PRETESTI DI PITTURA LA NATURA MORTA
CAVALLO ALIBRANDI
PRETESTI DI PITTURA
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EDIZIONI “IL PONTE” FIRENZE
NOVECENTO 7
PRETESTI DI PITTURA La Natura morta Testi di Luigi Cavallo Andrea Alibrandi
Giuseppe Maria Crespi, Scaffali con libri musicali. Olio su tela, ciascuno cm 159s74. Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale.
EDIZIONI “IL PONTE” FIRENZE
PRETESTI DI PITTURA La natura morta a cura di
Luigi Cavallo collaborazione di
Oretta Nicolini Galleria “Il Ponte” Firenze 15 novembre - 31 dicembre 2003
SOMMARIO pag. 09
Luigi Cavallo Pretesti di pittura La natura morta
pag. 017 Andrea Alibrandi Natura morta italiana del Novecento Un percorso pag. 031 Tavole pag. 97 Indice alfabetico degli autori
Selezioni cromatiche Selecolor, Firenze Impaginazione elettronica Punto Pagina, Livorno Stampa Bandecchi &Vivaldi, Pontedera © 2003 - Edizioni “Il Ponte” Firenze 50121 Firenze - via di Mezzo, 42/b tel/fax 39 055240617 www. galleriailponte.com e-mail: info@galleriailponte.com
Pretesti di pittura La natura morta
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Per dare qualche corredo all’indicazione didascalica del titolo, Pretesti di pittura. La natura morta, possiamo rileggere una pagina di Ardengo Soffici dal suo succoso libro Taccuino di Arno Borghi, pubblicato da Vallecchi a Firenze nel 1933 (pp. 298-299): «Molti nostri scrittori d’arte, quando occorre loro di parlare di “natura morta”, usano rilevare l’incongruenza di questo termine, osservando comunemente che è strano chiamar così una produzione pittorica che rappresenta cose naturali ed il cui massimo pregio è la vita artistica emanante dal soggetto trattato. Si vede che codesti scrittori ignorano il significato che a quella denominazione straniera dettero i primi che l’impiegarono; e furono i francesi del XVIII secolo. Ora, costoro chiamarono “nature morte” le rappresentazioni pittoriche di cacciagione, di selvaggina, di pescagione (di cervi, di lepri, di pesci, di uccelli terrestri ed acquatici) che signori amanti della caccia, della pesca e della buona cucina commettevano loro per ornamento di sale e di stanze da pranzo. Il soggetto di tali pitture (esseri naturali morti) giustificava allora la designazione. Quando a quegli animali si aggiunsero poi frutta – nel dipinto – vasellami ed altri oggetti, si continuò, 9
per estensione, a dare al tutto la stessa denominazione; e così si fece anche quando le bestie morte sparirono e non rimasero nel quadro che le cose suddette, cui ne vennero dietro altre d’ogni genere. “Natura morta” significa dunque oggi una tale specie di raffigurazione; né merita il conto di sottilizzare su quel bisticcio di morte e di vita, così come sarebbe cosa vana cincischiar sur una parola rifacendosi al suo etimo…» Nelle schede che seguono a commento dei quadri talvolta siamo ricorsi alle frasi di Soffici che stimiamo non solo coerenti con la sua franca impostazione di pensiero, ma toccate da quel gusto sobrio che lo fa esemplare anche ai giorni nostri. Così, per ritrovare certi sapori d’antan, a noi grati, più volte qui abbiamo citato i testi di Raffaele Carrieri che sapeva dare alla lettura dell’arte un volto di poesia, restando aderente al testo della pittura, cioè alle sue essenze, al cuore pulsante delle immagini; vestiva di piume il gallinaccio della critica in modo così personale da essere inimitabile; con Carrieri è scomparso tutto un campo di fantasia e di appassionata intrusione nella creatività senza confini di immagine o di parole: è venuto a mancare un raccordo, ma sì, anche troppo esplicito, svagato, divagante di poesia/pittura, e molto si è inaridito il serioso cerimoniale delle presentazioni e delle recensioni. In un calendario per il 1959 stampato a Milano da Alfieri & Lacroix e intitolato alla Natura morta nella pittura moderna, veniva premesso un «Poema inedito di Raffaele Carrieri»; versi che si possono inforcare come lenti per guardare gli oggetti esposti: ne alleggeriscono i contorni, fanno i colori più cristallini. Giacomo Ceruti, Natura morta con gamberi, pane, due ampolle e una bottiglia. Olio su tela, cm 43s59.
Milano, Pinacoteca di Brera.
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Tutto è paragone Simile alla coda dell’uccello II tuo mosso pennello Fa maturo e acerbo Ciascun frutto: leggero è tutto Ciò che mesci all’azzurro, II grillo mattiniero E il canto del gallo. In ogni giallo La ruota del girasole A imitazione del sole. Nel verde il verziere Con le foglie a cuore: La rosa nel bicchiere Muore non muore? Più verde meno verde: Prati, alghe II cocomero e il pesce. Tutto è paragone E ciascuna cosa nasce Probabile improbabile Nell’occulta moltiplicazione. Nell’uovo chiuso, Non canta l’usignolo E il diamante è cieco Nel suo alveolo. Questo infocato rosso Sarà garofano o corallo? Non fare domande al pittore E non chiedere al colore Ciò che deve essere:
Ciascuna cosa nasce Ciascuna cosa muore Probabile improbabile. 12
Aggiungiamo che le opere per questa mostra d’occasione sono di autori italiani che per larghe linee rappresentano il Novecento nelle sue diramate energie. Vi sono pagine intrise dalle efficienze, dalle suscitazioni della natura, pagine dove la luce sembra sciogliere le cose reali e altre nelle quali restano tonici i valori plastici e il senso del reale anzi è come elevato a potenza. Ci si può soffermare sulla qualità della materia, sul gusto della composizione che dà nobiltà alle forme. Alcuni protagonisti di quella che viene chiamata Seconda generazione danno forti emozioni al colore, quasi rinunciano al tonalismo per alzare il fuoco cromatico. La breve antologia si conclude con alcuni campioni del neocubismo che nel nostro Paese ebbe rinnovato impulso nell’immediato dopoguerra e, considerato ormai in prospettiva storica, può dirsi una vivace stagione che non ci pare doversi confinare in una sorta di involuzione manieristica; sempre si tratta di valutarne i risultati senza preconcetti schemi teorici. Gli autori qui riuniti hanno dunque lavorato nel secolo scorso e in esso hanno lasciato una traccia consistente, tale da meritare, nella più parte dei casi, una riconferma in campo internazionale, e per altri un approfondimento adeguato poiché la loro posizione resta in zone un poco in ombra, o almeno non sufficientemente poste all’attenzione degli studi. Un passato prossimo già slontanato dalla prassi temporale in un confine, oltre uno steccato che, comunque, ogni volta dobbiamo superare per renderci conto che una parte, una gran parte di noi, dei nostri interessi culturali, delle nostre preferenze, amicizie, amori, è oltreconfine. La definizione di antiquario era già in uso presso taluni intel13
lettuali nei confronti di chi si occupava di Novecento e dintorni – intendevano così proiettare, di contro, le loro posizioni in un ambito di scelte molto aggiornate, di chi mangia l’uovo dell’arte appena scodellato. Ora a buon peso tale etichettatura è legittima nei confronti di chi si ostina a lavorare su quel periodo, dal margine del secolo XXI, serratura che si è chiusa sulle arti, come su tutto il resto della cultura, e in particolare sulle arti figurative. L’enorme catalogo delle opere dipinte a mano ha fatto punto, e non è detto che si producano tali argomenti d’opera da giustificare un a capo, salvo i perduranti casi recidivi di artigianato che ci vorrebbe l’alluvione per affogarli. Natura morta, paesaggio, figura, significano davvero poco sezionati per «genere»: come si usava dire non c’è che l’eccellente pittura, la mediocre e la cattiva. Ma non è certo in tempi ravvicinati che si possono dare giudizi provvisoriamente definitivi. Ciò che oggi è senz’altro rifiutato domani potrà essere guardato con occhio diverso, rimesso in fortuna, e viceversa. Ci conforti, ma solo parzialmente, il fatto che le storie (dell’arte) siano popolate di «ritardatari», di «renitenti alla leva dell’avanguardia», di «fuori le righe», di «isolati», di «marginali», di «collaterali», di «dimenticati», di «recuperati», di «anomali», di «obiettori», di «deviati», di «sfrattati», di «secondari», di «scartati», di «aboliti», di «minori», di «morti prematuramente», di «morti troppo vecchi», di «indigenti», di «compromessi», di «scaduti» e «decaduti», «decadenti», «influenzati», «corrotti», «sfiatati»… Si dovesse mai ricostruire un’estetica, non al lume delle cose più 14
originali, più innovative, più di rottura, si potrà forse avere qualche appiglio meno incerto, meno effimero, per giudicare di quel vastissimo luogo della creatività che è stato il secolo scorso. Tra quelle sponde quanto mai aperte alla contraddizione sono state alimentate e demolite, recuperate e affondate quantità di valori, di poetiche; le tante volte fuse e rifuse misure che sono durate quanto l’affermarsi e il dissolversi di un’idea politica, di un puntiglio ideologico o filosofico, di una linea formale, di una scuola, di una corrente. I manifesti che pure hanno segnato fasi cospicue dell’arte nel secolo XX, e hanno orientato intere generazioni, sono spesso stati smentiti o superati dai singoli artisti che lavoravano per loro conto, magari in disparte, avverso alle opinioni dei più. Se qualcosa regge, o almeno ha il fiato più lungo, è tuttavia nell’intima manifestazione che possiamo chiamare spirito creativo se volgiamo lo sguardo al passato, oppure ragioni espressive se ci caliamo nel presente. Il presente dà l’opportunità di vivere; il passato dà l’opportunità di pensare. Si tratta, forse, di fare consistere queste due energie essenziali ancora per sentirci partecipi del nostro tempo. O per trovare la spinta di volarci sopra. Luigi Cavallo
giugno 2003
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Natura morta italiana del Novecento Un percorso
Affrontare la presentazione di un genere iconografico all’interno della pittura italiana del Novecento, con i vertiginosi mutamenti che si sono succeduti, può sembrare una forzatura. D’altro canto è pur vero che con il motivo o movente della natura morta, vita silente, natura in posa della tradizione pittorica del Sei-Sette e Ottocento, si sono confrontati tutti i grandi artisti europei del secolo scorso a partire dalle Avanguardie storiche. Raccogliere un nucleo di pittori italiani, seguendo un’ipotetica scansione cronologica, quasi per mettere a confronto le loro modalità di affrontare uno spunto pittorico similare, può darci la possibilità di trovare consonanze, dissonanze, legami o strappi fra artisti diversi, talvolta legati da sottili valori armonici.
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Indubbiamente per pittori nati nell’Ottocento o nei primi del Novecento, la traccia più sentita di fronte a questo tema è quella che riconduce a Cézanne. Il pittore di Aix-en-Provence rappresenta veramente l’apertura alla grande stagione dell’arte moderna. «Perché Cézanne è, dentro l’impressionismo, l’impressionismo che dura e che porta al principio quello che per i suoi contemporanei, 17
solidali o no, erano i principii delle loro apparenze visive. Queste “apparenze”, quanto più disinvolte, provocano la sua meditazione, la sua volontà di “solidificare”: ma, di esse, quale punto d’arrivo di un inesprimibile che non è mai abbastanza realizzato e che di nuovo attende alla sua organica struttura e alla sua sintesi spoglia, egli ha bisogno come della ragione stessa del far pittura. Certo, tra apparenze e superfici tirate sino allo smalto della propria evidenza, tra analisi dei piani oggettuali e, fuor d’ogni ombra neutrale e d’ogni prospettiva lineare, sintesi assestante di volumi, in questa geometria che non ha più nulla d’astratto e di illusorio, Cézanne ha anticipato tutto, anche il cubismo, ma non sarà mai col senno di poi un profeta di parole, nemmeno delle sue. Poiché “traiter la nature par le cylindre, la sphère, le cône, le tout mis en perspective” significa per Cézanne riunire a un culmine di tensione e di segreto addentrante, compenetrativo, quel suo patire reale la leggerezza insoddisfatta delle cose e dell’umana natura, l’irriflessione decentrata che disperde la vita, magari nelle sue analisi più sottili, ma ancora nella credulità ottica.»1 La sua dedizione al genere della natura morta, nella messa in posa di pochi e serrati elementi costruttivi, gli offre l’occasione di sperimentare continuamente la tensione verso un realismo non fotografato, ma che vada a pescare nell’interiorità degli oggetti, mettendone a nudo, attraverso un processo di continua sintesi, l’essenza. In questo percorso si inserisce la Natura morta di Ugo Bernasconi della fine degli anni ’20 (tav. 2), dove la solida costruzione
Alfonso Gatto, «Occhio che vede dentro il suo vedere», in L’opera completa di Cézanne, Rizzoli, Milano, 1970, p. 9 e segg.
dei frutti, resa con pittura filamentosa di tradizione divisionista (ma nel discorso entra anche Carrière), li rende partecipi di una fonte di luce naturale chiaramente percepibile, esterna a essi che, bagnandoli non li attraversa, ma li tocca di una rarefatta atmosfera d’antan. Nello stesso ambito può collocarsi la Natura morta databile al 1940 di Arturo Tosi (tav. 1); attraverso un impasto ricco, madido di umori, un chiarore interno alla sostanza della pittura pare scaturire dalla mela, dall’uva, dal panno, ne è parte integrante, non li colpisce, ne viene emanato e la composizione affiora dal fondo come dalle quinte di un palco. In entrambi gli artisti la fisicità degli oggetti, la loro solitaria alterità apre a quel ritorno all’ordine, all’idea del classico, del monumentale, che ritroviamo nelle appartate nature morte degli artisti italiani del Novecento durante gli anni Venti. Dalla scabra Natura morta del 1919 di Ottone Rosai (tav. 12), dove tono su tono la tavolozza – oggetto rituale – è collocata su un piano cromaticamente identico, ma di gradazione più chiara, dove si appoggiano due scarni frutti, una pera e una mela, che soli paiono cogliere un riverbero di sole nella loro evidenza marmorea, proiettando nitida la bruna ombra sul bruno della tavolozza. La pienezza di forme plastiche di questa opera di Rosai apre al clima in cui si inserisce lo splendido Bozzetto per natura morta con l’uva attribuibile al 1931 di Felice Casorati (tav. 8). Ogni elemento disposto sul piano, che si interseca in modo trapezoidale alla superficie, è di rarefatto incanto, avvolto in una tonalità fredda, da cui niente si distacca. La ciotola nel nitore bianco perlaceo dell’interno è fulcro di una bloccata composizione, quasi da mensa sacra.
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Ambrogio Figino, Pesche. Olio su tavola, cm 21s30. Collezione privata.
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Viceversa ne Il sifone del 1956 di Carlo Carrà (tav. 7), gli elementi non sono descritti e amorosamente dettagliati come nella composizione casoratiana; assumono la valenza di solidi geometrici. I profili marcati dal segno netto delle vetrate gotiche, compongono lo spazio con severità e solidità. Niente della loro funzione o essenza lirica pervade il dipinto; tutto è risolto nella sostanziale struttura volumetrica. Se in tale nitidezza di forme e volumi si inserisce anche la Natura morta databile al 1958 di Giorgio Morandi (tav. 11), è nell’incanto della luce, quindi nella impalpabile forza di riscontri arcani, che si risolve la costruzione, nel conforto di una domestica ritualità. Non alzati che scandiscono lo spazio, ma volumi che affiorano attraverso un bagno luminoso, iridescenti del proprio riverbero, si accomodano in una dimensione di grazia ovattata, dove i bianchi, i grigi perlacei, i verdi spenti sono vibrati da due rintocchi di un bruno rossastro, l’uno diverso dall’altro, che si stemperano all’interno delle proprie ombre. Così densi, quasi alabastrini sono gli acini d’uva e la melagrana che si posano su un bianco panneggio nella Vita silente con uva databile al 1960 di Giorgio de Chirico (tav. 9). Nel tessuto pittorico, reso per sottili pennellate che vengono a comporre una trama come su un’antica tavola a tempera grassa del Quattrocento, l’immagine tangibile di questi frutti collocati fra drappi e tendaggi su di un davanzale ha sapore secentesco che contrasta con il paesaggio sognato in cui la natura morta si specchia e che pare tratto da un dipinto del Perugino. Attraverso questo contrapporsi di citazioni avviene lo spaesamento ironico con cui de Chirico ci tenta nella sua rete di sogno, finzione. 21
Sempre all’interno del sogno, o meglio nella magia del ricordo, in un percorso à rebour, l’odore, il colore dei tre piccoli pesci nella Natura morta sulla spiaggia della metà degli anni ’30 (tav. 13), o del gamberone e di un’ostrica nella Natura morta degli inizi degli anni ’40 (tav. 15), trasporta Filippo de Pisis in un’altra dimensione, quella della memoria. Qui una congerie di oggetti d’uso o decorativi, animali vocianti o impagliati, come in Interno con pappagallo del 1939 (tav. 14), danno vita a quella visione dove il poeta de Pisis trova la sua misura. Un delirio di cui ci fa partecipi attraverso la vibratile e sensibilissima pittura, nelle cui maglie ci si può insinuare, perdendosi in un’altra vagheggiata realtà. Un realismo saliente si afferma invece attraverso i dipinti di Carena, dove la maestria nel gestire la materia cromatica costruisce l’immagine attraverso vividi bagliori. Non è rarefatta e astratta come in Morandi la qualità del percepito; resta il gusto per afferrare e affondare nel vero, quasi la forma fosse concreta anche nelle due dimensioni, impressa nelle sue fisiche evidenze. Nel Pesce databile al 1935 (tav. 4), o nella Natura morta con gabbiani collocabile nel 1946 (tav. 5), con i due uccelli spiaggiati, la luce vibra all’interno dei tasselli pittorici, composti per brevi e serrate pennellate; essa non sfugge né si distende sulle cose, viene tenuta in forti chiaroscuri che rendono drammaticità all’immagine. Tensione emotiva che ritroviamo nei Fiori, fine anni ’50, di Achille Funi (tav. 10), nella secchezza dei lunghi steli che si dischiudono nel turgore di boccioli e corolle di rosso vermiglio; fiammata che contrasta con il grigio aere tempestoso. Il tutto reso con pittura magra e ferma che blocca l’emozione, caricandola del senso di un’attesa che pare non trovare sbocco.
Pathos che si stempera nella bella Natura morta attribuibile al 1948 di Gianni Vagnetti (tav. 16); qui il lavoro sulla resa della pittura, la ricchezza dei valori cromatici si esalta attraverso un continuo gioco di corrispondenze. Viene scrutata in profondità la vita delle cose, riportata a una domesticità proposta attraverso un tono crepuscolare, non senza sapori di intima tensione. Tale dovizia di colori si smorza nelle opere di alcuni artisti che della percezione fecero un vessillo: la luce non delimita, non descrive, si diffonde sulle forme come semina di pulviscolo, rendendole parte integrante del fenomeno luminoso e quindi quasi intangibili. È il caso di Pio Semeghini, nella cui Natura morta con fiori degli anni ’30 (tav. 3), gli elementi sono ridotti a pure parvenze, evanescenti ricordanze. In questa poesia del quotidiano, privata di densità e di corpo, gli oggetti si fanno lattiginosi, perdendosi nella bruma di certe nebbie padane, che rendono qualsiasi cosa l’apparizione di se stessa. Così nella Natura morta coi gamberi degli anni ’30 di Francesco De Rocchi (tav. 19), quasi ripresa in piano dall’alto, i toni sono fusi e anche il contrasto di per sé stridente tra il verde del cartoccio e l’arancio dei gamberi è amalgamato e attenuato. L’immagine non è colpita direttamente dai raggi solari, affiora attraverso un lento processo di scansione cromatica. Sulla stessa linea, anche se all’interno delle diverse radici toscane, nei Vetri del 194754 di Bruno Rosai (tav. 28), il gioco dei riverberi che attraversano le bottiglie di cristallo smerigliato, offre la possibilità di rendere a pieno sensibilità e accenti coerenti alle sue idee di espressione: la vibrazione luminosa conquista gli oggetti e pure i paesaggi, i volti. Ogni dipinto è mosso su questa sensazione
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che avvolge il tutto, egli la seziona in sottili, frementi lamelle, che compongono un’immagine rarefatta, impalpabile. Nel dipinto Vaso con fiori del 1971 di Giuseppe Cesetti (tav. 18), profondamente diverso è l’impatto della luce: inonda con freschezza l’immagine, si svolge su di essa priva di costruzioni algebriche e ritrova spontaneità nativa, lento frutto di una deriva verso un’ingenuità rappresentativa ed espressiva, in cui la mediazione, il filtro intellettuale della visione sono stati ridotti ai minimi termini. Nella Natura morta del 1983 di Aldo Salvadori (tav. 20), la pittura perde corpo, si costruisce sul piano cercando nell’impianto e nella scansione degli oggetti, quali referenti cromatici, la validità del dipinto. È pittura rarefatta, giocata su toni acidi; poco è concesso alla piacevolezza; la dimensione è sospesa, privata del senso dello scorrere del tempo, in una cognizione quasi orientale e immateriale. L’impianto e l’idea della natura morta aveva affascinato anche le Avanguardie storiche del Novecento e in Italia quello che sicuramente ne subì maggiormente la seduzione fu Ardengo Soffici. Giocare con corpi inanimati, costruire l’immagine con questi oggetti che, secondo la lezione di Cézanne, altro non erano che solidi geometrici, resi vivi esclusivamente dal rifrangersi dei raggi solari, aveva coinvolto cubisti e futuristi. La tradizione della natura morta secentesca richiedeva spesso l’uso di palchi e alzate posticce, ingannate dai panneggi, in modo che gli oggetti, disposti nella composizione, potessero conquistare gran parte della tela, senza distaccarsi dalle regole di una visione prospettica.
Rivolgendosi invece alla tradizione medioevale della «visione a volo d’uccello» e forzandola in un’ulteriore verticalizzazione del piano orizzontale, gli elementi che vi sono collocati si trovano estrapolati da qualunque necessità prospettica e si compongono come tasselli di un mosaico che occupa tutta la scena. Tale è l’impianto del Trofeino databile al 1960 di Soffici (tav. 6) qui presentato, in cui a distanza di molti anni l’artista reinterpreta un suo motivo compositivo della metà degli anni Dieci. Il corpo della pittura si è liquefatto, la struttura degli oggetti non solo è appiattita, privata di volume e trasformata nel ritaglio cromatico del collage, ma si è andata stemperando nella grana della carta. L’opera si risolve in un gioco di rimandi ritmati di toni, di trasparenze, che si sostengono l’un l’altro: vera peripezia da giocoliere delle forme e della composizione. Nella stessa temperie si inseriscono le due Nature morte degli anni ’60 di Pippo Oriani (tavv. 24, 25), dove l’incitamento futurista al comporre, il procedere per taches vibrate, tese a rendere il senso del movimento, la spinta dinamica che sottintende alle cose, si traduce in amabile decorazione di campiture. La pittura si è fatta gesto grafico, segno meccanico, che non descrive, ma indica, quasi che ogni segno rappresentasse il sottotitolo di se stesso, non colto nella sua realtà, ma nel suo valore simbolico: alfabeto di segni necessari alla lettura dell’immagine. Nella disposizione della Natura morta con tazzina e sella di bicicletta databile al 1948 di Fausto Pirandello (tav. 17) si ripresenta la distribuzione verticalizzata dei diversi oggetti che, privi di rapporto l’un con l’altro, si dispongono sul fondale azzurro, come se galleggiassero in un acquario. La lezione cubofuturista, riletta
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attraverso una materia densa, corposa, ricca di suggestioni e di suggerimenti, apre a quelle tensioni informali che, pur trovando in Pirandello ampio spazio, non riusciranno mai a distaccarlo dall’immagine figurativa; immagine in lui sempre carica di un profondo senso di solitudine, come nei disparati utensili di questo dipinto, che fra di loro non trovano contatti, restando ognuno chiuso nella propria desinenza. Stesso impianto perpendicolare per la Natura morta con oggetti di Franco Gentilini databile al 1953 (tav. 23). Tutto è più composto, bloccato in una dimensione di balocchi sognati. L’ingenuità incerta del tratto che delimita e definisce i semplici oggetti altro non è che la forzatura di un’abilità tecnica evidente nel trattare le superfici, curate in ogni dettaglio, dove le nuances di colori si intersecano perdendosi l’una dentro l’altra in un caleidoscopio di soffice delicatezza. La preziosa costruzione materica del tessuto pittorico che sottostà al disegno, presente nell’opera di Gentilini, esplode in Morlotti e Mattioli, che della pasta della pittura fanno il loro linguaggio. Nella tempera di Ennio Morlotti Natura morta del 1942 (tav. 26), l’impianto picassiano viene distorto e macerato da un segno vasto che costruisce un’immagine apparentemente priva di struttura volumetrica, resa invece attraverso la densità acquistata dalla pennellata nel tentare di definirla. Nella Natura morta del 1962 di Carlo Mattioli (tav. 27) la superficie del dipinto diventa un cosmo di percezioni. I pochi elementi strutturali, resi con gesto ampio e possente, muovono e modellano la densità della massa cromatica come in un bassorilievo. Sui toni grigio perlacei dell’alveo preparato sulla tela si stagliano i pochi
oggetti che, resi con un nero profondo e vellutato, compongono sulla verticalità della stesura del fondo un immaginario piano orizzontale di grande consistenza plastica.
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Nell’ambito di un postcubismo di matrice tutta italiana, che si diffonde lungo la penisola sul finire della seconda guerra mondiale, si inseriscono le opere di alcuni artisti, allora giovani, che si aprono alla cultura internazionale, scoprendo, nella rilettura che della tradizione cubista aveva dato Picasso negli anni Trenta, un nuovo punto di partenza. Ognuno di loro troverà in seguito un proprio individuale percorso espressivo, che però già si evidenzia in queste opere, legate l’una all’altra dall’atmosfera figurativa che si respirava in Italia in quegli anni. Nella Natura morta del 1947 di Mario Nuti (tav. 31) si intuisce il senso di scansione dello spazio, che sarà caratteristico del suo astrattismo sullo scorcio degli anni Quaranta. È evidente come la finestra sia impalcatura (simile alle grandi trame nere del momento astratto), struttura che prevarica gli elementi della natura morta; pesce, cocomero, bottiglia divengono anch’essi rimandi costruttivi in uno spartito geometrico. Nella Natura morta del 1948 e in Strumento musicale del 1949 di Franco Francese (tavv. 29, 30), l’impianto è composto per ampie campiture che scandiscono i piani dell’immagine con forti e dissonanti contrasti cromatici. Pennellate dense, ricche di umori e suggestioni, presagiscono il taglio esistenziale e tormentato caratteristico della sua ulteriore vicenda. La Natura morta con ventaglio databile al 1945 di Arturo Carmassi (tav. 32), nella disposizione degli oggetti su di un piano ribaltato, à plat, si inserisce nelle modalità francesizzanti del
momento, ma la forte struttura disegnativa, resa col tratto denso della matita conté, determina gli oggetti, ne rileva i volumi e la forza strutturale. Una chiarità di impianto concettuale sottostà al segno che scandisce lo spazio con una classica partitura. Il tutto è avvolto in un cromatismo sognato; il timbro monocorde è acceso da vividi bagliori, quasi ritrovando consonanze nella pittura visionaria di Gino Rossi. Nei dipinti di Domenico Cantatore (tavv. 21, 22), Natura morta del 1957 e Composizione di oggetti del 1963, ancora sopravvive la tradizione postcubista, tuttavia è divenuta parte integrante dell’intimo linguaggio dell’artista, lo ha compenetrato nell’inesausta tensione a restituirci il vibrato rifrangersi della luce sugli oggetti. I quadri sono come carezzati dalla brezza mattutina l’uno e da uno zefiro notturno l’altro, bagnato dall’irreale riverbero della luna piena.
tempo, lo rende sempre e comunque oggetto in posa. Tale estratto dell’esistenza, ormai proiettato in una dimensione silente, si è arricchito di tali suggestioni, emozioni e di una forza espressiva che vanno ben al di là di qualsivoglia dato iconografico. Andrea Alibrandi
Firenze, luglio 2003
Oggetti, animali, frutti, alla fine sempre simili a se stessi si perpetrano di dipinto in dipinto, da un autore all’altro, in una ripetitività che è insieme elenco e labirinto. Il motivo che può tenere in piedi una piccola o grande rassegna dedicata a un genere di pittura è che in ogni dipinto il soggetto rimane sempre e comunque un pretesto, un motivo per restituirci sensazioni e idee. Non l’immagine rappresentata nel dipinto, ma quanto l’artista riesce a far passare nelle trame della pittura, attraverso quella complessa e articolata impalcatura che si erige su un terreno difficile e sconnesso, il cui equilibrio è il miracolo del suo artefice. Ecco quel finissimo prodotto di sintesi che l’artista deduce dalla realtà che lo circonda e che, bloccandolo nei margini di uno spazio dato e immutabile nel 28
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TAVOLE
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Arturo Tosi
(Busto Arsizio 1871 - Milano 1956)
1 Natura morta (1940). Olio su tavola, cm 40s50. In basso a destra: A. Tosi. Esposizioni: La natura morta, a cura di Vittorio Sgarbi, Castello Estense, Mesola, 2 agosto-15 ottobre 1987, riprodotto in cat. p. 53; Arturo Tosi. 15 dipinti dal 1920 al 1950, Claudia Gian Ferrari Studio di Consulenza per il ’900 italiano, Milano, 2002; Natura morta natura viva nella pittura del Novecento, a cura di Claudia Gian Ferrari, Claudia Gian Ferrari Studio di Consulenza per il ’900 italiano, Milano, 29 maggio-25 luglio 2003, riprodotto in cat. n. 23.
Raffaele Carrieri nel volume Forme (Milano Sera Editrice, Milano, 1949): «Tosi stava nella poca luce che gli piaceva a rimirare i funghi che aveva dipinto. I funghi veri si andavano appassendo, mandavano odore. L’odore dei funghi era simile alla pittura di Tosi: la stessa combinazione di rugiada e di notte […]. L’ultima natura morta l’ha finita di dipingere ieri. Oggi ne sta abbozzando un’altra. Vorrei che tutti i ragazzi che fanno polemiche sul
come bisogna dipingere venissero qui alle 8 del mattino a vedere con quanto amore Tosi prepara la tavolozza. Vorrei che per l’intera giornata lo seguissero avanti e indietro, avanti e indietro un passetto dopo l’altro […]. Gli interessa quello che farà domani. Un’opera come la sua riempirebbe alcune vite. Tosi la speranza la mette nel quadro che dovrà dipingere. È come Courbet, vede per quadri il passato e il futuro.»
Ugo Bernasconi
(Buenos Aires 1874 - Cantù 1960)
2 Natura morta (fine anni ’20). Olio su cartone, cm 41,5s45,5. In basso a destra: UB. Al verso a indicazione della proprietà: firma autografa di Ardengo Soffici. Provenienza: Eredi Soffici. Esposizioni: Ardengo Soffici. Un percorso d’arte, a cura di L. Cavallo, testi di M. Moretti e N. Nuti, Villa Medicea, Poggio a Caiano, 24 settembre-6 novembre 1994, riprodotto in cat. n. 2 nella sezione «Opere di artisti amici di Soffici» a cura di O. Nicolini; Tendenze del Novecento: Naturalezza come stile. L’idea dell’arte nelle pagine de Il Frontespizio 1937/1939, a cura di Marco Moretti, Museo di Arte Contemporanea e del Novecento, Collezione Civica Il Renatico, Villa Renatico Martini, Monsummano Terme, 15 dicembre 2002-16 marzo 2003, riprodotto in cat. p. 173 (materia e misure errate). Bibliografia: Il Frontespizio, Firenze, febbraio 1939, riprodotto p. 72; A. Soffici, Trenta artisti moderni italiani e stranieri, Vallecchi, Firenze, 1950, riprodotto p. 52.
Nella nota autobiografica per il fascicolo che la rivista Il Frontespizio gli dedicò nel febbraio 1939 Ugo Bernasconi espone il suo modo di lavorare: «non più direttamente dal vero […] ma osservando attentamente, lungamente e interrogando con la matita quei modelli miei. Poi dipingevo lontano da quelli, talvolta a molta distanza di tempo. Mi pare che la memoria, o non so quale altra facoltà della mente, eserciti un coordinamento benefico nei dati dei sensi. Forse lo stile nasce di lì. Nell’eseguire mi piace di proceder franco e spedito, evitando l’impaccio della grossa pasta; se sbaglio, anzi che tentar di correggere e rabberciare, preferisco distruggere e rifarmi da capo. Persuaso qual sono della necessità all’opera d’arte dei due momenti, analisi e sintesi, mi prefiggo sempre di fare sulla tela una preparazione minuziosa e sapiente, sopra la quale ridipingere a larghe stesure con sveltezza estrosa: come si dice di getto.» Nella monografia, Ugo Bernasconi, edita nel 1934 da Hoepli, Milano, nella collana Arte Mo-
derna Italiana, a cura di Giovanni Scheiwiller, Soffici esprime ammirazione per l’artista conosciuto di recente a Cantù: «L’impressione che ricevetti in quella visita e dell’uomo e dell’opera sua, fu infatti decisiva. Mi trovai, sorpreso, davanti ad una personalità intellettuale e morale d’ordine assolutamente superiore, dotata di un cervello pieno d’idee grandi, alte, religiose, direi, e di un’anima poetica e pura come se ne incontrano ormai sempre più di rado; e quanto alla sua pittura fui soprattutto colpito dalla forza ideale che rivela, dall’ingenua naturalezza che l’anima, dalla seria maestria tecnica che ne costituisce lo stile e la durevolezza […]. L’arte del Bernasconi è dunque un’arte la quale partendo dall’amorosa, intima, appassionata osservazione della natura, arriva spontaneamente allo stile ed a quella umanità che sola fa vivere le opere nei secoli. Vi arriva mediante una tecnica, che non ha perciò nulla di stravagante, ancorché la sua complessità e squisitezza sia tale da far del dipinto un oggetto prezioso insieme e solido come le antiche tavole.»
Pio Semeghini
(Quistello 1878 - Venezia 1964)
3 Natura morta con fiori (anni ’30). Olio su tavola, cm 34,5s50. Provenienza: Francesco Messina, Milano. Autentica di Gianna Semeghini su fotografia, datata Verona 4.10.1988.
Da una lettera di Ardengo Soffici a Semeghini datata «Poggio a Caiano 12 aprile 1941» (in catalogo Pio Semeghini, testi di Guglielmo Pacchioni e A. Soffici, Centro d’Azione per le Arti, Torino, 19 aprile-4 maggio 1941): «fin da quando scrissi alcune poche parole in lode di una tua raccolta di disegni, dove io vedevo una delle più alte espressioni dell’ingegno italiano, mi son sempre ripromesso di poter un giorno dire anche quello che io penso della tua pittura […]. So adesso che fra pochi giorni, vi sarà a Torino un’esposizione di un certo numero di tuoi dipinti. So anche che la critica e il pubblico ne comprenderanno e ne apprezzeranno la delicata grazia poetica, non meno che la matura virtù del disegno e dello stile, la spontaneità dell’ispirazione, la sincerità amorosa con la quale tu guardi e rendi i colori, l’incanto, l’aura della natura vivente; in perfetto contrasto con
le spiritose invenzioni e gli scaltri artifici oggi tanto in voga.» Soffici di seguito nella lettera esprime tutta la sua «simpatia di compagno di studi, di scoperte, di miseria nera (ricordati del nostro soggiorno parigino), già dagli anni della nostra prima, lontana gioventù». Il maestro di Poggio a Caiano concorda con le scelte espressive di Semeghini nelle quali avverte un depurato filtro spirituale; «l’incanto, l’aura della natura vivente» è il luogo poetico sul quale fa perno l’estetica sofficiana. Semeghini lavora sulla trasparenza del colore che quasi si annulla nei registri del rosa e dell’azzurro; accoglie nelle sue forme, attraverso un uso del disegno di altissimo rango culturale, quanto di rialzo armonico – ma è quasi silenzio – si deposita lievemente nell’immagine.
Felice Carena
(Cumiana 1879 - Venezia 1966)
4 Pesce (1935). Olio su cartone, cm 34,5s45. In basso a destra: Carena. Al verso: numero di carico della Galleria Farsetti, Prato, «29155». Provenienza: Lorenzo d’Avack, Roma.
La raccolta d’Avack di Roma conteneva diverse opere di pittura e disegni di Felice Carena. La madre di Lorenzo d’Avack, Emma, posò per uno dei quadri più celebri di Carena, Estate, 1933, cm 156s200, della Galleria d’Arte moderna e contemporanea di Torino. Siamo nel periodo glorioso del magistero di Carena, insegnante di pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Alla scuola giungono, richiamati dalla sua fama, allievi da tutto il mondo. Grandi mostre alla Biennale di Venezia, premi internazionali, ne fanno fra le due guerre artista di spicco del nostro Paese. Carena si riallaccia alla tradizione barocca, e ha sapienze di gusto moderno, informato a Cézanne e ai postimpressionisti. La
pittura è nutrita, densa; la pasta cromatica e il rilievo plastico seducono collezionisti e critici. Non smette comunque mai le sue ricerche, sulla figura, sul paesaggio, sulla natura morta. Ha uno stile colto, di forte personalità. Abbandona via via certo forbito linguaggio che vuol competere con i maggiori maestri dell’antichità e conquista una libertà sempre più evidente nel trattare la forma. Medita l’immagine con quelle doti creative che più potranno affermarsi in profondo quanto più corsiva e disinvolta apparirà la pennellata. Arriverà a una coerenza intima del linguaggio tra segno pittorico ed espressione che porta al di là della realtà, in un piano squisitamente spirituale.
Felice Carena 5 Natura morta con gabbiani (1946). Olio su tavola, cm 40,8s62,4. In basso a destra: Carena. Al verso: a matita «N° 21». Esposizioni: Quattro voci della pittura toscana del Novecento. Carena, Soffici, Rosai, Vagnetti, a cura di Luigi Cavallo, testi di Nicola Nuti, Andrea Alibrandi, Galleria Il Ponte, Firenze, 1998, riprodotto in cat. n. 5.
Abbiamo attribuito il dipinto al primo tempo della stagione veneziana di Carena, intorno al 1946. Sulla sabbia i gabbiani spiaggiati insieme con altri relitti marini, conchiglie, un pezzetto di corallo. Il triangolo alto di azzurro spento dà profondità al gruppo ritratto con ammirevoli qualità di pittura. Il colore è calibrato, con una sua rosata tenerezza. Sa di intime riflessioni, di verità accolte come prova di moralità che investe la sfera religiosa dell’essere. Siamo distanti dalle nature morte marine di de Pisis dove un gioco appena truccato di surrealtà rialza le immagini. Qui la forma è doppiamente reale: nella fissità
dell’istantanea, nell’efficacia espressiva dei dettagli; e pure rispecchia lo stato d’animo del pittore da poco approdato a Venezia per «le ragioni dolorose» che gli avevano fatto lasciare Firenze. Da Venezia, aprile 1946, scrive a Firenze all’amico Gianni Vagnetti: «Non puoi pensare quanto mi sia stato doloroso e crudele staccarmi da ciò che avevo tanto amato e come siano stati duri i primi tempi. […] lavoro tra difficoltà tremende – in un piccolo studiolo da principiante – ma ho l’impressione che Venezia nella sua divina luce – e il suo armonioso silenzio mi abbia fatto bene.»
Ardengo Soffici
(Rignano sull’Arno 1879 - Vittoria Apuana 1964)
6 Trofeino (1960). Tempera su carta pergamena, cm 42s30 il lavoro, cm 53s44 la carta. In basso a destra: timbro a secco Raccolta Soffici. Provenienza: Eredi Soffici. Esposizioni: Soffici immagini e documenti, a cura di L. Cavallo, Galleria Il Castello, Milano, gennaio 1980, riprodotto in cat. n. 131; Ardengo Soffici (1879-1964) giornate di pittura, a cura di L. Cavallo, un racconto di L. Paciscopi, collaborazione di O. Nicolini, Galleria Marescalchi, Bologna, ottobre 1987, riprodotto in cat. n. 104; Ardengo Soffici, a cura di L. Cavallo, con un saggio di G. Barberi Squarotti, Liceo Saracco, Acqui Terme, 4 luglio-13 settembre 1992, riprodotto in cat. n. 59; idem, Permanente, Milano, 18 settembre-18 ottobre 1992; Soffici, il disegno, a cura di L. Cavallo, Fògola Galleria Dantesca, Torino, 23 marzo-2 maggio 1993, in cat. n. 35; Soffici. Arte e storia, a cura di O. Casazza e L. Cavallo, Villa di Petriolo, Rignano sull’Arno, 18 settembre-6 novembre 1994, riprodotto in cat. n. 114; Ardengo Soffici. Un itinerario plastico, a cura di L. Cavallo, Artesanterasmo Fidia, Milano, 26 ottobre-25 novembre 2000, riprodotto in cat. n. 47; idem, Castello di Lerici, 10 febbraio-16 aprile 2001; Ardengo Soffici. Un’arte toscana per l’Europa, di L. Cavallo, Galleria Pananti, Firenze, 4 ottobre-20 novembre 2001, riprodotto in cat. n. 115; Continuità. Arte in Toscana 1945-1967, a cura di A. Boatto, Palazzo Strozzi, Firenze, 26 gennaio-5 maggio 2002, riprodotto in cat. p. 34. Bibliografia: L. Cavallo, Soffici immagini e documenti, Vallecchi, Firenze, 1986, riprodotto p. 450.
Studio per la litografia eseguita nel 1960 e contenuta in una cartella edita dalla stamperia Il Bisonte, Firenze (cfr. S. Bartolini, Ardengo Soffici. L’opera incisa, Prandi, Reggio Emilia, 1972, p. 267). Risolta con tinte uniformi, marezzate appena dall’andamento delle pennellate e dal supporto sensibile all’acqua, la composizione à plat
risulta di rara intensità ed equilibrio formale, da non cedere, per valori ritmici e lirici, per trasparenza di tinte e rigore di masse, alle opere del periodo celebre, tra il 1914 e il 1915: Soffici non copia i propri lavori d’un tempo, crea con rinnovata sensibilità pagine plasmate nella fresca aderenza ai consueti motivi formali.
Carlo Carrà
(Quargnento 1881 - Milano 1966)
7 Il sifone, 1956. Olio su tela, cm 50s40. In basso a sinistra: C. Carrà 956. Provenienza: Galleria Annunciata, Milano; Reale Mutua, Torino. Esposizioni: Carrà, Galleria Annunciata, Milano, 11 dicembre 1968-16 gennaio 1969, riprodotto in cat. n. 10; Carlo Carrà, Galleria La Tavolozza, Palermo, 5-20 novembre 1970, in cat. n. 15; Il ’900. I Maestri. Rassegna, a cura di Vittorio Sgarbi, La Piccola Galleria, Savona, 24 marzo-10 maggio 1995, riprodotto in cat. n. 3 e in copertina; Pagine per Franco Russoli, a cura di Luigi Cavallo e Gianni Schubert, Galleria Borgogna, Milano, 28 gennaio-15 marzo 1998; Il Novecento & oltre. Percorso tra figure e paesaggi di ieri e di oggi, Galleria L’Immagine, Bari, 3-26 marzo 2001, riprodotto in cat. p. 14. Bibliografia: Massimo Carrà, Carrà. Tutta l’opera pittorica, vol. III, 1951/1966, L’Annunciata/La Conchiglia, Milano, 1968, riprodotto n. 22/56, p. 245; Luigi Cavallo, Pagine per Franco Russoli, Edizioni Arte Borgogna, Milano, 1998, riprodotto p. 24.
Luigi Carluccio nell’introduzione al catalogo Carlo Carrà, Palazzo Liceo Saracco, Acqui Terme, 28 luglio-5 settembre 1979: «La pittura di Carrà è infatti per sua stessa natura la pittura del reale. I dipinti di Carrà trasformano il fondo del caleidoscopio, sul quale può apparirci per trasparenza o per sovrapposizione il mondo, in un accumulo di cristalli e di pietre colorate. I suoi dipinti appartengono ad una visione interiore la quale si sviluppa sempre sui dati che
l’occhio fisico leva dalla natura; sono costruiti con la stessa cura e vorremmo dire con gli stessi gesti con cui il bravo muratore alza un muro, mattone dopo mattone, calibrando la malta: così rappresentano sempre una sobria ricerca d’equilibri figurativi che si ripercuotono, eco dopo eco, dentro una iconografia della natura che Carrà rende semplice, riduce a sintesi, come una scena per sacre rappresentazioni, per azioni pastorali.»
Felice Casorati
(Novara 1883 - Torino 1963)
8 Bozzetto per natura morta con l’uva (1931). Olio su tela, cm 34s46. Al verso: dipinto a olio raffigurante una tazza sul piano firmato Daphne, eseguito dalla moglie di Casorati negli anni ’70. Provenienza: Daphne Casorati, Torino. Bibliografia: Giorgina Bertolino-Francesco Poli, Felice Casorati. Catalogo generale. I dipinti (1904-1963), Umberto Allemandi & C., Torino, 1995, riprodotto n. 452.
Negli anni ’70 il dipinto, non firmato, fu acquistato nella casa-studio di Casorati a Torino, presso Daphne Maugham, anch’essa ben nota pittrice, moglie di Felice Casorati (si erano sposati nel 1931). Per avere testimonianza dei due artisti su una medesima tela, fu chiesto a Daphne di eseguire al verso un proprio soggetto. La natura morta di Felice Casorati, nonostante il titolo apposto per la pubblicazione sul catalogo generale del 1995, cit., non ha l’andamento di un bozzetto, ma di una composizione finita e in sé autonoma. Presenta volumi equilibrati in
ogni sua parte, raccolta su un piano di tavolino, risolta con quel senso di compostezza plastica e di rigore formale che è l’ordine profondo, creativo e umano, di Casorati. Elementi che si sono venuti a decantare come scelta espressiva fin dagli anni ’20. Ora, all’inizio degli anni ’30, sono giunti a completa maturazione. Il colore è forbito, se vogliamo difficile, giocato su toni freddi, azzurro, verde, bianco, con impasti di grigi; i torniti valori dei frutti e degli oggetti rintoccano nella cristallina purezza della luce.
Giorgio de Chirico (Volos 1888 - Roma 1978)
9 Vita silente con uva (1960). Olio su tela, cm 40s50. In basso a destra: G. de Chirico. Al verso: per tutta la lunghezza della tela «“Vita silente con uva” Giorgio de Chirico»; segue autentica del notaio Elio Di Gloria (Montecatini Terme, 5 settembre 1965, rep. n. 62255); due timbri della Galleria La Barcaccia, Roma, con due firme di Antonio Russo; tre timbri e due firme del Sant’Erasmo Club d’Arte, Milano; timbro dei Fratelli Orler, Favaro Veneto; timbro e firma di Ravioli C., Bologna; dedica di Antonio Russo al comm. Silvio Nardi. Esposizioni: Giorgio de Chirico. Romantico e Barocco, gli anni Quaranta e Cinquanta, a cura di Maurizio Fagiolo Dell’Arco, introduzione Luigi Cavallo, testi Osvaldo Patani, Flavia Matitti, Farsettiarte, Cortina d’Ampezzo, 9 agosto-2 settembre 2001; poi Prato, 13-21 settembre 2001; poi Milano, 26 settembre-20 ottobre 2001, riprodotto in catalogo n. 16. Bibliografia: Claudio Bruni Sakraischik, Catalogo generale Giorgio de Chirico, vol. VIII, opere dal 1951 al 1974, Electa, Milano, 1987, riprodotto n. 1255 (1962 circa). Certificato di Claudio Bruni Sakraischik, perizia n. 131/80, Roma, 15 ottobre 1980.
Giorgio de Chirico nel testo «Le nature-morte» pubblicato sulla rivista L’Illustrazione Italiana, Milano, 24 maggio 1942: «La natura-morta ha, in tedesco, un altro nome, molto più bello e molto più giusto questo nome è stilleben, – vita silenziosa. Infatti la natura morta è un quadro che rappresenta la vita silenziosa degli oggetti e delle cose; una vita calma, senza rumori e senza movimento, un’esistenza che si esprime col volume, la forma e la plasticità; gli oggetti, i frutti, le foglie sono immobili, ma potrebbero essere mossi dalla mano umana, o dal vento. Le nature-morte rappresentano le cose che non sono vive ma che sono legate alla vita degli uomini, degli animali e delle piante e che sono sulla terra, su questa terra che respira intensamente la vita piena di rumore e di movimento […]. La natura-morta esige una grande conoscenza della tecnica e, nel tempo stesso, un senso della semplicità, ma non però, intendiamoci bene, di quella semplicità in auge oggi presso i moderni e che proviene dall’ingenua impotenza plastica e dall’asso-
luta mancanza di intelligenza artistica, ma da quell’altra semplicità, superiore e lirica, come si può vedere, per esempio, in certi quadri di Luigi Le Nain. La natura-morta esige un senso del vero, qualcosa come quel piacere che si prova guardando, toccando, sentendo l’odore d’un pezzo di bel cuoio, d’un vecchio legno di noce o di ciliegio, d’un oggetto d’avorio antico, dorato dalla patina del tempo.» Illuminante lo scritto di de Chirico per entrare nel corpo della sua materia pittorica. La costruzione del pensiero travasa nel gesto creativo. Il mondo dei sensi, la sensibilità e l’esperienza, il gusto per l’antico, vengono tessuti con idee che danno fascino alle cose d’arte. Al di fuori di confini temporali sono argomenti che consentono all’opera dechirichiana di alzarsi oltre le mode contemporanee. È un largo spazio di immagini, con ricorrenti e riconoscibili caratteri: la provocazione, spesso aggiunta come per dare rilievo di controluce, non è che un ingrediente del discorso, ma la sostanza è sapienza magistrale e intuizione del bello.
Achille Funi
(Ferrara 1890 - Appiano Gentile 1972)
10 Fiori (fine anni ’50). Tempera e olio magro su carta riportata su masonite, cm 60s44,5. In basso a sinistra: All’amico carissimo Raffaele Carrieri /A. Funi. Al verso: «A. Funi». Provenienza: Eredità Rina Rosselli Carrieri. Bibliografia: Achille Funi. Catalogo ragionato dei dipinti, a cura di Nicoletta Colombo, Leonardo Arte, Milano, 1996, riprodotto n. II.532.
Luigi Mallé nella presentazione alla mostra Achille Funi, Galleria L’Approdo, Torino, 5-23 ottobre 1963: «Il decennio più recente […] conta figure e paesaggi e nature morte di bella pittura franca, lucente, ch’è succosa anche nella materia magra, nelle incorporee velature. […] in nature morte c’è il richiamo – che la lontananza di tempo epura e assottiglia – a metafisiche d’un de Chirico del ’20-30 o d’un de Pisis che, più tardi, le colorava già d’un alone di sfumata memoria, riportandole Funi a una fermezza oltre l’emozione – pur presente – d’indefinito. Altrove la materia stessa (tra
umida e secca) di de Pisis l’ha attratto ma il tocco scorrevole e la macchia, elementi di precarietà, son chiamati a sottolineare l’invincibilità d’una regola e la composizione addirittura si schematizza quasi in dispositivo astratto.» In questa pagina, dedicata al poeta Raffaele Carrieri, Funi fa crescere un fascio di fiori come da un campo erboso; fiori rossi e foglie che svettano nel fondo-cielo grigio quasi un’apparizione, più surreale che fisica, toccata da una mano che raffredda l’emozione e accende una sorta di enigmatica sorpresa.
Giorgio Morandi (Bologna 1890-1964)
11 Natura morta (1958). Olio su tela, cm 25,5s30. In basso a sinistra: Morandi. Provenienza: Galleria del Milione, Milano; Tamar Del Fante, Milano; Giovanbattista Pero, Milano. Bibliografia: Lamberto Vitali, Morandi. Catalogo generale, vol. II, Electa, Milano, 1977, riprodotto n. 1114. Autentica su fotografia di Giorgio Morandi, datata «Bologna 28 gennaio 1959».
Raffaele Carrieri, «I Maestri della Pittura contemporanea in Italia: Giorgio Morandi», Epoca, Milano, 24 maggio 1959: «lavora nello stesso studio, davanti alla medesima tela su cui le bottiglie, le caffettiere, i lumi a petrolio si allineano come le suppellettili di una città morta. Questi oggetti lo accompagneranno tutta la vita: sono gli strumenti della sua orchestra e della sua musica […]. Il colore è il respiro dei corpi solidi accomunati da una medesima luce. Una luce che è forma e sostanza, materia e spazio. Gli oggetti sono sempre gli stessi: portafiori, conchiglie, fruttiere, lumi, bottiglie, caffettiere. Gli stessi sono i piani su cui questi oggetti sono
poggiati. Le stesse forme negli stessi spazi. Un piccolo mondo di apparenze fisse in una emozione sempre in allarme, sempre sveglia. Una ripetizione di oggetti in una emozione sempre nuova. La pittura di Morandi è uno dei fatti più straordinari nella storia dell’arte contemporanea in Italia; e come esempio di probità e di assoluta autonomia uno dei più alti esempi di tutta la pittura europea dell’ultimo mezzo secolo. In mezzo a tutti gli europei della pittura contemporanea Morandi è soltanto italiano: italiano di Bologna. Il pittore è rimasto nella sua unica, carissima provincia: ma la sua arte appartiene al mondo.»
Ottone Rosai
(Firenze 1895 - Ivrea 1957)
12 Natura morta, 1919. Olio su tela, cm 32s40. In basso a destra: O. Rosai. In basso a sinistra: 919. Provenienza: Ferrante Farneti, Forlì. Bibliografia: Pier Carlo Santini, Rosai, Vallecchi, Firenze, 1960, riprodotto n. 362 (1919 o 1920); Luigi Cavallo, Ottone Rosai, Edizioni Galleria Il Castello, Milano, 1973, riprodotto n. 8, e p. 49.
Nella monografia di Santini 1960, cit., il dipinto era dato «disperso» e attribuito al 1919 o 1920. Il quadro è chiaramente datato «919» e si pubblicò nella nostra monografia del 1973, cit., considerandolo «nel gruppo famoso delle nature morte del ’19», nelle quali Rosai faceva sentire «quel filo di sospensione silenziosa, di rigidità, di miniato metafisico che c’è nelle pitture senesi e fiorentine del Tre e Quattrocento […]. Una linearità incisiva che rende nette le profilazioni, le ombre scavate e profonde, in una tesa economia spaziale, e con una pesata impostazione delle superfici e dei volumi. Quella antichità un poco primitiva fa scattare la sua forma in una zona metafisica, come in un ambiente vuoto, tra immagini scorporate. Ma a questo il pittore arriva, oltre che per felice combinazione istintiva, come gli è solito per il resto della sua attività, soprattutto seguendo la linea dell’opera di Soffici che nel 1919, quando andava concretandosi il suo richiamo all’ordine, dipinge alcune nature morte […]. Da questo corpus sofficiano Rosai deriva, con diversa
materia pittorica, molto ricercata e controllata, con effetti preziosi, i suoi soggetti Natura morta (pera, mela e tavolozza; n. 8), Natura morta con saliera, Natura morta (bicchiere, bottiglia e panino), Bottiglia e bicchiere, Bottiglia e ciotola, Natura morta (bicchiere e frutti), Bottiglia, pera e cipolle […]. Anche Rosai tende a superare l’impressione, a concentrare con maggiore intensità l’ottica del dipinto, e a restituire solidità alle immagini, ma sarebbe sbagliato attribuirgli un momento specificamente metafisico come non si può fare per Soffici.» Rosai depone i frutti, pera e mela, sulla tavolozza da pittore; nel fondo scuro, marrone, il contorno bruciato della tavolozza di legno consente spazio raccolto al soggetto, e si intuiscono anche le ombre nere, sottolineando la luce che incide da sinistra. Viene alla mente l’attenzione sintetica di Cézanne filtrata appunto attraverso Soffici, attraverso gli antichi Toscani, non edulcorata, espressione di una forma essenziale e di un colore che si rapprende nell’emozione dell’immagine.
Filippo de Pisis
(Ferrara 1896 - Milano 1956)
13 Natura morta sulla spiaggia (metà anni ’30). Olio su cartone, cm 21s26. In basso a destra: de Pisis. Catalogo dell’Associazione per il Patrocinio dell’opera di Filippo de Pisis, Milano, n. 02124.
Il taglio alto del primo piano, la striscia di cielo nell’orizzonte resa con pennellate corsive, è uno dei moduli compositivi di de Pisis; equivale a una scelta metrica, alla giusta misura, quasi l’artista voglia risolvere l’impostazione di massima, cioè gli spazi della superficie, con un’architettura già ben conosciuta, conforme allo svolgimento tematico. Può così concentrarsi sul ritmo, sull’andamento cromatico, sulla resa squisitamente pittorica del motivo scelto. Una conchiglia, tre pesciolini, una figuretta che si alza sulla sabbia: la pronuncia dell’insieme mantiene un aroma di salsedine, qualcosa di improvvisato e di corruttibile che
il pittore riesce a salvare dalla sparizione. La densità organica della materia, una pasta di colore molto sobrio per una pagina tenuta sui toni bassi. Si riunisce alla giustezza di una sua lirica dal titolo «Natura morta o le acquadelle»: «Penso agli occhi disperati / punti neri, cerchiati di giallo, / alle bocche dischiuse / di un rosa antico, / alle pinne delicate, / alle code aguzze, / ai ventri lattei, / ai dorsi di un grigio prezioso, / alle macchie, / al ghirigoro al brivido / del vostro disegno / acquadelle della povera gente, / gioia e lusso che due lire / ancora possono darmi. / E al vecchio grigio cartone / su cui vi dipingerò / con agile mano.»
Filippo de Pisis 14 Interno con pappagallo, 1939. Olio su tela rintelata, cm 60s48. In basso a destra: Pisis 39. Provenienza: Raccolta privata, Firenze. Esposizioni: Omaggio a de Pisis, presentazione di Piero Santi, Galleria L’Indiano, Firenze, 15-29 settembre 1956, n. 5. Catalogo dell’Associazione per il Patrocinio dell’opera di Filippo de Pisis, Milano, n. 01967.
Allo scoppio della seconda guerra de Pisis, che si trovava a Parigi, rientra in Italia. Si stabilisce a Milano, alloggia all’Hotel Victoria in via Durini e quindi, dal novembre 1939, affitta una casa-studio in via Rugabella 11. Qui resta qualche anno godendo dell’agiatezza che la fama crescente gli consente; galleristi, collezionisti, critici si interessano alla sua pittura sempre più numerosi e gli sollecitano una intensa laboriosità. Agli ultimi mesi del 1939 è riconducibile questa tela che documenta, fra l’altro, il sontuoso bric-à-brac, la dinamica emotiva dello studio depisisiano. In via Rugabella l’artista quarantatreenne ricostruisce, nel gusto che aveva sfoggiato fin da ragazzo accumulando oggetti in confusione di
forme e colori, le stanze metafisiche di Ferrara. Il pappagallo Cocò fa parte dell’arredamento, tutto è scapigliato e pittoresco, quasi de Pisis avesse necessità di riportarsi indietro nel tempo, di abitare nel passato, cercando toni preziosi nella patina antiquaria che assume nella sua pittura; esalta di riflessi ogni oggetto del suo magico ambiente: i quadri appesi fitti alla parete, lo specchio, il trespolo del pappagallo. Osserva con piacere le minuterie della sua esistenza, la pipa, la caffettiera, il libro, il bicchiere coi pennelli. È un insieme che lo soddisfa e che ripete in alcune versioni. La vita è costruita di frammenti, dar voce alla creatività significa trasfondere in ogni cosa il fremito esaltante della fantasia.
Filippo de Pisis 15 Natura morta (inizio anni ’40). Olio su cartone, cm 20,6s40,5. In alto a destra: de Pisis. Al verso: timbro avv. Amedeo Grosso, Torino, con n. 113. Catalogo dell’Associazione per il Patrocinio dell’opera di Filippo de Pisis, Milano, n. 01814.
La natura morta è condotta da de Pisis in questo caso con l’ordine pausato delle sue poesie. Ha scritto Sandro Zanotto a prefazione di un libro di poesie di de Pisis (Cattività veneziana, a cura di Bona de Pisis e S. Zanotto, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1966): «non è possibile ora separare de Pisis-pittore da de Pisis-poeta, ambedue aspetti salienti della personalità di un artista che, nella vana ricerca di una irraggiungibile completezza, scriverà anche romanzi, racconti […]. L’ansia di affidare alla carta ogni vibrazione dell’animo, ogni battito dell’esistenza, è per de Pisis a volte l’unica forma di giustificazione della vita.»
Geniale concisione delle forme, una coppia di ostriche, un limone, un gambero dipinti in un cartoccio sul tavolo come fossero gioielli di un tesoro regale, con l’eccitazione cromatica degli smalti ceramici. Colore deposto più che per dar forma, per intridere di umori quella raccolta di energie cromatiche che hanno insieme leggerezza e consistenza cristallina. De Pisis dipinge in casi come questo anche per sorprendere se stesso, per ripagarsi non con la bravura ma con l’amore che riesce a infondere a poche cose qualsiasi, a una merenda di pesce consente la densità armonica di una visione.
Gianni Vagnetti (Firenze 1897-1956)
16 Natura morta (1948). Olio su tela, cm 40,5s50. In basso a destra: Vagnetti. Esposizioni: Quattro voci della pittura toscana del Novecento. Carena, Soffici, Rosai, Vagnetti, a cura di Luigi Cavallo, testi di Nicola Nuti, Andrea Alibrandi, Galleria Il Ponte, Firenze, 1998, riprodotto in cat. n. 34. Bibliografia: L. Cavallo, Gianni Vagnetti, Edizioni Sant’Ambrogio, Milano, 1975, riprodotto n. 48/23, e p. 42.
Nella monografia del 1975, cit., p. 42: «La Natura morta (48/23) bandisce ogni pur esemplare minuzia nelle composizioni. I caratteri delle cose sono messi a fuoco nei rapporti tra realtà e immaginazione-percezione soggettiva di quella realtà. La luce non più in funzione naturale, è resa autonoma con una risoluzione in piani chiari ben delimitati. Il tono è frutto di impasto, di colori che rimangono con semplicità sulla superficie, senza preziosità di patine o di paste. Ciò che l’autore non concede
al dettaglio lo dà all’invenzione dei colori, agli accoppiamenti originali dei timbri. Sollecita vibrazioni e sottili sfaldamenti alla forma come avviata a un allargamento centrifugo. Tutto si apre nel suo dipinto ad assunti immediati e totali. Una sistemazione in organismo delle membra del disegno, del colore, dello spazio e delle masse formali, come se dalla provocazione moderna inseguita e intuita a Parigi, Vagnetti abbia espunto la sintesi vitale per la sua espressione.»
Fausto Pirandello (Roma 1899-1975)
17 Natura morta con tazzina e sella di bicicletta (1948). Olio su cartone, cm 70,5s51,5. In basso a sinistra: Pirandello. Esposizioni: Fausto Pirandello, testi di Giorgio Mascherpa, Fabrizio D’Amico, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 3 luglio-10 ottobre 1982, riprodotto in cat. n. 42 (1938 c.); Pirandello, testi di Giorgio Mascherpa, Fabrizio D’Amico, Fondazione Whitaker in collaborazione con Civica Galleria d’Arte Moderna E. Restivo, Palermo, 22 dicembre 1982-22 gennaio 1983, riprodotto in cat. n. 34 (1938 c.); Natura morta natura viva nella pittura del Novecento, a cura di Claudia Gian Ferrari, Claudia Gian Ferrari Studio di Consulenza per il ’900 italiano, Milano, 29 maggio-25 luglio 2003, riprodotto in cat. n. 28. Bibliografia: Claudia Gian Ferrari, Fausto Pirandello, Leonardo-De Luca Editori, Roma, 1991, riprodotto n. 239.
Nella monografia di Claudia Gian Ferrari, 1991, cit., il dipinto è correttamente attribuito al 1948 circa. Nel catalogo Natura morta natura viva, 2003, cit., Claudia Gian Ferrari scrive: «Fausto Pirandello […] nelle nature morte si pone sempre come un osservatore attento, e non come un interprete della realtà che gli si pone di fronte. Non compone attrezzi da riprendere, non costruisce in bella mostra gli elementi che costituiranno il soggetto. Sembrano piuttosto messi lì per caso, senza una logica di accostamenti, se non quella cromatica: una sella di bicicletta, delle scarpe, un uovo o una bottiglia di whisky. La tipicità delle sue nature
morte sta proprio in questa rappresentazione apparentemente di abbandoni, di cose povere, comuni, quotidiane, a volte addirittura volgari. E in queste nature morte, tutte del periodo del dopoguerra, è interessante rilevare il percorso di analisi che Pirandello affronta nell’ambito del dibattito attorno al dialettico contrasto fra astrattismo e realismo, scegliendo come propria strada una rilettura della tipologia cubista, privilegiando le forme costruttive e una rappresentazione sintetica dei volumi e delle prospettive, ma schiarendo molto il tono della tavolozza, che si illumina di gialli e di ocra.»
Giuseppe Cesetti (Tuscania 1902-1991)
18 Vaso con fiori (1971). Olio su tela, cm 70s50. In basso a sinistra: Cesetti.
La luce solare, aperta, mattinale ha illuminato la tavolozza di Cesetti con trasparenze di sorgente; colori appena nati, sembra, per dare profumi di fiore, forme che hanno un’ingenua vitalità, appaiono fragranti, viste quasi con gli occhi del fanciullo. Carlo Ludovico Ragghianti nell’introduzione al catalogo 100 opere di Giuseppe Cesetti, Galleria Falsetti, Prato, 1970: «la pittura […] è quella di un istintivo che scarta volutamente ogni mediazione di cultura per serbare integro il passaggio da una emozione fantastica puramente nativa a un’immagine di pungente nudità […]. Cesetti […] ha compiuto una fuga sempre più fonda in quel mondo di calma
zenitale e di contemplazione ogni volta trepidante, in cui vengono a coincidere l’autorità in qualche modo imperiosa dal dettato di visione, e una sorta di renitenza a rivelarla, a renderne pubblico l’impulso generatore. […] l’opera di Cesetti ha per ciò quel carattere di gravitazione intorno ad un centro certo, si raccoglie spontaneamente in una unità di tensione emotiva. E diresti che la distanza, la lievitazione distaccata delle immagini e della loro forma pittorica così delicatamente denudata siano di necessità, fattori indispensabili per entrare e stare in questa visione georgica, secondo la sua esigenza, con la consapevolezza che richiede.»
Francesco De Rocchi (Saronno 1902 - Milano 1978)
19 Natura morta coi gamberi (anni ’30). Olio su tavola, cm 32s42. In basso a sinistra: F. De Rocchi. Al verso: figura di donna a mezzo busto, coperta da pittura grigia. Provenienza: Pier Rosa De Rocchi Cresseri, Milano.
Sergio Solmi, in catalogo Omaggio a De Rocchi, Museo di Milano, Comune di Milano, 6-29 febbraio 1980: «la lezione degli impressionisti e postimpressionisti è presente in De Rocchi, in ogni senso moderno. Già vennero notate le sue radici lombarde in Ranzoni, e, potremmo aggiungere, Cremona. Ma il mondo degli scapigliati fu di necessità limitato. Quello di De Rocchi, artista del Novecento, è di gran lunga più ampio. L’opera di Francesco De Rocchi si colloca, con indiscutibili caratteri di originalità, sul panorama della migliore pittura italiana del Novecento: ne valutiamo appieno la natura intimamente delicata, poetica, coerente, immune da sbandamenti: essa ci presenta una sottile armonia di colori e di forme. Come
tale, è destinata a durare nella memoria dei contemporanei e dei posteri.» In questa natura morta i crostacei deposti su una grande foglia verde e il foglio bianco di carta che rialza il rosato del piano, gli accordi di colori caldi e freddi, la stessa disinvoltura della pennellata ricordano certi quadri parigini di de Pisis; la materia però ha maggior corpo, il peso degli impasti quasi riporta ad Arturo Tosi. De Rocchi concede alla pittura, proprio alla pasta che costruisce il quadro, un’attenzione vibrata nel suo gusto per il chiaroscuro. Ogni parte del dipinto è godibile, evidenzia un sensibile raccordo tra forma osservata e traduzione emotiva, conserva il tepore e diciamo pure il brivido della realtà.
Aldo Salvadori
((Milano 1905 - Bergamo 2002)
20 Natura morta, 1983. Olio su tela, cm 45s60. In alto a destra: Salvadori 83. Al verso: «Aldo Salvadori / 1983 / Bergamo / Italy».
Nell’introduzione alla monografia dell’artista (Luigi Cavallo, Salvadori, Electa, Milano, 1989): «la valenza compositiva delle opere di Salvadori supera la dizione strettamente figurativa per aprirsi a soluzioni che spesso si apparentano con l’astratto […]. Salvadori scopre nella sintesi delle strutture l’apertura di nuove sensazioni, la pittura che si può risolvere con grande sobrietà di passaggi, ciò che sul piano della comparazione esistenziale equivale al silenzio e alla solitudine […].
Nella pittura degli ultimi anni, tra il 1979 e il 1989, il discorso delle tangenze e delle concomitanze culturali più volte formulato in sede critica, appare sfumato e sostanzialmente superato; Salvadori ha elevato in modo ancor più interiore e problematico la propria visione che pittoricamente ha giovanile andatura, allargando i luoghi dei suoi riferimenti; non sono da sottacere le attenzioni, del tutto emotive, per l’arte orientale, poiché sempre lo affascina la disciplina compositiva.»
Domenico Cantatore
(Ruvo di Puglia 1906 - Parigi 1998)
21 Natura morta, 1957. Olio su tela, cm 50,5s80,5. In basso a sinistra: Cantatore 57. Al verso: sulla cornice «Alla cara e gentile Anna Coppola / con l’affetto di Raffaele Nov. 75». Provenienza: Raffaele Carrieri; Waldemaro Coppola.
Il dipinto fu della raccolta del poeta e critico Raffaele Carrieri che a Cantatore fu vicino amicalmente per tutta la vita; suoi sono i testi fondamentali per la lettura del pittore pugliese. Nella monografia del 1960, Cantatore, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano: «Nelle prime nature morte che Cantatore dipinse a Milano in via Fiamma riapparvero le crete della cucina di Ruvo: tegamini e vasi per le ulive. Poi si aggiunsero bricchi e caffettiere, la scodella del
latte cagliato, il piumino per la polvere simile a un grosso pettirosso. Dipingeva gli oggetti che gli stavano intorno senza preoccupazione di classifica. L’impianto era semplice e promiscuo e l’oggetto si esauriva nel breve giro della trascrizione […]. Lo schieramento degli oggetti è diventato frontale; la luce tenera e un poco lanuginosa. Tutto quello che avviene si svolge e si consuma nell’aria dimessa di una fine di giornata.»
Domenico Cantatore 22 Composizione di oggetti, 1963. Olio su masonite, cm 44s63,5. In basso a sinistra: Cantatore 63. Provenienza: A. Scamperle, Roma; Galleria Farsetti, Prato. Esposizioni: Cantatore. Mostra antologica, a cura di Luigi Cavallo, Palazzo dei Capitani, Ascoli Piceno, 12 luglio-5 ottobre 1997, riprodotto in cat. n. 26. Bibliografia: Cantatore, introduzione di Salvatore Quasimodo, testo di Marco Valsecchi, Maestri Editore, Milano, 1968, riprodotto n. 93 (misure errate); Luigi Carluccio, Cantatore, antologia e apparati critici a cura di Oretta Nicolini, La Rosa & Baralis Editori, Torino-Parigi, 1977, riprodotto p. 35 (misure errate).
Nella scheda del dipinto per il catalogo dell’ultima mostra antologica di Cantatore, 1997, cit.: «È lasciata in vista la preparazione ruvida del materiale su cui è dipinta la composizione; il gusto della pittura murale, o meglio del dipingere su delle superfici rustiche come gli
intonaci civili, sarà sempre più utilizzato da Cantatore in funzione espressiva. In questo caso la calibratura dei toni freddi, la trasparenza acquea delle velature, danno all’insieme un andamento plastico-cromatico di pacata ed armonica intensità.»
Franco Gentilini (Faenza 1909 - Roma 1981)
23 Natura morta con oggetti (1953). Olio e sabbia su tela, cm 55s38. In basso al centro: Gentilini. Al verso: timbri Galleria Maggiore, Bologna.
Nel catalogo Gentilini. Le dimore dell’anima (mostra a cura di M. Conte, testo di L. Cavallo schede di O. Nicolini, Galleria Il Mappamondo, Milano, gennaio 2000): «La sua composizione di semplici contorni riempiti di colore che fece subito riportare il discorso alla ieraticità musiva dei ravennati e ai sintetici affreschi medievali ha del resto complessità materiali e strutturali, di ordito formale e di scelta tematica: mette sullo stesso piano vuoti e pieni, sollecita memorie e provoca attenzioni per quanto ci troviamo d’intorno e non riusciamo a trattenere – un fiore, una tavola apparecchiata, un gatto, una finestra – se non sappiamo scoprire l’intima magnificenza, quella meraviglia che Gentilini ci offre come un dono scartando le cose dagli involucri di banalità. Aura d’incanto, certo, è quanto egli ricerca sulle sue superfici preparate con sabbia vagliata; l’incanto in fondo è abbandonarsi, togliere la lente della razionalità al nostro occhio scaltro e tornare a guardare come quando non sapevamo nulla dell’esistenza. Le cose consuete, quindi, sono rifondate da Gentilini con animo sereno, e in continuo ascolto delle dissonanze, con pittura a un passo dalla
naïveté, ma costruita come dai maestri comacini, linea su linea, pietra su pietra. La grande antologia della sua opera del dopoguerra ha conquistato uno spazio del tutto autonomo di poetica; stagioni di lavoro nelle quali egli ha via via sostituito il tonalismo romano con il pulito arabesco che sa un poco di Oriente, e molto dell’Europa che ha riscritto la propria storia ripartendo ab imis, come sappiamo. Paul Klee aveva rivelato quanto di ricchezza contenga la prima età dell’uomo, che feconda materia vi sia per l’artista a rovistare nelle stanze dell’infanzia. I balocchi, birilli, palle colorate, cavallucci a dondolo, e i dolcetti a bastoncino, i biscotti, già furono ben guardati dai primi metafisici, da de Chirico, da Carrà, da de Pisis, e dai loro seguaci; c’era allora l’idea di trasfondere in quegli oggetti una vertigine simbolica, un’astratta magia. Nel candore che provoca smemoratezza, le cose ritrovate in soffitta, scatta la trappola del mistero intrigando la sensibilità dell’uomo; i sentimenti sono attaccati da un lato sguarnito, dal lato del cuore, dal ricordo di tenerezze materne, di giochi mai più ridati all’adulto così come sbocciano nelle illusioni infantili.»
Pippo Oriani
(Torino 1909 - Roma 1972)
24 Natura morta (anni ’60). Encausto graffito su cartone gessato, cm 32,5s50. In basso a destra: Oriani. Al verso: timbro con indicato «encausto – grafito /su cartone gessato»; numero timbrato «0140», di seguito a penna «cat. D / “Natura morta” – 50s32,5 / Opera autentica del Maestro Pippo Oriani – / Gabriele Oriani Roma»; timbro con indicato «G. 23 /08 set. 1967» e firma autografa Pippo Oriani. Provenienza: Eredi Oriani. Esposizioni: Pippo Oriani, presentazone di Luigi Cavallo, Galleria Mercurio, Biella, 18 marzo-22 aprile 1995, riprodotto in cat. p. 12.
La nota biografica su Pippo Oriani nel catalogo del Museo Civico di Torino, redatto da Luigi Mallé, I dipinti della Galleria d’Arte Moderna (Torino, 1968) rileva lo spessore culturale dell’artista: «Lasciò gli studi d’architettura per la pittura. Diciottenne fece amicizia con Luigi Fillia e poi tosto con gli altri futuristi torinesi, con essi presentandosi alla mostra internazionale di Torino del ’28 al padiglione dell’architettura. Orientato verso l’“aeropittura”, i suoi contatti culturali furono molto diramati comprendendo anche i Sei di Torino, Casorati, Spazzapan, il sempre fervido animatore Edoardo Persico. A Parigi nel ’29, vi tornò di frequente fino al ’33 e quivi, oltre agli incontri con Kandinsky, Delaunay, Léger, Le Corbusier, Zadkine, Severini, Prampolini, Mondrian e con illustri critici e scrittori nel vivo della polemica artistica, rivisse esperienze neocubiste (con spunti anche surrealisti e dada), astrattiste, polimateriche, tuttavia spesso riattratto dal
linguaggio futurista, mentre più avanti elaborò esperienze neopicassiane, proseguendo di recente con frequenti ritorni all’oggetto estrosamente rivissuto.» Il suo carattere di ricercatore in più direzioni è osservato da Enrico Crispolti nel volume Il Secondo Futurismo. Torino 1923-1938 (Pozzo, Torino, s.d. [1962], pp. 230, 234): «Un quadro della personalità di Oriani, le cui prove pittoriche continuano negli anni oltre questo traguardo, e praticamente senza interruzione fino ad oggi, anche se privatamente, ma comunque con quella varietà di interessi e curiosità culturali che lo avevano contraddistinto nel periodo futurista, non sarebbe completo […] senza un accenno alla sua attività di architetto e ambientatore, ennesimo tramite fra poetica del Secondo Futurismo ed architettura razionalista italiana […]. Merita infine un cenno, pur brevissimo, il film Vitesse realizzato da Oriani a Parigi fra il ’30 e il ’31.»
Pippo Oriani 25 Grande natura morta (anni ’60). Encausto graffito su cartone gessato, cm 50s65. Sul libro al centro: Oriani. Al verso: numero timbrato «0083», di seguito a penna «cat. D»; timbro lineare con indicato «Encausto – grafito su cartone gessato»; a penna «“Grande Natura morta” / 50s65 / Opera autentica di mio padre / il Maestro Pippo Oriani – / Gabriele Oriani / Roma»; timbro, cui è stato premesso a penna «Già», «Collezione privata di Oriani», segue cassato «Il possesso di quest’opera da / parte di terzi è regolare solo / se accompagnata da regolare / atto di vendita», segue a penna [scrittura di Gabriele Oriani] «Annullato in occasione / della Mostra tenuta a / Roma – Galleria Pinacoteca – 1975». Provenienza: Eredi Oriani. Esposizioni: Pippo Oriani, presentazone di Luigi Cavallo, Galleria Mercurio, Biella, 18 marzo-22 aprile 1995, riprodotto in cat. p. 6.
Dalla presentazione per la mostra del 1995, cit.: «Ciò che scrisse Enrico Prampolini per Pippo Oriani nel 1929 può essere tuttora utile alla lettura sintetica dell’artista: “Oriani cerca di permeare di forme misteriose automi e nature morte.” Era la stagione in cui Oriani assieme con un gruppo di colleghi piemontesi dava impulso alla seconda fase del futurismo, una ripresa del movimento che aveva l’appoggio enfatico del fondatore, Marinetti, e poteva contare sui rapporti internazionali che questi da tempo intratteneva. Risale ad allora la notorietà di Pippo Oriani e la sua considerazione critica fu poi sempre legata all’angolatura stilistica del secondo futurismo. Ma se egli mantenne negli anni una consistente coerenza formale e linguistica con le istanze di quel gruppo – di cui facevano parte Fillia, Diulgheroff, Mino Rosso e Alimandi, fra gli altri – gli interessi di Oriani andarono via via evolvendosi sul piano compositivo e ritmico in un controllo della forma che arrivò all’essenzialità del graffito. I […] cartoni ora esposti – provenienti dalla famiglia Oriani – documentano la fase conclusiva del lavoro
del pittore: pagine da cui traspare certo l’antico amore per Severini e il cubofuturismo, ma anche una sorta di contemplazione del mistero che resta insondabile in ogni cosa reale. Nessuna visione sentimentale o romantica per nature morte e maschere; pare che tutto sia stampato in un cielo nero, le fisionomie e gli oggetti hanno preso l’aspetto di sigle nel linguaggio contemporaneo. Si potrebbe pensare che Oriani abbia anticipato il destino delle immagini irrigidite dalla telematica. L’ordine chiuso delle forme profilate e immobili anche nelle loro ombre. Un segno di spessore uguale, che graffia un fondo di nero encausto scoprendo il bianco gesso sottostante. Ricorda i primi esercizi di decorazione che si insegnano ai bambini e provocano il loro stupore. È con tale ingenuità, con tale candore che Pippo Oriani svolge il suo quadro, con mano sicura e cuore tenero. Si possono ricordare le opere di un ceramista e i colori di cottura, di metallica e smaltata compattezza: è come se uno spirito giocoso abbia d’improvviso trasformato in una superficie concreta dei disegni tracciati nel buio con una penna fosforescente.»
Ennio Morlotti
(Lecco 1910 - Milano 1992)
26 Natura morta (1942). Tempera su carta intelata, cm 17,5s30,2. In basso a sinistra: Morlotti. Al verso: etichetta Galleria Bottoni, Torino. Provenienza: Raccolta privata, Bergamo; Galleria Maggiore, Bologna. Esposizioni: Morlotti, mostra a cura di A. Conte e M. Conte, testo di L. Cavallo, collaborazione di O. Nicolini, Galleria Il Castello, Milano, febbraio-marzo 2002, riprodotto in cat. n. 1.
Marco Valsecchi (Ennio Morlotti, con uno scritto di G. Sutherland, Arte moderna italiana, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1968, pp. 12-16): «Tra i pittori lombardi veniva [...] a maturarsi, nel gruppo di Corrente, un accento più severo, a tal punto che nelle mutazioni della pittura attuate sulla spinta dell’avanguardia europea si voleva provocare anche il sorgere di una nuova moralità. Gli artisti di Corrente, operosi fra il 1938 e il ’43, non ebbero teorie precise; fu piuttosto un incontro di artisti più affini nei motivi di coscienza che non nei termini di pittura. Vi potevano convivere difatti i sogni magici di Badodi, le fantasie lunari di Migneco, gli splendori cromatici di Cassinari, l’elegia lirica di Birolli, l’eloquenza realistica di Guttuso. Ma in tutti quella spinta segreta di ansia e di eticità provocava uno scatto più acceso del linguaggio pittorico. Morlotti giunse tardi [...] nel gruppo e anzi ne affrettò con la sua irruenza il precipitare critico. Aveva per conto suo fatto una scelta su Cézanne. Ci sono paesaggi del lago di Lecco fra il ’39 e il ’40 in cui la concisione cezanniana stringe l’immagine in una evidenza persino aspra di rilievo. Ma anche in questi dipinti si nota come tale evidenza non sia un fatto intellettuale, ma quasi un proposito di rendere tangibile
e partecipabile una realtà che sta ancora al di fuori del pittore. [...] si tratta quindi di un momento cezanniano che condivide la passionalità espressionistica. Un altro ciclo immediatamente successivo [...] sembra all’opposto ricusare le clausole cezanniane per mettere in bollore la materia del colore, in modo che ogni giuntura si dissaldi e crei una diversa maturazione dell’immagine, qualcosa che si formi dall’interno stesso della materia e coinvolga realtà e idea in un profondo sommovimento creativo. Van Gogh e Soutine? Sono nomi che si possono fare [...] con l’avvertenza però di non considerarli mai incontri libreschi, ma coincidenze di ispirazione [...]. A questo breve periodo di colore infocato corrisponde subito la sequenza delle nature morte 1942-44 – bottiglie brocche bucrani – dove il nome di Morandi introduce a Picasso. L’incontro di questi due nomi maggiori dell’arte moderna è ancora una volta contraddittorio. Ma forse meno di quel che possa apparire qui sulla carta: intanto era un Morandi che ha sconvolto l’ordine calibrato dei suoi oggetti paradigmatici di un ideale di umanissima armonia intellettuale, ed era un Picasso che nelle deformazioni dei suoi personaggi riconosce gli eventi tragici della guerra e manifesta una rabbia civile.»
Carlo Mattioli
(Modena 1911 - Parma 1994)
27 Natura morta, 1962. Olio su tela, cm 47s64. In alto a destra: Mattioli. Al verso: Mattioli / Natura morta / ’62. Provenienza: Galleria Il Fillungo, Lucca; Collezione privata, Lucca; Galleria Il Ponte, Firenze. Esposizioni: XV Mostra Nazionale Premio del Fiorino, Palazzo Strozzi, Firenze, 4-30 giugno 1964, n. 105; Mostra antologica di Carlo Mattioli, catalogo a cura di Pier Carlo Santini, organizzata dall’Accademia di Belle Arti, Carrara, 29 gennaio-28 febbraio 1971, riprodotto in cat. n. 13; MiArt 2001, Milano, 4-7 maggio 2001, riprodotto in cat. p. 115.
Raffaele Carrieri in un testo dal vero («Mattioli», Epoca, Milano, 5 settembre 1971), dà ingresso nello studio di Mattioli e sorprende il cuore della sua pittura: «Per raggiungere il vero e proprio studio sono costretto a salire due piani di grandi scale: un preludio di Verdi trasformato in balconi, finestre, ballatoi. Alla fine delle rampe mi sono trovato in una specie di appartamento monumentale pieno di corridoi a cannocchiale e di stanze secentesche. In questo immenso luogo fra il teatro e il convento, ho capito meglio la pazzia di Mattioli per la pittura. Ovunque erano immassati vecchi tubi di colore mummificato, bottiglie e bottiglioni di trementina, residui di cavalletti, tele cento volte dipinte e cancellate ridotte a quadrati e rettangoli di piombo. Polvere e ragnatele davano agli angoli più lontani l’aspetto di
prigioni disabitate. Mattioli andava aprendo le porte come uno stanco magistrato che volesse liberare i fantasmi di quattro o cinque epoche di pittura: paesaggi, figure e nature morte riemergevano dalla densa oscurità simili a sogni fossilizzati. Intere mostre erano state esiliate dal pittore negli androni più distanti. Esperienze di un’intera vita tutta della pittura: decine e decine d’anni a riempire mastri di disegni, chilometri di tela dipinta tagliuzzata in quadrati ricoperti di pesanti strati di materia colorante, di materia vivente che reagiva in ogni ora e giornata allo spreco massacrante della morte. Vedevo ciò che aveva resistito e ancora resisteva con una contenuta energia vitale: le forme che avevano radice nell’animo dell’artista e le forme vizze come gli escrementi di una divinità decaduta.»
Bruno Rosai (Firenze 1912-1986)
28 Vetri, 1947-54. Olio su tela, cm 46,5s58,5. In basso a destra: Bruno Rosai 1947-54. Al verso: timbro «3a Rassegna Internazionale d’arte […] Firenze 1958». Provenienza: Vittoria Corti, Firenze.
Vittoria Corti, scrittrice e storica dell’arte di rara sensibilità critica, da cui il quadro proviene, fu una delle migliori interpreti della pittura di Bruno Rosai; numerosi i suoi interventi dal 1951 al 1968, dai quali appare completo il percorso espressivo dell’artista. Nell’ambito dell’arte italiana, esercitando anche un importante lavoro di insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Firenze, Bruno Rosai è passato attraverso alcune fasi ben caratterizzate, dagli esordi in cui era rilevante l’influenza dello zio Ottone, fino a una vibrante frammentazione
delle superfici con colori che prendono vita dall’ariosa, fremente gestualità. Scriveva la Corti nel 1964: «Sentiamo questi oggetti come fossero di materia viva, organica, con una vitalità interna che ci impressiona […]. Possiamo credere che sia la magia di certi colori: ma non è vero, è per quello che sta dietro quei colori. Essi ci introducono dentro stati d’animo che sono quelli dell’autore» (citiamo dal catalogo Sessanta opere di Bruno Rosai, Galleria Cairola, Milano, 25 febbraio-12 marzo 1966).
Franco Francese (Milano 1920-1996)
29 Natura morta, 1948. Olio su tela, cm 65,4s53,8. Al verso: sulla tela «18.XII.48 / Francese». Provenienza: architetto Virgilio Vercelloni, Milano.
Mario De Micheli, nel catalogo Disegni, tempere, acquarelli, pastelli di Franco Francese. 1939-1968, Galleria Bergamini, Milano, 1969: «Il neocubismo del dopoguerra […] una grammatica da imparare in fretta, una chiave che in un modo o nell’altro bisognava avere in tasca perché si pensava che potesse aprire tutte le porte. È chiaro che di questa frenesia neocubista non è difficile stabilire i motivi storici: era abbastanza normale che ad un periodo di coercizione, di autarchia culturale, di esilio dall’Europa, succedesse un periodo frenetico e acritico di aggiornamento. L’incontro con la cultura figurativa uscita dal cubismo e soprattutto con Picasso fu un momento di questo periodo, un periodo che in qualche modo ha continuato fino al ’50 e anche oltre. Fra le migliaia di tele che son state dipinte a quell’epoca, quante se ne possono oggi rivedere senza torcere gli occhi? I pittori lo sanno: si tratta di quei quadri da nascondere […]. Davvero pochi sono quegli
artisti che dal cubismo e da Picasso hanno cavato fuori qualcosa di durevole, una verità che andasse più in là di un esercizio provvisorio. Francese è senza dubbio uno di questi. Forse si può dire che, all’apparenza, egli è stato meno picassiano di tanti altri, ma in realtà lo è stato più addentro, lo è stato in maniera meno generica, meno meccanica […]. Di Picasso afferra pienamente il potere di concentrazione poetica dell’immagine, il suo modo di sollevare la circostanza del dato reale ad un massimo di verità non episodica. Picasso insomma è stato per lui un indice di poesia e di impegno, non un formulario di schemi e di soluzioni formali.» In questo dipinto inedito che, insieme con il seguente, va a completare il catalogo di Francese, altri interessi appaiono, l’apprezzamento di Birolli e attraverso questi la considerazione per Matisse. Il colore è lavorato con profonde intenzioni espressive e si fa protagonista dell’immagine.
Franco Francese 30 Strumento musicale, 1949. Olio su tela, cm 52,9s72,3. In alto a destra: 13.IX.49 / Francese. Al verso: «13.IX.49 / Francese». Provenienza: architetto Virgilio Vercelloni, Milano.
Quanto abbiamo riportato dello scritto di De Micheli per il dipinto precedente di Francese è adeguato alla lettura anche di questa tela. Va ricordato che sul finire degli anni ’40 Francese, non senza strappi e ripensamenti, con un profondo rovello autocritico, stava risolvendo la sua stagione di ricerche
neocubiste; e tuttavia, come si vede in questo documento quanto mai significativo per l’epoca, nel settembre del 1949 continuava a sperimentare forme picassiane, con una disposizione à plat dei colori, incastri di ritmata geometria, e un pronunciato gusto per il genere natura morta.
Mario Nuti
(Firenze 1923-1996)
31 Natura morta, 1947. Tecnica mista su carta intelata, cm 65s44. In basso a sinistra: M. Nuti 47. In basso a destra: 47.
Dalla monografia Mario Nuti (testo di L. Cavallo, collaborazione Oretta Nicolini, contributo alle ricerche Nicola Nuti, Edizioni Il Mappamondo, Milano, 1992): «Dal 20 al 31 marzo 1948 si tiene alla Galleria Firenze la seconda mostra di “Arte d’oggi” […] con titolo Rassegna di pittura e scultura italo-francese […]. Nuti espone una Natura morta, n. 57 di catalogo. Si trattava, e ciò è testimoniato dall’autore, di un lavoro che aveva struttura neocubista o, come vuol dirsi, postcubista, esperienza questa che si consumò nel giro di un anno e con poche opere, soprattutto tempere con nature morte (alcune delle quali in possesso di Nuti). Del resto che ci sia stato un momento postcubista per Nuti è confermato da quanto scrive Migliorini (Il Nuovo Corriere, 8 giugno 1949) per la 3a Mostra internazionale “Arte d’oggi” dove
per la scelta degli artisti la condizione era che questi “avessero vissuto l’esperienza cubista”. Comunque, almeno fino a questa data, egli lavorava nell’ambito del figurativo, ma già era attivo con gli animatori di “Arte d’oggi”, insieme cioè con coloro che di lì a poco daranno vita al gruppo “Astrattismo classico”.» Il dipinto qui pubblicato è di quei pochi che erano rimasti all’autore, testimonianza di un momento significativo per il passaggio dal clima figurativo novecentista all’astrattismo. La composizione è orientata più sugli equilibrati schemi di Braque che su Picasso. Se si espunge dall’insieme il soggetto di primo piano, dal taglio del tavolo in su, cioè il telaio della finestra, già si avverte quello che sarà lo spazio astratto di Nuti, robuste intelaiature nere, rigorose, che si impongono come travature di ferro.
Arturo Carmassi
(Lucca 1925; vive a Torre di Fucecchio)
32 Natura morta con ventaglio (1945). Tempera su carta, cm 59,5s70. In basso a sinistra: Carmassi. Bibliografia: Pierre Restany, Carmassi. 50 anni d’immagini del nostro tempo, con testo «Implicazioni critiche» di Andrea Alibrandi, Edizioni Il Ponte, Firenze, 1995, riprodotto p. 23.
Andrea Alibrandi nella monografia del 1995, cit.: «un vero e proprio stile del tempo, definito “neocubismo” […], nella seconda metà degli anni Quaranta, interessa gran parte dell’arte italiana, talvolta con esiti di alta qualità […]. Arturo Carmassi […] già dai primissimi anni Trenta, è con la famiglia a Torino, dove frequenta, con una certa continuità, i corsi dell’Accademia Albertina. Fin da allora è attento agli stimoli che gli vengono dall’esterno e stabilisce contatti con il mondo culturale ed artistico che lo circonda […]. Carmassi non fu di fatto coinvolto in questo fronteggiarsi di schieramenti contrapposti, che alla
fine opponevano, soprattutto in questo primo momento, i sostenitori di un neocubismo realista a quelli di un neocubismo a tendenza astratta. Se la sua posizione artistica fu indubbiamente influenzata dalla scoperta del cubismo e dell’arte picassiana, non fu quello il suo punto di partenza. I suoi interessi erano allora istintivamente orientati verso pittori marginali, come Gauguin o Van Gogh, fino al pressoché ignoto Gino Rossi. Subito dopo la fine della guerra egli ebbe la possibilità di prendere contatti diretti con il mondo europeo e visione delle opere nei suoi viaggi a Parigi, Zurigo, Berna.»
INDICE ALFABETICO DEGLI AUTORI Ugo Bernasconi tav. 2 Natura morta (fine anni ’20). Olio su cartone, cm 41,5s45,5. Domenico Cantatore tav. 21 Natura morta, 1957. Olio su tela, cm 50,5s80,5. Domenico Cantatore tav. 22 Composizione di oggetti, 1963. Olio su masonite, cm 44s63,5. Felice Carena tav.4 Pesce (1935). Olio su cartone, cm 34,5s45. Felice Carena tav. 5 Natura morta con gabbiani (1946). Olio su tavola, cm 40,8s62,4. Arturo Carmassi tav. 32 Natura morta con ventaglio (1945). Tempera su carta, cm 59,5s70. Carlo Carrà tav. 7 Il sifone, 1956. Olio su tela, cm 50s40. Felice Casorati tav. 8 Bozzetto per natura morta con l’uva (1931). Olio su tela, cm 34s46. Giuseppe Cesetti tav. 18 Vaso con fiori (1971). Olio su tela, cm 70s50. Giorgio de Chirico tav. 9 Vita silente con uva (1960). Olio su tela, cm 40s50. 97
Filippo de Pisis tav. 13 Natura morta sulla spiaggia (metà anni ’30). Olio su cartone, cm 21s26.
Mario Nuti tav. 31 Natura morta, 1947. Tecnica mista su carta intelata, cm 65s44.
Filippo de Pisis tav. 14 Interno con pappagallo, 1939. Olio su tela rintelata, cm 60s48.
Pippo Oriani tav. 24 Natura morta (anni ’60). Encausto graffito su cartone gessato, cm 32,5s50.
Filippo de Pisis tav. 15 Natura morta (inizio anni ’40). Olio su cartone, cm 20,6s40,5.
Pippo Oriani tav. 25 Grande natura morta (anni ’60). Encausto graffito su cartone gessato, cm 50s65.
Francesco De Rocchi tav. 19 Natura morta coi gamberi (anni ’30). Olio su tavola, cm 32s42.
Fausto Pirandello tav. 17 Natura morta con tazzina e sella di bicicletta (1948). Olio su cartone, cm 70,5s51,5.
Franco Francese tav. 29 Natura morta, 1948. Olio su tela, cm 65,4s53,8.
Bruno Rosai tav. 28 Vetri, 1947-54. Olio su tela, cm 46,5s58,5.
Franco Francese tav. 30 Strumento musicale, 1949. Olio su tela, cm 52,9s72,3.
Ottone Rosai tav. 12 Natura morta, 1919. Olio su tela, cm 32s40.
Achille Funi tav. 10 Fiori (fine anni ’50). Tempera e olio magro su carta riportata su masonite, cm 60s44,5.
Aldo Salvadori tav. 20 Natura morta, 1983. Olio su tela, cm 45s60.
Franco Gentilini tav. 23 Natura morta con oggetti (1953). Olio e sabbia su tela, cm 55s38.
Pio Semeghini tav. 3 Natura morta con fiori ( anni ’30). Olio su tavola, cm 34,5s50.
Carlo Mattioli tav. 27 Natura morta, 1962. Olio su tela, cm 47s64.
Ardengo Soffici tav. 6 Trofeino (1960). Tempera su carta pergamena, cm 42s30 il lavoro, cm 53s44 la carta.
Giorgio Morandi tav. 11 Natura morta (1958). Olio su tela, cm 25,5s30.
Arturo Tosi tav. 1 Natura morta (1940). Olio su tavola, cm 40s50.
Ennio Morlotti tav. 26 Natura morta (1942). Tempera su carta intelata, cm 17,5s30,2.
Gianni Vagnetti tav. 16 Natura morta (1948). Olio su tela, cm 40,5s50.
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Questo volume a cura di Andrea Alibrandi è stato stampato dalla Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera, per i tipi delle Edizioni “Il Ponte” Firenze Firenze, agosto duemilatre