Libro - "Un pò di tutto"

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En po’ de tütu

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Indice

Giochi antichi... e altro………...….....

pag. 9

La cappelletta di S. Antonio…….…..

pag. 21

Viaggio a Spezia…….………....……

pag. 25

Ada Cecchini, maestra a Beverone….

pag. 30

Omaggio alla maestra Carla Fiori…...

Pag. 36

Beveronesi nelle miniere di carbone

pag. 40

Il racconto di Adolfo………………..

pag. 47

Baffetto…………………………......

pag. 51

I marziani a Beverone………….........

pag. 58

Il Tour del 1950………...…….......…

pag. 64

Un pensiero per Beverone…………..

pag. 68

Raccolta di poesie……………...…....

pag. 73

Il mio ‘68…………………....……....

pag. 90

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Antrüduziùn Si, séi propiu bèlu savee scrive ben per pudee arcuntae tante bèle storie de Beveun. Ün u vureva che t’arcuntessi de quande… n’atru u vureva savee chi l’ia quelu che… A savé cuse a ve digu fanti? Armai ne gh’è pü nissün che ne possa arcuntae de cume l’ia na vota; pèzu, nun sulu ne gh’è pü de veči, ma i veči a semu nui, queli che i sa credevan de èsse zùvin per sempre. A semu armasti poghi (tropu poghi) anca nui. Me a ne sun mai sta bun a scrive ben, ma a g’ò pruvà a arcurdame carcò de quelu che l’è stà a mü vita en ter paese, e anca der cose chi m’an arcuntà; a bela meğiu a ğ’iò anzà scrite cume a iu bun. M’ia armastu lì en disparte der ‘cose’ che i me paevan ‘cose da pogu’. Però me despiaseva che queste ‘cose’ ği’andessen perse; alua o pensà de meteğe tüte ensieme, anca se gh’è en po’ de tütu; ecu, demughe propiu questu titulu: “En po’ de tütu”. Queste poghe righe de antrüduziùn a ğiò ausü scrive en dialetu (a ğiò pensà anca en dialetu) pe en po’ de rispetu per questu modu de parlae che fra poghi ani ne s’arcurdeà nissün. En poghi ği’arsurtiàn a capie queste parole, ma queli che ii capiàn i se devertian. Poi questu libru a pudeò metelu anca en te ‘Internet’ (questa parola a na possu scrive en dialetu) e cussì fra quarche anu quarchedün u seà bun die: “Ma cume i parlevan queste persune de Beveun?”. 6


Introduzione Si, sarebbe proprio bello saper scrivere bene per poter raccontare tante belle storie di Beverone. Una persona vorrebbe che raccontassi di quando… un’altra vorrebbe sapere chi era quello che… Ragazzi, sapete cosa dico? Oramai non c’è più nessuno che ci possa raccontare di come era una volta; peggio, non solo non ci sono più anziani, ma gli anziani siamo noi, quelli che credevano di essere giovani per sempre. Siamo rimasti pochi (troppo pochi) anche noi. Io non sono mai stato capace di scrivere bene, ma ho provato a ricordare qualcosa della mia vita in paese, e anche di quanto mi è stato raccontato: cose che ho già scritte come ero capace. Mi erano rimaste da parte delle ‘cose’ che mi sembravano ‘cose da poco’. Però mi dispiaceva che queste ‘cose’ andassero perse; allora ho pensato di metterle tutte assieme, anche se c’è un po’ di tutto; ecco, diamogli proprio questo titolo: “Un po’ di tutto”. Queste poche righe di introduzione le ho volute scrivere in dialetto (le ho pensate anche in dialetto) per rispetto a questo modo di parlare che fra pochi anni nessuno ricorderà. Pochi riusciranno a comprendere queste parole, ma coloro che le comprenderanno si divertiranno. Poi questo libro potrò inserirlo anche in ‘Internet’ (questa parola non posso scriverla in dialetto) e così fra qualche anno qualcuno sarà capace dire: “Ma come parlavano queste persone di Beverone?”. 7


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Giochi antichi… e altro. Prima dei nostri giorni, in cui per comprare i giocattoli ci si rivolge ad appositi negozi oppure ai supermercati, si andava nella “bottega” in cui la natura li offriva gratuitamente. C’era però un inconveniente, (e c’è ancora per chi volesse provare a sperimentare le cose che proverò a raccontare), bisognava sottostare alle regole della natura e delle sue stagioni e, come per i negozi, ai suoi orari di apertura; in questo caso ogni azione si poteva compiere soltanto in un determinato periodo dell’anno. Tenterò di raccontare ciò che ricordo: un misto fra cose utili, passatempi e giochi. So già che non mi sarà facile spiegare il tutto solo a parole, quindi, dopo aver cercato di trascrivere i vari ricordi, cercherò di migliorarne le spiegazioni cercando di riproporre fisicamente alcuni giochi. Per alcuni giochi sono stati fatti dei brevi filmati che aiuteranno a capire meglio; per chi vorrà vedere il risultato, di seguito metto l’indirizzo per vederli su internet. www.youtube.com/user/darpata Non è facile definire l’età di ciò che proporrò, penserei a molti anni, in tanti casi a secoli. Penso che non sia corretto collocare il tutto nel tempo con la frase “una volta”, sottintendendolo con il periodo della propria infanzia, quasi a voler dar maggior valore a quel periodo, e mancando così di rispetto nei 9


confronti della storia di tutti che è un po’ più grande della nostra. È sempre difficile parlare del passato, capire le situazioni, se non si riesce a tornare indietro nel tempo con la fantasia ed una dose essenziale di conoscenza. Inoltre occorre pensare anche alle enormi differenze che vi potevano essere fra la vita dei ragazzi dei vari paesi, per esempio Beverone, e i ragazzi di città: enormi differenze che possiamo trovare ancora oggi; non solo nella vita dei bambini ma anche nelle esperienze degli adulti. Foglie di castagno Incomincerò dalla “frascada” che non era un gioco, bensì un’attività molto utile. Stiamo parlando di piena estate, di estate calda, di periodi torridi come saltuariamente si fanno sentire anche ai nostri giorni… e ovviamente di aria condizionata nemmeno a parlarne! “Frascada” si potrebbe tradurre con “Ombrina”. Nonostante l’altitudine, a volte arrivavano questi fenomeni climatici estremi anche a Beverone. In estate le giornate lavorative per i contadini ed i pastori, iniziavano al levar del sole, se non anche un po’ prima: diciamo che era necessario e quindi normale alzarsi ben prima delle cinque, ora solare. Quando il caldo era consistente vi era un lungo periodo di riposo che andava, a seconda dei lavori e delle urgenze, da una o due ore prima 10


di mezzogiorno, fino alle quattro pomeridiane, per terminare poi il lavoro alle otto o nove serali. Durante le ore del riposo, per cercare un po’ di riparo dalla calura, si usava costruire le “frascade”, cioè si creava un po’ di ombra sopra alcune aie un cui ci si poteva radunare in queste ore più afose. A tale scopo, al di sopra dei tetti che circondavano l’aia prescelta, si mettevano dei leggeri pali di pino, incrociati fra di loro: quei pini cresciuti in mezzo ad altri, che alla ricerca della luce erano diventati molto lunghi, ma piccoli di fusto e quindi molto leggeri. Poi sopra di essi si posizionavano dei grossi rami di castagno, le “frasche”, per fare ombra sotto di esse. Le foglie di castagno seccavano nel volgere di pochi giorni, ma rimanevano saldamente attaccate alle frasche continuando a svolgere la loro funzione ombreggiante per tutta l’estate. Così nelle ore del riposo ci si poteva radunare sotto il refrigerio della “frascada”, che diventava anche un luogo di ritrovo. Rimanendo in tema di foglie di castagno, va ricordata la loro importanza per fare il castagnaccio. Raccolte a fine estate, quando erano ben mature, venivano infilzate in uno spago e fatte seccare; prelevate al momento del bisogno, cioè quando si dovevano fare i castagnacci, erano messe ad inumidire con un po’ d’acqua, infine poste sopra e sotto l’impasto di farina di castagne, fra i testi ben caldi. Guardiane antibruciatura del castagnaccio che ha sfamato diverse 11


generazioni! Inoltre le foglie di castagno potevano avere altri utilizzi diciamo meno importanti: con esse si potevano costruire dei cappelli per ripararsi dal sole. Per prima cosa, disponendole una dietro l’altra, per il lungo, venivano bloccate fra di loro con aghi di pino come gli spilli usati dai sarti, in modo da ottenere la misura giusta per la testa a cui era destinato il cappello. Poi si mettevano le foglie di traverso e il cappello era pronto. Per fare un piccolo abbellimento si prendeva una foglia grande e sana e se ne eliminavano alcune parti in modo da ottenere una specie di penna come quella gli alpini, quindi si applicava ad un lato del cappello, usando al solito un ago di pino come spillo. Usando lo stesso procedimento, in pratica rovesciando sotto sopra il cappello, costruendo un manico sempre di foglie di castagno, si poteva ottenere un piccolo cestino per mettervi fragole di bosco, more o altro. Le foglie di castagno poi potevano servire per costruire dei bicchieri in un paio di modi diversi per bere l’acqua delle fontanelle: uno a forma di cono, l’altro a forma di barchetta. Strumenti a fiato Apro il capitolo dei giochi che riguarda gli strumenti a fiato, in certi casi delle specie di “vuvuzela” 12


beveronesi: partirò con la più piccola e cioè il fiore della primula. Questo fiore è una piccola trombetta naturale a forma di imbuto, infatti staccata dolcemente dal delicato fusto e messa fra le labbra, soffiandovi con dolcezza, emette un lieve suono, differente di tonalità da fiore a fiore. Un altro piccolo strumento è composto da una foglia d’erba, quella del palero: essa si pone nella fessura che si crea tra i pollici delle mani giunte, come quando si prega, tenendole ben premute. Soffiando opportunamente in questa fessura, ponendovi le labbra a contatto, si ottiene un forte suono che può essere modulato a piacere, per esempio si può ottenere un suono che somiglia al canto di un gallo alla sveglia del mattino. Utilizzando non più le foglie di castagno, ma la scorza di piccoli fusti dello stesso albero, nel periodo primaverile quando il castagno è ricco di linfa, “è in sugo”, si possono ottenere altre vuvuzela, molto più potenti delle piccole primule. La versione base si ottiene dalla scorza di un piccolo “pollone”, poco più di un centimetro di diametro, e di lunghezza variabile dai dieci ai venti centimetri. Estratto il legno rimane il tubo, cioè la scorza, che viene schiacciata dolcemente nel lato con diametro inferiore poi, sempre da quel lato, con un coltello ben affilato, si elimina la parte più esterna della corteccia, per uno spazio di poco meno di due centimetri. Soffiandovi, le due lamelle opposte ottenute entrano in vibrazione e si ottiene un suono più o meno acuto a seconda della lunghezza della trombetta. Tagliando la scorza di un 13


pollone del diametro di cinque o sei centimetri, a spirale, si ottiene una striscia che grosso modo rassomiglia ad una cintura per i pantaloni; arrotolandola opportunamente su se stessa se ne ricava un trombone “trumbun” di forma conica, che ai tempi d’oggi potremo chiamare “la vuvuzela di Beverone”. Si può suonare in due modi: il primo facendo vibrare le labbra sull’estremità più piccola, il secondo introducendo in questa estremità una trombetta come precedentemente spiegato. Il suono ottenuto sarà di tono molto più basso rispetto alla trombetta, ma udibile da molto più lontano. Sempre con la scorza di un pollone di castagno, si può ottenere una specie di zufolo “züfeè” con tanto di buchi da poter chiudere con le dita. Ovviamente le note ottenute saranno frutto del caso, in quanto non vi è calcolo in tutto ciò che è stato fatto. Come detto, più che giochi intesi nel significato attribuito ai tempi nostri, si tratta di passatempi, scoperte di un libero utilizzo della propria fantasia, sfruttando le opportunità offerte dalla natura. Il prossimo ricordo, che fra tutti mi sembra il più semplice, tratta dell’utilizzo di un fiore di cui non conosco il nome in dialetto, forse cù-cù come il verso del cuculo. Si tratta di una varietà di orchidea selvatica. Ogni piantina ha più fiori: ciascuno di essi presenta un piccolo sacchetto in basso, dalle dimensioni di un chicco di caffè. Preso fra il pollice e l’in14


dice e tenuto stretto, poi schiacciato sulla fronte di un amico con un gesto rapido, si diceva cù- cü e il fiore scoppiava come un sacchetto di carta, naturalmente in modo molto meno rumoroso. Passiamo ad un altro scoppiettio causato da un petalo di rosa. Si disponeva la mano sinistra come se stringesse il manico di una scopa, disposta verticalmente. Sopra il pollice e l’indice, che vengono a creare un piccolo cerchio, si appoggiava un petalo di rosa che poi si colpiva, come dandogli uno schiaffo, con il cavo del palmo della mano destra. Se ne otteneva un schiocco e la rottura del petalo. Per i pastori, che a volte avevano un po’ di tempo per alcune distrazioni, ci si poteva divertire a costruire delle collane con aghi di pino, lunghe anche molti metri. Ogni ago veniva girato e infilzato su se stesso, creando un ovale. Seguivano tutti gli altri aghi, collegati ognuno al precedente. Un’altra collana, molto più corta, e comunque anche questa una “collana” solo in apparenza, si otteneva dalle foglie della pianta del lampascione. Esse sono simili a quelle del porro o dell’aglio: si strappavano a pezzetti di circa un centimetro, avendo l’accortezza che lo strappo fosse largo pochi millimetri, prendendo le foglie fra pollice e indice della mano destra e sinistra contemporaneamente, le foglie non si strappavano del tutto perché rimanevano collegate fra loro da fili quasi trasparenti che apparivano 15


all’improvviso dopo la rottura della foglia. Per il seguente esperimento serviva una paglia di grano lunga circa trenta centimetri, come una cannuccia da bibita. Ad una estremità si divideva per il lungo in quattro o più parti, per circa tre centimetri, divaricando leggermente le parti divise. Tenendo la paglia in bocca e soffiandovi dal basso, in pratica con lo sguardo rivolto in alto, ponendo in alto un seme di pisello, questo incominciava a salire e a scendere, senza cadere per terra. Il seme di pisello è simile al cecio, ma quest’ultimo non può essere usato perché è più pesante. Per i bambini, attorno al fusiğiau, il “dilè dilè … Lo strumento era uno stecco “bacchettu” di legno lungo circa mezzo metro: una estremità era tenuta in mano, l’altra accostata al fuoco del “fusiğiau”, così che in breve vi si formava la brace. A questo punto si muoveva velocemente lo stecco nell’aria, ed alla fioca luce del fusiğiau, la scia della piccola brace disegnava delle forme quasi artistiche. La cosa magica era che il ritmo di questo movimento veniva accompagnato dalla tiritera “dilè dilè dilè …”. Se poi il gioco prendeva un po’ la mano e diventava pericoloso, veniva interrotto da un: “ fanti ” !!! Il “gioco delle ciape”, era un gioco in cui al posto delle bocce si usavano pezzi del materiale adope16


rato per costruire i tetti, o in mancanza di essi altri simili, comunque di forma piatta, che si potevano reperire ovunque ci si trovava, e al momento in cui si decideva di fare questo gioco. In pratica piccole piastrelle di pietra dello spessore di circa due centimetri, e forma irregolare attorno ai venti centimetri di larghezza. Quindi, seguendo le regole del gioco delle bocce, anziché farli rotolare, questi frammenti si lanciavano al volo, e così, roteando orizzontalmente, a parte un ultimo movimento di pochi centimetri, arrivavano al posto finale, possibilmente il più vicino possibile al “boccino”. Sono evidenti i grandi vantaggi di questo gioco rispetto a quello delle bocce: risparmio sull’acquisto degli attrezzi, facilità di trovare il terreno di gioco che può essere improvvisato a piacere, su erba o terra, in pari o falsopiano. C’era un gioco di cui non ho trovato il nome, ed era anch’esso giocato con le stesse “ciape” del gioco precedente. Ovviamente il campo di gioco era dove ci si trovava, erba o terra. Si faceva un circoletto sul terreno di circa quaranta centimetri di diametro, facendovi scorrere un legno o un sasso, in modo che il segno fosse visibile; al centro si conficcava un legnetto che sporgeva circa venti centimetri. Ogni partecipante doveva consegnare una moneta (di poco valore, cinque o dieci lire) poi una alla volta le monete venivano poste sul legnetto. A turno, da una 17


distanza uguale per tutti, si lanciava la “ciapa” tentando di colpire la moneta. Per vincerla, la moneta, doveva uscire dal circoletto, se rimaneva dentro andava rimessa sul legnetto. Di norma, per far uscire la moneta dal cerchietto, bisognava colpire proprio lei e non il legnetto, altrimenti, in questo secondo caso, la moneta cascava con più probabilità dentro il cerchietto. Voglio ricordare anche un gioco di cui non è necessario spiegare le regole, perché in pratica è il gioco del “nascondino”, la sola variante è che nei nostri posti, molti anni fa, il suo nome era un altro: “Pietruvìn”. Purtroppo non ho trovato se vi fosse una eventuale traduzione di questa parola Ruba bandiera: il campo di gioco veniva diviso in tre parti con delle linee tracciate per terra, una per ogni squadra (due squadre) e una zona franca al centro. Ad alcuni metri dalla zona franca, ogni squadra metteva la sua bandiera, un fazzoletto o stoffa varia, appoggiata ad un legnetto e che avesse la caratteristica di essere asportata senza sforzo, altrimenti chi doveva rubare la bandiera non poteva farlo in modo veloce. I componenti dovevano essere come minimo due per squadra, anche se era preferibile essere più numerosi: lo scopo era quello di rubare la bandiera agli avversari. Chi si avventurava nel campo avversario doveva essere molto veloce, perché se uno degli avversari lo toccava, egli diventava prigioniero, e si 18


metteva al centro di un cerchio dietro la bandiera. Poteva essere liberato da un compagno che riusciva a toccarlo, senza essere quest’ultimo toccato a sua volta, altrimenti sarebbe stato anche lui prigioniero, e così via. Il gioco terminava quando una squadra riusciva a rubare la bandiera all’altra squadra, indipendentemente dal numero dei prigionieri. La “Patta”: questo gioco è relativamente recente, ma chissà, forse anche questo rischierà di essere dimenticato. In un bel prato ci si metteva tutti in girotondo tenendosi per mano; una persona rimaneva fuori. Questa persona poteva girare a piacere in senso orario o antiorario, velocemente o lentamente, quando poi decideva dava una patta nel sedere di un componente del girotondo. A quel punto incominciava una gara tra i due che correvano di corsa per occupare il posto lasciato libero da colui che aveva ricevuto la patta: ci si muoveva nei due sensi opposti. Va tenuto presente che colui che aveva dato la patta sceglieva il senso di rotazione della corsa al momento che dava la patta; magari stava girando in un senso e sceglieva l’altro, per confondere l’avversario, ed in certi casi poi confondendosi egli stesso. Chi restava fuori per tre volte di fila doveva fare la penitenza, seguendo le regole che ogni volta venivano decise prima.

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Gredaëa: Voglio ricordare anche questo oggettogiocattolo, di semplice costruzione, e come al solito di non facile spiegazione. È composto da un pezzo di canna, due segmenti, da una ruota dentata (a forma di stella) di legno, del diametro di cinque o sei centimetri. Nell’asse della rotella è infilato un legnetto che si tiene in mano e va fatto ruotare. I denti della ruota battono su una linguetta della canna, e ne viene fuori un rumore da cui prende il nome: grrrrr. Ricordo di averlo visto usare nel periodo estivo, quando le pecore sotto il sole cocente non ne volevano sapere di andare al pascolo, e si fermavano appena trovavano un pò di ombra. Con questo rumore partivano a razzo, per poi fermarsi alla prossima ombra, e così via. Per ultimo ho lasciato il ‘mulino ad acqua’, un gioco molto ingegnoso. Era formato da un insieme di legnetti di castagno; veniva azionato dall’acqua di una piccola sorgente e ad ogni giro di ruota era possibile far battere un pezzo di ferro sopra un altro, in modo da ottenere un suono ’clang’ cadenzato, naturalmente finché il congegno, per la verità sempre poco stabile e traballante, finiva per incepparsi. Detta così dice poco, ma da bambini, ogni volta che ci si trovava a vedere e sentire il rumore di questo piccolo mulino, non si vedeva il momento di essere capaci di costruirsene uno personale. 20


La cappelletta di S. Antonio Oltre che per la Croce che è posta sulla sua vetta, il Monte Nero va ricordato anche per un altro particolare: appena inizia la salita, dalla parte di Beverone, si trova una cappelletta che è dedicata a S. Antonio. La costruì “Lissandrìn”, Alessandro Moretti, di Beverone, per sciogliere un voto. Un giorno Alessandro era a caccia, davanti a se camminava suo figlio, Giuseppino, che aveva meno di dieci, ed egli che lo seguiva a pochi passi inciampò. Cadendo dal suo fucile partì un colpo che colpì Giuseppino ad un gomito. Il braccio era quasi staccato, le speranze per un’operazione erano minime, purtroppo c’era il rischio d’infezione, i dottori dissero che dovevano amputarglielo. Lissandrìn chiese loro di provare a riattaccare il braccio, si assumeva lui la responsabilità. Mentre aspettava l’esito dell’operazione si raccomandò a S. Antonio, e fece voto che se l’operazione fosse riuscita avrebbe costruito una cappelletta in suo onore. Il braccio fu salvo, e la riuscita di un’operazione del genere per quei tempi aveva davvero del miracoloso. Rimase un’ampia e vistosa cicatrice sul gomito, ed anche se alcuni movimenti erano un po’ limitati, il ragazzo poi diventato grande, con quel braccio compì anche lavori pesanti. Così Lissandrìn, qualche anno dopo l’incidente e per la precisione nel 1963, costruì la cappelletta in onore di Sant’Antonio. 21


Per raccontare qualcosa sulla sua costruzione ci affidiamo alla memoria di Dario Moretti, nipote di Lissandrìn, che fu fra quelli che vi lavorarono. La sabbia fu presa al “Sabbione”, l’antica cava di sabbia già usata, diciamo pure per secoli, per la costruzione delle case di Beverone. Setacciata a mano e trasportata dai muli di Giovanni Cavicchi. I muli si chiamavano Türcu e Bimba. Dal Sabbione, percorrendo un sentiero nel bosco, scendevano alla “Carpena” poi alle “Fontane”, quindi salivano per la “Rëta - Ruota” e da qui, seguendo la strada comunale, proseguivano verso la cappelletta. Il cemento fu portato da Rocchetta, sempre da Giovanni con i soliti muli. Per costruire i due muri laterali e quello posteriore, Dario ricorda che impiegarono nove giornate e mezza di lavoro. Poi fu costruito il tetto che è una gettata di cemento. Vi lavorarono: Virgilio, Milietto, Giuseppino e Dario. Virgilio era incaricato a portare l’acqua, che fortunatamente, in quel periodo si poteva trovare nelle vicinanze. La pietra che costituisce il piccolo altare fu presa poco distante, e Lissandrìn raccontava che l’aveva adocchiata già da tempo, ancora prima di incominciare la costruzione. Lissandrìn era famoso per avere sempre qualche storia da raccontare e, soprattutto per noi ragazzi, in quei tempi di rari divertimenti, ascoltare Lissandrìn era veramente uno spasso. 22


A Lissandrìn, piaceva raccontare un aneddoto. A quei tempi vi erano ancora le lepri e i cacciatori di lepri. Il punto dove sarebbe sorta la cappelletta era un buon posto (la “posta”) dove i cacciatori potevano attendere l’arrivo della lepre inseguita dai cani. Con la sua fantasia Lissandrìn immaginava una giornata fredda, in cui poteva succedere che il cacciatore di turno scegliesse di rifugiarsi al riparo dentro la cappelletta. Poteva darsi in questo caso che la lepre, ben più avanti del cane che la inseguiva, passasse nei pressi del cacciatore, che però usciva solo quando sentiva l’avvicinarsi dell’abbaiare del cane; ma la lepre era già passata, e al cacciatore non sarebbe rimasto che dire: “Accidenti a Lissandrìn, mi ha dato riparo, ma mi ha fatto scappare la lepre!”. E così, ogni volta che raccontava questa storia, Lissandrìn si faceva una bella risata. Io ricordo con affetto la cappelletta di Lissandrìn anche per un aspetto personale. Dopo le elementari a Beverone, fui il primo beveronese ad andare alle medie a Brugnato. Andavo da Beverone a Rocchetta a piedi il lunedì, poi tornavo a casa il sabato, con mio padre. Un pò di sacrificio in effetti lo era, soprattutto d’inverno, ma non potevo nemmeno sognarmi di lamentarmene, perché chi rimaneva al paese, cioè tutti gli altri, oltre che a lavorare la propria campagna, incominciavano ad avere i primi approcci per andare in giornata a zappare già attorno ai dodici anni. Sia in casa che i paesani pensavano che fossi particolarmente bravo a scuola, ma 23


io ricordo che me la cavavo ma non ero certamente un fulmine di guerra come loro pensavano. Ad ogni buon conto, quando passavo dalla cappelleta di Lissandrìn, se si stava avvicinando un compito in classe o una interrogazione, una preghiera a San Antonio la facevo, e la sufficienza arrivava sempre; d’altronde Sant’Antonio è detto il Santo dei miracoli.

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Viaggio a Spezia La prima volta che vidi il mare Come in tanti altri piccoli paesi della Val di Vara anche a Beverone la strada, quella dove ci possono transitare le auto, arrivò agli inizi degli anni ’60, prima ci si spostava a piedi. Per andare da Beverone a Spezia il primo paese che si incontrava era Stadomelli. Da qui si poteva scegliere fra due percorsi: dal Ramello o da Padivarma, ed in entrambi i casi occorreva attraversare il fiume Vara. Al Ramello, più o meno dove ora si trova il ponte di legno che somiglia a quello di Brooklyn, il fiume si oltrepassava tramite la cosiddetta “passerella”, consistente di un cavo d’acciaio posto a sbalzo fra le due rive; su di esso scorrevano due carrucole alle quali era agganciata una tavola, su cui si potevano sedere fino a tre persone per volta. A Padivarma invece il fiume era attraversato da un ponte, sorretto da più cavi ma traballante; bastava un movimento più accentuato che il ponte ondeggiava, e soprattutto quando ci si trovava nella parte centrale quel movimento non doveva essere molto rassicurante. È stato raccontato da ragazze del luogo, ragazze di quei tempi, che trovandosi ad attraversare quel ponte, a volte si trovassero ad essere vittime degli scherzi di ragazzi, i quali volontariamente facevano ondeggiare il ponte, per far provare loro un po’ di paura, al punto che a volte prefe25


rivano attraversare al Ramello, sentendosi più sicure sedute sulla tavola. Erano altri tempi, e anche in fatto di scherzi non si andava troppo per il sottile. Superata Padivarma si proseguiva sull’attuale Aurelia, a parte una variante a Riccò, e le scalinate che portano dalla Foce a Spezia. Andare a Spezia era comunque un evento, e ne seguivano i vari racconti. A Stadomelli c’era l’osteria di Ciocòn, non solo un luogo di sosta, ma anche dove chiedere soccorso alle necessità che si potevano avere durante i viaggi di andata o ritorno. Per esempio, trovandosi ad affrontare la salita verso il paese in una notte senza luna, il ricevere una candela infilata in un fiasco, come un flambeau per non farla spegnere, era un grande aiuto. Poi ogni tanto saltava fuori il “trippaio”, cioè un ristorante in cui vi era un piatto fisso: trippa in umido con le patate. Il racconto comprendeva un consiglio: ci si doveva premunire di chiedere “mi raccomando, più trippa che patate!”. Un ricordo anche per il “Bar Rosa”. Questo bar era poco più in giù della scaletta della stazione, sulla destra, all’inizio di piazza Saint Bon, in pratica all’ingresso della città vera e propria. Quando i miei paesani dovevano andare in giro per commissioni, passavano da quel bar, e chiedevano se potevano lasciare i loro bagagli in custodia. La risposta la sapevano già, e quel gentile e disponibile barista forse conosceva per nome tutti i beveronesi. A questo punto devo raccontare una cosa che farà sorridere ma era… diciamo di dominio pubblico. Chi andava a Spezia per la prima volta nella sua vita do26


veva pagare una specie di tributo: doveva baciare il culo alla “Maimona”. La Maimona era una donna che si incontrava appena si entrava in città e, pur non conoscendo il motivo preciso, bisognava sottostare a questa regola, aggiungendo che forse la suddetta signora non si lavasse troppo spesso. La prima volta che io andai a Spezia avevo attorno ai sei sette anni, e mi ci portò mio padre. Andammo a Rocchetta a piedi, e da qui Sivori ci portò a Spezia con la sua “giardinetta”. Durante il percorso ci fermammo dalla “Fontana del Papa”, che è vicina al ponte del Ramello. Loro due erano curiosi di sapere cosa avrei provato nel bere a quella fontana così famosa, e penso di aver deluso le loro aspettative, perché non trovai di meglio da dire che “a me l’acqua di questa fontana sembra uguale a quella di tutte le altre”. Arrivammo poi in cima alla Foce, da cui finalmente si poteva vedere la città ed il mare. Da Beverone il mare si poteva vedere tutti i giorni, come tanti paesi e città, fino oltre Viareggio, ma era come vedere una cartolina, ora, anche se un po’ di distanza ci separava, il panorama che si presentava era tutta un’altra cosa! I due amici, complici, giocarono le loro ultime carte per mettermi in imbarazzo. “Vedi quella grande vasca d’acqua? è una ‘boza’ (le boze a Beverone sono vasche di terra per raccogliere l’acqua per irrigare i fagioli) pensa quanti fagioli ci bagneranno!” – diceva l’uno. Tentava di rincarare la dose l’altro: “Vedi tutte quelle casette laggiù? (da quella distanza, e visti per la prima volta, non era facile valutare la 27


dimensione dei palazzi) sono stalle per le capre, pensa quante ne avranno!”. Fu la loro ultima opportunità, che svaniva mentre scendevamo lungo i tornanti della Foce, e finalmente vedevo da vicino, anzi da dentro, La Spezia. Ricordo l’effetto che mi fecero le vetrine: per me erano tutte uguali, non riuscivo a rendermi conto cosa vi fosse esposto, mi sarei fermato a guardarle tutte. Un episodio mi è più nitido di altri, perché ho ancora la foto fatta dal fotografo che mi mise bene in posa, con tanto di tenda sullo sfondo. Poco prima mio padre mi comprò un cono gelato che io, inesperto nel tenerlo i mano, mi feci cascare sul vestito. Era un bel vestito bianco, maglietta e pantaloni corti, ricevuto da mia madre in regalo, non era roba da mettersi tutti i giorni a Beverone, e fortunatamente la macchia del gelato non rovinò la fotografia. Poi andammo al molo, e così vidi per la prima volta le onde del mare. Un barcaiolo ci portò a fare un giro in barca di pochi minuti, andata e ritorno. Allora non potevo saperlo, ma era lo stesso percorso del palio del golfo, un po’ più corto, con un solo giro di boa. Poi vi fu l’esperienza della prima bicicletta che mio padre mi noleggiò ai giardini. Lui andò a fare delle commissioni, lasciandomi alle prese con quella bicicletta con le ruotine per principianti. C’erano altri bambini, con biciclette e automobiline a pedali che sfrecciavano da tutte le parti. Ad un certo punto me se ne avvicinò uno che dopo avermi guardato attentamente, mi disse in fretta qualcosa che certamente si riferiva al fatto delle ruotine, e che 28


non capii, però una parola la ricordo “vergogna!”, e poi scappò via come un lampo, ma la cosa non mi turbò più di tanto, e continuai a pedalare, anche se un po’ in disparte. Dove potevamo andare a mangiare se non dal trippaio? Mi resi conto che il discorso del quantitativo di patate e trippa aveva le sue buone ragioni per essere stato fatto. In tutto questo susseguirsi di eventi era passata nel dimenticatoio la “Maimona”, quando entrai in città non ci pensai per niente. Capii da solo che non esisteva, e se qualcuno me ne avesse chiesto notizie, avrei detto che avevo superato la prova, ora avevo acquisito anch’io il diritto di mettere in imbarazzo chi a Spezia non c’era ancora andato. La mia vista sul mondo si era ampliata; ci ritrovammo con Sivori e tornammo a Rocchetta. Mentre la lunga giornata volgeva al termine rientravamo a piedi al nostro paese, salendo su per la “selva”, scendendo poi dal treno all’ultima stazione della ferrovia che esisteva solo nella fantasia, la stazione di Beverone. Lassù, in alto, come disse una maestra anni prima, in quel grazioso “nido d’aquile affacciato nel vuoto”.

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Ada Cecchini, maestra a Beverone negli anni ’30

Avevo letto un bel libro (Alla ricerca del partigiano perduto) in cui si raccontava dei partigiani in Val di Vara; un’interessante ricerca sui fatti e sui luoghi. Nella breve parte che riguardava Beverone, l’autrice scriveva: “Mia madre, appena ventenne, fu inviata ad insegnare nelle scuole rurali. Raccontava sempre di quel posto straordinario che è Beverone: Un nido di aquile affacciato nel vuoto, sopra uno sperone di rocce rosse, che durante i temporali attiravano i fulmini come calamite”. Mi interessava conoscere il nome di questa maestra. Provai a cercare la scrittrice, ma non risultò semplice, anche perché il libro era stato scritto usando uno pseudonimo. Scoperto poi il suo nome trovai anche il suo numero di telefono, ma non riuscivo a trovarla in casa. Me ne ero quasi dimenticato, poi un giorno riprovai e non so come, a volte succede, sentii che era la volta buona. Le spiegai la mia curiosità, ovviamente non ci conoscevamo, ma avevamo in comune Beverone, e lei in pochi minuti mi raccontò di sua madre, quasi fosse pronta da tempo per farmi quel racconto. 30


Sua madre si chiamava Ada Cecchini, ed era nata nel 1911 a Marola, a tre Km da Spezia. Al suo primo incarico da maestra, agli inizi degli anni ’30, le venne proposto Memola oppure Beverone. Scelse senza indugi Beverone, perché, disse, preferiva l’aria fina di montagna anziché l’umidità della vallata. Arrivata a Padivarma vi trovò una donna di Beverone che era andata ad aspettarla, con un asino. Per quei tempi sarebbe stata cosa poco conveniente che vi fosse andato un uomo a prendere la giovane maestra. Secondo l’intenzione della donna beveronese l’asino avrebbe dovuto trasportare la maestra, ma lei lo accettò solo come portabagagli, e preferì salire a piedi. Erano tempi in cui tutti erano abituati ad usare le gambe. Piace mettere qui un po’ di fantasia, e cioè che la maestra sapesse che andare a Beverone a dorso di asino non portasse molto bene, infatti ben due vescovi diretti a Beverone per la visita pastorale caddero proprio dall’asino che li trasportava, ferendosi pure, anche se fortunatamente non in modo grave. Attraversò la passerella sul Vara, che noi oggi valuteremo un trabiccolo di tavole e funi di acciaio, mentre l’asino e la sua padrona procedevano sul lato opposto, perché la passerella era percorribile solo da persone. 31


Da Padivarma salirono, nel senso che è tutta salita, a Stadomelli e poi a Beverone: circa due ore di cammino. Fu ospitata dalla famiglia Beverinotti, la più e la sola benestante del paese. Ricordava che nella camera in cui avrebbe dormito vi erano degli strani oggetti appesi alle pareti, che non avevano un aspetto particolarmente festoso. Chiese chiarimenti sulla loro utilità. Candidamente le risposero che erano corone da morto in ferro battuto, e usavano portarle al cimitero soltanto per il giorno dei morti, poi venivano riposte di modo che la pioggia non le rovinasse; non avevano pensato a toglierle. Lei chiese cortesemente che lo facessero, tanto più che durante la notte un gufo veniva ad emettere il suo lugubre lamento su un finestrino più in alto. La stanza della scuola era sopra una stalla, cosa molto comune per quei tempi; sopra le abitazioni e sotto le stalle. Se era bel tempo, di pomeriggio, a volte continuava a fare lezione ai ragazzi, ma non nella scuola, bensì raggiungendoli nei pascoli fra le pecore e le mucche, leggendo ad alta voce qualche libro o magari facendo qualche gioco. Per Natale cadde molta neve e non poté tornare a casa. In proposito le era rimasto impresso nella mente un episodio particolare. Questo ricordo occorre cercare di vederlo con gli occhi di quel periodo: la corrente elettrica non c’era anco32


ra, sarebbe arrivata vent’anni dopo. Torce con le pile non avrebbero potuto permettersele, a patto che fossero già in commercio. La gente comune non si poteva permettere nemmeno le candele, che si usavano solo in chiesa; la sola luce possibile nelle case era quella dei flebili lumi a olio, o quella dei legnetti di bosso che usavano nel mulino quando lavorava anche di notte, che erano gratis ma di breve durata. Quindi si saliva verso la chiesa al buio, con il solo riflesso della luna sulla neve, e con poche luci in lontananza, a chilometri, dove la corrente era già arrivata. Ma i tempi era quelli, e noi non ci dobbiamo stupire, ma solo cercare di capire quello che la maestra Ada provò. Ricordava che “le sembrava di far parte di un grande presepe”, specialmente quando nell’ora magica della mezzanotte le campane dei villaggi sparsi in pianura e sulle alture circostanti cominciarono a far risuonare i loro rintocchi. Dalle più vicine a quelle più lontane parevano chiamarsi a vicenda per diffondere il messaggio della notte più dolce dell’anno. “Sì” – raccontò la maestra alla figlia bambina, che la guardava con occhi sgranati – “era come trovarsi in un grande presepe bianco di neve, con sopra il palpitare delle stelle e i rintocchi ovattati delle campane, che si inseguivano di valle in valle”. 33


Ma le sorprese per lei non erano finite. Siccome non aveva potuto tornare a casa, suo fratello le fece, il mattino dopo, l’improvvisata di andare a trovarla. Era marinaio e si era trascinato fin lassù alcuni colleghi, tutti in licenza natalizia. Dopo un bel pranzo in casa Beverinotti, improvvisarono una festa da ballo fuori programma, attirando la dapprima timida e poi entusiasta partecipazione di alcune ragazze beveronesi. Se ne parlò per mesi, in seguito. Peccato che i marinai dovettero rientrare a bordo il giorno dopo! Venne poi la Pasqua, e ancora una volta la maestra preferì trascorrerla in campagna. In pratica tornò a casa solo al termine dell’anno scolastico. Ricordava che al suo arrivo a Beverone pesava soltanto quarantacinque chili, ma quando lo lasciò ne pesava ben sessanta, e tutti i vestiti le andavano stretti! La figlia mi ha detto: “Sarà stato per i manicaretti della famiglia che l’aveva ospitata”, - ma è molto probabile che, dati i tempi, fosse il buon appetito della gioventù, stuzzicato dalla già ricordata aria fine, che le facesse mangiare tutto ciò che passava il convento, compreso castagnaccio e focaccette di mais. Quello fu un anno scolastico indimenticabile per la maestra. Ne seguirono altri in altre sedi, fino 34


all’ultimo ormai vicino a casa. Raggiungeva la scuola sempre a piedi, anche se ora c’erano i filobus. Se ne concedeva qualcuno quando pioveva, e quando c’era il sole… apriva il suo ombrellino a scacchi rosa, come una dama dell’ottocento e via! Beverone non se lo scordò mai. Finalmente in pensione e libera da impegni, si faceva accompagnare ogni anno per una visita al suo “nido di aquile” (con l’automobile ora) dalla figlia Carla, l’autrice del libro sul partigiano, che io ho avuto il piacere di conoscere, insieme con l’occasione di potermi far raccontare questa bella storia. La storia di un ieri tanto lontano, ma rimasto così fresco nel ricordo da sembrare appena trascorso.

Scritto a quattro mani da me e da Carla, figlia della maestra Ada Cecchini.

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Omaggio alla maestra Carla Fiori Questa è una storia importante, anche per il rispetto della sua età, è una storia che ha sessantotto anni. Potrebbe incominciare così: correva l’anno scolastico 1939-40 e a Beverone venne ad insegnare alle elementari la maestra Carla Fiori di Sarzana, la seconda guerra mondiale stava per bussare anche alle nostre porte. Per avere l’energia elettrica bisognava aspettare ancora una diecina d’anni, per l’acqua si andava alla fontana che era a circa quattrocento metri dal paese, in discesa all’andata, in salita al ritorno, il paese più vicino era a circa cinque chilometri a piedi. Ne è passato di tempo da allora, e un giorno sbuca fuori una vecchia fotografia da cui dopo una serie di discussioni con i paesani risaliamo ai nomi degli alunni e per ultimo a quello della maestra. Pur non avendola conosciuta perché in quel tempo non ero ancora nato, sentii il desiderio di provare a rintracciare lei o qualche familiare. Non fu un compito difficile, infatti risiedeva proprio a Sarzana. Andai a trovarla una prima volta senza prima avvisarla, a sorpresa. Mi aprì la sorella, spiegai che ero di Beverone, lei mi disse che purtroppo la maestra era a letto un po’ influenzata, vedeva se poteva alzarsi, anche solo per un saluto. Dopo pochi minuti la maestra Carla Fiori era in piedi arzilla come un grillo; parlare con qualcuno di Beverone dopo tanti anni le aveva fatto pas36


sare tutti i mali. Le avevo portato in dono un libretto di ricordi su Beverone che avevo scritto da poco, che conteneva anche quella foto che la ritraeva assieme ai suoi alunni. La maestra aveva un vecchio album di fotografie di alunni e luoghi in cui era andata a fare scuola, e pur avendomi appena conosciuto, me lo prestò in modo che potessi fare una copia di quelle fatte a Beverone. Tornai dalla maestra riportandole l’album, e in un paio d’ore di colloquio scoprii che persona eccezionale avevo avuto la fortuna di conoscere. Mi consegnò a mano la lettera che mi aveva scritto dopo aver letto il libretto che le avevo portato, in cui mi ringraziava perché con i miei racconti le avevo fatto rivivere quel periodo, elogiandomi anche per come avevo svolto il lavoro. Era scritta a mano, senza la minima correzione e con tratto sicuro, ma soprattutto di grande contenuto. Poi iniziò a raccontarmi ciò che man mano le veniva mente, ed ogni tanto non per l’età ma per l’entusiasmo, qualche ricordo si sovrapponeva ad un altro, come se ogni ricordo facesse a gara con gli altri per non rimanere indietro. “Vede, Beverone non fu il mio primo incarico, però ha avuto sempre un posto particolare nel mio cuore. Da subito mi sono inserita nella piccola comunità, ed ho voluto bene a tutti come tutti me ne volevano. Lisseo era il bimbo più fragile di tutti, e lo ricordo in modo particolare. Vede quei bei colletti bianchi che hanno i bimbi della fotografia, non penserà mica che quella povera gente avesse tempo per queste cose? Glieli mettevo io a scuola, e i bimbi mi 37


sembravano ancora più belli. Fuori della porta di casa c’era un piccolo ripiano in cui mettevo il secchio di ferro zincato per l’acqua da bere, quel secchio era sempre pieno, perché quando i paesani andavano alla fonte davano un’occhiata e provvedevano quando mancava, ed io non sapevo nemmeno chi dovevo ringraziare. Quando qualcuno andava a Rocchetta mi chiedeva se mi serviva qualcosa dalla bottega, ed io che non ricordo nemmeno cosa mangiavo normalmente, so che chiedevo un po’ di pane, perché sa, ho mangiato tanto castagnaccio, che era buono ma guardi nelle foto che gote mi erano venute! Ricordo di quella ragazza che ebbe la febbre alta per diversi giorni, e venne a visitarla il dottore da Padivarma, a cavallo. Stetti al suo letto per tre notti, stava molto male, credeva proprio di non farcela, poi si riprese. Ogni tanto ci trovavamo con la maestra di Garbugliaga, a metà strada, lei con i suoi alunni ed io con i miei. Viveva con lei una sorella che le faceva compagnia, mentre io vivevo da sola, in quella casa grande che faceva anche da scuola, però ci stavo bene, non ho mai avuto timori. Dopo cena feci anche un po’ di lezioni per agli adulti. Mi portavano la carbonella scelta, fatta con legni piccoli, la usavo per cucinare in quei fornelli di ghisa incastrati nel muro che oggi somiglierebbero a una cucina a gas”. Quel venticello che si alzava verso mezzogiorno, “er maestralìn de Lüviğetu”… la preoccupazione per l’ago della macchina da cucire avuta in prestito, che si ruppe… il ricordo preciso di tutti i locali e angoli della casa in 38


cui aveva vissuto… quante cose mi raccontò ancora, e quanto durarono quel paio d’ore. Poi disse: “Ora venga, le voglio far visitare la mia casa”. Mi fece anche vedere la lista dei suoi quasi sessanta nipoti, e poi aggiunse: “Voglio considerarla come uno di loro” - e mi dette un sacchetto di cioccolatini che aveva pronti da qualche parte, come fanno le zie previdenti. La maestra aveva 93 anni e viveva con una sorella che pur avendo un anno in più di lei, dicevano scherzosamente che sembrava più giovane. Le dissi: “Maestra, forse sua sorella sembrerà più giovane di lei, però lei mi sembra più giovane di tutti i suoi scolari di Beverone” - e lei sorrise. Al termine della nostra conversazione mi disse: “Ora che siamo diventati vecchi amici torni a trovarmi, così potremo parlare ancora di Beverone”. Non ricordo da chi, ma mi era stato detto che era una persona speciale; era proprio vero, e mi resi conto di che grande ricompensa avevo ricevuto per quel semplice pensiero di essere andato a farle visita. Cara maestra, non gliel’ho detto, ma ora sono diventato un suo alunno anch’io. “Memoria scritta nel 2008”

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Beveronesi nelle miniere di carbone

Ferrari Pietro di Beverone classe 1926 minatore in Belgio Chiocconi Tullio di Beverone classe 1927 minatore in Belgio La storia mi è stata raccontata da Ida, moglie di Tullio, che per gli intrecci di persone che si sono conosciute merita di essere ricordata; fra l’altro un componente del racconto, Tullio, fu mio padrino di battesimo. Pietro Ferrari era partito da Beverone e si trovò a Milano con tutti gli altri lavoratori provenienti dalle varie parti d’Italia in partenza per il Belgio. Fraternizzò subito con Giovanni Valente, calabrese di Campora San Giovanni, in provincia di Cosenza. Andavano a lavorare nella stessa miniera, a Wandre, circa sei chilometri da Liegi, e furono anche vicini di abitazione, nelle case prefabbricate messe a disposizione dei minatori. I primi tempi il lavoro consisteva nel fare il manovale, cioè lavorare comunque in miniera, ma addetti a tutte le operazioni necessarie per il trasporto del carbone estratto alle varie profondità nella miniera alla superfice. Acquisita una certa esperienza si poteva passare al mestiere di minatore, cioè 40


la vera estrazione del carbone, che comportava una serie di rischi di cui si era venuti man mano a conoscenza; ovviamente cambiava anche la paga che normalmente veniva anche aumentata in base al carbone estratto “lavoro a cottimo”. Giovanni fece arrivare dalla Calabria anche il figlio ed il genero, marito della figlia Rosa. Alla prima discesa in miniera il figlio di Giovanni si spaventò al punto tale da farsi riportare subito in superfice; però non aveva alternative, o lavorava in miniera o tornava a casa. Gli venne dato un incarico meno esposto, ma sempre giù in miniera e poi si adeguò e fece il proprio lavoro come gli altri. Rosa aspettava già il primo figlio, ed attese che nascesse in Calabria per poi raggiungere il marito in Belgio. A Milano un nuovo incontro, Rosa incontrò Linda, moglie di Pietro, anch’essa in viaggio per raggiungere il marito in Belgio, e si accorsero di essere dirette nello stesso luogo, addirittura vicine di casa. In seguito Rosa rimase incinta del secondo figlio e, scrivendo a casa, in Calabria, diceva di soffrire un po’ di solitudine e se magari la sorella più piccola, Ida, avesse potuto raggiungerla per farle un po’ di compagnia per darle anche una mano quando fosse nato il secondo figlio; nel frattempo chiese che le fossero spedite delle fotografie delle sorelle per poterla rivedere. Le foto arrivarono, e prima ancora che farle vedere ai suoi famigliari, Rosa le fece vedere a Linda. Linda le guardò, poi chiese a Rosa se poteva prestarle la foto di Ida, per farla vedere al marito, disse. All’insaputa di Rosa la foto Linda in effetti la 41


spedì al fratello Tullio, in Italia, dicendogli che nel caso la ragazza gli fosse piaciuta di farglielo sapere. Intanto Rosa chiedeva la foto di Ida a Linda che tardava ad essere riconsegnata. Tullio quando vide la foto della bella Ida, sedici anni ma già una bella ragazza, mentre lui ne aveva dieci in più, scrisse subito alla sorella dicendole che le piaceva e la voleva sposare. Linda spiegò poi tutto a Rosa, che a sua volta, convinta da Linda, scrisse alla mamma e diciamo di conseguenza a Ida. Ida era ancora giovane, e non pensava ancora a sposarsi, magari nemmeno in questo modo, ma la mamma acconsentì che Tullio andasse a conoscerla. Tullio andò in Calabria ed ebbe un’ulteriore conferma che la ragazza facesse al caso suo, per Ida una conferma che non era ancora interessata a queste cose. Tullio andò tre volte in Calabria, e Ida cambiò idea. Intanto a Rosa nacque il secondo figlio, e Ida doveva andare in Belgio a darle un aiuto. Giovanni, il padre di Ida, era tornato per un breve periodo in Italia, ed al ritorno in Belgio portò con se Ida. Nel frattempo Tullio era andato a Genova a fare il muratore, così si misero d’accordo e quando il treno transitò per Genova, Giovanni lo conobbe e ne ebbe una buona impressione. Andarono a mangiare assieme in un piccolo ristorante, e Tullio gli chiese se poteva andare anche lui a lavorare in Belgio. In Belgio il lavoro non mancava, andò a lavorare nella stessa miniera di Pietro e Giovanni, e dopo un anno si sposò con Ida. Era il ’56, loro due erano felici, ma in quel periodo vi fu chi la felicità 42


non sapeva più nemmeno dove stesse di casa; avvenne il disastro di Marcinelle in cui persero la vita 262 minatori. Nel frattempo a Linda e Pietro nel ‘53 era nato il primo figlio. In effetti Ida poi non aiutò molto la sorella Rosa, perché trovò subito lavoro in una fabbrica di abbigliamento, con il consenso anche della sorella già felice di averla accanto. Poi Ida cambiò anche lavoro, selezionata per andare a lavorare in una grossa fabbrica di armi, mentre la paga diventava superiore anche a quella del marito che lavorava in miniera. Ida racconta di aver visto solo una volta il luogo vicino la miniera, che ovviamente era recintato e sorvegliato per ragioni di sicurezza; doveva portare la biancheria a Tullio che se l’era dimenticata; racconta che i minatori era tutti uguali, cioè neri e irriconoscibili, fu Tullio che la chiamò per farsi riconoscere. Pietro arrivò a lavorare fino ad 880 metri di profondità. Nel ’55 nacque il secondo figlio di Linda e Pietro. Nel ’59 Ida ebbe la prima figlia, Nadia. Nel ’61 la miniera chiuse ed i minatori si trovarono senza lavoro, però avevano ormai acquisito il diritto di lavorare anche nelle fabbriche, cosa che molti fecero. Tullio e Pietro ebbero diritto ad un anno disoccupazione; Ida lavorava e Tullio si occupava della bambina. Pietro decise di rientrare in Italia, quindici anni di miniera per lui erano abbastanza, qualche soldo l’aveva risparmiato, voleva comprarsi una casa e tornare nei propri posti. Ida non avrebbe voluto, ormai si era ambientata bene, ma Tullio preferì rientrare assieme alla sorella Linda, e così l’avventura belga per 43


loro finì. I primi tempi in Italia non furono facili, c’era da trovare un lavoro, una casa. Inizialmente Ida tornò in Calabria e Tullio a Beverone. Poco dopo Tullio trovò lavoro nell’edilizia, e trovarono casa a San Benedetto, in affitto. In tutto questo intreccio di conoscenze vi fu anche quello che Ida, dopo essere tornata dal Belgio, andò a trovare per la prima volta i suoceri a Beverone. Le prime persone del paese che conobbe furono mio padre ed io. Assieme ci avviammo da Rocchetta a Beverone a piedi, e Ida ricorda ancora che aveva delle scarpe con i tacchi, anche se non particolarmente alti. Tullio non aveva minimamente pensato di avvisarla delle condizioni della strada, cinque chilometri di strada mulattiera in salita, e già complicati di per sé per chi non era abituato a camminare in questi tracciati, figuriamoci con i tacchi. Ida ricorda anche che mio padre rimproverò, anche se bonariamente, Tullio per questa negligenza. Nel ’69 Ida e Tullio ebbero anche il secondo figlio, Andrea, nato esattamente dieci anni dopo Nadia, ma esattamente anche nel senso del mese e del giorno: primo di giugno. Pietro inizialmente tornò per alcuni mesi a Beverone, poi a Riccò dai genitori, ed infine con i sudati risparmi si comprò una bella casa in campagna a Maggiano.

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Costantino Antognelli di Beverone nato nel 1913 minatore in Francia La seconda guerra mondiale era finita, ogni nazione cercava di curare le proprie ferite. Forse nei paesi il disagio era avvertito in modo minore che nelle città colpite dai bombardamenti. Ma non era solo questo, perché nei paesi la miseria e le privazioni non erano un’emergenza, ma facevano parte della vita. Per chi viveva nei piccoli paesi, ancora agli inizi degli anni ’50, l’essere autosufficienti in “tutto” era la regola. Verrebbe anche da chiedersi come avranno fatto i poveri contadini, durante il lungo periodo della guerra, a sfamare se stessi e tutti gli sfollati fuggiti dalla città. Nel dopoguerra tanti paesi arrivarono quasi a dimezzarsi per quanti emigrarono alla ricerca di lavoro per migliorare le proprie condizioni. Anche mio padre tentò questa carta e andò a lavorare nelle miniere di carbone nel nord della Francia. In effetti era reduce da un’altra “Emigrazione” poco simpatica, durata circa otto anni; infatti era stato fatto prigioniero in Africa Orientale e finì nel più grande campo di prigionia della seconda guerra mondiale: Zonderwater, in Sud Africa, che raccolse oltre centomila prigionieri italiani. Partì per la Francia dopo un paio d’anni dal suo rientro in patria. In una fotografia è riportata la data, 7 luglio 1949, e il nome del luogo, Hèrin Nord, che è nelle vicinanze del Pas de Calais. Sia per il viaggio che per l’inserimento nel la45


voro fu avvantaggiato dal fatto che in prigionia aveva studiato il francese, quel tanto che bastava per farsi intendere. Non aveva un fisico possente ma certamente molto robusto, e fu fra quelli che lavoravano nelle gallerie piĂš profonde, molte centinaia di metri, attorno agli 800. Non so dopo quanti mesi tornò a casa, con l’intenzione di ritornare in Francia. Le miniere di carbone non erano luoghi di lavoro privi di rischi, non lo sono nemmeno oggi, e per quanto vi potessero essere piĂš o meno dei sistemi di sicurezza, ogni tanto qualche inconveniente capitava. Mia sorella Adriana chiese a mio padre di non tornare in miniera, perchĂŠ gli disse di aver fatto un brutto sogno. Non so se fosse vera la storia del sogno, o se avesse sentito qualche brutta notizia, sta di fatto che lo convinse a restare.

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Racconto di Adolfo Dopo aver raccontato in un piccolo libro ciò che ricordavo e che ho ricercato del periodo che mio padre trascorse in Africa, parlando con alcuni paesani, ancora riferito a quell’epoca, ma in un luogo molto lontano dall’Africa, sempre riguardo alla seconda guerra mondiale, sono venuto a conoscenza di alcuni episodi vissuti da un altro paesano, che ora racconterò in queste brevi righe. All’incirca dell’età di mio padre a Beverone fra gli altri c’era Adolfo, li separavano pochi anni. Appena iniziata la seconda guerra mondiale furono richiamati alle armi anche quelli che, pur avendo già fatto il militare, erano stati congedati. Mio padre non rispose alla chiamata perché era già da qualche mese in Africa. Arrivò anche la chiamata per Adolfo, ma anziché il caldo dell’Africa a lui toccò il gelo della Russia. Inizialmente era assieme a Bruno, che non era di Beverone, ma qui aveva la fidanzata, la Dora. Furono divisi poco prima di una pericolosa azione, non so di preciso dove si trovassero, il gruppo di Bruno rimase un po’ indietro, mentre quello di Adolfo si trovò in piena battaglia. Di lì a poco nel gruppo dove era Bruno vennero a sapere che il gruppo di Adolfo era stato annientato completamente, ovviamente Adolfo compreso. Bruno fu tra i fortunati che fecero rientro in Italia, e quando tornò a Beverone dalla fidanzata, aveva e sentiva il dovere 47


di dire alla madre e ai familiari di Adolfo ciò che sapeva sull’amico, ma arrivò in paese che era buio, e rinviò il triste annuncio al mattino seguente. Appena alzato e uscito di casa, si trovò attorniato dai parenti di Adolfo che lo salutarono festosamente e gli chiedevano come era andata. Prima che lui potesse studiare il modo di comunicare la brutta notizia, gli dissero di aver ricevuto una cartolina da Adolfo in cui diceva che presto sarebbe rientrato. Dubbioso chiese la data in cui era stata scritta, e rendendosi conto che era parecchi giorni dopo quella battaglia, molto felicemente non disse niente di ciò che avevano supposto che fosse successo, Adolfo si era certamente salvato. Ma come era andata ad Adolfo? Pochi ricordano dei racconti di Adolfo che riguardavano la guerra, perché non gli piaceva raccontare della guerra, ma questo episodio lo raccontò. La battaglia era stata violenta e Adolfo ricordava di essersi trovato sul fianco di un monte che gli ricordava il Monte Nero, era mitragliere, unici compagni il tenente gravemente ferito e la sua arma. Quando da una parte, quando dall’altra, spuntava un soldato nemico che tentava di raggiungere la sua posizione; la sua era l’ultima arma che sparava ancora, la dovevano eliminare, e Adolfo sparava. Incuranti dei suoi colpi e della sua posizione vantaggiosa, uno alla volta provavano a catturarlo, continuamente senza fine. Prese la decisione: tolse le chiavette che permettevano all’arma di sparare, così gli era stato insegnato prima di abbandonare l’arma, in modo che non potesse essere più usata, le gettò 48


via e scappò dalla parte opposta da dove venivano ad attaccarlo. Il tenente era ferito in modo grave e Adolfo lo aiutò nella fuga, c’era la neve ed era faticoso muoversi, il tenente capì che per lui non c’erano speranze e disse ad Adolfo che in due non potevano salvarsi, anzi, sarebbe stata la fine per entrambi, e lo convinse a tentare la fuga da solo lasciandolo al proprio destino. Trascorsi molti anni da quegli eventi, forse anche con un po’ d’ironia, Adolfo diceva: “Devono prendermi ancora adesso!”. Raccontò anche un particolare che riguardava la sua arma. Quando sparava a raffica, c’era un soldato apposta che sostituiva a brevi intervalli la canna, perché si surriscaldava e poi si inceppava velocemente. Pensare a questo inconveniente con i climi freddi di quei luoghi, fa tornare in mente anche gli scarponi con le suole di cartone; certamente non c’era stata una grande organizzazione, e a parte le armi che ponevano i nostri soldati in condizioni di forte inferiorità, viene da pensare anche al freddo che devono aver patito. A distanza di migliaia di chilometri ai due beveronesi, mio padre e Adolfo, era stata assegnata la stessa arma. Sfuggito alla cattura Adolfo fu ospitato per un certo periodo da una famiglia russa, probabilmente gente di campagna che poco avevano a che fare con quella sciagurata guerra, e come altre famiglie russe aiutarono i poveri soldati italiani a sopravvivere. Poi arrivò anche per Adolfo il momento di tornare a casa, a Beverone. Come già detto Adolfo non raccontò molto della guerra in Russia, come 49


tanti altri forse cercava di cancellare dalla mente quei brutti momenti, o forse era una parte delle mente stessa che si rifiutava di fargli rivivere quegli episodi, quindi pi첫 di questo, ed in modo anche impreciso nessuno lo ricorda. Non si finisce mai di scrivere la storia, e quando si va a cercare nel passato si trova sempre qualcosa di nuovo.

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Baffetto Come noi uomini siamo diversi l’uno dall’altro, e nella storia dell’uomo non sono esistiti due uomini perfettamente uguali fra loro, così è per gli animali; non è una legge scritta, basta solo rifletterci su per accorgersi di quanto possa essere vero. A chi osserva un gregge distrattamente, quelle pecore sembrano tutte uguali, ma per il pastore sono tutte diverse, e per quanto possa sembrare strano trattandosi di animali, diverse sia nell’aspetto che nel carattere. Poi, a qualcuno di noi sembrano tutti uguali anche i cinesi o gli africani, solo per il colore della pelle, che è molto peggio. La volpe, come gli altri animali in genere, quando nasce ha dentro di se certe caratteristiche innate, senza bisogno che nessuno gliele insegni, e si chiama istinto. Fra queste vi è quella di non fidarsi dell’uomo, così, senza nemmeno averlo conosciuto. Però, siccome nemmeno le volpi sono tutte uguali, ne era nata una che non aveva impressa nel suo istinto la diffidenza verso l’uomo anzi, contrariamente agli insegnamenti dei suoi genitori, non ne aveva timore, e si era messa in testa di osservare e capire gli uomini; ma per farlo gli serviva una cavia. Angelo, nato a Beverone, si era trasferito fuori dal paese per lavoro, ed era andato ad abitare a Spezia; ma dentro di sé era rimasto beveronese, ed arrivato alla pensione spesso ritornava al paese nella ca51


sa dove era nato, dedicandosi fra l’altro anche all’orto. Questo orto era alla Colletta, poche decine di metri fuori dal paese, e Angelo vi andava a compiere i vari lavori necessari nel corso delle varie stagioni. Aveva anche la compagnia di un bel gatto, che quando era a Beverone non lo lasciava un momento poi, durante i giorni che si trasferiva a Spezia, il micio rimaneva nei paraggi della casa, come ne fosse il guardiano, aspettando pazientemente che Angelo ritornasse. Così Angelo diventò la cavia della volpe Baffetto, e da un certo giorno in poi si compose un quadretto formato da Angelo che faceva i suoi lavori, il gatto acciambellato nelle vicinanze, e Baffetto a debita distanza che osservava il tutto, non visto. Beverone è un luogo particolarmente silenzioso, dove non si può dire che non si sente volare una mosca, perché appena la mosca transita nelle vicinanze si sente volare, eccome. Aggiungiamo l’esperienza di vita contadina con cui si è abituati a percepire non solo i vari rumori e la loro provenienza, ma anche chi li ha prodotti; sta di fatto che un giorno, mentre Baffetto osservava cosa stesse facendo Angelo, questi, con la coda dell’occhio vide per la prima volta la volpe, anche se in effetti non se ne rese proprio conto, scambiandola per il gatto. Baffetto si accorse immediatamente di essere stato visto, abbassò le orecchie e se ne andò via silenziosamente. Però non si era spaventato, ed il giorno dopo solita storia, 52


di nuovo a spiare Angelo, e solita storia, Angelo percepisce la presenza estranea, questa volta però capisce subito che non si tratta del gatto, ma stranamente di una volpe, e lui scappa nuovamente. Questa volta sia Angelo che Baffetto si resero conto di cosa hanno visto e di essere stati visti. Dopo alcuni giorni di questo gioco al nascondino, ad Angelo venne spontaneo fare un fischio a Baffetto, come si usa con i cani, e questo suono nel giro di pochi giorni divenne come un segnale di contatto. Angelo provò a portare qualche avanzo di carne a Baffetto che gradì, infischiandosene della diffidenza che avrebbe dovuto avere verso l’uomo. Si creò così un’amicizia che aumentò un po’ per volta, fino ad arrivare al punto che Baffetto andava a trovare Angelo fino a casa sua, sempre con enorme cautela e grande diffidenza, soprattutto verso il gatto, naturalmente ricambiata con gli interessi, anche perché in natura se uno dei due animali può far del male all’altro, è proprio la volpe che rappresenta un pericolo per il gatto, arrivando al punto di mangiarselo, e pur non essendo in questo caso il desiderio della volpe, questo fatto non era stato spiegato ancora da nessuno al gatto. Come detto Angelo non abitava fisso a Beverone, e saltuariamente andava qualche giorno a Spezia, ed il segnale per far capire a Baffetto che era tornato era il fischio, di sera all’imbrunire. Si era abituato ad andare alla casa di Angelo, accettava di buon grado qualcosa da mangiare, fino al punto di prenderlo dalle mani stesse di Angelo, poi si accucciava per terra vicino a lui, 53


da un lato, sopportando addirittura la presenza del solito gatto, dall’altra parte. Angelo era orgoglioso dell’amicizia di Baffetto, e cosa di meglio se non farlo vedere agli amici? Si arrivò anche a questo, però chi voleva vedere la volpe non doveva fare bruschi movimenti, mantenendo un tono di voce equilibrato, naturalmente con Angelo presente, perché a Baffetto non interessava altro che la sola amicizia di Angelo. Questa faccenda durò un po’ meno di un anno, relativamente poco per la vita media di un uomo, molto di più per la vita di una volpe. Da un giorno in poi Baffetto non si vide più, sparito nel nulla. Inizialmente Angelo non se ne preoccupò, già altre volte la volpe non si era fatta vedere per qualche giorno, ma quando i giorni incominciarono a diventare troppi, incominciò a pensare male. Un pò di tempo prima era tornato a casa il suo amico gatto ferito, lo portò dal veterinario che si accorse che era stato colpito da un paio di pallini di piombo, e poco dopo morì. La cosa lo aveva rattristato, il gatto non aveva fatto certamente del male a nessuno per meritare una fine così, ed ora anche la volpe? Basta, aveva quasi deciso di non tornare più a Beverone. Gli erano rimaste come ricordo solo alcune fotografie fatte alla volpe, ma che forse lo rattristavano anche di più. Ecco, questa è la storia della volpe e di Angelo, cioè quella che ha raccontato lui, che è vera, anche perché in tanti hanno visto con i loro occhi la volpe arrivare al suo richiamo, e l’amicizia che la legava a Angelo. Però la storia non è finita qui, ma ha un se54


guito, e Angelo non lo sa ancora, lo saprà dopo che avrà letto questo racconto. Non lo sapevo nemmeno io il seguito, l’ho saputo pochi anni dopo, e sapete chi me l’ha raccontato? Baffetto! Ero andato a fare un giro alla Pena, un piccolo gruppo di case ora disabitate, a breve distanza dalla Colletta, dove avvennero i primi incontri di Baffetto con Angelo. Osservavo con nostalgia le vecchie case disabitate, pensando ai loro abitanti che avevo conosciuto, immerso nel solito silenzio, quando tutto a un tratto sento un sottile fischio provenire da poco lontano. Non è che fossi spaventato, ma era un fischio sconosciuto. Mi volto verso quella direzione, guardo meglio, e mimetizzato fra le pietre di un muro diroccato: Baffetto. Non faccio movimenti bruschi, non posso aver paura di una volpe, ma cosa ci fa lì? È lui che ha fischiato? Da chi ha imparato a fischiare? La volpe mi guarda, sbatte gli occhi, e mi dice: “Io ti conosco, so che mi posso fidare di te, sei Sergio, il cugino di Angelo, e ti devo chiedere un favore”. Non ricordo nemmeno se ero stupito, o se tutto mi sembrava perfettamente normale, sta di fatto che mi sedetti, e la volpe mi si accucciò di fianco, tranquillamente, come faceva con Angelo, e continuò a parlare. “Quando ho conosciuto Angelo ero poco più di un cucciolo, poi sono cresciuto. Un giorno ho conosciuto una volpina, e per qualche giorno mi sono anche dimenticato di Angelo. Poi volevo tornare da lui, perlomeno a salutarlo, ma Baffina la pensava diversamente; prevaleva il timore che lei aveva verso l’uomo. Fu così che 55


non vidi più il mio amico di Beverone. Dopo alcuni mesi nacquero tre volpacchiotti, e fummo molto presi nell’allevarli. Quando incominciarono a camminare, raccontai loro di Angelo, ed un giorno decisi di portarli a vedere il mio vecchio amico, naturalmente dopo aver promesso a Baffina che non li avrei fatti avvicinare troppo. Fu bello; senza fare il minimo rumore rimanemmo ad osservare Angelo in silenzio, mentre con i suoi attrezzi coltivava l’orto, però stranamente non mi sembrò di vedere il suo amico gatto. Angelo questa volta non percepì di essere osservato da qualcuno, e fu bene così. Sapessi come sarei stato contento di fargli conoscere i miei cuccioli, di farglieli accarezzare, mi sarei fidato di lui, ma non potevo tradire la parola data. Ora sai come è andata a finire, quindi dovresti raccontare tutto questo al mio amico Angelo, e dirgli che mi ricorderò sempre di lui, così come vorrei che lui ogni tanto si ricordasse di me. È la vita, io dovevo andare per la mia strada, non potevo tornare indietro”. Terminato il racconto la volpe si alzò, io allungai la mano, me l’annusò senza timore, mi diede un leggero leccotto, poi, non potrei dirlo con esattezza, perché queste cose fatte da una volpe potrebbero sembrare strane, però io sono quasi certo che mi abbia fatto un piccolo sorriso e, poco prima di girarsi per andarsene mi fece un simpatico occhiolino. Mi parve anche di vedere una piccola lacrima, ma a quel punto si girò senza voltarsi più e se ne andò via, dileguandosi nel bosco. Forse mi sbaglierò, ma appena raggiunse il 56


bosco, con l’esperienza di vita contadina con cui si è abituati a percepire non solo i vari rumori e la loro provenienza, ma anche chi li ha prodotti, avrei detto che il rumore che sentivo non potesse essere causato da una sola volpe. Angelo non è il vero nome del secondo protagonista (il primo protagonista ovviamente è la volpe ‘Baffeto’). I beveronesi sono un po’ così, non amano la prima pagina, vogliono rimanere in disparte, e così ho messo un nome a piacere.

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I marziani a Beverone Tutto incominciò quella notte d’estate, quando per il troppo caldo durante il giorno, avevamo deciso di tagliare l’erba dei prati, che sarebbe diventata fieno, di notte. Uno dietro l’altro, ad alcuni metri di distanza, curvi sui manici di legno, con in fondo ad essi le lame di acciaio bloccate da un anello di ferro in cui era conficcato un cuneo di legno; sentivamo solo il rumore delle lame affilate come rasoi che tagliavano l’erba appena inumidita dalla rugiada, facendola quasi cantare, emettendo esse stesse un leggero suono causato dalla loro leggera vibrazione. Al termine di ogni “andana” ci fermavamo per ravvivare il filo delle lame con le pietre affusolate, che portavamo nel corno appeso alla cintura, mezzo d’acqua, per tenere bagnate le pietre e farle funzionare a dovere. In quelle brevi soste era il momento per tirare il respiro, e dire qualcosa di banale per fare una risata per tirarci su il morale; poi si ripartiva per un’altra “andana”. Tagliavamo il fieno usando ancora quegli attrezzi antichi, per noi non era ancora il momento delle falciatrici con il motore a scoppio. Al tenue chiarore della luna, con lo sguardo rivolto sempre verso il basso, in modo da studiare il terreno e calcolare il giusto movimento da imprimere alle lame, anche se, data l’esperienza, era un lavoro che si sarebbe quasi potuto fare ad occhi chiusi. 58


Anche se sulle prime non riuscimmo a sentirlo distintamente perché ci riusciva sentire meglio la fatica, ad un certo momento il suono delle lame diventò leggermente più forte, come se vi fossero altre persone a tagliare l’erba; il suono era lontano, ma si percepiva chiaramente che si stava avvicinando velocemente. Quando la vibrazione aumentò d’intensità, accompagnata da una leggera luce che si diffondeva tutt’intorno, allora ci fermammo. Quanto fino a quel punto era successo con una certa calma, tanto rapidamente avvenne il seguito. Nel breve volgere di pochi secondi, forse un minuto, la notte diventò giorno, un giorno artificiale; quella che sembrava musica si trasformò in un confuso frastuono, un disco argentato passò velocemente sopra le nostre teste e andò a posarsi sul monte della chiesa. Non c’erano domande e nemmeno risposte, ma un fatto più che evidente: i marziani erano venuti a Beverone! Cosa dovevamo fare? Scappare? La cosa più ovvia ci sembrò quella di salire su per lo stretto viottolo e rientrare in paese, come a cercarvi protezione. Tutti i paesani si erano già radunati silenziosamente nell’aia al centro del paese e, come se fosse stato tutto deciso, aspettavano il nostro arrivo per salire dalla chiesa. Appena superammo l’ultima casa, da dove si incomincia a vedere la chiesa e il campanile, l’oggetto ci apparve nella sua reale dimensione, poiché anche inconsciamente, confrontando le sue dimensioni 59


con quelle della sommità del monte, potevamo comprendere quanto era grande: un enorme disco molto schiacciato ai bordi, che ricopriva tutta la sommità del monte, anzi, in certi punti ne fuoriusciva. Ci radunammo tutti vicino alla chiesa, anche perché era l’unico spazio disponibile, il resto era tutto occupato. Era strano, però non si percepiva la più minima sensazione di pericolo, piuttosto una certa tranquillità, ognuno con le proprie domande a cui cercare di dare una risposta. Nonostante che la notte fosse diventata giorno, a causa della forte luce emanata dal disco come fosse di cristallo, vedemmo distintamente un raggio di luce ancora più luminoso partire da qualche parte del disco, diretta verso il campanile. Dopo alcuni rapidi zig zag si fermò sulle campane, una per volta; ognuna nel momento che era illuminata diventava luminosissima, ed emetteva un suono simile a quello che eravamo abituati a sentire, ma ancora più bello, una dolce e strana vibrazione che stranamente aveva qualcosa di simile alla vibrazione delle lame dei ferri con cui tagliavamo il fieno. Poi il raggio si spostò verso tutto quanto si poteva vedere dal monte. Il movimento era veloce, si fermava un breve istante nel momento che incontrava un paese o qualcosa di particolare, come se stesse facendo una ripresa panoramica o una serie di fotografie. Quando il raggio terminò la sua ricerca, e finì di attrarre la nostra attenzione, ci accorgemmo che 60


alcune ombre non ben definite si stavano muovendo vicino a noi, sembrava quasi che stessero raccogliendo qualcosa da terra. Chissà se i marziani era già venuti sulla terra, il fatto era che questa volta avevano scelto Beverone; sembrava che per loro non fosse un luogo sconosciuto, ma volevano vedere meglio ciò che in parte già sapevano, e forse volevano portarsi via un ricordo. Poi, senza percepirne un preavviso, la luminosità del disco diminuì, esso si alzò alcuni metri, e sparì ad una velocità al di fuori della nostra comprensione. La notte ritornò a stendere il suo velo scuro, ma a parte il leggero chiarore lunare ci accorgemmo di un’altra fonte di luce: proveniva da un piccolo fuoco alimentato da chissà che cosa, esattamente sopra la piccola roccia dove facevamo il falò di S. Giovanni. Durò pochi minuti e poi si spense, lì vicino a pochi metri, nella penombra, si intravide un attrezzo con due manici. Attratti dalla vista del disco nessuno poteva accorgersi di chi o come avesse acceso il fuoco, e avesse messo lì quell’attrezzo, ma evidentemente non potevano essere stati che loro. L’attrezzo era una nuova e moderna falciatrice. Come eravamo saliti silenziosamente, così scendemmo verso il paese, certamente quella era stata una notte che difficilmente ci saremo dimenticati. Nel breve volgere di poche ore, da un avvenimento che in qualche modo sembrava dovesse cambiare le nostre vite, si tornò alla normalità. 61


Rimasi leggermente attardato dagli altri e, poco prima di ritrovarmi alla prima casa del paese, mi sembrò di percepire una presenza. Una di quelle ombre era ancora lì; perché non se n’era andata con gli altri? Doveva dirmi qualcosa d’importante? Mi si avvicinò prendendomi per un braccio, ed era un tocco lieve che non mi costringeva con la forza a fermarmi o andare verso una certa direzione, sembrava invece la ricerca di un contatto. Nonostante che il tocco fosse delicato, sentii quasi caldo, fino a percepire un bruciore, sempre più fastidioso. Mi svegliai, un paio di zanzare mi stavano pungendo un braccio rimasto scoperto dalla vecchia giacca che mi avevano buttato sulle spalle, e che a malapena mi copriva. Bagnato di rugiada mi strofinai gli occhi, poco lontano sentivo le lame di acciaio fare il loro lavoro. Erano Lino e Andrea, avevano appena un paio di anni più di me, ma erano di un’altra generazione. Ancora giovani, ma già e più di me allenati al duro lavoro, mentre io avevo il solo allenamento dei banchi di scuola, e pur se supportato dall’energia dei diciott’anni dopo un paio d’ore ero stanco morto. Loro proseguivano il lavoro, avevano la resistenza alla fatica, sapevano che più di quello non potevo dare, e comprensivi mi lasciarono riposare, facendo anche la mia parte. In quell’estate torrida altre notti e altri prati aspettavano ancora quelle schiene per mettere alla prova la loro resistenza.

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Ne avevamo certamente anche altri, ma durante quell’estate avevamo un nuovo problema da risolvere: volevamo continuare a stare con le schiene curve su quegli antichi attrezzi, o volevamo deciderci ad incominciare ad adoperare la nuova e moderna falciatrice con il motore a scoppio?

Non so se i marziani siano mai andati a Beverone; certamente sopra il monte, dove c’è la chiesa, un disco volante ci si appoggerebbe bene (magari facendo attenzione a non impigliarsi nei tralicci delle antenne); ma le persone ricordate, il caldo di quella estate, l’erba tagliata di notte al chiarore della luna, il riposarsi ogni tanto con una giacca sulle spalle, le zanzare, la falciatrice che ancora non c’era, è tutto esistito. Un piccolo e semplice ricordo? No, un gran bel ricordo, e poi, quando si è giovani (cioè si era) tutto è molto più bello.

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Il Tour del 1950 Anni ’40, anni ’50: grandi periodi per il nostro ciclismo; grande Fostó o Coppì, grande Ginó o Bartalì, come li chiamavano i francesi. Furono anche un po’ odiati i nostri corridori (non bisogna dimenticare che c’era stata la seconda guerra mondiale con la “pugnalata alle spalle”, cioè la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia alla Francia) ma furono anche molto amati. Grande Magni ed altri, tutti gli altri, perché se non ci fossero stati grandi gregari oggi non potremo raccontare la grande storia dei nostri grandi campioni. Bartali: “Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare!” Quasi quasi, e diciamo pure senza il quasi: come è attuale quella frase! Il racconto parte dal Tour del 1950. Il Tour era riservato alla formazioni nazionali, e l’Italia era rappresentata da due squadre: “Tricolori” e “Cadetti”. Gli italiani di entrambe le formazioni erano in forma strepitosa, e vincevano in continuazione. Si aggiunga che non erano in forma soltanto in quel tour; Bartali aveva vinto il Tour nel ’38 e nel ’48, e Fausto Coppi quello del ’49 (vincerà poi anche quello ’52). Poi avvenne il fattaccio: proprio mentre Magni indossava la maglia gialla l’intera rappresentativa italiana decise 64


di ritirarsi in blocco. Si era scatenata contro di noi una vergognosa campagna di stampa che contribuì ad aizzare i tifosi. Lungo le strade i corridori italiani venivano apostrofati con disprezzo: “macaronì”. Purtroppo non si limitarono alle parole, quando ci si trovò nelle grandi salite, dove il contatto tifoso corridore si fa più stretto, in aggiunta agli insulti si arrivò ad allungare le mani. Gino Bartali che, oltre ad essere molto popolare aveva pure un bel caratterino da “toscanaccio”, annunciò il ritiro della squadra. Gli organizzatori tentarono invano di fermarlo nel suo proposito, avrebbero convinto i giornali e i tifosi a cambiare atteggiamento nei confronti degli italiani, il Tour ne avrebbe sofferto. Tirava una brutta aria, e Gino non tornò sul suo proposito; Fiorenzo Magni per solidarietà seguì Bartali in questa scelta, e l’intera rappresentativa italiana tornò a casa. Per anni si discusse se questa fosse stata la scelta giusta. Si disse che Bartali era geloso che la maglia gialla fosse sulle spalle di Magni e non sulle sue; allora appare strano che si fosse ritirato anche Magni. Si disse pure che non era provata l’aggressione dei tifosi nei confronti dei nostri corridori; e anche qui molto strano sarebbe stato il ritirarsi mentre si stava vincendo tappe su tappe e molto probabilmente il tour, rinunciando a discreti guadagni per un capriccio. 65


Non c’erano le telecamere a seguire i corridori, quindi la storia si poteva raccontare in molti modi, soprattutto da parte dei francesi, anche per cercare di coprire il brutto gesto di una parte di tifoseria; comunque la ferita rimase per molto tempo. Facciamo un salto di una diecina di anni e ci troviamo a Brugnato. Siamo agli inizi degli anni ’60 e nel periodo estivo si incominciavano a vedere i primo turisti. Non c’era ancora l’autostrada e la via Aurelia veniva percorsa da lunghe file di auto come non si erano mai viste. Nei pressi dell’attuale casello di Brugnato, poco dopo il “ponte dei frati”, si fermò un’auto francese per chiedere informazioni a un abitante di Brugnato: volevano sapere quanti chilometri mancavano per arrivare a Genova; il passeggero, cioè una signora, si sporse da finestrino e chiese (mi si scusi il francese, ma il racconto riporta questa particolare dizione): “Monsieur, monsieur, quant chilomètr pour Genova?”. Il brugnatese non avrebbe mai immaginato e sperato che gli potesse capitare l’occasione di vendicare, perlomeno a suo modo, i torti subiti dai nostri corridori in Francia. La brace era rimasta accesa sotto la cenere, ed ora si era alzato un leggero venticello che la faceva rivivere.

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Omettiamo per “buona educazione” le prime parole che uscirono dalla sua bocca, che non furono: “Gentile signora…”, ma possiamo ricordare il resto della frase. “…Cusse g’avei fètu au Bartali en ti Pirenelli? Niente chilomètr”. Molto probabilmente i turisti francesi non compresero cosa disse loro il brugnatese, ma che ci fosse qualcosa che non andasse in proposito di questo ‘Bartali’ lo avvertirono, e certamente lui fu felice per quell’incontro che gli aveva dato la possibilità di togliersi un bel sassolino dalla scarpa. “Cosa gli avete fatto a Bartali sui Pirenei? Niente chilometri!”

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" Un pensiero per Beverone " 29 agosto 2008: agli amici di Veppo venne l’idea di esporre, il giorno della festa, delle vecchie fotografie di Beverone ad un pannello di compensato. Per un insieme di contrattempi le foto non furono pronte, ed il pannello era lì vuoto. Come rimediare? Anziché le foto vi furono messi dei fogli in bianco ed una penna, e chi voleva poteva lasciare un pensiero. Sopra il pannello fu messo il titolo: “Un pensiero per Beverone”

29 agosto 2008 Quante poesie sono state scritte per Beverone… ma forse la più bella è quella che non sappiamo quando sia iniziata, e non vorremmo mai vedere terminata. È quella che viene scritta anno dopo anno da chi viene alla festa di San Giovanni " ai ’29 ". Ora tocca a noi scrivere la nostra strofa, e ognuno fa la sua parte: chi lavora, chi partecipa, chi da una mano di qua, chi da un aiuto di là. E in conclusione: 68


un grazie, un bacio e un salutone… da tutto Beverone. Questa festa sarà un successone e noi siamo felici di essere a Beverone. Mario, Elia, Gino, Carla, Ezio, Lucia, Elsa, Paola, Gianni, Daniela e tutti gli altri. Beverone mi ricorda l’infanzia, le passeggiate a piedi il profumo dell’erba il mare visto dalla chiesa, … il posto più bello del mondo ! ! ! La grappa all’achillea fa onor alla sua nomea accoglie il pellegrino che ne svuota il bicchierino. A Beverone si mangia gran benone, l’accoglienza in questo paesino ti fa tornar assai bambino. Grazie: Barbara, Laura, Fiorenza. Sei piccolo, ma grande nei cuori.

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Molti ricordi della prima giovinezza sono racchiusi nei vicoli e nelle contrade di Beverone: era il periodo della Resistenza, a cui mio marito ha preso parte. Il suo nome è Vilmo. Danke für soviel offenheit & Italienische Lebensart. Viel Freude & Glück in Eurem Paradies. “Tschau” Jonas. Jonas è un ragazzo austriaco che stava girando in solitaria per l’appennino ligure, e casualmente si trovò a Beverone il giorno della festa. Si divertì con tutti, e si fermò anche il giorno dopo, aiutandoci anche a rimettere tutto a posto.

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agosto 2009

La meglio mangiata dell’anno. Stefano. Sono stato maestro a Beverone negli anni 1945 1946. Vorrei incontrare qualche mio alunno. Vi aspetto; maestro Morachioli Socrate. È l’unico paese dove ho insegnato che ricordo con tanta simpatia. 70


La migliore ospitalità trovata. Samanta. Cercasi fidanzato di Beverone. È bello ritrovarsi ogni anno in questi monti verdi e maestosi che ci inebriano di tanta serenità. Ada. Le Cinque Terre sono belle, ma non c’è paragòn con Beveòn. Anselmo di Stadomè. Ho una casa qui, e appena posso mi ci rifugio con mamma e Davide. È un paradiso! W W W Beverone ! Erica. Ho un sacco di amici e gli voglio bene. W W W Beverone! Cate. Beverone sei forte: piccolo, ma grande, perché apri le feste estive con la “Madonna di Maggio” e le chiudi con “San Giovanni Decollato”.

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Sarà anche piccolino, ma è un paese stupendo… Ci si diverte e si sta in compagnia. “Se ci hai regalato il pianto ed il riso, noi qui sulla terra non lo abbiamo diviso”… “Non c’è quello che c’è in città, però c’è la felicità”. W Beverone.

E per finire il pensiero che ci ha regalato Don Benjamin: J’admire beacoup votre foi, courage e attachement a votre Eglise. Diusi reunis en deux ou trois, le Signeur est present parmi vous. Don Benjamin Ukelokpa Ammiro molto la vostra fede, coraggio e attaccamento alla vostra Chiesa. Riuniti in due o tre, il Signore è sempre presente fra di voi. Don Benjamin Ukelokpa Congo Democratico - Bunia.

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Come era bello stare lassù Come era bello stare lassù quei giorni lunghi lontani dal tempo, come una favola, un sogno dorato, che scompariva assieme al sole. Mi risvegliava di buona mattina e mi lasciava soltanto la sera, assieme alle stelle e alla calda atmosfera. Quei giorni felici sdraiati al sole sull'alta collina che domina il mondo, pensieri e parole vagavan nell'aria giorni dolci dove il sogno è realtà. Sembra essere attorno e dentro di te, i nostri pensieri e i desideri assieme nell'aria viaggiavan leggeri. Come gli uccelli che stanno lassù e guardano il mondo scorrer laggiù. Mauro

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A Beverone O Beverone, mio picciol paesel lontano, solo chi sta lontan da te ti può vedere con gli occhi della mente, e ricordar col cuore. Tanto sei piccolo o Beverone mio, ma tanto e grande è il bene che ti voglio io. Una casetta con il tetto rosso, una famiglia che scordar non posso. O campanile che la in alto stai, per me l’Italia tutta tu saluterai, quando suoni per l’Avemaria ricordale di me alla terra mia, dille che sto lontana, ma che ogni sera rivolgo per tutti la mia fervida preghiera. Ciao Beverone non ti scordar di me, io ti saluto e non mi scorderò di te. Adriana Antognelli - anni ‘50

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A Beverone Tu, quasi sentinella sugli spalti, vigili il paesel che a te s’aggrappa, o Beverone che dall’alto guardi, picciola chiesa posta in vetta al monte. Quando al mattino il primo sol t’indora chiaman le tue campane alla preghiera; rispondon le altre chiese da lontano: dona la pace tua Signore Iddio e dacci oggi il nostro pane quotidiano. Brucan le pecorelle sul sagrato, la rondine garrisce al campanile, mentre laggiù, dove riluccica il mare, pulsa la vita con ardor febbrile. Quando imbrunisce, e in faccia all’Apuane tramonta il sole, e giunge ormai la sera, dicon “Ave Maria” le tue campane, e mormora il viandante una preghiera. A notte tutta dorme la natura, tu sola vegli, piccola chiesetta, sui morti tuoi, sui vivi, mentre la in fondo un’auto via saetta. Conte Leonardo Zucchini - anni ‘50 76


Beverone Pieve sospesa sui cieli a guardia delle tempeste col basso quadrangolare campanile, in cui suoni un lugubre campanaro all’appressarsi dei nembi la martellante dei mondi agonia.

Raccolta: “Acquarelli” Antonio Zucchini - 1924

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Oltre quel muro Oltre quel muro sgretolato dagli anni sul ripido poggio percosso dai massi rotolati nell’incuria del tempo lo sguardo percorre arcani sentieri fra le buie cortine dei monti sdraiati come animali nel riposo dell’ultimo tramonto. Corre lo sguardo sull’ampia distesa del piano solcato dalle bianche pietraie del fiume e risale lungo i crinali fra i casolari già punteggiati di tremule luci cogliendo contorni sfumati di paesi assonnati. Gocce di vita sospese fra il cielo e la terra sul grigio pallore del Magra che appare ormai pronto a morire nel nulla di vane memorie lontane. Guido Taravacci Dal muro della chiesa di Beverone Marzo 1983 78


Magia Le casette accovacciate si snodano in un’antica adorazione ai piedi di quella chiesetta che si staglia nell’azzurro e sembra, col suo campanile, voglia fare solletico al cielo. Questa è un’emozionante tela dipinta da un Grande Artista; ma mani laboriose di tanta gente, con fatica e passione, hanno dato vita a questa muta visione: Beverone. Carla Lorenzoni

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… Sussurri di un paese Alle prime luci, dall’alto dei colli, pervasi da inenarrabili trasparenze, colori nitidi e melodie prodotte da faune a molti sconosciute, ecco una motosega o un vecchio trattore, distanti chissà quante centinaia di passi dall’ultimo camino fumante, portare lentamente il paese al suo risveglio. È andata bene… … fa ancora abbastanza freddo e questa notte, con le finestre barricate, nessuno ha potuto sentire le zuffe di qualche gatto, o della volpe che provava ad entrare nel pollaio dei vicini a creare scompiglio. Ma i cinghiali, accidenti a loro. Quelle bestie sembrano non scordarsi mai del paese. Ogni notte, in coro, dalle conche ai piedi del Monte Nero, ci ricordano, per qualche minuto, di essere i padroni del bosco. Speriamo non siano anche entrati nell’orto del Giò, o dovrà lavorare tutta la mattina per porre rimedio ai danni fatti… comunque dopo pranzo potrà riposare sotto il pergolo.

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“E ora chi stà arrivando?” Si sente un motore provenire da Garbugliaga, e non è la corriera, non è questa l’ora della corriera. Infatti ecco una piccola macchina rossa, poco dopo, fermarsi ai piedi del vecchio cimitero e lasciar scendere qualche persona. Mormorano qualcosa, forse un breve saluto ai cari, e via. Per il resto un grande silenzio. Un maestro che per anni ha insegnato, senza pur parlare, che la serenità di un territorio può trasmettere serenità anche all’uomo. Un dono per alcuni, una scelta di vita per altri, una ricchezza per tutti. Andrea

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Sono stato a Beverone Sono stato a Beverone tanto tempo fa, quanta gente strana che ho visto tutta gente di paese. Non c'era strada né bottega acquedotto e telefono, non c'era quello che c'è in città però c'era la felicità. Gli uomini a lavorar nei campi una gallina in mezzo all'aia, delle donne alla fontana e i bambini a pascolar. Ho visto un vecchio col bastone che mi raccontò con voce lenta, storie di fame e di guerra storie della sua gioventù.

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Son tornato in quel paese ora ho qualche anno in più, anche qui il tempo passa e il progresso mette la sua firma. D'inverno c'è poca gente quasi tutti sono anziani, d'estate poi si ruberà la loro amica tranquillità. Prima si sentiva dire che qui il tempo s'era fermato, si arrivava qui per caso ci si lasciava un po’ di cuore. Però se tutti noi lo vogliamo si può salvare ciò che è rimasto, basta essere tutti parte attiva in questa piccola comunità. Sergio

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L’incendio In questa notte calda d’estate l’odore acre delle pinete bruciate. E bruciano i pini e bruciano gli spini. Tra gli sterpi voli incerti e fruscii diversi. Sotto le foglie aspettano la morte. È del cinghiale ansimante l’urlo agghiacciante. Nella notte calda d’estate il terrore è nel bosco, sta ormai morto il merlo sul posto. Nelle case viltà, nessuno ha pietà della vita che muore, nessuno ha pietà di quel povero pino che protende i sui rami in quel cielo turchino. Al mattino la rugiada sui rami neri, lacrime di folletti fuggiti via.

Giuseppe Sturlese - Campiglia 84


Amore per Beverone Oh Beverone, piccolo paese mio, quando non ti son vicina manchi tanto, ti penso sempre. Qui sono nata e son cresciuta, ho conosciuto le prime pene le prime gioie. Qui ho vissuto la mia infanzia e ho conosciuto il mio primo amore e unico‌ no, non unico con esso ho conosciuto l’amore di mamma. Carla Moretti

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Il vichingo Alto, biondo, magro, dinoccolato, percorreva a falcate, con le sue lunghe gambe, il sentiero che da Beverone, lassù sul monte, conduceva giù, lungo il pendio della Selva ricca di castagni frondosi, fino a Rocchetta. Dalla piazzetta ove stavo seduta, vicino alla piccola bottega di mamma, vedevo Lino spuntare sul ponte vecchio. In pochi balzi era già li, accanto a me e col suo bonario sorriso, dal quale traspariva tanta timidezza, mi salutava festoso. Io rispondevo e stabilivo tra noi un colloquio, fatto più di parole mie e di assensi suoi. Era poco loquace l’amico d’infanzia! Ma i suoi occhi lucenti erano attenti e vivi! Mi guardava, ascoltava e dava qualche veloce risposta, mentre portava continuamente alle labbra la sigaretta stretta tra le dita. Le volute di fumo, per poco, gli nascondevano il viso. Poi se ne partiva per i suoi lavori, non prima di aver salutato mia madre. 86


Umile, semplice e buono, questo eterno ragazzo disponibile, di Beverone fu l’anima anche quando il paesello si spopolò, tanto che il suo nome e quello del paese erano … una cosa sola. Simile ad un vichingo, coi capelli scarmigliati svolazzanti nel vento, egli scorrazzava nei boschi in cerca di “ciocchi” da pipe e nulla egli temeva. Sembrava sempre giovane e forte; ma dentro di lui, come una mano artigliosa, il male avanzava silente, e, a poco a poco, gli portò via tutto. Non avrebbe voluto arrendersi Il biondo vichingo, ma ormai le forze scemavano ed il sorriso, all’improvviso, scomparve per sempre dal suo tenero, fanciullesco viso. Però, è certo, che il suo nome ed il ricordo di lui non svaniranno dal cuore di chi lo ha avuto per amico. Isa Sivori. 87


Pensiero... Dai, non litigate, siate più buoni, non vi adirate, ponderate le cose, non vi sbranate per un pezzo di pane, non ne vale la pena, neanche per il mattone. Non vi odiate, è solo ciarpame, accozzaglia terrestre senza valore. Inutili fuochi, inutili fumi di lotte violente anche tra due fratelli, di grida sopite come antiche battaglie. Guardate un po’ indietro, guardate dall’alto; fermate la corsa di questo fuor tempo. Imparate a guardarvi da dietro lo specchio, ma ragionate che c’è l’intelletto. Le cose di prima sono passate, e devon restare solo i buoni ricordi, non serve il veleno, non serve il rancore di cosa mi hai detto di cosa mi hai fatto. Guardate un po’ il bosco che cambia colore, non solo l’asfalto indurito dal sole. 88


E sul volo di rondine ascoltate la sera, sentite gli odori, sentite gli aromi, sentite la terra bagnata di pioggia che ci racconta di vite lontane, di vite sofferte, di vite tirate, di tanta stanchezza fin dentro le ossa, ma allegre nel cuore al calar della sera. Nasconder lo sguardo per paura dell’altro, o sentirsi più in alto, è cosa meschina. Dei doni a voi dati non fatene scempio, controllate il pensiero con grande giudizio. Apprezzate il perdono, il sentirsi umili; cercate l’essenza delle cose più semplici, altrimenti si rischia di cadere nel buio. Ma sono sicuro, ho già fatto le somme, e sono tranquillo, sono sereno, le cose da sole andranno poi in fila. Vogliatevi bene, torno a ripetere, io da quassù, dalla luce, vi osservo. Mauro 89


Il mio ‘68 Ho appena finito di leggere il libro: ‘Notte prima degli esami’, ambientato nell’anno 1989. Mentre leggevo mi è venuto spontaneo vedermi al posto dei ragazzi che vivevano quell’esperienza; ‘canne’ a parte e ragazze pure: per le prime dovevano passare diversi anni prima che io ne conoscessi l’esistenza, e meglio così; per le seconde, un po’ per mancanza di materia prima, un po’ perché i tempi forse non erano ancora maturi, le vicende narrate nel libro le avevo vissute solo in qualche film. Ho avuto anch’io la mia ‘Notte prima degli esami’, qualche anno prima, nel ’70. Man mano, con la velocità che la nostra mente ci permette, mentre seguivo le varie vicende, con una buona dose di nostalgia, le confrontavo con quelle da me vissute; si sa, l’erba del vicino è sempre più verde, ma comunque il confronto direi che sia impietoso, d’altronde non possiamo mica raccontare tutti di aver scalato il monte Bianco, ci sarà pure qualcuno che si è dovuto accontentare di scalare una piccola collinetta. Mi sono chiesto quanto possa ricordarmi di quel periodo a distanza di quarantaquattro anni. Perché non provare? Però occorre far attenzione, per90


ché arrivati ad una certa età si corre il rischio di voler ritornare giovani; allora conviene ricordare sì quando lo si era, ma in modo leggermente superficiale, senza andare troppo nel profondo; quindi, anche se molti avvenimenti già mi si accavallano, li scorrerò molto velocemente, tenendone a freno alcuni. I ricordi quasi sempre sono belli e ci fanno bene, ma ci possono essere anche quelli che fanno male, perciò vanno trattati con riguardo. Per ognuno di noi gli anni della propria infanzia e poi gioventù sono importanti ed a volte anche ‘favolosi’. Non possiamo scegliere quando nascere, ci tocca, (e a ben pensarci è già molto bello che ci tocchi) vivere in un certo periodo. A me è toccato vivere la mia gioventù nei «mitici anni ’60»: i « favolosi anni ’60 ». Il mio tentativo di ‘Prova della memoria’ riguarderà soltanto l’argomento ‘scuola’, e la mia mente mi porta già a qualche anno prima della fatidica notte che segna il confine fra l’essere un ragazzo e il diventare una persona quasi matura, (già, per niente lo hanno chiamato ‘Esame di maturità’). Sono nato a Beverone, un paesino che nel periodo della mia infanzia contava circa una quarantina di persone; i ragazzi più o meno della stessa età erano: Dario, Giuseppino, Andrea, Lino, Giuliano ed io, 91


più due ragazze: Giovanna e Bruna. Si tenga presente che quel numero di persone non era da considerarsi esiguo, anzi, a noi sembrava di essere in tanti. Per le scuole elementari non c’era da fare molta strada perché allora veniva una maestra al paese. La scuola da noi iniziava anche più di un mese dopo del normale. La scuola di Beverone era detta ‘Sussidiata’; in pratica quando incominciavano le scuole le maestre erano distribuite nelle scuole di Spezia e nei vari paesi più grandi di Beverone, poi si provvedeva ai paesi più piccoli come il mio, e questi normalmente erano raggiunti da maestre molto giovani, spesso al loro primo incarico. Durante il periodo delle mie elementari Beverone si poteva raggiugere solo a piedi, ed il tragitto più breve era attorno ai cinque chilometri. Non so quante volte le maestre che ho avuto io fossero tornate a casa durante l’anno scolastico, certamente non tante. Mi è stato raccontato di un paio di maestre che insegnarono a Beverone agli inizi degli anni ’30 e ’40 che tornarono a casa loro solo al termine dell’anno scolastico, e che ricordavano quel periodo con affetto e nessun cenno ad eventuali difficoltà incontrate. A questo proposito devo ricordare che fino agli inizi degli anni ‘60 a Beverone non solo mancava la strada carrozzabile, ma non c’era l’acqua in casa, e per averla occorreva andare alla ‘Fontana’ a 92


circa quattrocento metri (in discesa all’andata, altrettanti al ritorno in salita), non c’era il telefono, non c’era il gabinetto non solo a scuola, ma nemmeno in quasi tutte le case, e non c’erano neppure vasche da bagno o docce. Strano, queste mancanze le sento oggi, ma allora era normale: questi lussi non c’erano, e basta. Ovviamente eravamo tutti assieme, cioè ‘pluriclasse’. Avevo sempre qualcuno che faceva una classe avanti a me, perciò oltre alle mie di lezioni potevo ascoltare anche quelle dell’anno dopo; quindi l’anno seguente ero già avanti con il lavoro. Ero abbastanza bravo, ma va detto in senso relativo, cioè confrontato agli altri miei compagni. Io sono nato nel ’51, che con gli anni ho scoperto essere un periodo di confine. I miei compagni che avevano un paio di anni più di me erano quasi di un’altra generazione; ancora alle elementari, forse inconsapevoli, erano già più grandi di me. Pensavano già ai lavori nei campi e a tutto quello che si faceva in campagna, in pratica quasi tutti non amavano molto lo studio e questo faceva di me un bravo scolaro. Ricordo di aver ‘meritato’ un dieci e lode perché un giorno la maestra, dopo aver spiegato come calcolare l’area del quadrato si rese conto che nessuno aveva capito un gran ché; allora pensò di chiederlo a me, che ero un anno indietro, ed alla mia pronta risposta mi dette 93


quel bel voto, forse anche perché fosse da stimolo per gli altri, ma non credo proprio che fossi stato invidiato minimamente per questo. Mio fratello (appunto due anni più di me) diceva che forse sarebbe potuto diventare un professore o qualcosa di simile, ma la mucca che pascolava gli aveva mangiato tutti i libri. Ovviamente scherzava, ma già da qui si capisce dove era rivolto il pensiero. Mi sto accorgendo di avere molti ricordi del periodo delle elementari, ma questa è una tappa di transito, e mi porto subito alle scuole medie. Ero il solo di Beverone che andava oltre le elementari, non solo fra i miei coetanei, ma prima di me non ho conoscenza che nessuno lo abbia fatto, ad esclusione di alcuni beveronesi che studiarono in seminario e diventarono preti, ma si parla degli inizi ‘800 e prima. Era appena finito il periodo dell’avviamento e incominciava quello della scuola media che per la precisione si chiamava ‘Media Unificata’. Per mia fortuna, perché le maglie della scuola media, appunto agli inizi e ancora sperimentale, erano più rade di quelle dell’avviamento. Anche qui la bravura era relativa (rispetto agli altri miei compagni di scuola) perché nonostante mi fossi ammalato tutti e tre gli anni per più di un mese per volta fui sempre promosso. Presi tutte le malattie infettive possibili, al termine delle 94


quali mio padre regolarmente andava a chiedere al preside qualche consiglio sul come fare per recuperare il tempo perso; il preside regolarmente rispondeva che non avrei dovuto fare altro che studiare come avevo fatto fino a quel momento; ed io regolarmente continuavo a non studiare quasi per niente a casa, se non a prestare un minimo di attenzione durante le lezioni. Va detto che quella era per mio padre la sola udienza a cui andava durante l’anno, (comunque in pochi allora usavano andare alle udienze), e che non ero assolutamente assillato da sue domande o controlli vari; ed io in qualche modo, senza particolari sforzi, non superavo la minima media del sei. Non c’era ancora la strada carrozzabile, quindi da Beverone con mio padre partivamo il lunedì e tornavamo il sabato, percorrendo i cinque chilometri che ci separavano da Rocchetta a piedi. Poco lontano da Beverone c’era e c’è ancora una cappelletta dedicata a S. Antonio da Padova (il santo dei miracoli), dove mi sono fermato diverse volte prima di qualche saggio in classe o interrogazione particolare, e chi lo sa che un piccolo aiuto non mi sia arrivato anche dall’alto. Quando uscivamo da scuola a volte giocavamo alle biglie. Arrivati in terza, avevo appena incominciato a giocare bene e a vincere un po’ di biglie a 95


quelli di prima e seconda, ed il mio compagno Ezio di Veppo mi disse: “Siamo diventati grandi, questo gioco non è più per noi”. Poi c’erano le ragazze, altro che biglie. Non quelle della mia classe, ma quelle che erano uno anno avanti e frequentavano l’ultima coda dell’avviamento. E di nuovo l’erba del vicino è sempre più verde, fuori che questa volta l’erba del vicino ero io. Per la mia età ero già un bel po’ alto, vestito bene no; per dare l’idea un paio di scarpe erano per tutto l’anno, così pure per il resto dell’abbigliamento; ma d’altronde era così per la maggioranza, soprattutto per quelli come me che venivano dai monti. Chissà, forse come dicono: ‘altezza mezza bellezza’? Fatto sta che alcune, anche carine, facevano una specie di corte al beveronese, arrivando a soprannominarmi ‘Antognelli, il ragazzo dagli occhi belli’ (la cronaca lo impone, ma mi vergogno come un cane a ricordarlo). Ma non esageriamo, non uno stuolo, due o tre. Considerata la mia età, considerato che le ragazze a pari età dei maschi sono più sveglie, figurarsi quelle, che ne avevano uno in più; non sapendo io ancora come l’argomento andasse trattato, cosa potevo fare… niente potevo fare; il tutto ebbe il suo massimo in un bacio che una mi dette, naturalmente dopo avermi chiesto il permesso per farlo, luogo del mi96


sfatto ovviamente i bagni: roba da matti. Anche per il periodo delle medie mi accorgo di avere molti ricordi, ed ancora provo un non so che di nostalgia, ma allontaniamoci ancora un po’ di più da Beverone e andiamo a Spezia. La scelta non era del tutto consapevole, così ci era stato consigliato, e così mi ritrovai all’Istituto Tecnico Industriale. Ricordo molti viaggi avventurosi per spostarci dai vari luoghi dove abitavamo per andare a Spezia, specialmente d’inverno, (in sei anni di superiori abbiamo abitato in quattro posti differenti). Avemmo anche alcuni incidenti stradali, fortunatamente senza danni alle persone. I soldi erano pochi, e mio padre acquistava auto di seconda mano, e ovviamente ‘da poco’. In quei tempi, dopo aver sperimentato una ‘Topolino tipo C’ molto vecchia color verde persiana, un’auto che costava poco era la ‘Dauphine’ usata, e ne cambiammo tre. La Dauphine era famosa per la tenuta di strada, cioè non la teneva proprio, e forse fu anche questa la causa dei vari incidenti. Dicevano che per migliorare la stabilità occorreva mettere un sacco di sabbia di cinquanta chili nel bagagliaio anteriore. Come disse Grillo in un suo spettacolo: “Con la Dauphine… se sbagli la manovra di parcheggio ti ribalti”. Il primo anno fu il solo in cui fui bocciato, for97


se venivo da una scuola di campagna, forse non ero ancora maturo per quella classe. Sono nato di febbraio e sono andato a scuola circa un anno prima del normale, ma fino alle medie il fatto non aveva creato alcun problema. Non riuscivo a capire niente, quasi parlassero un’altra lingua. Persi l’anno di vantaggio che avevo e così mi trovai l’anno seguente ad un passo più giusto con i tempi. Erano i tempi che al Tecnico, sia nelle prime che nelle seconde, la media dei promossi a giugno era attorno ai cinque-sei per classe, raggiungendo dei picchi di un paio per classe; questo detto non per difendere la mia bocciatura che era ampiamente meritata e giustificata, ma per dare l’idea di cosa fosse il biennio. L’anno dopo, ripetente, mi è rimasto impresso; fu come la dimostrazione di quale miracolo possa essere la nostra mente: studiai pochissimo, ma in compenso bastava che sentissi le spiegazioni in classe e tutto quello che non avevo capito l’anno prima, d’incanto riaffiorava, come fosse rimasto lì ad aspettare. Chiesi al mio compagno di banco della prima classe (Agenore), lui promosso, che rivedevo ogni tanto, come era la seconda classe. A parte che lui studiava, ma mi disse che il trucco era quello di incominciare a studiare subito, dal primo giorno di scuola, poi man mano tutto sarebbe 98


diventato più semplice. Così quando arrivai in seconda feci, e semplicemente così fu; anche se i tempi cambiano mi verrebbe da dire : ‘Provare per credere’. Dalla terza in poi la musica cambiò molto, ormai la selezione era stata fatta, chi voleva continuare doveva darsi da fare, cioè studiare, perlomeno un po’ di più di quanto io ero abituato. E si arrivò al fatidico ’68. Hanno detto che il decennio ’60-’70 è stato caratterizzato dal più grande rinnovamento generazionale dell’intero secolo. Una parte di mondo era in fermento: il ‘Maggio francese’, ‘il Concilio Vaticano II’, ‘i Beatles’, ‘i Rolling Stones’, ‘il ’68 studentesco’, ‘le lotte operaie’, ‘il boom economico’, ‘la 600’, ‘i capelli lunghi’, ‘il festival di Woodstock’, ‘le Minigonne! ! !’. (L’elenco sarebbe molto lungo, ho buttato lì a caso questi nomi, ma molti sarebbero i nomi e gli avvenimenti da aggiungere). Vedo ancora la fiumana di studenti del Tecnico sotto i portici di Viale Italia, tutti con il loro cappellino alla Beatles (la Beatles mania). Insomma un bel po’ di cambiamenti. Devo ammettere che non ero particolarmente a conoscenza dello scenario politico del momento; a mia giustificazione ero in buona compagnia, però 99


come tanti altri seguivo la corrente. Ogni tanto ci aggregavamo agli scioperi degli operai, e qualcosa si incominciava ad elaborare e a farci un’idea. Sia chiaro che non ho la presunzione di raccontare nemmeno la minima parte di quel ‘68 in modo serio, posso soltanto raccontare un mio semplice ricordo di quel periodo. Tutto era nell’aria. Vi fu un’assemblea molto numerosa, in tanti parlarono; a volte anche in altre assemblee mi venne un pensiero da esporre, ma di fronte a quel gran numero di studenti non trovai mai il coraggio di salire sulla pedana. Quel giorno parlò anche la ‘sola’ ragazza che studiava al Tecnico, che non ho mai conosciuto di persona, ma politicamente era bella tosta. Al termine dell’assemblea, come se ci fossimo messi d’accordo prima, si incominciò l’occupazione (pacifica) della scuola. Fu un’esperienza molto bella che mi aiutò in tanti aspetti di quel momento della mia vita. I bidelli continuavano a fare il loro lavoro; una buona parte di professori venivano fra di noi a discutere dei vari problemi che ci ponevamo su come avrebbe dovuto cambiare la scuola. Ad alcuni professori avevamo iniziato a dare del tu, ma non per questo senza mancare loro di rispetto; solo li sentivamo più vicini, come non lo erano stati fino ad allora. Potevamo chiedere loro una sigaretta, 100


chiedere consigli. Uno di questi consigli, fra i più discussi, fu su che metodo dovevamo seguire per studiare; una cosa in apparenza banale, ma che tanti di noi non si erano mai chiesti, e forse poi avrebbe dato un aiuto a quelli che sarebbero andati all’università. Alcuni di noi, in un certo senso più maturi e un po’ più preparati politicamente, tenevano dei collegamenti con le altre scuole, anch’esse occupate, per scambiarsi le varie strategie; poi tornavano e ci riferivano. Mi sembra di sentire ancora un paio di loro che a furia di parlare, fra assemblee e contatti vari, non riuscivano più a parlare, la voce se ne era completamente andata. Nel giro di un paio di giorni ci eravamo organizzati anche per il mangiare. Alcuni di noi facevano il giro dei negozi che ci regalavano alimentari di ogni genere, che poi disponemmo ordinatamente in un’aula adibita per l’occasione a magazzino. Questo girare fra i negozi non era solo per ricevere un aiuto materiale, per questo avremmo potuto portarci dei panini da casa, ma era un mettere al corrente l’opinione pubblica di quanto stava accadendo, e tanti comprendevano e condividevano, la gente era con noi. Oltre che di giorno occorreva occupare anche di notte. Non tutti i genitori concedevano ai loro figli di partecipare all’occupazione notturna, io fui tra quelli, mio padre mi portava senza opporre nes101


sun ostacolo. Non ho memoria di quanti giorni durò l’occupazione, però dopo un po’ di tempo incominciò a girare la voce che un certo giorno sarebbe venuta la polizia, e così fu; si diceva che quelli trovati in quel momento ad occupare sarebbero stati ‘schedati’; io non so come sia andata perché quella notte non c’ero, ma per quanto riguarda la ‘schedatura’ non ricordo che abbia avuto nessun un seguito. C’erano gli studenti delle quinte che dovevano affrontare l’esame di stato, e per loro stare troppi giorni senza scuola poteva essere un problema, ma non fu certamente per questo che terminò l’occupazione. Arrivai anch’io alla quinta, ed anch’io dovevo passare per l’esame di stato, con relativa ‘Notte prima degli esami’. Ancora una volta devo dire di quanti ricordi possano tornare quando ci si mette a ripensare ad un periodo della nostra vita. A frequentare la stessa specializzazione eravamo due classi: 5ª A e 5ª B elettronici. Dopo essere stati ammessi agli esami, quell’anno gli esami funzionavano così: due materie orali e due materie scritte, una di queste ultime era a nostra scelta, e non ricordo se era a scelta anche una delle materie orali. Su sessanta studenti solo in tre dovevamo portare due materie orali tecniche (elettronica e tecnologia), una 102


buona parte solo una, alcuni nemmeno quella: quasi il colmo per diventare periti tecnici elettronici. Dopo aver saputo le materie da portare agli esami, noi tre compagni di classe e di materie, (Francesco, Giancarlo ed io) per diversi giorni ci trovammo a studiare assieme. Ci trovavamo a Casale di Pignone, in casa di Francesco, che era a metà strada fra noi tre. Devo ricordare con affetto la madre del nostro compagno che ci ospitava; regolarmente si presentava con dei piatti di salumi nostrali e pane fatto in casa che non ci siamo mai permessi di rifiutare, poi si studiava per davvero. Arrivò la notte fatidica; e qui penso che succeda anche oggi di sentire quel giorno in un modo particolare, che magari dopo averlo vissuto non ci si ricorda nemmeno in che modo. Anche se non ben percepito, certamente si avverte non solo il pensiero dell’esame, che è al primo posto, ma anche un qualcosa che poi ti obbligherà inevitabilmente a diventare più grande e forse (a cose fatte diciamo pure certamente) con qualche responsabilità in più. Avevamo deciso di passare la fatidica notte a casa mia. Mio padre aveva preparato qualcosa da mangiare, poi se ne andò da qualche parte lasciandoci completamente liberi. Fra i tre, anche se io ero il meno preparato, di essere perlomeno sufficiente lo pensavo, ed ero cer103


tamente il più apprensivo. Mi ero preparato tutti gli appunti ed i libri necessari, ed aspettavo che arrivassero i miei compagni, come se fossero riusciti a travasarmi in quella notte quello che tutto ad un tratto pensavo di essermi completamente dimenticato, (questo fenomeno di credere di non sapere assolutamente più niente di quello che si è studiato ho poi scoperto che non era un fatto personale, ma un fenomeno abbastanza comune). Armati di buone intenzioni, per prima cosa mettemmo i nostri appunti e libri nello stanzino destinato allo studio; poi ci dedicammo a consumare quanto mio padre aveva preparato da mangiare. Non so se avessimo anche bevuto, ma casomai certamente non più del dovuto. Si fumava, io avevo incominciato da poco, ma avevo recuperato velocemente, e certamente un paio di sigarette le avremo consumate prima di metterci a studiare. Ci sono degli episodi, dei momenti, che nella memoria abbiamo molto più chiari di altri: questo è uno di quelli. Sulle prime rimasi anche un po’ deluso, quasi leggermente irritato: improvvisamente la voglia di studiare nei miei compagni era semplicemente sparita. Ci eravamo dati appuntamento per studiare, quasi un qualcosa di magico, mai provato, ed ora niente, quel che si sapeva si sapeva, studiare la notte prima non sarebbe servito a niente e ci avrebbe stan104


cato anche di più. Mi adeguai molto rapidamente, la cosa fu presa nel ridere, e così passammo qualche ora in compagnia ben alla larga dai libri. Fantasticammo anche su fatto che il giorno che saremmo andati a vedere i risultati, se fossimo stati promossi, avremmo noleggiato un calesse trainato da cavalli (a quei tempi a Spezia perlomeno uno c’era ancora) ed avremmo attraversato tutta la città; come se tutti gli spezzini fossero stati interessati all’evento della nostra maturità. Durante gli esami orali un professore della commissione che non conoscevo mi mise in difficoltà senza motivazioni particolari. A distanza di tempo non capisco ancora il significato del suo strano comportamento. Io ero ovviamente un po’ agitato, e successe che le prime domande erano talmente semplici che feci un po’ di confusione pensando che la risposta fosse talmente banale da non essere quella giusta. Pur non andando fuori tema non fui particolarmente chiaro, e lui mi dette due o tre volte del ‘Gabbiano’ nel senso che io nel tentativo di districarmi nelle risposte secondo lui tentavo di barare. Fortunatamente un altro professore ebbe più buon cuore, capì la situazione, mi mise coraggio così poi partii spedito. Il mio compagno di banco che assisteva all’esame mi disse che probabilmente lui si sarebbe 105


ribellato, ma io così non feci. Durante i due esami scritti, durati circa 4-5 ore, per cercare di diminuire la tensione fumai un pacchetto di venti sigarette, ma non solo io. Una buona maggioranza di noi fumava, professori compresi, provare ad immaginare cosa si respirava in quell’aula… altri tempi; e anche qui viene da dire: roba da matti. Mi chiesi se mai avessi rivisto quel professore cosa gli avrei detto. Il destino a volte è veramente strano, e fece capitare un paio di mesi dopo proprio a Beverone quel professore che mi dette del ‘Gabbiano’. Lo vidi, era proprio lui, ma non feci come uno dei protagonisti del libro ‘Notte prima degli esami’ che l’ultimo giorno di scuola volle togliersi un fastidioso sassolino dalla scarpa con un professore antipatico, pensando di non rivederlo mai più, e che invece poi si trovò in commissione di esami, rischiando grosso; io l’esame l’avevo alle spalle, non correvo nessun pericolo; lui non poteva riconoscermi, mi aveva visto solo durante l’esame; me ne stetti zitto e non mi feci nemmeno riconoscere, ormai era andata. Non andai al mare e nemmeno a nessun altro tipo di vacanza dopo gli esami, come sentivo raccontare da alcuni miei compagni; ogn’uno aveva la sua situazione familiare. Andai a Beverone ad aiutare la mia famiglia nel lavoro dei campi, come avveniva ne106


gli anni precedenti, e senza pensare minimamente a lamentarmi, perché loro durante l’anno facevano una vita ben più faticosa della mia, ed era normale che ora dessi una mano anch’io. Devo anche dire che in quei tempi non era al vertice dei miei desideri l’andare in vacanza; vacanza come era intesa da miei compagni di città; per me ritornare a Beverone era a mio modo proprio come andare in vacanza. Non andai nemmeno a vedere i quadri (mi dispiace ancora adesso di non averlo fatto, era l’ultimo atto della lunga storia della scuola), mi portò un foglietto mio padre, con tutti i nomi delle due sezioni. Ero il più apprensivo dei tre, e la sorte aveva voluto che io fossi promosso con 42/60, non un gran che, mentre il mio compagno di banco, Francesco, che ne sapeva molto più di me, non so come successe, ma riuscì a rimediare appena un 36/60: misteri degli esami. Dovevano passare più di quarant’anni prima che un altro beveronese si diplomasse, ed ancora proprio al Tecnico. Finalmente era giunto il momento di passare il testimone, ed anche l’occasione per ritornare a dare un’occhiata dentro le mura del Tecnico, così andai ad assistere all’esame.

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Mi trovai nel corridoio dove diversi ragazzi e ragazze, (ora al Tecnico andavano anche parecchie ragazze) a turno erano chiamati per l’esame. Ma non entrai ad assistere all’interrogazione; e pensare che c’ero andato quasi apposta; ma sentivo ancora quell’emozione, e ci mancava che la trasmettessi a Cristian che invece era molto tranquillo. Mi limitai ad aspettare fuori finché lo vidi tornare sorridente. Quanti ricordi per quella gioventù, e forse c’è un particolare comune per il quale mi sembra che i tempi non cambiano mai: è il periodo più bello della nostra vita, ma si è sempre un po’ insoddisfatti, manca sempre qualcosa, ma si sa, «è l’età», il nostro periodo più bello della vita, e spesso non ce ne accorgiamo. *

*

*

Quande se deventa veči a vuressun che tüti i stessen lì a sentie cuse a g’avemu d’arcuntaghe; questu, quelu, ensuma a storia da nostra vita. Fiği; a parte che me a ne ghe n’ò; nevudi; i ne g’an tempu, l’è cambià er mundu. En po’ u lavuu, en po’ che en t’à andae sempre de cursa, e poi… gh’è da pensae aa setimana bianca. 108


“Cume? Cuse l’è a setimana bianca? En t’à chi manğian per na setimana a pasta ar buru?” – e disessen i nostri veči. Ensuma chi a ve credè che ve pë stae a sentie: nissün. L’è anca veu però che quande se deventa veči se deventa eguisti e anca tantu nuiusi, e der vote anca paečiu. E alua cume a pudemu fae per fasse sentie? Se pë fae cume ho fatu me adessu; se pë scrive; perlumenu ün u ghe seà che u te sta a sentie: e tiè te, e der vote se se devèrta anca. Ehm, scusate, mi sono fatto prendere la mano, mi sembrava di essere a Beverone. A vurevu die, cioè, volevo dire che: “Quando si va in la con gli anni a volte si sente il desiderio di raccontare un po’ della nostra vita, che qualcuno stia ad ascoltarci, quasi come passare un testimone. Se questa necessità non può essere soddisfatta c’è una possibilità: scrivere, come ho fatto io adesso. Perlomeno una persona che ci sta ad ascoltare la troviamo: siamo noi. Ed a volte ci si diverte.

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