi, vedendo le cose da un certo punto di vista, il decidere di cooperare con gli inglesi poteva rappresentare un pericolo, come lo poteva rappresentare se viste da un altro. Ho lasciato per ultimo il ricordo di una valigetta costruita utilizzando la latta dello scatolame, unendo fra loro le varie strisce tramite una cucitura fatta con piccole striscioline della solita latta. E fu anche utile quella valigetta, perché custodì per tutto il lungo viaggio di rientro il libro, un quaderno e le fotografie, oltre ad essere essa stessa una importante testimonianza. Nelle varie ricerche ho trovato scritto che a Zonderwater i prigionieri costruivano valigette con la latta ricavata dallo scatolame: un altro elemento che riporta a questo campo. Riporto una breve spiegazione sull’ubicazione e suddivisione del campo di Zonderwater. La posizione geografica era particolarmente strategica: un vasto territorio, a 43 chilometri da Pretoria, collegato con ferrovia al porto di Durban, ad un’altezza di circa 1.500 metri, molto lontano dai teatri di guerra. Zonderwater “senza acqua - luogo dove l’acqua è scarsa”. Il campo di Zonderwater fu costruito frettolosamente nella primavera del 1941, delimitato con filo spinato, con garrite dislocate ad intervalli lungo di esso dove si disponevano le sentinelle. Probabilmente è stato il 68


più grande campo di prigionia della seconda guerra mondiale. Le prime ondate di prigionieri ebbero come alloggi delle tende coniche, otto per tenda, senza sevizi igienici, senza scarpe e con indumenti laceri. Questo campo, escluso un periodo iniziale, fu diretto dal colonnello inglese Prinsloo, che si fece voler bene e rispettare per la sua umanità. Considerò e trattò i prigionieri italiani come soldati che avevano compiuto il loro dovere, e quindi da rispettare e trattare possibilmente come dettava la convenzione di Ginevra. Quando la guerra terminò, finché visse, fu invitato ad ogni commemorazione che si tiene annualmente ai primi di novembre. Questo colonnello dette fiducia e la possibilità ai prigionieri, tanto che molti si distinsero per la loro abilità, costruendo ospedali, cappelle, campi sportivi, scuole, teatri, poderi dove si produceva ogni genere di frutta e verdura. Dai primi tempi passati nelle tende e senza servizi, il campo fu in breve trasformato, e prese l’appellativo di “Città del Prigioniero”. Rispetto ad altri campi in altre parti del mondo, qui i prigionieri si trovarono a vivere in condizioni abbastanza umane. Vi furono poco più di trecento morti, un numero esiguo confrontato con altri campi di prigionia. Alcuni morirono per le ferite riportate in guerra, altri per malattie o incidenti, ed anche per fulmini cui erano particolarmente soggetti a causa del sottosuolo ricco di minerali. Il campo a regime poteva accogliere oltre 110.000 prigionieri, ed arrivò ad ospitarne oltre 100.000. Era suddiviso in 14 blocchi composti ognuno da 4 campi, per 2.000 uomini ogni campo. Ho letto molte cose sul campo di Zonderwater, e se verrò a conoscenza del luogo dove mio padre visse per sette anni, anche se non fosse stato questo, lascerò 69


comunque queste brevi notizie, per rispetto di chi visse questa dura esperienza e per coloro che hanno fatto si che né fosse mantenuta la memoria. Pensavo che questi avvenimenti fossero dimenticati, o al massimo in un angolo dei ricordi dei pochi ancora vivi o di qualche loro figlio come sono io; invece mi sono accorto di quanto rispetto e vivo ricordo vi sia ancora per questi uomini che dovettero superare prove molto difficili, sia fisiche che mentali. Trent’anni fa mi trovai per lavoro in Africa, cioè in Nigeria. Era lo stesso lavoro che facevo in Italia, un lavoro interessante e non faticoso. Vi rimasi una ventina di giorni, ma fu un’esperienza forte come se vi fossi stato molto di più. Mio padre mi scrisse una lettera, quella di cui ho parlato all’inizio di questi racconti. Rileggendola dopo molto tempo ho capito ancora meglio le parole che mi disse. Ho capito ancora di più che certe cose per comprenderle bisogna provarle. Se mio padre comprendeva che andare in Africa per lavoro, non in guerra e prigionia, anche per un solo mese poteva creare un disagio, allora come si può comprendere il disagio, parola un po’ riduttiva, provato in quel campo o in altri campi dove si trovarono molto peggio, fino ad arrivare a quelli che il solo nominarli mette sofferenza? Queste persone non vennero dimenticate, ed a distanza di quasi settant’anni è possibile trovare ancora molte loro notizie, in particolare grazie all’associazione Zonderwater Block ex POW. È grazie al presidente di questa associazione, l’ing. Emilio Coccia, che ho potuto sapere che mio padre effettivamente fu prigioniero nel campo di Zonderwater. Mi fu dato il suo indirizzo di posta elettronica e inoltrai la mia richiesta. Passarono diversi giorni prima che 70


mi desse una risposta. Anche per questa situazione in seguito mi tornarono in mente i racconti di mio padre. Il Sud Africa si trova circa alla stessa distanza dall’equatore di quanto ci troviamo noi, con la differenza che quando da noi è inverno lì è estate, mentre come fuso orario la differenza è di un’ora. Io lo contattai di dicembre, e in Sud Africa era come noi per ferragosto; io controllavo la posta ma era il periodo delle ferie. Comunque appena rientrato l’ing. Coccia fece un’accurata ricerca e mi fornì i dati che trovò su mio padre, che riporto di seguito. Dalla scheda ospedaliera risultava quanto segue: Antognelli Costantino, nato: 17.8.1913 a Villa di Tresana; Paternità: Dante; maternità: Amabile. Coniugato con Moretti Italina. Ultimo indirizzo: Beverone (La Spezia). Fu catturato il 9 aprile 1941 ed inviato in Sud Africa come POW 280208. Sbarcato a Durban, fu internato a Zonderwater; non risulta essere stato ammesso in alcun ospedale durante tutto il periodo della prigionia. Da altri documenti d’archivio risulta che: fu catturato in zona Addis Abeba (AOI); dal Campo di Zonderwater venne trasferito a quello di Pietermaritzburg per partire da Durban il 18 dicembre 1946, imbarcato per il rimpatrio sulla nave S.S.”Medina Victory”, con destinazione Napoli (circa 18 giorni di viaggio). Non fu tra i cooperatori, non collaborò, e fu quindi rimpatriato con uno degli ultimi scaglioni. Fu fra gli ultimissimi contingenti ad essere imbarcati. L’ultima nave che lasciò Durban carica di Prigionieri di Guerra arrivò in Italia a metà febbraio del 1947. Mi rimanevano dei dubbi sulla data del rientro, per71


ché mio padre diceva “sette anni di prigionia”, e pensavo ad un possibile errore. Ne parlai con il sig. Coccia che mi suggerì di rivolgermi al distretto militare competente, per cercare il foglio matricolare. Cercai a Spezia, poi a Genova, ed infine trovai questo foglio al distretto di Massa, che a seguito di trasformazioni ora è Archivio di Stato. Trovai delle persone molto disponibili che in poche ore trovarono il foglio matricolare di mio padre. Non vi era solo il foglio matricolare, ma anche molti altri documenti interessanti, fra i quali un tesserino scritto in inglese, che immaginai provenire dal campo di prigionia. Poi fra gli altri vi era un “Foglio notizie” prestampato, e compilato nei vari punti da mio padre. Nel riconoscere la sua calligrafia provai anche una certa emozione, ma fra tutte le cose trovate, compresi altri suoi scritti, come la richiesta della croce di guerra, la cosa che più mi colpì, dopo tante ricerche, fu la parola “Zonderwater” scritta dalle sue mani. I dati corrispondevano con quelli forniti da Emilio Coccia, e quindi si confermavano a vicenda. A conti fatti mio padre, dopo i due anni passati in Africa Orientale, in Sud Africa vi trascorse circa sei anni e non sette come io ricordavo che avesse raccontato. Forse la risposta è che certamente quegli anni a lui sembrarono molto lunghi, e li ricordava e contava come si usa dire di “millesimo”, dal ‘41 al ’47. Dopo le varie ipotesi, basate sui racconti e confronti storici, ora sono a disposizione le date e i luoghi. Forse si può pensare che rappresentino solo un piccolo dettaglio, ma per me sono stati importanti, e mi hanno fatto sentire più vicino ai racconti di mio padre. Mettendosi di fronte ad una cartina geografica, tenuto conto della guerra, delle privazioni e dei mezzi a di72


sposizione per gli spostamenti, viene da chiedersi di che materiale fosse fatta quella gente, per poter sopravvivere a tutto ciò. Date e luoghi trovati nelle ricerche in Sud Africa e nell’Archivio di Stato di Massa a questo punto meritano di essere riportati:     

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Mobilitato il 19 aprile ‘39 ad Orvieto. Giunto a Napoli il 9 maggio. Partito da Napoli il 14 maggio ( 136° battaglione ). Arrivato a Massaua il 19 maggio. Le date sopra riportate differiscono di pochi giorni rispetto a quelle del foglio matricolare. Ho preferito riportare quelle che furono scritte da mio padre nelle sue brevi “Memorie”. Fu fatto prigioniero l’8 aprile ’41, a Massaua. Trasferito nel Sudan Anglo - Egiziano il 22 aprile. Partito da Porto Sudan il 19 luglio. Giunto nel concentramento di Zonderwater il 2 luglio ’41 “Prisoners Of War 280208”. Partito da Durban per rimpatrio il 19 dicembre ’46, sulla nave S.S. Medina Victory. Giunto a Napoli il 4 gennaio ’47 e presentatosi al “Centro Alloggio di San Martino”. Concessagli “licenza di rimpatrio” di 60 giorni. Smobilitato e congedato il 4 marzo ’47. Il 10 dicembre 1959 gli venne concessa la “Croce al merito di guerra”. 73


Tesserino del prigioniero di guerra.

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Parte del “Foglio notizie” compilato da mio padre. Data - 27 agosto 1948. Conservato nell’Archivio di Stato di Massa.

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Dimensioni del libro in cm: 21 x 16 x 4

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Il ritorno A parte l’essere a conoscenza che mio padre fosse prigioniero, grazie alle suore che erano riuscite ad entrare nei campi di prigionia, ovviamente mia madre altre notizie non ne aveva. Terminata la guerra le cose cambiarono, qualche lettera poteva circolare, non so con che tempi, visto la distanza, e soprattutto per il mondo in generale, che ne doveva fare di cose per provare a riorganizzarsi. Mia madre sapeva che mio padre era vivo e, finita la guerra, che dalla metà del ’45 alcuni prigionieri stavano rientrando. Trascorso un po’ di tempo si diceva in giro che qualche prigioniero non era rientrato perché si era fermato sul posto, formandosi in certi casi una famiglia, in altri una nuova famiglia. Questo fatto riguardava anche alcuni soldati andati in Russia, e purché fosse un fenomeno molto raro e insolito, comunque accaduto, si era già sparsa questa voce. Apriamo una parentesi su Nello che si era sentito male. Era stato incosciente per quasi venti giorni, e vi fu anche un consulto di medici. Ancora dopo anni mia madre ricordava che uno di essi disse “me nu ghe capissu ninte” cioè, io non ci capisco niente. Poi un giorno il fisico di Nello reagì e pian piano guarì senza medicinali; lui raccontò che si era trattato di una indigestione molto particolare. Dopo questo episodio mia madre scrisse a mio padre, e gli disse pure che Nello stava male omettendo che era guarito, con lo scopo di far rientrare mio padre, nel caso che non rientrasse per sua volontà, e nel caso dandogli uno stimolo. Se ci fossero stati i telefonini sarebbe stato tutto più semplice, e non si sarebbe creato questo equivoco. 83


Il viaggio di rientro “dal sud al nord” per mio padre iniziò sul finire del ’46. Partì dal porto in cui era sbarcato nel ‘41, cioè Durban. Mio padre raccontava che durante questo viaggio l’oceano aveva un’onda lunga che, tanto per fare un esempio comprensibile a chi nell’oceano non c’era mai stato lui così spiegava: un momento ti sembrava di essere dalla chiesa di Beverone, l’altro a Stadomelli, con lo stomaco che non voleva stare al suo posto. Sbarcati a Napoli, dopo tanti anni di nuovo in suolo italiano, non si aspettavano di essere accolti dalla banda, ma non immaginavano nemmeno di dover subire un processo. Più che altro però era una formalità, e qualcuno suggerì loro le cose che dovevano dire. In pratica dovevano dichiarare di non condividere la spedizione in Africa e i motivi, o giù di lì; serviranno diversi anni per capire quella storia, a patto di riuscirvi. La storia è sempre tirata per le maniche, ognuno cerca di far valere le proprie ragioni, normalmente prevalgono quelle dei vincitori; sempre troppo poco viene scritta da chi gli eventi li ha vissuti e subiti in prima persona, sia che si trovasse dalla parte di chi ha vinto o dall’altra. Nonostante che la guerra fosse finita da un bel po’, non ebbero un buon trattamento nel viaggio. Quegli uomini che rientravano, per chi li trasportava, erano gli ex nemici, quindi un po’ per mancanza di organizzazione, e forse di più per mancanza di pietà, a Napoli arrivarono degli uomini molto provati; come lo furono nel viaggio di andata, ma con l’attenuante che in quel caso la guerra era ancora in corso. Mio padre raccontava che dopo sbarcati, trovarono chi offriva “pasta e fasula” a pochi soldi. 84


Il porto di Napoli in quegli anni vide partire e poi tornare molte migliaia di uomini, e l’ingegno dei napoletani si adattava alle varie necessità; un lavoro onesto, con un prezzo giusto per gli acquirenti. Ne mangiò mio padre, forse mangiò anche dell’altro, da rovinarsi lo stomaco, che si rovinò. Ricordando l’episodio del prigioniero che arrivato a Durban morì per un bicchiere di latte e una galletta in più, a lui andò bene. Fu ricoverato in ospedale, ma dopo pochi giorni firmò, uscì e partì per il nord. L’organizzazione era alla “fai da te”, ed insieme ad altri trovarono posto nel vagone di un treno merci. Il fisico malridotto, l’inverno nel pieno del suo vigore e il freddo in quel vagone si faceva sentire. Approfittando di una breve sosta del treno in aperta campagna, scesero e presero un po’ di legna, ed accesero un piccolo fuoco nel vagone. Il pianale però era di legno, magari un legno impregnato che non brucia bene, ma insomma un po’ bruciò, così si presero anche una ramanzina, e soprattutto ritornarono al freddo. Via via che salivano verso il nord scendevano alle proprie stazioni, si salutavano, si sarebbero rivisti? Chissà! Arrivo a Spezia… ultimi saluti… Non ricordo in che modo, se tutto a piedi o in parte su qualche mezzo di fortuna, la tappa successiva era Stadomelli. Era notte e volevano ospitarlo, ma anche con la neve via, su a Beverone. Mi sembra che fosse una notte con la luna, che assieme alla neve dava una buona visibilità, casomai il problema potevano esserlo le gambe. Arrivato in vista di Beverone, dai “cerri” vide un uomo che tagliava delle teste di cavolo; il giorno dopo si parlò di alcuni cavoli rubati, a volte si dice le combinazioni. 85


Ma che fame ci sarà stata per andare a rubare dei cavoli di notte? Ero già grandicello quando mia madre mi raccontò l’arrivo a casa di mio padre. Era notte e a parte quello dei cavoli dormivano tutti. Sentì bussare alla porta, e data l’ora insolita chiese: chi è? La risposta fu: apri che sono tuo marito. Mi è rimasto impresso quello che mi disse mia madre, anzi, ricordo che da come me lo raccontò mi sembrava di vederla, e ancora mi sembra di immaginare quella scena in quella casa di cui ancora non facevo parte. Scese dal letto, e non sapeva nemmeno se i piedi le toccavano terra, quasi che volasse; una cosa semplice, ma mi è rimasta impressa. Erano passati circa nove anni, chissà in quanti li avranno potuti raccontare, anni duri per chi era partito e duri per chi era rimasto; lasciare una figlia di quasi cinque anni e un figlio di un anno, ritrovarli di tredici e nove, anche a riconoscerli non sarà stato facile. Dopo aver salutato la moglie, era il momento dei figli. L’Adriana certamente si svegliò regolarmente, invece per quanto riguarda Nello successe un simpatico episodio. In casa si diceva che dormisse normalmente di un sonno molto profondo, con a volte degli episodi di sonnambulismo, con la sorella che lo seguiva nel suo girovagare per la casa. Dato l’evento provarono a svegliarlo, ma vi riuscirono molto meno che a metà. Visto che l’impresa era ardua avranno rinunciato e si saranno fatti qualche risata. Il mattino seguente Nello, come se niente fosse accaduto se ne uscì con “è mica venuto mio babbo questa notte?” Ricordò di averlo visto rannicchiato nel letto, e gli sembrava diventato piccolo: era ridotto nemmeno quaranta chili di peso. 86


La mamma il mattino dopo dirà ai figli di non dire niente per farlo riposare. Mia sorella andò nel Monte Nero con una paesana, “en tu strenà”, dove la neve si fermava di meno, a fare un mazzo di legna, forse a lei lo disse. Per salutare i paesani c’era tempo. La famosa valigetta di latta, attraverso le varie peripezie era arrivata a Beverone. Immaginavo il suo contenuto: il libro con le varie materie studiate in prigionia, un quaderno con alcuni temi di italiano, le poche fotografie ricevute da casa quando era in Africa Orientale, forse cucchiaio e forchetta di alluminio. Pensavo che fosse tutto qui. Sbagliavo, perché mio fratello Nello ricordava di averla vista aprire quella valigetta, e ricordava il contenuto. Probabilmente il libro, il quaderno e le fotografie erano sul fondo e non si vedevano, mentre tutto lo spazio era occupato da sacchetti di tabacco ben ordinati, e da pacchetti o forse scatole di forma rotonda di sigarette americane, che forse si chiamavano Player Navycut. Questo tabacco non poteva provenire dall’Africa, ma penso da Napoli. A parte il fatto che fumava, altro non aveva da portare. Anzi, a proposito di questo vizio, raccontava che più di una volta aveva barattato una fetta di pane per qualche sigaretta. A proposito delle sigarette devo raccontare un ricordo di Nello. Aveva appena dieci anni, e per capire meglio bisognerebbe tornare in quel tempo. Viste le belle sigarette americane, Nello chiese a mio padre se gliene dava qualcuna. Mio padre rispose che gliene avrebbe data una per domenica, Nello doveva chiederla e lui gliel’avrebbe data, però ad una condizione: non avrebbe dovuto chiederne due. Tutto filò liscio per qualche domenica, poi una domenica Nello commise l’errore chiederne un’altra, e 87


mio padre gliela dette, però la domenica successiva, quando Nello si presentò per la solita richiesta, la risposta fu: ti ricordi quali erano i patti? Me ne hai chieste due, ed ora non te ne do piÚ. Non fu una gran perdita il non ricevere piÚ sigarette, ma fu una lezione che Nello ricordava a distanza di molti anni.

La valigia e particolare di una cerniera posteriore

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Il dopoguerra La seconda guerra mondiale era finita, ogni nazione cercava di curare le proprie ferite. Forse nei paesi il disagio era avvertito in modo minore che nelle città colpite dai bombardamenti. Ma non era solo questo, perché nei paesi la miseria e le privazioni non erano un’emergenza, ma facevano parte della vita. Per chi viveva nei piccoli paesi, ancora agli inizi degli anni ’50, l’essere autosufficienti in “tutto” era la regola. Verrebbe anche da chiedersi come avranno fatto i poveri contadini, durante il lungo periodo della guerra, a sfamare se stessi e tutti i gli sfollati fuggiti dalla città. Nel dopoguerra tanti paesi arrivarono quasi a dimezzarsi per quanti emigrarono alla ricerca di lavoro per migliorare le proprie condizioni. Anche mio padre tentò questa carta e andò a lavorare nelle miniere di carbone nel nord della Francia. In una fotografia è riportata la data, 7 luglio 1949, e il nome del luogo, Hèrin nord, che è nelle vicinanze del Pas de Calais. Sia per il viaggio che per l’inserimento nel lavoro fu avvantaggiato dal fatto che in prigionia aveva studiato il francese, quel tanto che bastava per farsi intendere. Non aveva un fisico possente ma certamente robusto, e fu fra quelli che lavoravano nelle gallerie più profonde, molte centinaia di metri, se non ricordo male attorno agli 800. Non so dopo quanti mesi tornò a casa, con l’intenzione di ritornare in Francia. Le miniere di carbone non erano luoghi di lavoro privi di rischi, non lo sono nemmeno oggi, e per quanto vi potessero essere più o meno dei sistemi di sicurezza, ogni tanto qualche inconveniente capitava. 89


Mia sorella Adriana chiese a mio padre di non tornare in miniera. Non ricordo se perché avesse fatto un brutto sogno o avesse sentito qualche brutta notizia, sta di fatto che lo convinse a restare. All’inizio degli anni ’50, grazie anche agli studi fatti in prigionia, ebbe la possibilità di lavorare a Rocchetta nell’ufficio di collocamento, all’inizio per tre ore al mattino, che poi diventarono sei. Faceva avanti e indietro da Beverone a piedi, per la strada della Selva. Non prendeva un gran stipendio, comunque serviva per integrare il ricavato del lavoro dei campi. Nel 1959 gli arrivò un riconoscimento per il periodo che aveva passato in Africa, cioè la Croce al Merito di Guerra. Se non altro, gli valse ai fini del periodo lavorativo per la pensione, e a fargli chiudere il capitolo del processo a Napoli.

Francia - Hèrin Nord

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7 - 7 - 1949


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Mio fratello Lino - nato nel 1948, ed io - nel 1951. La Croce al Merito di Guerra - 1959.

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Cose che capitano Ogni tanto mi tornano in mente i tempi in cui si tagliava il grano a mano con le falci. Ai giorni d’oggi si notano molte persone compiere lavori, scrivere e via dicendo, utilizzando prevalentemente la mano sinistra, i mancini. Nel passato sembrava un difetto e si cercava di correggerlo, e se torna difficile comprendere la situazione basta provare, per chi è destro, compiere una qualsiasi attività con la sinistra. Tornando al taglio del grano, il collegamento con i mancini è che io ho visto solo falci per destri. La mietitura avveniva nel mese di luglio, e quando il grano era maturo non bisognava stare a dormire, prima il lavoro era fatto meglio era, perché ci poteva essere qualche temporale in agguato, e non era una bella cosa. Quando si poteva ci si dava una mano. Ricordo che spesso mia zia Giulietta, dopo aver terminata la sua mietitura, ci veniva ad aiutare. Era molto svelta, ma i suoi movimenti era uguali a quelli degli altri, quello che cambiava era il quantitativo di grano tagliato, e forse il trucco era che lei riusciva a fare delle fascine molto più grandi di tutti gli altri, risparmiando così il tempo della legatura delle stesse, e questo non perché avesse la mano più grande degli altri, ma grazie all’esperienza unita ad una dote personale nel fare questo lavoro. Ci fermavamo raramente per una pausa, ma non si viveva nemmeno con l’ansia e con la fretta, quello si doveva fare, e quello si faceva e basta. Procedevamo a pochi metri l’uno dall’altro, e normalmente esistevano pochi momenti di silenzio, perché c’era sempre qualcosa da raccontare o ascoltare. 93


Quando si vede un film più volte, può essere piacevole, ma le scene sono perfettamente le stesse, invece una rappresentazione teatrale che non è registrata, presenta sempre qualcosa di nuovo, e quando quei racconti durante la mietitura si ripetevano, erano come il teatro, sempre qualcosa di nuovo che non annoiava. Tutto questo per spiegare meglio quel periodo in cui, pur che la gente lavorasse “come le bestie” e a volte anche di più, perlomeno aveva il vantaggio di vivere con minori ansie di quelle della vita attuale. Non penso che questo fatto sia imputabile a meriti o demeriti, ma probabilmente e più semplicemente è dovuto al periodo in cui ci si trova a vivere. La faccenda dei racconti durante la mietitura non era un episodio isolato ma si ripeteva per tante altre situazioni, e riflettendoci dopo molti anni mi sono accorto che mi ha insegnato un aspetto che ritengo importante per un corretto rapporto di buona convivenza con chi ci vive attorno: saper ascoltare ed essere ascoltati. Purtroppo il tempo della “soglia di attenzione”, cioè quel periodo in cui chi ascolta lo fa con attenzione, diventa sempre più breve, da pochi minuti ad alcuni secondi, fino ad arrivare al voler parlare solo di se stessi, sottovalutando il fatto che gli altri a loro volta hanno la stessa soglia di attenzione. A quel punto, dato che si corre e non c’è più il tempo per ascoltare o per essere ascoltati, c'è’ un’alternativa: scrivere. In questo modo chi scrive può parlare con calma e dilungarsi a piacere, senza sentirsi mettere premura per finire il discorso, e nell’eventualità che qualcuno legga quello scritto, lo potrà fare comodamente nel modo desiderato e nel momento più opportuno. 94


Se chi legge è ancora dentro la “soglia di attenzione” ora racconterò un paio di episodi occorsi a mio padre, di cui non è importante il periodo preciso, comunque negli anni ’60. Ci risiamo… un altro “Viaggio dal sud al nord”. Nel 1961 incominciai a frequentare le scuole medie a Brugnato. In quel periodo a mio padre oltre che l’ufficio di collocamento di Rocchetta venne dato anche quello di Brugnato, un giorno per ufficio. Quando frequentavo la terza media avvenne l’episodio che lui mi raccontò dopo qualche giorno. Si presentarono nell’ufficio due persone che erano perfettamente informate della composizione del nostro nucleo famigliare, di dove e come vivevamo. Conoscevano il tipo di lavoro di mio padre, dato il periodo un lavoro di una certa fiducia, sottoposto a periodiche ispezioni senza mai problemi: la persona che faceva per loro. Gli proposero di fare un viaggio da una non meglio identificata località del sud Italia, ad un’altra del nord, trasportando del materiale sconosciuto. Tutto questo avrebbe fruttato un compenso per cui la nostra famiglia avrebbe potuto vivere comodamente per dieci anni. Mio padre era freschissimo di patente, ed aveva comprato una Dauphine. Mi immaginavo lo strano cofano anteriore, in cui si diceva che per assicurare una maggiore tenuta di strada bisognava mettere un sacchetto di sabbia, pieno di scatole varie, ma soprattutto il compenso. 95


Mio padre rifiutò, e ce ne volle per spiegarmi che molto probabilmente quella non era una storia pulita, e lui poteva essere utilizzato anche come esca. Aveva già rischiato in un precedente viaggio dal sud al nord, quando si era preso una ramanzina per aver quasi bruciato, assieme ad altri, il pianale di un vagone del treno, seppure per scaldarsi dal freddo. Ora era meglio non rischiare di bruciarsi del tutto. Quelle due persone, come all’improvviso era apparse, se ne andarono, e mio padre non li rivide più. Qualche anno dopo avvenne un altro episodio in cui era ancora coinvolta l’automobile. Mio padre stava tornando verso Spezia dopo essere andato a far visita ai suoi parenti di Villa. Lungo la strada vide una signora che probabilmente in difficoltà stava facendo l’autostop. Non c’era da chiedere dove voleva andare, perché di strada c’era solo quella, gli avrebbe detto in seguito dove voleva scendere. Appena ripartito però si accorse che quella signora era leggermente agitata, difatti prese subito una sigaretta dalla borsetta e se l’accese. Durante questa manovra mio padre si accorse che dal braccio della donna spuntavano dei peli da uomo, e così incominciarono ad addirizzarglisi le orecchie. Andava presa una decisione, ma occorreva agire con cautela. Senza farsene accorgere lasciò il pedale dell’acceleratore, finché l’automobile si fermò ed il motore si spense. A quel punto disse dispiaciuto che ogni tanto saltava fuori quel difetto, ma sarebbe bastata una spinta e l’auto sarebbe ripartita, occorreva aspettare che passasse qualcheduno.

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Non poteva chiederlo a lei, una signora non poteva spingere un’auto, e invece “lei” prontamente si offrì per compiere questa manovra. Naturalmente l’auto parti subito, ma mio padre questa volta si guardò bene dal rilasciare l’acceleratore. Sul sedile era rimasta la borsetta della signora, e dentro vi era pure una pistola. A quel punto mio padre andò dai carabinieri a denunciare l’episodio, ed esprimendo anche un po’ di timore nel caso che quella signora lo avesse rincontrato. Non so se per rincuorarlo o perché lo credevano veramente, ma i carabinieri dissero a mio padre: dopo la fregatura che ha dato a quella “signora”, se per caso dovesse incontrarla nuovamente vedrà che si guarderà bene di venirle a chiedere qualcosa.

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Racconto dei sassi Forse per qualche strana ragione mia mamma doveva avere un conto in sospeso con i sassi, o forse più semplicemente una curiosa coincidenza per i seguenti due racconti. Mi rendo conto che non è per niente facile riuscire a trasmettere quel molto semplice modo di vivere. Io penso di essere in grado di comprenderlo perché anche se fuggevolmente lo ho vissuto: il rapporto con il bestiame, i pastori. Si voleva bene al proprio bestiame, ogni animale aveva la propria particolarità, il proprio carattere, ed anche il proprio nome. Normalmente il bestiame pascolava nei pascoli o nei boschi, pascoli anch’essi ma con un quantitativo inferiore di vegetazione perché gli alberi, particolarmente quando sono fitti, tolgono l’aria al sottobosco impedendo una crescita consistente di erba. Poi c’erano i campi, che al di fuori dei periodi in cui erano in produzione potevano fungere da pascolo. Infine c’era una zona di confine, quella nelle immediate vicinanze dei campi. Con il quantitativo di bestiame che c’era in quel periodo i boschi e i pascoli erano particolarmente rasati a zero dai brucatori di erba, ed ovviamente non si escludevano dal pascolo queste zone di confine. Quando il bestiame pascolava in esse era compito dei pastori porre una particolare attenzione agli animali, che attratti da ciò che vedevano nei campi potevano andare a compiere dei danni. Le povere bestie nel vedere dei bei cavoli, un bel campo di grano, di granturco o altro, sentivano l’impulso di dirigersi verso quei facili foraggi, come fossero dei dolci invitanti, ma non ci si faccia impietosire, sapevano benissimo di non farlo, 98


perché ogni volta che provavano a compiere questo gesto non desiderato dai pastori, ne subivano i loro rimproveri, ed in caso di tentativi ripetuti, anche di qualche robusta bacchettata. Arrivando al dunque, un giorno mia madre era addetta al bestiame vicino ai campi, quando un bue voleva compiere una scorreria in uno di essi, nonostante che mia madre lo sgridasse più volte richiamandolo per nome. Il bue per chi non lo sapesse è un toro castrato, e normalmente è docile e ubbidiente, ma quel giorno questo voleva fare come gli pareva. Allora mia madre per farsi capire meglio prese un sasso e glielo tirò addosso. Era un gesto che chissà quante volte i pastori compivano, il lancio del sasso era seguito da un urlo del pastore, poi quando il sasso colpiva l’animale questi normalmente capiva di essere stato individuato a compiere la marachella, e non perché provava dolore ma più per un fatto psicologico, rientrava nei ranghi. Il sasso era piccolo ma la mira precisa, ed il bue colpito nella testa fra le corna cadde a terra stecchito. Mia madre si spaventò non poco, si avvicinò velocemente verso il bue come se potesse prestargli soccorso, sembrava morto, ma dopo pochi istanti si alzò da solo, scrollò la testa e riprese a mangiare l’erba come se non fosse successo niente. Penso che mia madre al quel punto tirò un bel respiro di sollievo, e il fatto che quest’episodio se lo ricordava a distanza di anni voleva dire che una bella spaghetta se l’era presa. Non era finita con i sassi, perché dopo molti anni la vittima, o diciamo il motivo scatenante, anziché un bue fu il sottoscritto.

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A volte ripensando a mia madre non la ricordo che avesse fretta, o che facesse le cose di corsa, però ne faceva tante, direi che si poteva paragonare indegnamente a un motore diesel. Oltre che la casa, i campi, i figli, ed era precisa, forse anche troppo ordinata per i tempi, si occupava della pulizia della chiesa; perlomeno una volta la settimana spazzava tutta la strada del paese, quando era ancora ciottolata. Poi puliva anche il cimitero, cioè vi tagliava l’erba. Mentre una di queste volte lei era intenta a tagliare l’erba con la falce, io come il famoso bue volevo fare qualcosa che non andava fatto. Ero salito sul cancello di ferro e mi spingevo avanti e indietro, e oltre al rischio di cadere provocavo anche un noioso cigolio. Queste ovviamente sono considerazioni che ho fatto dopo, ma li sul momento era un divertimento. Mia madre mi sgridò più volte, ma come per il bue con scarsi risultati. Non ricordo nemmeno uno scappellotto di mia madre, ma forse quella volte dovevo proprio averla esasperata e… mi tirò un sasso. Mi sembra che il tempo torni indietro, quasi quasi ricordo dov’era quando mi tirò quel sassolino piatto, che volò, volò e mi colpì nello zigomo, vicino a un occhio, fortunatamente di piatto. Sono certo che non mi fece alcun male, ma paura tanta, e forse più ancora fu il fatto che il gioco era finito bruscamente. Mi sento colpevole ancora adesso, dalla parte del torto ero passato a quello della ragione, e rivedo mia madre dispiaciuta anche se in definitiva non era successo niente, che non trovò niente di meglio da dirmi di non dirlo a mi padre. Poter tornare indietro e potermi far perdonare, ma certamente non ce ne sarebbe stato bisogno, le mamme… 100


La ricerca Quando ho iniziato a scrivere questi racconti in testa avevo solo l’idea, ma solo una piccola parte di quello che poi ho scritto. Il parlare di quei periodi con alcune persone, oltre che a farmi conoscere degli episodi che non conoscevo, mi ha fatto tornare in mente tante cose che pensavo dimenticate del tutto. Quanto riguarda i quasi otto anni che mio padre trascorse in Africa hanno avuto bisogno di una ricerca a parte. Alcune cose le sapevo ma, oltre che a mettere un po’ di ordine, mi serviva qualche indicazione. Utilizzando Internet ho trovato una grande quantità di informazioni, che mi hanno fatto apprezzare la grande importanza di questo mezzo di comunicazione. Ciò mi ha aiutato a comprendere meglio il periodo storico, e fatto conoscere i vari luoghi che ho nominato, anche come ubicazione geografica. Mi mancava conoscere il nome del luogo dove mio padre era stato in prigionia, ed era a dir poco strano che fra tutte le cose che aveva raccontato, ne io ne altri ricordavamo di aver sentito nominare questo luogo, come se non lo avesse mai detto. Proprio in questo periodo ho conosciuto un maestro che nel 1945 insegnò a Beverone, ricordava di aver scritto qualche lettera da parte di mia nonna a mio padre, ma anche lui ricordava solo il Sud Africa, come sapevo anch’io, e basta. Mi venne in mente che in prigionia mio padre, anche se per breve tempo, si ritrovò con un amico di Veppo, una nuova pista, provai a chiedere, ma il nome di questo luogo sembrava voler rimare senza nome. 101


Non era indispensabile, però dopo aver letto tante notizie non poteva mancare questo particolare. L’utilizzo di Internet è stato determinante, naturalmente grazie alle persone che mi hanno risposto. La ricerca è iniziata nella direzione del primo elemento certo di cui ero a conoscenza: i prigionieri di guerra in Sud Africa. Da questa informazione, apparentemente un po’ troppo vaga, ho trovato per la prima volta il nome di Zonderwater. Più leggevo le notizie trovate su questo campo di prigionia, e più mi convincevo che doveva essere questo il luogo in cui mio padre fu prigioniero. Mi sono domandato del perché questo luogo non lo avessi mai sentito nominare, o meglio, del perché mio padre non lo avesse detto. Mentre curiosavo fra le carte geografiche di quei luoghi, alcuni nomi mi accorgevo di averli sentiti nominare, ovviamente più di una volta, ma questo luogo mai. Ho ripensato al fatto che mio padre avesse rifiutato di collaborare con gli inglesi, situazione per cui probabilmente si sarebbe trovato a vivere in condizioni migliori, ma come già detto, non sapendo come stavano le cose in Italia, temeva ritorsioni nel confronti della famiglia. Nemmeno nel libro di scuola da lui scritto non vi è cenno di come viveva, penso volutamente, perché dovevano usare con giudizio delle libertà che erano loro concesse, senza esagerare. Ricordo anche la sensazione che alcune cose non avesse piacere di ricordarle, come se inizialmente non avesse dovuto dirle, ed anche se in seguito qualcosa raccontò, forse preferiva tenerle per sé, come tanti che avevano vissuto esperienze così dure, come un tentativo di rimuoverle. In effetti non sono stato un buon cronista, perché le cose ascoltate che mi hanno provocato questa sensazione, nel rispetto del 102


suo volere non le ho raccontate, ma il nome del luogo in cui fu prigioniero non poteva certamente far parte di queste cose, e per uno strano scherzo del destino era rimasto anonimo. Ringrazio sinceramente coloro che mi hanno aiutato durante il percorso della ricerca. Nomi molto importanti, di università e di consolati, ma soprattutto persone disponibili e gentili nel darmi le indicazioni del caso. Non mi sembra il caso di scomodare i loro nomi per questo lavoro per me importante, ma non per la grande storia, quella scritta da persone ben più preparate e documentate di me. Ricordo un nome per tutti, che è quello del presidente dell’associazione Zonderwater Block ex POW, l’ing. Emilio Coccia. Così sono arrivato all’ultimo anello della catena, da cui ho avuto la risposta che attendevo. Non lo devo ringraziare solo di avermi fornito dei dati sul periodo che mio padre trascorse in prigionia, ma per togliermi alcuni dubbi, ha avuto l’intuizione di consigliarmi la ricerca del foglio matricolare, trovato poi all’Archivio di Stato di Massa. Grazie a questa ricerca ho saputo molto di più di quanto pensassi che si potesse trovare. Per alcune situazioni ho espresso alcune mie valutazioni. Potranno essere condivise e potranno non esserlo; mi accontenterei di aver aiutato a riflettere. Per certi episodi della storia, a volte non esiste una verità sola e assoluta, come nessuno può pensare di essere giudice infallibile di vicende che per essere comprese completamente bisognava averle vissute.

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Per finire Agli inizi di questi racconti avevo espresso dei dubbi sulla scelta, o meglio sull’opportunità e sul consiglio che fu dato a mio padre di partire per l’Africa. Davo per scontato che il fatto di essere stato posto in congedo illimitato nel 1936 gli potesse garantire di non dovere aver niente a che fare con la guerra, e non dico comodamente, ma di starsene a casa. Avevo anche pensato che non si poteva prevedere cosa sarebbe successo se non fosse stata fatta questa scelta. Dai documenti trovati nell’Archivio di stato di Massa, risulta che, nonostante il congedo illimitato, mio padre fu richiamato alla fine dell’ottobre 1939, circa due mesi dopo che la Germania aveva invaso la Polonia, di fatto inizio della seconda guerra mondiale. Con la guerra vennero meno tanti diritti, e molti furono i richiamati. Mio padre non poté rispondere a questa chiamata perché era già partito per l’Africa da quasi sette mesi. Se fosse stato ancora a casa non ci sarebbe stato che l’imbarazzo della scelta, non la sua, ma di chi avrebbe deciso per lui: Grecia, Russia, Africa Settentrionale, Africa Orientale, dove egli si trovava di già. Tutto fa parte del mistero della nostra vita, forse noi possiamo fare alcune scelte, oppure non lo sappiamo ma a volte erano già state fatte; non c’è una risposta, altrimenti non sarebbe un mistero. Noi, a cose fatte, possiamo limitarci a cercare di raccontare come è andata, a nostro modo.

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E così anche le vite di persone semplici di paese avevano vissuto e fatto parte degli avvenimenti della storia, quella importante, dei libri di scuola. Poi tutto dipende da che parte si guardano le cose; forse “come una goccia nel mare”, ma volere o no il mare è fatto di gocce, e se ognuna di esse non contasse niente non ci sarebbe il mare. Ora, cioè sul finire degli anni ’50, tutto cambiava. Di quel mezzo secolo, anche se alcuni cercano in tutti i modi di sminuire, demonizzare o esaltare certi avvenimenti, spesso non siamo in grado di dire con certezza ciò che è stato positivo o negativo, se in certi casi sarebbe stato meglio aver fatto in un modo diverso, la storia non è fatta di se e ma, ma di quello che nel bene e nel male è stato fatto. A noi esseri umani non è concesso affermare senza dubbi chi della storia sia stato un vero ed importante protagonista, oppure una comparsa, indipendentemente dal ruolo avuto, oppure dall’immagine il più delle volte opportunamente creata. Da quando l’uomo ha imparato a disegnare e poi a scrivere, ha cercato di trasmettere le proprie sensazioni nella forma che gli era più congeniale, forse un istinto per conquistarsi un pezzetto di immortalità. Io ho provato a trasmettere le mie sensazioni: semplici, ma comunque gocce che fanno parte del mare della storia, di un periodo che non era a me contemporaneo ma, grazie a ricordi e ricerche, quel tanto che me lo ha fatto sembrare.

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Qui finiscono i ricordi. Molti altri ce ne sarebbero, ma fanno parte di un periodo piĂš vicino, e quindi non sarebbero antiquariato ma soltanto roba vecchia, di poco valore. Nel riscoprire queste cose passate in certi casi mi sono divertito, in altri ho provato un po’ di nostalgia. Tirando le somme sono contento, ho soddisfatto questo desiderio che avevo da tempo. Ho rivissuto tanti momenti, ho ricordato cose che non immaginavo di ricordare, ho compreso meglio gli avvenimenti, tanto mi basta, d’altronde indietro non si torna ma ricordare si può e a volte fa bene.

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