Le poesie di
Dario Moretti
Introduzione Dario è nato a Beverone nel ‘46. Fino al 1970 abitava alla Pena, che è una località composta da due case poco distanti da Beverone. Poi si è trasferito nel paese assieme al babbo Milietu e alla mamma Melia, di cui è stato il bastone della vecchiaia, un bravo bastone. Lascio alla fantasia di chi leggerà le poesie il compito di ricostruirsi i personaggi, gli avvenimenti e i luoghi in esse raccontati. Prendo lo spunto dalla penultima poesia scritta da Dario, “Er piegue”, per raccontare un piccolo aneddoto. Dario è stato l’ultimo pastore di Beverone, cioè l’ultimo che portava le pecore a brucare l’erba libere, nei pascoli e nei boschi. Proprio per il fatto di non avere compagnia, oltre a quella delle pecore, per passare il tempo si era inventato un divertimento particolare. Nei vari luoghi dove portava al pascolo le sue pecore, sceglieva il punto più adatto, e poi costruiva delle piccole stradine con tanto di tornanti e rettilinei. La ruspa adoperata era un sasso da lui scelto attentamente fra i tanti che il mercato della natura gli metteva gratuitamente a disposizione. Poteva succedere che qualche paesano si imbattesse in queste stradine, magari mentre si trovava nel bosco a far legna, ed allora poi quando incontrava Dario gli chiedeva: Darietè, tié andà ai Puzaqui cun er piegue? – “Dario, le hai portate nel tale posto le pecore”. Lui rispondeva: Cume te fa a savélu? – “Come fai a saperlo?” Ho vistu e stradine – “Ho visto le stradine”. 3
Per chi non l’ha fatta la vita del pastore, potrebbe sembrare una vita monotona senza storia; io quei mesi estivi in cui ho fatto il pastore, spesso con Dario, li ricordo fra i giorni più belli della mia vita. Una piccola storia … una breve poesia … basterebbe chiudere gli occhi e poi frugare nei ricordi, e ce ne sarebbero di storie da raccontare sulla vita dei pastori. A Beverone è toccato alla generazione di Dario il compito di far calare il sipario sulle piccole e grandi storie dei pastori, che con la loro attività per secoli hanno contribuito a far sopravvivere i nostri antenati.
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Eccolo, è pronto, il libretto delle poesie di Dario è stato stampato. Ne è passato di tempo da quando furono scritti i primi foglietti, finiti poi in un cassetto: più di trent’anni. E magari dicevano tra di loro “che ne sarà di noi”? Ne è stato che a Dario è venuto un ritorno di vena poetica, e la famiglia delle poesie è aumentata. Il mio compito è stato quello di decifrare i bellissimi geroglifici a zampa di gallina, parole di Dario, di quei foglietti, e di trascriverli in questo libretto. Nel fare questo lavoro però mi sono anche divertito, ed ora non so se dovrà essere Dario a ringraziare me, o io lui. Forse questa sarà la soluzione migliore: facciamo pari e patta e non se ne parli più.
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Quelu ninin Lassü a Beveun gh’è n’umetìn, pečenin, u paa en fantin, l’è autu en metru o pogu pü. De tütu u fa: spazin, buscaiolu, cuntadin, i u čiaman “pruf”. U g’ha a bütega, e u g’ha en pulmin. Quande u va aa Speza a fae a spesa, a ğente a veda er pulmin arivae, ma per vede lü a deve ben guardae. U porta de tütu: pasta, risu, patate e zücheu. Quande aa sea en te l’ustaia a ğente au mia, a pensa: mah! cume u feà quelu ninin là a fae tütu quelu cu fa?
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Nella mia stanza Sono nella mia stanza, sto pensando a lei. Sono solo e all'improvviso suona il telefono, forse è lei che mi chiama forse ancor mi perdona. Lei è fatta così, le rispondo: si amore, e poi scendo per le scale e corro da lei. Ripensando al passato, tutto quello che è stato, non può finir così, io la prendo per la mano, un bacio ci diamo e felici corriamo. Siamo felici così.
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Sempre solo sarò Si io già lo so, sempre solo sarò, la mia vita darei per un' ora con lei, anche se so che poi piangerei, perché lei non ha cuore e morir mi fa. Lei è senza cuor perché fa soffrire me, basterebbe un solo si e di gioia impazzirei. Perché mi fai soffrire sai che amo te, sei crudele sei tiranna, tu non ami me. Si ora io lo so sempre solo sarò, se non posso avere te nessun' altra amerò, se non posso avere te nessuna mai più, sei un' angelo tu ma veleno per me. Sempre solo starò, solo a te penserò, ma se un giorno tu vorrai dove sono lo sai, se vorrai amare me io correrò da te, sei un' angelo tu ma veleno per me.
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La moto rossa Avevo una moto rossa duecento di cilindrata, avevo pure una ragazza avevo pure una ragazza. Che corse pazze per i prati e per i boschi, lei mi amava con passione lei mi amava davvero. Ma un giorno un brutto giorno contro un albero son finito, la moto ho fracassato e ho perduto la ragazza. All'ospedale son finito, mi sentivo triste e sconfitto, se al passato ripensavo quel ritornello cantavo.
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Avevo una moto rossa duecento di cilindrata, avevo pure una ragazza avevo pure una ragazza. Una sera che ero molto triste passeggiavo in un giardino una ragazza con la moto mi si fermò vicino, io sbagliarmi non potevo era lei per davvero. La moto mi donò e sempre con me restò. Avevo finito di sognare ora potevo ricominciare. Ora ho una moto rossa duecento di cilindrata, ho pure una ragazza, ho pure una ragazza.
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L’orchestra birichina Un' orchestra birichina s'è formata giù in cantina, la dirige sor topone che fa pure da trombone. Un’imbuto e una fiaschetta fan da flauto e da trombetta, contrabbasso e mandolino e non manca poi il violino. Ma il concerto tutto ad un tratto tra le botti vede il gatto, e comincia il fuggi fuggi per raggiungere i rifugi. Poi vien fuori un bel cartello, con la scritta in stampatello, da un topino screanzato il concerto è rimandato.
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Baffi Ora è il turno della poesia di Baffi, preceduta da una breve introduzione che aiuta a comprenderla meglio. Ora vi voglio raccontare una storia, la storia di una poesia. Un giorno mio cugino Dario trovò un cane nel bosco, era impigliato in un groviglio di fili di ferro, chissà forse un laccio per cinghiali. Il poveretto era ferito, allora Dario lo portò dal veterinario e poi se ne prese cura. Serviva un nome, il cane era uno spinone con dei bei baffi … esatto, lo chiamò Baffi. Naturalmente come avviene nelle favole, divenne suo amico inseparabile. Passarono gli anni, per i cani passano un po’ più in fretta che per noi, e Baffi si fece vecchietto. A Dario venne in mente di scrivere una poesia da dedicare a Baffi, un segno di amicizia verso il suo amico a quattro zampe. Cosa scrivere? … pensa che ti ripensa … ecco l'idea … niente di reale, tutta fantasia, ma taaanta fantasia … ora state bene attenti … ecco la poesia:
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Dedicato al mio amico Baffi Questa è la storia di Baffi, cane strano, che ai cinghiali dava una mano ed invece di cacciare dava loro da mangiare, li invitava assai contento in un campo di frumento. Baffi va dal contadino e gli chiede del buon vino per lui e per gli amici, e allora il contadino lo minaccia con il fucile e gli dice di sparire. Ma i cinghiali tutto ad un tratto in coro gli han gridato: attento o brutto tipo se fai del male al nostro amico per te saranno guai, è meglio che te ne vai. Il contadino se ne andò e la pace ritornò.
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Baffi porta i suoi amici all’uva moscatella mentre loro stan mangiando lui fa da sentinella, poi si mette ad abbaiare qualcuno sta per arrivare: è il cacciatore col fucile, arrabbiato e fa scintille. Sono vecchio e puoi sparare, disse Baffi, ma con loro i conti dovrai fare. E i cinghiali tutti in coro: attento brutto ceffo siamo in tanti e siamo armati abbiamo denti affilati, e se a Baffi vuoi sparare per te finisce male. Il cacciatore un attimo esitò tutt’intorno si guardò, gli arbusti ondeggiavano mille occhi lo guardavano, lì di colpo si fermò e di corsa poi scappò. Baffi Baffi sei un eroe, gli gridarono i cinghiali, ed in trionfo lo portarono; poi cantarono: tu sei il nostro eroe, con noi potrai stare fin che vuoi.
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Enta costa de Tanibertu A iu enta Costa de Tanibertu cun adossu na cuverta, poi enta Lama de Zalàn cun en piatu en man. A sun andà a Campebùn a manğiae er menestrùn, en ter Campuìn a beve en bičeu de vin, poi a L'aeta a manğiae a panzeta. Ho fatu en sautu ar Moğe a manğiae er castignazu cun er foğe, enta Bëra du sartu, tüta roba de scartu, e poi aa Tana gh’ia na cosa strana, e Delà da frate gh’ia tante teste mate, en ta Curniëa gh’ia en cinghiale cun i denti de fëa. A Ratuin gh’ia Tugnin cun en fiascu de vin. En ti Quadri ne gh’ia en pò i ladri! Ai Pradeschè gh’ia u Linè cun n'agnè, a g’ho ditu: unte vè? U m'à rispostu: a vagu a Brignè e au portu a Miglè. 16
En zimu aa Bëra der bozu gh’ia en cagnazu cun er gozu, aa Tečia da fusina gh’ia na gağina ca becheva l' üva sultanina. En ter Pianele gh’ia der fantele tantu bele, aa Fauza gh’ia na dona ca féva a cauza. En tu Surcu da vale gh’è n'omu cun tante bale, en ti Lamùn gh’è ün cuiun cuiun. Au Ğiambretu gh’è en galetu cu fa a bote cun en večetu, e dar Figu de Zelantognu gh’è ün cu paa en demoniu. Aa Piana de Biasìn gh’è ün cun tantu vin, che un regala en bičein. En ter Carmazu gh’è ün che l'argusa cume en pazu, aa Madunina gh’è na bela ğesina, e au Zeru gh’è ün cu vë fae brüsae er feru. Antravedu na cuverta, a sun aa Costa de Tanibertu, a sun stà en beu cuiùn a žiae tütu Beveun, e cun tüta a mü pasenzia a sun arturnà ar püntu de partenza. 17
En žiu per Beveun A chinu a Costa de Tanibertu cun na dona e na cuvèrta, a me fermu ar Bulugnu, a se žia e a me da en pügnu, a ne semu mancu ar Frëde che a scuminza a rumpe ğ'ëve, en ta Lama de Zalàn a me denta na man, en tu surcu da Čiosa prima a beva e poi a s'arposa, a me portu en te Ği'uive, a me suna er pive, e poi en ter Ženestrau a s'arabia cume en diau, a passemu a Campebùn, a me disa: "tiè en cuiùn", poi a Costa da sèra, a me taca na guèra. Quande a semu en ta Pissàà a me fa na gran cagnàà, de sutu ar Vigne a se meta a tiame er pigne, 18
dopu a passemu aa Pena e a me fa na brüta scena, arivemu poi a Culeta e a me tia na saeta. A ghe digu andemu a Piò, a men disa de tütu en pò, a ghe parlu da Pianèla, a me pista cun na padèla, e poi aa Funtana a se lava gunèla e sutana, a mi fa purtae ar Pearbeu, e ai stenda en zimu an'arbeu, arivà ca semu a Costa, a me fa na proposta, a m'anvita en ta cavana, ma per me l'è cosa strana. Alua a scapu li ai Custè e a ghe trëvu u Linè, a ghe digu: "en tà cavana ghè na dona senza sutana", lü u me disa: "e te un te và?" a ghe rispundu: "dopu quelu che ho passà a sun stüfu, a vagu a cà". 19
A mutusega Te te üsi a mutusega ma prima o poi a te frega. Cun er piante a ghè l'ha a morte, ae tağia drite e storte, a ne cugnussa de padrùn e a tağia er gramu eer bun. Se ta üsi senza impegnu a te lassa en brütu segnu, en beu tağiu a te lassa quela brüta bestiaza. Se te na sa aduperae, dame reta, lassa stae, staghe distante, na tucae, quela a serva sulu per segae.
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Er Bacicin Bacicìn vaténe a ca che e due ieno passà. Bacicin vaténe a ca te mogee la sta a aspetà e i fanti i pianzan. Bacicin vaténe a ca te mogee la sta aspetà, la ta lassà u lüme en ta scaa e a porte averta, e sü en ta toa te ga a menestra. Bacicin vaténe a ca da reta a me ne te ambriagà che poi er vin u te fa mà. Bacicin vaténe a ca che urmai a festa l’è passà e tüta a genta a se n’è andà. Bacicin vaténe a ca che dumatin te devi andae a lavuà.
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Er piegue A m’arcordu … quande a iu pečenin, a g’avevu tante piegue tüte bianche e tüte negre, tüti i ğiurni l’ia cussì: ae mandévu pei boschi che alua ğ’ian puliti, adesso ğ’en tüti sporchi. Gh’ia a bianchèla e a stencheta, a campanela e a viuleta, a curnela, a cavaleta e tante atre che … a ne m’arcordu i numi.
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A g’avevu anca due crave, a stela e a girafa, dui pendìn, a barbeta, e ğ’ian tüte gambe e colu. De matin ar Munte Negru ae campevu, a sea ar Bozu a ği’artruvevu, per nume ae čiamevu e luu i me rispundevan. Quantu tempu l’è passà e me grande a sun deventà, ma a mü infanzia an me l’ho mai scurdà. L’è düa pensae de anvečiae ma ne gh’è gnente da fae, besugna piğiae a vita cume a vièn e supratütu de stae ben.
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Il gran ballo della fattoria Ğ’ian scuminzà er can e er gatu a balae sutu brazu, e alua er galu cun a gağina ğ’en andà a balae enta cantina. Dopu en po’ l’oca cun u tachìn i s’en missi a balae en tu ğiardìn, a crava cun er porcu ğ’en andà a balae en te l’ortu, e a vaca cur cavalu i s’en missi a balae en ter pradu. Sorta fëa a piegua cun l’agnè chi balevan en ter pianè, a crava cun er bécu ğ’en andà a balae en tu tečiu, e a piegua cur muntun i balevan en tu stalùn.
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Manimàn che a zoza cui pulìn i balevan en ter vutìn i pizùn i balevan en ter cuncùn, e poi l’è capità er cucü che u s’è missu a balae anca lü. E cussì tüti en alegria ğ’ian balà davanti aa faturia, e a ne so perché ma a me sun missu a balae anca me.
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Tutte le poesie sono di Dario Moretti. La prima è stata scritta attorno ai primi anni ‘70 e l’ultima nel 2008.
L’introduzione, le brevi spiegazioni, e la composizione del libretto sono di Sergio Antognelli, cugino di Dario.
Beverone anno 2008
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