CUSTOMER EXPERIENCE. Le ultime frontiere per conquistare i clienti nell’era digitale

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Solo ed esclusivamente in abbinamento obbligatorio con Il Sole 24 Ore – I prezzi relativi ad altre combinazioni di vendita sono riportati su Il Sole 24 Ore Anno 58° – N. 4/2017 – Aprile 2017 – Mensile Poste Italiane – Spedizione in A.P. – D.L. 353/2003 CONV.L.46/2004.ART.1.C.1. DCB Milano

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HUMANvsROBOT La sfida dell’intelligenza artificiale

DIGITAL STRATEGY Il conflitto tra la visione strategica americana e quella europea

CUSTOMER EXPERIENCE Aziende ricche di dati, ma incapaci di trarne informazioni

BUSINESS SOSTENIBILE Changemaker, B-Corp e grandi aziende in trasformazione


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CUSTOMER EXPERIENCE. Le ultime frontiere per conquistare i clienti nell’era digitale

Aziende ricche di dati, ma povere di informazioni Per ottenere reali vantaggi in tempi ragionevoli le aziende devono pensare all’utilizzo strategico degli insight generati dall’output del data analytics in ottica di experience design di Gian Carlo Mocci e Giuseppe Coletti

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a prima fu la macchina a vapore, la seconda l’energia elettrica, la terza i calcolatori elettronici, e oggi la quarta rivoluzione industriale in sostanza consiste nella trasformazione digitale di molti processi e aree di business incluse le vendite, i prodotti, i servizi e le strutture di back end delle aziende. Le aziende “native digitali”, hanno avuto la fortuna di poter sviluppare da subito un ecosistema interamente digitale, molto sofisticato, con un effetto dirompente sul livello di customer experience offerto ai loro clienti. Le aziende già esistenti che abbracceranno la strategia basata su data analitycs genereranno un’evoluzione della customer experience e otterranno dei benefici sia operativi sia economici accelerando il processo di efficienza e migliorando la qualità dei prodotti e servizi, con il conseguente incremento dei profitti e riduzione dei costi.

Molti dati ma poca interpretazione Assistiamo, quindi, a una massiva raccolta di dati lungo l’intero percorso della customer journey, ma una recente analisi di Gartner evidenzia una diminuzione degli investimenti in Big Data pianificati per i prossimi anni, quasi come se i brand fossero più interessati a raccogliere terabyte di dati che a trasformarli in informazioni che supportino le decisioni dei manager e consentano di offrire una migliore customer experience ai propri clienti. Ogni giorno noi tutti rilasciamo i nostri dati decine di volte, talvolta in modo consapevole, ma più spesso in modo inconsapevole, pensiamo alle tracce della geo-localizzazione dei nostri device, alla memorizzazione delle preferenze, alla cache delle pagine web visitate,

alle ricerche online, agli acquisti effettuati, ai luoghi fisici dove siamo stati. Sono però rare le occasioni di ricevere comunicazioni dove ci sia un contenuto che vada oltre il semplice saluto iniziale personalizzato con il nostro nome e la proposizione di prodotti differenziati per sesso. Ad esempio, stupisce molto ricevere email che consigliano varianti dello stesso identico acquisto appena concluso, che vengano proposti prodotti alternativi con prezzi inferiori o, ancora, che ci propongano fantastici hotel nella stessa città in cui abbiamo casa e ove presumibilmente andiamo anche a dormire la sera.

La strada verso la personalizzazione In questo scenario si inserisce l’Intelligenza artificiale che, gestendo la crescente complessità operativa del marketing e del business in generale, produrrà il vantaggio competitivo legato all’analisi dei dati e dei comportamenti dei clienti in ottica predittiva con la conseguente personalizzazione di prodotti, servizi e modalità di interazione. Nel tentativo di utilizzare i dati che si possiedono per creare valore aggiunto per un determinato target di clienti spesso ci si affida alla “tattica” della personalizzazione. In realtà, è molto difficile soddisfare dei bisogni specifici, perché si deve prima conoscerli, e poi definire e attuare dei processi aziendali che si traducano in prodotti e servizi disponibili al momento giusto ai soggetti giusti. E questa complessità aiuta a spiegare perché, per molti, questo approccio non abbia raggiunto i risultati previsti, anche a causa degli ingenti investimenti pubblicitari e in tecnologia.

Gian Carlo Mocci è presidente di Aicex, Associazione Italiana Customer Experience. Esperto di Customer Experience, Crm, Marketing, Digital Transformation, svolge l’attività di advisor, docente, keynote speaker ed è autore di diversi articoli

Giuseppe Coletti è advisor di Aicex, esperto di Customer Service, Digital Innovation, Assistenti Virtuali e Customer Experience. Dal 2013 ricopre la carica di Unified Worldwide Contact Center Quality & Coaching Manager di MSC Crociere

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Meglio personalizzare il prezzo A rendere ancora più ardua tale impresa, vi è la certezza che la personalizzazione, di un prodotto o servizio, non possa essere fatta dall’azienda ma dal Cliente medesimo, possibilmente in un contesto di co-creazione. Ciò che l’azienda può e deve personalizzare è invece il prezzo, perché la personalizzazione del prodotto/servizio aumenta il valore percepito dal cliente e il prezzo esprime il valore attribuito a quel prodotto/ servizio in quel momento e in quel luogo. In questo modo attribuiamo un prezzo al cliente e non a ciò che acquista. Certo la personalizzazione, parola tanto usata e abusata, fa bene ai clienti, ma a una azienda cosa fa più bene del personalizzare i prezzi? Un prezzo diverso per persone diverse ma, soprattutto, anche per la stessa persona in momenti e luoghi diversi. Del resto, è già iniziata l’epoca dei prezzi dinamici, predetta anni fa da chi ci metteva in guardia da “enormi organizzazioni che possiedono i nostri dati” e sono quindi in grado di attuare fantastiche azioni di personalizzazione. Nel Mondo Fisico siamo già abituati ad una bottiglietta d’acqua che abbia un prezzo diverso tra il supermercato e il bar del centro, ma nel Mondo Digitale il fenomeno sarà più efficiente, rapido, e pervasivo, appositamente studiato per attirare la nostra attenzione e orientare le nostre scelte, si pensi al real time advertising, al contestual marketing, al native advertising, al revenue management. Questo anche perché vi è una enorme disponibilità e varietà di beni e servizi tra i quali poter scegliere, anche nel caso di una semplice bottiglia di vino.

L’Economia dell’attenzione e il Fast Food di Informazioni In un mondo dove toccando per tre volte un pezzo di vetro possiamo avere tutto, ovunque, e subito, non c’è più spazio per situazioni noiose, dove noioso significa poco comprensibile, già visto, ripetitivo, poco

pertinente. E questo vale anche per le informazioni. Svariate ricerche dimostrano che la nostra soglia media di attenzione è inferiore a quella di un pesce rosso, e gli ultimi anni negli Stati Uniti i livelli di empatia sono crollati del 50%. Questo pare sia anche correlato all’essere sempre connessi, che diminuisce la capacità di concentrarsi e aumenta il bisogno, e quindi la ricerca, di stimoli nuovi. Tra le aziende la guerra per l’attenzione è già iniziata, perché trattandosi di un bene scarso la concorrenza si fa più spietata: all’aumentare delle informazioni rese disponibili diminuisce, mettendo in crisi l’efficacia della pubblicità, del mondo delle informazioni e dei contenuti nel suo complesso, per orientare le scelte.

Come attrarre il consumatore Ma come indurre qualcuno, e quindi anche un potenziale cliente, a dedicarti la propria attenzione? Spesso si agisce in maniera “push” chiedendo l’attenzione, o cercando di prendersela, è il caso di tutte le attività di advertising. Altre volte sono le persone, di loro iniziativa, a dedicarci attenzione, ed è il caso di una visita sul sito internet di una azienda o presso un negozio fisico. Nel tentativo di coinvolgere un consumatore sempre più distratto dai molteplici input, tra le “tattiche” più viste negli ultimi tempi, c’è quella della segmentazione e clustering delle basi dati clienti utilizzata a fini di advertising, che sui canali digitali diventa indubbiamente più efficace ed efficiente. Ecco perché sempre più spesso si sente parlare di Data Management Platform (Dpm). Ma anche in questo caso è perdente una comunicazione unidirezionale seppur targettizzata. Difatti, le aziende vincenti sono quelle che riescono a creare un dialogo con i clienti perché oggi qualunque target è sempre meno permeabile e ignora facilmente i messaggi a lui diretti, soprattutto se non lo ingaggiano e poveri di contenuti ritenuti interessanti.

La metafora del cibo Un approccio interessante per fornire informazioni di qualità al target giusto è quello di pensare alle informazioni come se fosse cibo. Si parte dalle materie prime di qualità, e se ne avete la possibilità potete iniziare dalle coltivazioni e dagli allevamenti, poi c’è la trasformazione, quindi bisogna pensare alle ricette da cucinare, e infine si cucina e si serve in tavola. Con questa analogia è facile immaginare cosa accade quando una azienda propone contenuti Fast Food a persone abituate allo Slow Food, e viceversa. Quindi, come tutti sappiamo, i migliori risultati si ottengono servendo l’informazione gusta, alle persone giuste, nel luogo giusto e nel momento giusto, anche perché non è vero che le persone odiano la pubblicità, le persone odiano che si interrompa l’esperienza che stanno vivendo. I clienti però si abituano facilmente a ciò che è nuovo, efficiente ed emozionante e, come in un processo di assuefazione, la novità diventa presto un’abitudine, ossia il livello “minimo” di prestazione che ci si aspetta la prossima volta. Pertanto sul fronte dell’offerta, le aziende sono di fatto “condannate” a rinnovarsi, per sviluppare e offrire nuovi prodotti o servizi. Analogamente, sul fronte della domanda i clienti sono anch’essi “condannati” a ricercare le novità e i miglioramenti, in un continuo confronto con se stessi, con quello che hanno e con quello che non hanno, con quello che sarebbe potuto essere e che non è stato. Questo accade perché il processo di commoditization interessa anche le esperienze e sempre più spesso si preferisce evitare quelle che, seppur necessarie, sono ritenute a basso valore aggiunto.

Se la migliore esperienza è la zero experience In generale, emerge un apprezzamento per le modalità che consentono di svolgere attività con il minimo sforzo, come acquistare prodotti di consumo con il Dash Button, rinnoL’IMPRESA N°4/2017

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vare automaticamente la fornitura di prodotti e servizi tramite formule in abbonamento, pagare senza toccare la carta di credito, farsi consegnare la cena a domicilio ordinandola con una app dal locale sotto casa, parlare con un BOT per chiedergli di telefonare a un amico, aprire la porta di casa e abbassare le tapparelle ovviamente tutto senza alzarsi dal divano. Come disse qualcuno che si occupa di pagamenti digitali “Il nostro obiettivo è fare in modo che le persone paghino senza ricordarsi di aver pagato” e le aziende devono seriamente riflettere su questo fenomeno, detto anche Zero Experience per mettersi nelle condizioni di offrire una effortless experience, ossia per rendere ai clienti la vita facile, a maggior ragione in un contesto nel quale l’attenzione e il tempo dei clienti sono risorse limitate.

Dal prodotto-commodity alla esperienza-ricordo

alcuni target. Le logiche self service ed effortless experience da parte delle aziende e un approccio zero experience da parte dei clienti hanno anche un vantaggio pratico, liberano tempo e attenzione per consentire ai clienti di dedicarsi a esperienze giudicate ad alto valore, per le quali siano disposti a pagare di più. Le aziende devono quindi decidere quali esperienze far vivere ai clienti e in quale modo, perché poi nel percorso dal prodottocommodity alla esperienza-ricordo dovranno sviluppare e collegare i processi chiave back end, invisibili al mercato, con il ricordo-percezione che i clienti avranno dell’azienda sia in ottica di branding sia di interazioni vissute. In quest’ottica, i passi da gigante compiuti dall’intelligenza artificiale stanno dando vita a migliaia di applicazioni davvero incredibili.

La frontiera dell’iBOT Experience

L’interfacciamento delle macchine con gli esseri umani oggi è un altro mondo se paragonato anche a soli 5 anni fa. Speech recognition, text to speech e potenti processori di linguaggio naturale consentono una comunicazione decisamente migliore e molto più fluida. La voce robotica è quasi scomparsa del tutto e le macchine sono in grado di leggere perfettamente qualsiasi testo e sintetizzarlo vocalmente imitando molto bene la voce umana. È evidente che per ogni azienda i bot rappresentano Barrier to Chat Bot usage una ghiotta occasione per estenChat Bots, a customer research study dere l’approccio omnicanale, creaWon’t understand questions 55 60 re engagement nei 50 target Millennials 43 5 40 Would prefer a human Nothing to stop bot usage e Generazione 30 Z, offrire un ser20 vizio self-service 10 0 disponibile H24, 41 9 Booking or purchase Incapable of friendly “chat” semplificare e amerror concerns pliare le possibilità degli eCommerce e, non ultimo, mi32 23 Prefer normal website Facebook-only access gliorare la custo-

Ad esempio, secondo Zendesk, più del 50% degli utenti pensano che sia meglio risolvere un problema da soli anziché contattare il customer service. Forrester rincara la dose, affermando che il 70% dei clienti preferisce usare il sito web per avere risposte alle proprie domande piuttosto che usare il telefono o le email. Questo è anche spiegato dal fatto che la gratificazione dell’autonomia è una leva significativa per la customer experience di

Fonte: Myclever 2016

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mer experience. Nella maggioranza dei casi, il principale incentivo che ha spinto già adesso centinaia di aziende verso questa direzione è il risparmio economico potenziale che un assistente virtuale può generare grazie alla call deflection, ovvero la riduzione dei volumi dei contatti gestiti da operatori umani. Queste motivazioni spiegano perché la diffusione di chatbot stia crescendo molto più rapidamente di quanto abbiano fatto le app.

Il query language da superare Tuttavia, chiunque abbia provato a un usare un bot/chatbot si è subito reso conto che siamo ancora distanti dal riuscire a intrattenere una conversazione naturale con questi programmi. La maggioranza dei bot (si contano già oltre 30mila chatbot sul mercato) consentono un dialogo schematico molto deludente. L’assenza di contesto, il silenzio tra una conversazione e la successiva, le risposte errate e le domande che spesso vengono ricondotte ad altre domande per una normalizzazione dell’input, rovinano la customer experience. In particolare la mancanza di personalizzazione del messaggio sembra paradossale in un contesto dove si conosce quasi tutto dell’utente, soprattutto se si utilizza Facebook messenger. Anche se i software più raffinati riescono a dialogare con migliori risultati grazie ad algoritmi di intelligenza artificiali più sofisticati che consentono di gestire meglio la disambiguazione, oggi possiamo ancora affermare che la maggior parte dei bot sono incapaci di gestire una conversazione in linguaggio naturale, e questa è una delle barriere al loro utilizzo. Gli esseri umani parlano con frasi naturali e riferendosi al contesto della conversazione ma, soprattutto, non utilizzano un query language. Forse la verità è che possiamo insegnare a un computer ad ascoltare e parlare con un umano, ma non possiamo insegnare a un umano a conversare con un computer.


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