Nevelson, Louise. Collages 1959-1986

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collages 1959-1986 a cura di

Andrea Allibrandi

LOUISE NEVELSON

collages 1959-1986

LOUISE NEVELSON

21 aprile - 3 luglio 2009

EDIZIONI IL PONTE

mara coccia arte contemporanea roma maraco7@maracoccia.com

www.maracoccia.com

via del Vantaggio, 46/a - 00186 Roma - tel./fax 06/3224434 orario: 11.30/19.30 - chiuso lunedĂŹ e festivi - catalogo in galleria

8 maggio - 25 luglio 2009 GALLERIA IL PONTE FIRENZE

info@galleriailponte.com www.galleriailponte.com via di Mezzo, 42/b - 50121 Firenze - te. 055 240617 fax 055 5609892 orari 16/19,30, chiuso sabato e festivi - catalogo in galleria


41 LE MOSTRE


LOUISE NEVELSON collages 1959-1986

testi di

MAURO PANZERA MADDALENA TIBERTELLI DE PISIS

Robert Mapplethorpe, ritratto di Louise Nevelson

EDIZIONI IL PONTE FIRENZE


LOUISE NEVELSON collages 1959-1986 a cura di

Andrea Alibrandi testi di

Mauro Panzera Maddalena Tibertelli de Pisis

My life had a blueprint from the beginning, and that is the reason that I don’t need to make blueprints or drawings for my sculpture. What I am saying is that I did not become anything. I was an artist. […] Creativity shaped my life. […] Louise Nevelson, Prologue, in Arnold B. Glimsher, Louise Nevelson, New York 1972, p. 21

La mia vita ha avuto un piano fin dall’inizio, è questa la ragione per cui non ho bisogno di tracciare piani e disegni per la mia scultura. Quello che intendo dire è che non sono diventata alcunché: ero già artista. […] È stata la creatività a dar forma alla mia vita. […]

mara coccia arte contemporanea roma 21 aprile - 3 luglio 2009

GALLERIA IL PONTE FIRENZE 8 maggio - 25 luglio 2009 redazione editoriale

Federica Del Re ufficio stampa

Susanna Fabiani Si ringrazia la Fondazione Marconi e tutto il suo staff per l’impegno e l’entusiasmo con cui ha sostenuto questa esposizione

crediti fotografici

Mario Carrieri (p. 78), Pedro E. Guerriero (pp. 6 e 76), Robert Mapplethorpe (p. 3), Al Mozell (p. 5) le fotografie dei collages sono di:

A.ZAmbianchi-Simply.it, Milano traduzione in inglese

Karen Whittle

impaginazione computerizzata

Punto Pagina, Livorno Stampa

Tipografia Bandecchi & Vivaldi, Pontedera

© 2009 EDIZIONI IL PONTE FIRENZE

50121 Firenze - Via di Mezzo, 42/b tel/fax +39 055240617 fax 0555609892 website: www.galleriailponte.com e-mail: info@galleriailponte.com

Louise Nevelson nello studio di New York, fotografia di Al Mozell, New York, marzo 1974


[…] I feel that my works are definitely feminine. There is something about the feminine mentality that can rise heaven. The feminine mind is positive and not the same as a man’s. I think there is something feminine about the way I work. […] Men don’t work this way, […] They wouldn’t putter, so to speak, as I do with these things. The dips and cracks and detail fascinate me. My work is delicate: it may look strong, but it is delicate. True strength is delicate. My whole life is in it, and my whole life is feminine, and I work from an entirely different point of view. My work is the creation of a feminine mind – there is no doubt. […] Louise Nevelson, Prologue, in Arnold B. Glimsher, Louise Nevelson, New York 1972, pag. 22-23

Louise Nevelson, fotografia di Pedro E. Guerriero

[…] Sento nelle mie opere qualcosa di assolutamente femminile. C’è qualcosa nella mentalità femminile che può salire al Cielo. La mente femminile è positiva e non è uguale a quella dell’uomo. Credo ci sia qualcosa di femminile nella maniera in cui lavoro. […] Gli uomini non lavorano in questa maniera, […]. Non si metterebbero a giocare, per così dire, come io faccio con queste cose. Gli incavi, le fessure, i dettagli mi affascinano. Il mio lavoro è delicato; può sembrare vigoroso, ma è delicato. La vera forza è delicata. In essa c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è femminile, ed io lavoro da un punto di vista completamente diverso. Il mio lavoro è la creazione di una mente femminile, non c’è dubbio. […]

I COLLAGES DI LOUISE NEVELSON Mauro Panzera

Louise Nevelson, di fronte alla propria opera, conversa con Alberto Giacometti: non si accorgono di essere oggetto di interesse fotografico e sola in posa risulta la curatrice del Padiglione Americano Dorothy C. Miller. Siamo alla Biennale del 1962, XXXI edizione, che vedrà Giacometti insignito del Premio per la Scultura. La fotografia si trova nel catalogo della più recente esposizione dedicata alla Nevelson, presso il Jewish Museum di New York nel maggio del 20071. Una Biennale decisamente non all’altezza della sua fama, incastonata tra la XXX dedicata all’Informale e la XXXII che vedrà il successo della Pop art americana. Louise Nevelson, dopo il successo per la partecipazione alla mostra newyorkese Sixteen Americans, nel 1959, e la partecipazione alla successiva Art of Assemblage, 1961, è a Venezia a rappresentare l’arte americana. Giulio Carlo Argan, molto critico verso questa edizione della Biennale, scrive una nota polemica circa l’attribuzione dei premi2. Ma scrive che “sul premio per uno scultore straniero, dato ad Alberto Giacometti, svizzero, non v’è nulla da eccepire”3; pur tuttavia la Nevelson rappresentava una alternativa e dopo aver scritto parole elogiative e molto precise, a nostro avviso, circa l’opera dell’artista, Argan motiva l’esclusione con questo comprensivo giudizio: “benché ad un livello assai alto, il suo rimane un caso personale, con poche aperture oltre il cerchio magico dell’evocazione”4. Le considerazioni successive relative al percorso artistico di Giacometti possono chiarire il senso di quell’essere l’arte della Nevelson un caso personale. Eppure ancora più oggi fatichiamo a convincerci della saggezza dell’enunciato.

La data fatidica 1959 segna il passaggio ufficiale dell’artista a livello istituzionale, e segna pure il passaggio dell’uso del bianco al posto del nero – ciò che accadrà anche a Venezia; ma l’inclusione in quella esposizione – un caso inebriante a pensarci ora, data la compagnia5 – è esattamente la misura della stima raggiunta dalla Nevelson precedentemente, e soprattutto per la serie di quattro mostre a scadenza annuale, imponenti per concezione dell’opera, tenute al Gran Central Moderns di New York. Il saggio in catalogo di Brooke Kamin Rapaport ricostruisce con puntualità e in maniera esaustiva il percorso artistico della Nevelson e ci rende coscienti della qualità del lavoro fin qui concepito dall’artista, ma ciò che vorremmo sottolineare con forza è il fatto che, a nostro avviso, ben più importante per le sorti dell’arte contemporanea e per la concezione artistica nevelsoniana è l’organizzazione dell’esposizione del 1961 The Art of Assemblage e la sua partecipazione, poiché tutto il lavoro della Nevelson va in questa direzione6. Ciò che ora bisogna mettere in luce è il rapporto profondo e storicamente determinato che lega l’atto dell’assemblare e l’attitudine del collage. Già nell’introduzione al catalogo della mostra sopra citata si faceva notare come il 1912 fosse un anno decisivo proprio perché Picasso produce due opere che avviano in parallelo queste due nuove modalità artistiche7. E se l’assemblare incide radicalmente sulla nozione di scultura e costringe ad una ridefinizione dei rispettivi campi della pittura e della scultura; il collage permane nella dimensione bidimensionale classica, pittorica quindi, annullando il confine tra finzione e realtà, ma la modalità si presta ad interpretazioni le

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più distinte, come ad esempio, ed è il caso da trattare qui, la sua natura surrealista oppure dadaista. Cosa guida lo sguardo e la mano ad addizionare, comporre e giustapporre materiali distinti in una convivenza forzata ma artisticamente motivabile? Alla radice le modalità assemblaggio e collage si sposano più che procedere una dall’altra; solo all’interno di una concezione che tenga fermo al sistema delle belle arti si porrebbe la questione dell’accettabilità di queste nuove modalità, che invece dicono molto circa le novità nei sistemi di organizzazione della vita moderna e quindi circa la costituzione di una sensibilità moderna. Semmai va detto subito che specifico di Nevelson è innanzitutto il materiale base utilizzato, ricercato e assemblato, il legno; in opposizione alla scultura con i metalli privilegiata dagli scultori modernisti americani, ma anche in Italia abbiamo avuto insigni esempi, Ettore Colla sopra tutti. L’uso delle mani e spesso il gesto del porre più che del fissare o saldare indicano una traccia della personalità dell’artista. Si inserisce qui la questione, che semplicemente citiamo, circa la nozione di artista femmina, che circola nella cultura america del tempo, che più volte ha sollevato la stessa Nevelson in interviste ma anche in testi apparentemente autonomi e che soprattutto è stata posta col famoso scritto di Linda Nochlin Why Have There Been No Great Women Artists? cui seguì una discussione molto ampia8. Nevelson ha sempre risposto in sostanza che poichè la forza e l’impulso creativo procedono dalla persona, la sua sessualità resta insuperabile, ma difficilmente indicabile in stilemi, piuttosto in piccoli gesti, in attitudini (detto prima che la nozione di attitudine acquisisse una importanza teorica, come avvenne poi a Berna nel 1969). Eppure se per esperimento ponessimo una accanto all’altra Louise Nevelson e Louise Bourgeois – non ne so nulla di eventuali loro rapporti diretti – oltre le indubbie personalità femminili, è nella tradizione cui associare il collage che le divergenze salterebbero agli

occhi. Perché mi pare indubbio che Bourgeois ha radici surrealiste, dovute alla mediazione culturale giocata dalla psicoanalisi nell’elaborazione della propria opera, laddove per Nevelson parlerei semplicemente ma nettamente di dadaismo. Condivido in pieno l’indicazione lanciata da Jean Arp nel 1962: al termine di un poema a lei dedicato scrive: “Louise Nevelson a un grand’ père sans/probablement le connaître: Kurt/Schwitters”9. Giusta l’indicazione filologica, non saprei se esattamente si tratti di un precursore. Al proposito vale la pena accennare ad un’altra vicinanza che la critica ha evidenziato per l’opera di Nevelson, precisamente con l’opera di Joseph Cornell: anche qui decisiva è la posizione di Giuliano Briganti che ha precisato come e per quali ragioni Cornell non sia “surrealista”10. Per questa via unicamente si potrà costruire una vicinanza tra questi artisti, poi in realtà diversissimi nel modo di selezionare, prelevare i materiali e farli reagire. Unica vera unità di base dei due: la natura narrativa della loro opera – e su questa questione della narratività Argan e ora Kamin Rapaport sono precisi e concordi. Ma donde viene il contenuto da narrare? E secondariamente come si costituisce la grammatica narrativa? Con queste due questioni ci avviciniamo al problema del collage nella concezione e nell’opera di Louise Nevelson. Problema in quanto siamo di fronte ad una produzione immane, che data anch’essa dal 1959 – che diviene quindi una data scaramantica da verificare ulteriormente – sconosciuta al grande pubblico perchè mai tematicamente esposta Nevelson in vita. Segno che questa era la volontà dell’artista. Perché? Motivi mercantili? Intenzione di non confondere l’immagine che l’artista aveva acquisito nel tempo? Non abbiamo elementi per una risposta univoca. Sta di fatto che è difficile rintracciare collage nei cataloghi dell’artista. Solo il numero 3 in esposizione era già stato esposto a Parigi, alla Galerie de France per una personale nel 1981; nel catalogo del Jewish Museum vi è la riprodu-

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zione di un solo collage, la tavola 60, ed è un dono fatto dall’artista al Salomon R. Guggenheim Museum nell’85 e l’opera è datata 1981. Qualche rara fotografia la riprende in studio al lavoro, presumibilmente alle prese con il collage, per es. nel 1979 fotografata da Pedro E. Guerrero. È tutto. Ben sapendo che l’uso di dichiarazioni d’artista è pericolso se non suffragato da prove e testimonianze, è utile ricordare un passo di un’intervista in cui Nevelson sostiene di apprezzare maggiormente la bidimensionalità alla tridimensionalità, per il potere di illusione che la pittura ha; dice testualmente “…c’è più mito e più mistero in pittura…”11. Noi pensiamo che qui stia il mistero dei collage, unitamente al fatto che la loro produzione non comportava una preparazione particolare, non richiedeva spazi particolarmente adatti e neppure riserve ingenti di pezzi di legno e scatole cubiche e nient’altro che cartone e legnetti di scarto e carte stracciate. “Cartoncino, pittura e legno” sono quasi invariabilmente le indicazioni in didascalia di queste opere. In ciò coerentemente con gli assemblaggi, concepiti su ritmi narrativi martellanti, ma nella ripetizione delle parti componenti, insomma con una semplificazione grammaticale. L’universo del collage sembra in ciò più aperto, più libero. Pur non venendo quasi mai meno la vena narrativa, l’essenziale qui sembra la costruzione per ellissi dello spazio, di una spazialità ora interna, quasi domestica, ora esterna, quasi cosmica. Già la relazione tra n. 1 e n. 5 è programmatica: un paesaggio nella notte infinita di contro ad una silhouette in un interno. Ma la tematica di interno ed esterno ci riconduce alla scultura della Nevelson; allora la questione è: in che rapporto dobbiamo porre questa produzione, che ci arriva come “minore”, rispetto ai grandi progetti che coinvolgono l’ambiente, fino alla vera e propria scultura pubblica – di cui la Nevelson forse è la prima protagonista in ordine di tempo? Dobbiamo immaginare la quotidianità vitale di Louise Nevelson: non vi è dubbio alcuno circa la sua naturale ecceziona-

lità. Allora è l’urgenza che la porta a formulare una sorta di haiku, complice la fattibilità quasi immediata dell’oggetto. E quando non vige la bidimensionalità rigorosa, ciò che non cambia è la frontalità pittorica nella costruzione e nella lettura dell’immagine. Ma la dimensione domestica di una tale produzione fa sì che possa essere soggetta a molteplici sollecitazioni, d’ordine sensoriale e memoriale tanto quanto culturale. Vedendo i nn. 3 e 33 possiamo pensare ad omaggi all’indirizzo dell’opera di Man Ray; così come il n. 12 del 1966 davvero rinvia ad un’opera cubista in tridimensione. E in questa occasione memoria culturale e personale si confondono nell’autobiografia di Louise Nevelson, in fuga in Europa alla scuola di Hans Hofmann a Monaco, ovvero alla scuola del cubismo – una lezione decisiva anche per l’arte americana, da de Kooning a Pollock. È pericoloso aggregare i collages per famiglie eppure è un ordine classificatorio possibile e forse utile per comprendere sempre più da vicino la modalità di lavoro dell’artista. Il gesto dello strappare per esempio è ampiamente usato, tanto per il cartoncino quanto per assicelle sottili, quasi rivestimenti lignei. Quanto è guidato lo strappo e quanto si affida al caso? La matrice dadaista fa del caso un culto specifico e Nevelson non sfugge a questa situazione estetica. È il caso ad innescare le giustapposizioni: il n. 37 è di una ricchezza barocca eccessiva, uno spettacolare paesaggio articolato dalla luce; il n. 38 è una semplicissima lezione di spazialità. Ma anche noi cadiamo nel tranello: stiamo guardando una scelta limitata a 60 collages; non c’è relazione immediata tra n. 37 e n. 38! Verrebbe da immaginare Louise che dopo la ricchezza barocca sente il bisogno di pulire l’immagine. Ma noi pensiamo che questa dimensione del gioco, serio come tutti i veri giochi, sia una componente essenziale di questa produzione che ora viene alla luce per la prima volta in maniera autonoma. Crediamo fermamente che lo studio sistematico di questa produzione consentirà di rag-

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giungere una visione più complessa ma ancor più ricca della vita e dell’opera dell’artista. Innanzitutto per la vicinanza della modalità operativa, capace di liberare forze, intuizioni, energie anche non elaborate; e in questo senso il collage può essere letto anche come laboratorio privato. Ma non tanto in preparazione della scultura maggiore quanto per mettere in forma un vocabolario di immagini che la grande scultura può avere ulteriormente elaborato. La vicinanza della modalità operativa potrebbe divenire infine anche un buon punto di vista, privilegiato, per ragionare di bel nuovo

intorno alla natura femminile delle intuizioni artistiche di Louise Nevelson. Con questa copiosa produzione che ora viene alla luce esce ulteriormente confermata la modernità dell’opera dell’artista, che ha superato le categorie classiche di pittura e scultura e si è avventurata con coraggio e determinazione in un mondo di forme, nuovo, generatore di ciò che oggi usiamo indicare come “il contemporaneo”. E la data 1959 acquisisce senza dubbio alcuno il valore simbolico di periodizzazione: nascita del contemporaneo. Marzo-aprile 2009

The Sculpture of Louise Nevelson – constructing a legend, edited by Brooke Kamin Rapaport è il catalogo relativo all’esposizione tenutasi presso il Jewish Museum di New York nel maggio 2007 e pubblicato dalla Yale University Press - New Haven e London. 2 Il testo di G.C.Argan I premi della Biennale, lo si legge ora in: Salvezza e caduta nell’arte moderna, Il Saggiatore, 1977 (4° ed.), pagg.312-15. 3 Op. cit. pag.312. 4 Op. cit. pag. 313. 5 Nota Brooke Kamin Rapaport, che qualifica l’esposizione quale un “seismic shift in the art world”, un terremoto insomma, come Nevelson si trovasse ad esporre fianco a fianco con Jasper Johns, Ellsworth Kelly, Robert Rauschenberg e Frank Stella, tra gli altri, artisti compresi tra i 23 e i 36 anni laddove Louise Nevelson era nata nel 1899! 6 La mostra The art of Assemblage, un progetto di W.C. Seitz per il MoMa di New York del 1961 intendeva porre la nozione stessa di assemblage nel cuore del XX secolo: dall’universo poetico di Mallarmé e Apollinaire alle modalità artistiche di Picasso, del Futurismo, Dadaismo e Surrealismo, fino all’inclusione dell’universo del collage. 7 Si legga l’introduzione, pagg. 9-12 del catalogo dell’esposizione pubblicato Dal MoMa, 1961. 8 L’articolo uscì sulla rivista ARTnews nel gennaio 1971 e la rivista stessa invitò un nutrito numero di artiste a commentare il testo; tra le invitate figurava anche la Nevelson, che rispose in sostanza che “works of art reflect the individual rather than ‘masculinefeminine labels’”. Senza mai citare il testo di Nochlin, Germano Celant, nella prima monografia italiana dedicata all’opera di Louise Nevelson che porta la data dicembre 1971, aderisce esplicitamente alla teoria artistica femminista e lo dichiara nella nota iniziale. Si veda: Germano Celant, Louise Nevelson, Fratelli Fabbri Editori, 1973. 9 Il testo era pubblicato in catalogo dell’esposizione Sculture di Nevelson. Dipinti di Twombly, tenutasi nel gennaio 1962 alla Galleria Notizie di Luciano Pistoi a Torino e ora leggibile nel volume: Luciano Pistoi “inseguo un mio disegno”, con testi di Mirella Bandini, Mariacristina Mundici e Mariateresa Roberto, Hopefulmonster Editore, 2008. Di Louise Nevelson scriveva, per la prima volta, Carla Lonzi e ponendo l’esperienza dadaista al centro dell’intera riflessione, aggiunge che “Con la Nevelson si avverte la presenza nuova, proliferante, di un’ambiguità tutta femminile”. Una intuizione notevole per la futura teorica del movimento femminista, che influenzerà l’atteggiamento critico di un Celant, abbiamo visto, quando ormai l’avventura critica della Lonzi si era chiusa, con amarezza aggiungerei. Sarebbe opportuna una riflessione intorno alla presenza italiana dell’opera di Nevelson, anche per chiarire un piccolo giallo: nella bibliografia dell’artista risulta un passaggio espositivo alla Galleria Schwarz nell’aprile 1961, che nelle note di galleria non risulta. Lonzi nel testo citato fa riferimento ad osservazioni del pittore Mathieu, scritte in occasione di una esposizione alla Galleria Cordier di Parigi tenutasi nell’ottobre del 1960. Ma già nel 1958 l’aveva esposta a Parigi Jeanne Bucher. Si è già detto della monografia di Celant del 1973, ma scritta nel 1971 (precede quindi la monografia dedicata a Giulio Paolini); del medesimo autore bisogna leggere il testo del 1994, in occasione di una (in verità unica in Italia) retrospettiva romana dell’artista, al Palazzo delle Esposizioni. 10 Rinvio al testo scritto da Giuliano Briganti in catalogo della mostra dedicata a Joseph Cornell nel 1981 e tenutasi nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze. Il catalogo è edito dal Centro Di di Firenze. La mostra era a cura di Kynaston McShine. È bene precisare che l’argomentazione di Briganti non riguarda la produzione di collages della prima ora, ma unicamente la produzione di scatole, vale a dire il passaggio alla terza dimensione. Al proposito si potrebbe porre l’attenzione sull’alchimia, che avvicina di nuovo Cornell a Nevelson. 11 Raccolgo la citazione dalla nota 13 del saggio 1994 di Celant; proviene da. L.Nevelson, Atmospheres and Environments, New York 1980, pag. 59.1

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Senza titolo, 1959, ferro e legno dipinto di nero, cm 117×80×10


LOUISE NEVELSON. LA SCULTURA PITTORICA

When I pick up a piece to put in a piece, it’s living and waiting for that piece. You don’t break a thing and put in. That becomes self-conscious and that has no life. That’s why I pick up old wood that had a life, that cars have gone over and the nails have been crushed. You have to cut it sometimes, you might even break it sometimes, but it has to be done in a certain way, not broken unconsciously […] You must put them like […] they have been related, just like human beings. Where we come in is our recognition […].

Maddalena Tibertelli de Pisis

La scultura di Louise Nevelson delinea lo spazio poco profondo entro il quale le forme si uniscono; l’involucro è una scatola costruita con una profondità stabilita fin dall’inizio e le forme scelte sono sistemate in modo da riflettere, assorbire e diffondere la luce e l’ombra. L’assenza di colori e la qualità dell’assorbimento della luce sottolineano soltanto la forma positiva e definiscono il peso visivo della scultura. L’ombra è positiva così come la forma che essa riflette. Il risultato è il moltiplicarsi in strati spaziali entro la limitata profondità delle scatole. L’effetto finale è l’estensione della scultura in quella dimensione dell’illusorio che era riservata prima alla pittura. Nella maggior parte delle opere di Louise Nevelson c’è una dicotomia tra la ristretta delimitazione dello spazio che rivela ogni livello fisico e la possibile illusione di spazio infinito stabilito dalle ombre e dai riflessi. C’é un’altra ambiguità nella monumentalità delle proporzioni nella scultura della Nevelson, anche questo è un elemento pittorico e illusorio: sebbene i lavori siano effettivamente grandi su due dimensioni, la terza dimensione di profondità è fisicamente poco più profonda di un quadro; l’artista elimina quindi il confine tra pittura e scultura. In questo procedimento si può ancora percepire la lezione cubista: essa ha insegnato la struttura. La tensione del monocromo – o tutto bianco o tutto nero o tutto oro – non solo tende a limitare, o almeno ad addolcire, la scansione d’ombra delle superfici, ma si pone a esplicita negazione d’ogni effettivo interesse per le ragioni della tridimensionalità, quelle della tradizione scultorea; di qui il passaggio assolutamente necessario ed esplicativo, nell’opera della Nevelson, dal momento plastico al foglio litografato o al collage su tavola di piccole dimensioni.

Louise Nevelson, Atmospheres and Environments, New York 1980, p. 83

[…] Quando raccolgo un pezzo per metterlo in un lavoro, vive e aspetta proprio quel pezzo. Non è che si rompe una cosa e la metti dentro. Così sarebbe autocosciente e non avrebbe vita. È per questo che raccolgo il legno vecchio che ha avuto una vita, che le automobili hanno travolto e i chiodi rovinato. Devi tagliarlo, qualche volta, devi anche romperlo, qualche volta, ma bisogna che sia fatto in un certo modo, non rotto inconsciamente […] Devi metterli come […] sono stati messi in relazione, proprio come gli esseri umani. Dove noi interveniamo è nel riconoscerli.

Senza titolo, 1959, legno dipinto di nero, cm 168×32×27

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L’artista afferma, in più di un’occasione, che il suo modo di pensare è “da collage”. Nei suoi lavori infatti lo spazio spesso non è distinguibile dalla superficie; le sue superfici sono manipolate in modo da suggerire lo spazio e vi sono implicati gli elementi positivi e negativi dell’architettura. I colori e i toni vengono adoperati per un dialogo spaziale che mira alla semplificazione visiva e al raffinamento espressivo, nonché a un’impostazione più intrinsecamente grafica dei problemi visivi. Le parti che compongono i suoi lavori né sono ready-made né sono modellati secondo esigenze compositive: semplicemente é la natura di cosa l’artista sta facendo che suggerisce quale tipo di materiale usare. Nevelson preferisce lavorare con tutti gli elementi insieme, senza fare schizzi preparatori, ma sviluppando delle idee e provando diverse combinazioni di legni e frammenti di carta. Trova istintivamente i corretti pezzi per le sue composizioni mentre compone l’opera. Per essere collagisti infatti bisogna saper leggere qualsiasi materiale e i piccoli collages a tecnica mista offrono una fine e delicata esplorazione dell’interesse costante di Nevelson per la natura dei materiali, la forma e la tonalità: composti da una grande varietà di stoffe, colori, metalli, carte vecchie e spiegazzate e legni, includono sorprendenti tocchi di colore e rivelano il processo spontaneo di creazione caratteristico dell’artista. Data la frontalità, la staticità, l’apparente assenza di peso e la sua ossessione per le superfici, i collages dalle forme leggere possono essere considerati pitture illusioniste più che sculture convenzionali. Milano, marzo 2009

M. Friedman, Nevelson Wood Sculptures, cat. mostra, Walker Art Center, 1973-74 G. Baro, R. Causa, Louise Nevelson, Grafica, cat. mostra, Villa Pignatelli, Napoli, 1976

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THE COLLAGES OF LOUISE NEVELSON Mauro Panzera

Royal Winds, 1960, legno dipinto in oro, cm 83×34,5×29

Louise Nevelson is in front of her work, speaking to Alberto Giacometti: they do not realise they are being photographed, and the only person posing for the camera is the curator of the American Pavilion, Dorothy C. Miller. We are at the XXXI Biennale in 1962, which would award the Sculpture Prize to the same Giacometti. The photograph is in the catalogue of the most recent exhibition dedicated to Nevelson, held in May 2007 at the Jewish Museum in New York.1 A Biennale which was by no means on a level with her fame, stuck between number XXX dedicated to Art Informel and number XXXII which would hail the success of American Pop Art. After her successful participation in the New York exhibition Sixteen Americans in 1959, and her participation in the subsequent Art of Assemblage in 1961, Louise Nevelson was in Venice to represent American art. Giulio Carlo Argan, very critical of this particular Biennale exhibition, wrote a controversial note on the prizewinners.2 But he wrote that “we cannot fault the prize for a foreign sculptor, given to Alberto Giacometti from Switzerland”;3 nevertheless, Nevelson was an alternative and, in my opinion, after writing very explicit words of praise on the artist’s work, Argan gave the reason for her exclusion in this comprehensive verdict: “although achieving quite high standards, hers is a personal case, with few openings beyond the magical circle of evocation.”4 The subsequent considerations on Giacometti’s artistic career may clarify what he meant when he described Nevelson’s art as a personal case. Yet still today I struggle to be convinced of the wisdom in his words. The decisive year of 1959 marked the artist’s official passage to an institutional level,

and also marked the passage from her use of black to white – which would also be the case in Venice; but her inclusion in that exhibition – an exhilarating occasion if we are to think of it now, given the company5 – is precisely the measure of the esteem that Nevelson had achieved previously, above all for the series of four annual exhibitions, with their impressive work concept, held at the Grand Central Moderns in New York. The piece in the catalogue by Brooke Kamin Rapaport gives a meticulous and total reconstruction of Nevelson’s artistic career and makes us aware of the quality of the work that the artist had conceived up to this point. But what I would like to strongly underline is that the organisation of the 1961 exhibition The Art of Assemblage and Nevelson’s participation in it, in my opinion, was much more important for the fate of contemporary art as a whole and for Nevelson’s own concept of art, since all her work was heading in this direction.6 What we now need to highlight is the profound, historic relationship linking the act of assemblage and the collage technique. Already in the introduction to the catalogue for the abovementioned exhibition it was pointed out how 1912 was a decisive year because Picasso produced two works that contemporaneously gave rise to these two new artistic methods.7 And while assemblage made a radical impact on the notion of sculpture and forced a reconsideration of the respective fields of painting and sculpture, collage remained in the classic 2D pictorial dimension, eliminating the boundary between pretence and reality. But the technique lent itself to more distinct interpretations, such as, and this is what we need to deal with

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here, its surrealist or Dadaist nature. What is it that guides the gaze and the hand to add, compose and juxtapose distinct materials in a forced but artistically justifiable cohabitation? At the outset, the assemblage and collage techniques combine rather than follow on from each other; only a line of thought clinging to the system of fine arts would ask whether these new techniques were acceptable, something which says a lot about the new ways of organising modern life and therefore about the establishment of a modern sensitivity. If anything, what needs pointing out straight away is that above all the base material that Nevelson uses, selects and assembles – wood – is specific to her; contrary to the sculpture using metals preferred by the American modernist sculptors, as well as by some eminent figures in Italy, in particular Ettore Colla. Use of the hands and often the gesture of placing rather than fastening or welding give traces of the artist’s personality. And this is where the issue comes up, which I will but cite, of the notion of women artists circulating in American culture at the time. A subject which Nevelson herself brought up several times in interviews as well as in apparently unrelated texts, and dealt with above all in the famous essay by Linda Nochlin Why Have There Been No Great Women Artists? which resulted in a very extensive debate.8 In substance, Nevelson always answered that since creative force and impulse follow on from the persona, sexuality cannot be overcome, and that although difficult to pinpoint in particular stylistic features, it can be seen in small gestures and attitudes (which she said before the notion of attitude acquired theoretical importance, as would happen later, in Bern in 1969). And yet, if by way of experiment we were to place Louise Nevelson and Louise Bourgeois alongside each other – I do not know if they actually ever had any direct contact – over and above their doubtlessly female personalities, it would be self-evident that their collages are associated with different traditions. Because to me there

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is no doubt that Bourgeois has surrealist roots, due to the cultural mediator role played by psychoanalysis in forming her works, whereas for Nevelson I would speak simply, but definitely, of Dadaism. I totally agree with the marker given by Jean Arp in 1962: at the end of a poem dedicated to her he wrote: “Louise Nevelson a un grand’ père sans/probablement le connaître: Kurt/Schwitters”.9 While the philological indication may be correct, I do not know if he could exactly be described as her forefather. While we are on the subject, it is worth mentioning another closeness that critics underlined in Nevelson’s work, that is, with the work of Joseph Cornell: here too Giuliano Briganti’s position is decisive, as he pinpointed how and for what reasons Cornell is not “surrealist”.10 This is the only connection that we can make between these artists, since in reality they selected and picked their materials and made them react in totally different ways. The only true common base between the two is the narrative nature of their work – and Argan and later Kamin Rapaport shared the same, explicit opinion as to this question of narrativity. But where do the contents for the narration come from? And, second, how is the narrative grammar made up? These two questions help us approach the problem of collage in Louise Nevelson’s mind and work. I say problem insomuch as we are faced with an immense amount of work, also begun in 1959 – further proof that this was a propitious year –, unknown to the public at large because it was never displayed in a themed exhibition while Nevelson was alive. A sign that this was what the artist wanted. Why? Business reasons? Did she not want to upset the image that over time she had acquired as an artist? We don’t have the basis to provide a definite answer. The fact of the matter is that it is difficult to retrace collages in the artist’s catalogues. Only number 3 in the exhibition had already been displayed in Paris, at the Galerie de France in a one-woman exhibition in 1981; in the Jewish Museum catalogue there is a reproduction

of just one collage, panel no. 60, and it is a gift that the artist made to the Salomon R. Guggenheim Museum in 1985, the work dating from 1981. The odd, rare photograph captures her working in her studio, presumably on a collage, for example in a shot from 1979 by Pedro E. Guerrero. And that’s it. While I am well aware that it is dangerous to use an artist’s declarations when not backed by proof and statements, nonetheless it is useful to remember a passage from an interview in which Nevelson claims to appreciate two over three dimensions, due to painting’s power of illusion; her exact words were “…there is more myth and more mystery in painting…”.11 I think that this is where the mystery of her collages lies, together with the fact that there was no particular preparation involved in producing them, it did not require spaces particularly suited to the purpose or even huge stockpiles of pieces of wood or cubic boxes, nothing more than discarded bits of cardboard, wood and torn paper. The indications below these works are almost always “cardboard, paint and wood”. And the same goes for the assemblages, put together at an incessant rate of narration, but here the component parts are repeated, in short, grammatically speaking, they are simpler. As a result, the universe of collage seems more open, freer. While the narrative streak is almost never missing, what seems to be essential here is the construction of space by omission, the spatiality is at times internal, domestic almost, and at others external, cosmic almost. The relationship between nos. 1 and 2 already fits the bill: an infinite nightscape against a silhouette in an interior. But the interior-exterior theme takes us back to Nevelson’s sculpture; so now the question is: how should we relate these works, presented to us as “lesser”, to the great projects that involve the environment, up to the bona fide public sculpture – of which Nevelson is perhaps, chronologically speaking, the primary protagonist? We have to imagine Louise Nevelson’s dynamic daily life: there is

no doubt that she was naturally exceptional. So it is urgency that leads her to formulate a sort of haiku, aided by the fact that the object could be made almost immediately. And even when we’re not talking strictly 2D, what never changes is how the image is built and read front-on, like a picture. But the domestic dimension of these works means that they can be stimulated by the senses, the memory, and culture. On looking at nos. 3 and 33, what may come to mind is that they pay homage to the direction taken by the work of Man Ray; in the same way as no. 12 from 1966 really does make one think of a 3D work of Cubism. And on this occasion, cultural and personal memory blend together in Louise Nevelson’s life story, as she fled to Europe to the school of Hans Hofmann in Munich, that is, the school of Cubism – which also provided American art itself, from de Kooning to Pollock, with a crucial lesson. It is dangerous to group collages together in families yet it is a possible and perhaps useful classification method in order to get a closer understanding of the artist’s working methods. For example, she makes ample use of the gesture of ripping, both cardboard and thin strips of wood, almost as if to create wooden panelling. How far is the ripping deliberate and how much is left to chance? The Dadaist current makes chance a specific cult and Nevelson does not escape from these aesthetic circumstances. It is chance that causes juxtapositions: no. 37 is Baroque-like in its excessive richness, a spectacular landscape structured by light; no. 38 is the simplest lesson of spatiality. But we are caught in the trap too: we are looking at a limited selection of 60 collages; there is no immediate relationship between nos. 37 and 38! One might think that after the Baroque richness, Louise felt a need to clean up the image. But we think that this game-like dimension, as serious as all true games, is an essential component of these works which are now coming to our attention for the first time in their own right.

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I firmly believe that by systematically studying this work we will acquire a more complex but still richer vision of the artist’s life and work. First of all, because of the closeness of this way of working, which is able to free up forces, intuitions and energies even if they are not actually depicted as such; and in this sense, collage can also be seen as a private laboratory. Not so much in preparation for her bigger sculptures, but to shape a lexicon of images that her great sculptures may have gone on to conjure up. The closeness of the way of working could finally also become a good, preferential view-

point for taking a whole new look at the female nature of Louise Nevelson’s artistic intuitions. This immense body of work now come to light gives further confirmation of the modernity of the artist’s work, which went beyond the classic categories of painting and sculpture to venture with courage and determination into a new world of shapes and generate what today we tend to call “contemporary”. And there is no doubt whatsoever as to the symbolic value of the year 1959: the birth of the contemporary era. March-April 2009

I felt in love with the black, it contained all color. It was an acceptance. Because black encompasses all colors. Black is the most aristocratic color of all. The only aristocratic color. For me this is the ultimate. You can be quiet and it contains the whole thing. There is no color that will give you the feeling of totality. Of peace, Of greatness. Of quietness. Of excitement […]. Louise Nevelson, Atmospheres and Environments, New York 1980, p. 126

The Sculpture of Louise Nevelson – constructing a legend, edited by Brooke Kamin Rapaport is the catalogue for the exhibition held at the Jewish Museum in New York in May 2007 and published by Yale University Press - New Haven and London. 2 The text by G.C. Argan I premi della Biennale, can now be read in: Salvezza e caduta nell’arte moderna, Il Saggiatore, 1977 (4th ed.), pp. 312-15. 3 Op. cit. p. 312. 4 Op. cit. p. 313. 5 Note Brooke Kamin Rapaport, who described the exhibition as a “seismic shift in the art world”, in short, a complete shake-up, with Nevelson finding herself exhibiting alongside Jasper Johns, Ellsworth Kelly, Robert Rauschenberg and Frank Stella, amongst others, all artists aged between 23 and 36, whereas Louise Nevelson was born in 1899! 6 The intention of The Art of Assemblage exhibition, a project by W.C. Seitz for the 1961 season at MoMa in New York, was to place the very notion of assemblage at the heart of the XX century: from the poetic universe of Mallarmé and Apollinaire to the artistic techniques of Picasso, Futurism, Dadaism and Surrealism, and even the universe of collage. 7 Read the introduction, pp. 9-12 of the exhibition catalogue published by MoMa, 1961. 8 The article came out in the ARTnews magazine in January 1971 and the magazine itself invited a considerable number of female artists to comment on the text; amongst those invited was also Nevelson, who in short responded that “works of art reflect the individual rather than ‘masculine-feminine labels’”. Without mentioning the text by Nochlin, in the first Italian monograph devoted to the work of Louise Nevelson, dated December 1971, Germano Celant explicitly backed the feminist artistic theory and declared so in the initial note. See: Germano Celant, Louise Nevelson, Fratelli Fabbri Editori, 1973. 9 The text was published in the catalogue for the Sculture di Nevelson. Dipinti di Twombly exhibition, held in January 1962 at the Notizie gallery of Luciano Pistoi in Turin. It can now be read in the volume: Luciano Pistoi “inseguo un mio disegno”, with texts by Mirella Bandini, Mariacristina Mundici and Mariateresa Roberto, Hopefulmonster Editore, 2008. While writing about Louise Nevelson for the first time, Carla Lonzi placed the Dadaist experience at the centre of her whole line of thought, adding that, “With Nevelson we can feel the new and multiplying presence of a wholly female ambiguity.” A remarkable intuition for the future theorist of the feminist movement, who, as we have seen, would influence the criticism of a certain Celant when Lonzi’s venture into criticism was over, with a hint of bitterness I would add. Reflection as to the presence in Italy of Nevelson’s works would be opportune, also to clear up a small mystery: in the artist’s bibliography there appears an exhibition at Galleria Schwarz in April 1961, which does not appear in the gallery’s notes. In the quoted text, Lonzi refers to observations by the painter Mathieu, written on occasion of an exhibition at the Cordier gallery in Paris held in October 1960. But her work had already been exhibited in Paris in 1958 by Jeanne Bucher. I have already spoken of the monograph by Celant from 1973, but written in 1971 (therefore, it predates the monograph devoted to Giulio Paolini); the 1994 text by the same author, written on occasion of a Roman retrospective (in truth the only one in Italy) on the artist at the Palazzo delle Esposizioni, should also be read. 10 Reference to the text written by Giuliano Briganti in the exhibition catalogue dedicated to Joseph Cornell in 1981 and held at the Sala d’Arme in Palazzo Vecchio, Florence. The catalogue was published by Centro Di in Florence. The exhibition was curated by Kynaston McShine. We need to point out that Brigant’s line of argument does not concern her early collages, but only her boxes, that is, her passage to the third dimension. In this connection, we could place our attention on alchemy, another thing that unites Cornell and Nevelson. 11 The quotation is from note 13 in the 1994 essay by Celant; taken from L. Nevelson, Atmospheres and Environments, New York 1980, p. 59. 1

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[…] Mi innamorai del nero, conteneva tutti i colori. Non era una negazione del colore. Era un’accettazione. Perché il nero racchiude tutti i colori. Il nero è il colore più aristocratico di tutti. Il solo colore aristocratico. Per me il nero è tutto. Puoi stare tranquillo e esso contiene la cosa intera. Non esiste nessun altro colore che dia questa sensazione di totalità. Di pace. Di grandezza. Di quiete. Di eccitazione. […]

Sky Totem, 1973, legno dipinto di nero, cm 145×37×44

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LOUISE NEVELSON Maddalena Tibertelli de Pisis

Nevelson’s sculpture outlines a shallow space within which shapes combine, the container is a box built with a set depth from the start and the shapes chosen are laid out in such a way as to reflect, absorb and diffuse light and shade. The lack of colours and the quality of light absorption only underline the positive shape and define the visual weight of the sculpture. The shadows are positive just like the shape that they reflect. The result is a multiplication of spatial layers within the limited depth of the boxes. The final effect is to extend the sculpture into the dimension of illusion that was earlier reserved to painting. In most of Nevelson’s works there is a dichotomy between the restricted space outlined revealing every physical level and the possible illusion of infinite space caused by the shadows and reflections. There is another ambiguity in the monumental proportions of Nevelson’s sculptures, this too a pictorial and illusory element: although the two-dimensional face of the work is effectively very big, the third dimension of depth is physically little deeper than a picture; therefore, the artist eliminates the boundary between painting and sculpture. In this procedure, we can still perceive the Cubist lesson which taught structure. The single layer of colour – all-white, or all-black, or all-gold – not only tends to limit, or at least to soften the accents of the shadows on the surfaces, but it is an explicit negation of all effective interest in the reasons for three dimensionality, that is, the grounds of the tradition of sculpture; here we get the wholly necessary, explanatory passage in Nevelson’s work from the plastic moment to the lithograph printed sheet or the small panel of collage. On more than one occasion, Nevelson stated

Sky Case XIII, 1974, legno dipinto di nero, cm 30,5×28×19

that her thought process was “like a collage”. Indeed, in her works space is often undistinguishable from the surface; her surfaces are manipulated so as to suggest space and they imply the positive and negative elements of architecture. The colours and tones are used to form a spatial dialogue that aims to create a visually simplified and refined mode of expression, as well as a more intrinsically graphic approach to the visual problems. The parts making up her works are neither ready-made, nor modelled following her compositional requirements: it was simply the nature of what the artist was doing that suggested what type of material to use. Nevelson preferred to work with all the elements at once, without making any preliminary sketches. Instead she developed her ideas and tried out various combinations of pieces of wood and fragments of paper. She instinctively found the right pieces for her compositions as she put the work together. Indeed, in order to be collage artists, you need to be able to read any type of material and these small, mixed technique collages offer a fine and delicate exploration of Nevelson’s constant interest in the nature of materials, shape and colour. Made up of a great variety of materials, colours, metals, old and crumpled paper, and wood, these panels include surprising touches of colour and reveal the artist’s spontaneous creation process. Given their frontal, static appearance, their apparent lack of weight and Nevelson’s obsession with surfaces, these collages with their light shapes can be considered illusionist paintings rather than conventional sculptures. Milan, March 2009

M. Friedman, Nevelson Wood Sculptures, exhibition catalogue, Walker Art Center, 1973-74 G. Baro, R. Causa, Louise Nevelson, Grafica, exhibition catalogue, Villa Pignatelli, Naples, 1976

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COLLAGES

Senza titolo, 1985, legno dipinto di nero, cm 73×17,5×28


Collage, 1959, cartoncino, pittura e legno su tavola, cm 117Ă—91,2Ă—2,2


Collage, 1960, cartoncino, pittura e carta su tavola cm 91,9×60,7×9,9 Collage, 1962, carta, carta da giornale e spray su cartoncino cm 50,5×76 Collage, 1963, cartoncino, carta e plastica su tavola cm 76,1×50,7×0,8


Collage, 1960, cartoncino, pittura e legno su tavola, cm 51,4×40,7×1,7

Collage, 1963, cartone, pittura e legno su tavola, cm 76,5×61×7,7



½ Collage, 1963, cartoncino, foglio di metallo, carta, pittura a spray e legno su tavola, cm 91×60,5×1,7 ½ Collage, 1963, cartoncino, pittura, carta e legno su tavola cm 91,4×60,7×2 Collage, 1963, cartoncino, carta e foglio metallico su tavola cm 90,1×60,7×1,1 Collage, 1965, cartoncino e legno su tavola, cm 76×51×2,5 Collage, 1966, tempera, carta e legno su tavola, cm 90×60×9


Collage, 1966, cartoncino, pittura e legno su tavola, cm 88,7Ă—60,8Ă—9


Collage, 1967, cartoncino, pittura a spray e legno su tavola cm 76,1×50,5×1,8 Collage, 1968, cartoncino e legno su tavola, cm 76,2×50,6×2,6 Collage, 1968, cartoncino, carta di giornale, legno e pittura a spray su tavola, cm 76,3×50,8×2 Collage, 1968, cartoncino, specchio e legno su tavola cm 76,4×50,7×2,3


Collage, 1969, cartoncino, tempera e legno su tavola cm 76,1×50,7×2 Collage, 1970, cartoncino e pittura a spray su tavola cm 76,1×50,4×0,9 ¾ Collage, 1970, cartoncino, tempera e legno su tavola cm 76,3×50,8×1,4 ¾ Collage, 1970, cartoncino, tempera e metallo su tavola cm 76,4×50,8×2,5

Collage, 1969, cartoncino, carta, carta di giornale, lamina di metallo su tavola, cm 50,8×40,5×1



Collage, 1970, cartoncino, lamina di metallo, carta vetrata e carta su tavola, cm 50,7×40,5×1,2 Collage, 1971, cartoncino, tempera e legno su tavola cm 60,9×48,4×2,4 Collage, 1971, cartoncino e legno su tavola cm 80,3×36,9×3,3


Collage, 1971, cartoncino e legno su tavola, cm 122,5×91,8×1

Collage, 1972, cartoncino, metallo, carta, cavo e legno su tavola, cm 101,7×81,3×5,7


Collage, 1975, cartoncino e pittura spray su tavola cm 76,3×50,8×2,4 Collage, 1972, cartoncino, inchiostro, carta di giornale, pittura e carta su tavola, cm 50,8×40,5×1,4

Collage, 1976, cartoncino, pittura e legno su tavola, cm 60,5×48,5×2,3


Collage, 1976, cartoncino, pittura e carta su tavola cm 88,8×60,6×1 Collage, 1976, cartoncino, inchiostro, carta, matita e carta di giornale su tavola, cm 51,5×40,8×0,9 Collage, 1976, cartoncino, pittura e carta su tavola cm 60,7×50,6×1


Collage, 1976, cartoncino, pittura e carta su tavola cm 76×50,7×0,9 Collage, 1976, cartoncino, pittura su tavola, cm 60,6×48×1 Collage, 1977, cartoncino, lamina di metallo, penna a sfera carta di giornale e carta su tavola, cm 91,4×61×2


Collage, 1977, cartoncino, inchiostro, lamina di metallo carta e legno su tavola, cm 92×61×2 Collage, 1977, cartoncino, inchiostro, lamina di metallo carta su tavola, cm 91,4×60,7×1,7 Collage, 1978, cartoncino, pezzi di tavola e pittura spray su tavola, cm 88,8×60,6×0,9



½Collage, 1980, cartoncino, pittura e legno su tavola, cm 76,2×51,4×4 ½Collage, 1980, cartoncino, specchio, pittura e legno su tavola, cm 76,2×51,5×3,6 Collage, 1980, cartoncino, carta stampata e legno su tavola, cm 88,8×60,6×1,2


Collage, 1980, cartoncino, carta di giornale, legno e oggetti su tavola, cm 101,8×61×4,4 Collage, 1980, lana, cartoncino, stoffa, specchio e legno su tavola, cm 76×56,5×2,3


Collage, 1980, cartoncino, carta di giornale, pittura spray pittura e legno su tavola, cm 76,4×50,9×3,2 Collage, 1980, cartoncino, pittura e legno su tavola cm 76,2×50,4×3 Collage, 1980, cartoncino, metallo, pittura, lacci e legno su tavola, cm 81×50,7×2,2


Collage, 1981, cartoncino, carta e pittura su tavola cm 60,5×48,3×1 Collage, 1981, cartoncino, pittura e legno su tavola cm 60,7×48,5×1

Collage, 1980, cartoncino, legno su tavola, cm 58×51×1


Collage, 1981, cartoncino e pittura su tavola, cm 60,3×43,3×1 Collage, 1981, cartoncino, pittura, carta e legno su tavola cm 81×51×1,4

Collage, 1983, cartoncino, carta e legno su tavola, cm 101,5×81,5×3



½Collage, 1984, masonite e legno su tavola, cm 137×91,2×2,5 ½Collage, 1985, pittura e legno su tavola, cm 137×91×2,4 Collage, 1985, cartoncino, metallo, legno e tempera su tavola, cm 76,2×50,8×3,7


Collage, 1985, cartoncino, pittura e legno su tavola, cm 101,6×81,5×4

Collage, 1985, pittura e legno su tavola, cm 101×80,7×8



½Collage, 1985, cartoncino, pittura, pastello e legno su tavola, cm 81,5×50,7×1,6 ½Collage, 1986, cartoncino, metallo, carta e legno su tavola, cm 112×81,5×16 Collage, 1985, pittura e legno su tavola, cm 129×100,5×9,5


I always tought that two dimensions, that flat surface like in painting, is far superior to sculpture. Now why? Because painting, you have an illusion. I feel that’s flat surface there’s more myth and more mystery in painting – because you have to give three dimensions to a two dimensional plane […] Sculpture is more physical. Sculpture, we have four sides, reality. You go around the piece and you have a whole reality. But a great painter or a great sculptor transcends it […]. Louise Nevelson, Atmospheres and Environments, New York 1980, p. 59

[…] Ho sempre pensato che le due dimensioni, la superficie piatta di un dipinto, fossero molto superiori alla scultura. Perché? Perché la pittura dà un’illusione. Sento che per questo c’è più mito e più mistero in pittura perché devi dare tre dimensioni a un piano che ne ha due. […] La scultura è più fisica. In scultura, abbiamo quattro lati, la realtà. Tu giri intorno al lavoro e hai una realtà intera. Ma un grande pittore o un grande scultore la trascendono.

SELECTED BIOGRAPHY 1899, born September 23 in Kiev, Russia to Isaac Berliawsky and Minna Ziesel Smolerank. There were four children: Nathan, Louise, Anita and Lillian. 1905, the family moved to the United States and settled in Rockland, Maine where Isaac worked in construction and ran a lumber yard. 1920, married Charles Nevelson and moved to New York. 1922, son Myron (Mike) was born. 1929-30, studied at Art Students League in New York with Kenneth Hayes Miller. 1931, studied with Hans Hofmann in Munich. Worked as an extra in films in Berlin and Vienna. 1932, assistant to Diego Rivera. Studied modern dance with Ellen Kearns. 1935, exhibited in a group show of young sculptors arranged by the Secession Gallery at the Brooklyn Museum. 1937, as part of the Works Progress Administration, taught art at the Education Alliance School of Art in New York. 1941, First solo exhibition at the Nierendorf Gallery, New York. 1948, travelled to England, France, and Italy. 1949-50, worked at the Sculpture Centre, New York in terracotta, aluminium and bronze. Observed Atelier 17 in New York with Stanley William Hayter for a time. Made two trips to Mexico. 1953-55, worked at Atelier 17. Produced a series of black wood landscape sculptures. 1956, Whitney Museum of American Art acquired Black Majesty. 1957, the Brooklyn Museum acquired First Personage. 1958, The Museum of Modern Art acquired Sky Cathedral. 1957-59, president of New York chapter of Artist’s Equity. Received grand prize for work in “Art U.S.A.”, exhibition at New York Coliseum. 1960, received Logan Award from The Art Institute of Chicago for work shown in “63rd American Exhibition”. 1962, president of National Artist’s Equity. Participated in Conference of World Affairs, which included international leaders in the fields of science, government, arts, etc. First vice-president of Federation of Modern Painters and Sculptors. Member, National Association of Women Artists. Member Sculptor’s Guild. Sculpture included in United States Pavilion, XXXI Biennale Internazionale d’Arte, Venice. Whitney Museum of American Art acquires wall sculpture, Young Shadows. 1963, Fellowship in Tamarind Workshop, Los Angeles, where she completed an edition of 26 lithographs. Re-elected president of Artist’s Equity. 1965, participated in National Council on the Arts and Government in Washington D.C. Israel Museum in Jerusalem acquired Homage to 6,000,000. 1966, awarded honorary doctorate in fine arts from Western College for Women in Oxford, Ohio. 1967, major

retrospective show at Whitney Museum of American Art, New York (March-April). Fellowship at the Tamarind Workshop, Los Angeles. 1969, commissioned by Princeton University to do first monumental Cor-ten steel sculpture. MacDowell Colony medal winner (September). Julliard School of Music, New York acquired wall sculpture, Nightsphere Light. 1970, 55’ wall sculpture commissioned by Temple Beth-El, Great Neck, New York. 1971, Brandeis University Creative Arts Award in Sculpture. Skowhegan Medal for Sculpture. 1972, gift of the city of New York of monumental Cor-ten steel sculpture Night Presence (Park Avenue between 91st and 92nd streets). Publication of Louise Nevelson, by Arnold B. Glimcher, published by Praeger Publishers, New York. 1973, commission of Cor-ten wall sculpture by Temple Israel, Boston. Commission of monumental sculpture by the city of Scottsdale, Arizona, with funds from the National Endowment for the Arts. Commission of monumental sculpture by the city of Binghamton, New York. Honorary degree, Smith College, Northampton, Massachusetts. 1975, commission of wood painted white environment for General Service Administration, Federal Courthouse, Philadelphia. Commission of monumental sculpture for Massachusetts Institute of Technology, Cambridge. Participated in two exhibitions organised by United States Information Agency, which travelled to Iran, India and Japan. 1977, installation of wood painted white environment at Saint Peter’s Lutheran Church, Citicorp Center, New York. Mrs. N’s Palace, an exhibition at the Pace Gallery, New York. Exhibition The Metal Sculptures, Neuberger Museum, State University of New York at Purchase. Commission of steel painted black monumental sculpture at Embarcadero Center, San Francisco. Received an honorary degree from Columbia University, New York. 1978, installation of seven major Cor-ten steel sculptures at Louise Nevelson Plaza, between Liberty Street and Maiden Lane in New York City. Commission of monumental sculpture for The Port Authority of New York and New Jersey at the World Trade Center, New York. Received an honorary degree from Boston University, Massachusetts. 1979, commission of three major Cor-ten steel sculptures for Bendix Corporation of America, Headquarters Buildings, Southfield, Michigan. Awarded President’s Medal of the Municipal Art Society of New York. Elected a member of the American Academy of Arts and Letters, New York. 1988, Died April 17 in her home in New York City.

Louise Nevelson, fotografia di Pedro E. Guerriero

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NOTA BIOGRAFICA

Louise Nevelson allo Studio Marconi di Milano, fotografia di Mario Carrieri, Milano, 1973

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1899, Louise Nevelson nasce il 23 settembre a Kiev, Russia da Isaac Berliawsky e Minna Diesel Smolerank. Erano quattro figli: Nathan, Louise, Anita and Lillian. 1905, la famiglia si trasferisce negli Stati Uniti e si stabilisce a Rockland, Maine dove Isaac lavora nel settore delle costruzioni e gestisce un deposito di legname. 1920, si sposa con Charles Nevelson e si trasferisce a New York. 1922, nasce suo figlio Myron (Mike). 1929-30, studia alla Art Students League a New York con Kenneth Hayes Miller. 1931,studia con Hans Hofmann a Monaco. Lavora come comparsa in alcuni films a Berlino e Vienna. 1932, è assistente di Diego Rivera. Studia danza moderna con Ellen Kearns. 1935, viene presentata in una collettiva di giovani scultori organizzata dalla Secession Gallery al Brooklyn Museum. 1937, sotto il programma del Works Progress Administration, insegna arte alla Education Alliance School of Art in New York. 1941, tiene la prima mostra personale alla Nierendorf Gallery, New York. 1948, lavora in Inghilterra, Francia e Italia. 1949-50, lavora allo Sculpture Centre di New York realizzando opere in terracotta, alluminio e bronzo. Per un periodo di tempo analizza il lavoro di Atelier 17a New York con Stanley William Hayter. Fa due viaggi in Messico. 1953-55, lavora all’Atelier 17. Realizza una serie di paesaggi scultorei in legno dipinto di nero. 1956, il Whitney Museum of American Art acquista Black Majesty. 1957, il Brooklyn Museum acquista First Personage. 1958, il Museum of Modern Art acquista Sky Cathedral. 1957-59, è presidente della sezion e newyorkese di Artist’s Equity. Riceve il gran premio per l’opera esposta ad “Art U.S.A.” nel New York Coliseum. 1960, riceve il Logan Award dal Art Institute di Chicago per l’opera presentata nella “63rd American Exhibition”. 1962, è presidente della National Artist’s Equity. Partecipa alla Conference of World Affairs, che include rappresentanti internazionali nel campo delle scienze, della politica, delle arti, ecc. È la prima vice-presidente della Federation of Modern Painters and Sculptors. Diviene membro della National Association of Women Artists e dello Sculptor’s Guild. Una sua scultura è presentata nel Padiglione degli Stati Uniti in occasione della XXXI Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Il Whitney Museum of American Art acquista il muro scultoreo Young Shadows. 1963, Membro (onorario) del Tamarind Workshop, Los Angeles, dove realizza un’edizione di 26 litografie. È rieletta presidente del Artist’s Equity. 1965, partecipa al National Council on the Arts and Government di Washington D.C. L’Israel Museum di Gerusalemme, acquista Homage to 6.000.000. 1966, è premiata con il dottorato onorario in belle arti dal Western College for Wo-

men di Oxford, Ohio. 1967, tiene un grande mostra retrospettiva al Whitney Museum of American Art, New York (marzo-aprile). Membro (onorario) del Tamarind Workshop, Los Angeles. 1969, gli viene commissionata dal Princeton University la prima scultura monumentale in acciao corten. A settembre vince la MacDowell Colony Medal. La Julliard School of Music di New York acquista il suo muro scultoreo, Nightsphere Light. 1970, 55’ scultura murale gli viene commissionata dal Temple Beth-El, Great Neck di New York. 1971, Brandeis University Creative Arts Award in Sculpture. Skowhegan Medal for Sculpture. 1972, dono della città di New York di una monumentale scultura in acciaio corten Nigth Presence (Park Avenue fra la 91st e 92nd strada). Pubblicazione di Louise Nevelson, di Arnold B. Glimcher, edito da Praeger Publishers, New York. 1973, commessa di un muro in acciaio corten dal Tempio ebraico di Boston. Richiesta di una scultura monumentale dalla città di Scottsdale dell’Arizona, con i fondi del National Endowment for the Arts. Ordinazione di una scultura monumentale dalla città di Binghamton, New York. Laureaonoraria dallo Smith College, Northampton, Massachusetts. 1975, richiesta di una scultura ambientale lignea dipinta di bianco dalla General Service Administration, Federal Courthouse, Philadelphia. Commessa di una scultura monumentale per il Massachusetts Institute of Technology, Cambridge. Partecipa a due mostre organizzate dalla United States Information Agency, con tappe in Iran, India e Japan. 1977, installazione di una scultura ambientale lignea dipinta di bianco alla Saint Peter’s Lutheran Church, Citicorp Center, New York. Mrs. N’s Palace, una mostra alla Pace Gallery, New York. Mostra The Metal Sculptures, Neuberger Museum, State University of New York at Purchase. Commessa di una scultura monumentale in acciaio dipinta di nero all’Embarcadero Center, San Francisco. Riceve una laurea onoraria dalla Columbia University, New York. 1978, installazione di sette monumentali sculture in acciaio corten nella Louise Nevelson Plaza, fra Liberty Street e Maiden Lane a New York City. Commessa di una scultura monumentale per The Port Authority of New York e New Jersey al World Trade Center, New York. Riceve una laurea onoraria dalla Boston University, Massachusetts. 1979, richiesta di tre monumentali sculture in acciaio corten per il Bendix Corporation of America, Headquarters Buildings, Southfield, Michigan.Premiata con la medaglia del presidente della Municipal Art Society di New York. Eletta quale membro della American Academy of Arts and Letters di New York. 1988, Muore il 17 aprile nella sua casa di New York City.

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Questo volume a cura di Andrea Alibrandi è stato stampato dalla Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera, per i tipi delle Edizioni “Il Ponte” Firenze Finito di stampare a Firenze nell’aprile 2009


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